Covid, l’incognita di maggio

Resto dell’idea che, nella recente gestione della pandemia, l’errore capitale sia stato tenerci a bagno maria per 6 mesi (4 in conto al governo giallo-rosso, 2 in quello Draghi), con danni enormi all’economia e pochissimi benefici per la salute. E resto pure dell’idea che iniziare una vaccinazione di massa senza prima aver ridotto drasticamente la circolazione del virus sia stato un azzardo, nonché un errore non scusabile, posto che le voci che avvertivano del pericolo esistevano sia dentro il governo (Ricciardi) che fuori (Crisanti). Se ora siamo così esposti al rischio che qualche variante ci travolga non è solo perché non sappiamo né sequenziare adeguatamente, né limitare gli ingressi in Italia, ma perché la nascita di varianti resistenti ai vaccini è l’effetto statistico, e perfettamente prevedibile, della scelta di non abbattere la curva epidemica prima del decollo della campagna di vaccinazione.

Ma ormai il danno è fatto, le riaperture sono divenute politicamente e socialmente inevitabili, e ci tocca sperare che le cose non vadano troppo male. E’ fuori discussione, come avvertono i virologi meno autocensurati, che il “rischio ragionato” significa migliaia di morti in più rispetto a quelli che avremmo avuto prolungando il lockdown. Ed è pure indubbio, per quanto più difficile da far capire, che il danno economico complessivo all’industria turistica potrebbe essere molto maggiore aprendo adesso che aprendo a giugno, se aprire adesso dovesse regalarci una quarta ondata (con conseguente richiusura) in piena estate.

Quel che invece mi pare non scontato è che, nelle prossime settimane, si arrivi a 500-600 morti al giorno, come alcuni esperti hanno prospettato o lasciato intendere. Pur essendo fra quanti hanno più volte fatto previsioni catastrofiche (fin qui tutte avverate), questa volta mi trovo più in sintonia con quanti non solo si augurano, ma ritengono verosimile, un’evoluzione meno drammatica della mortalità.

Vediamo perché. Il numero medio di morti settimanali è un po’ inferiore a quello con cui sperimentammo le prime riaperture l’anno scorso, proprio ai primi di maggio come quest’anno. Inoltre esso è in lenta ma costante discesa da circa 20 giorni. Questo andamento è la risultante di quattro forze, due che sospingono la mortalità, due che la frenano.

La prima forza, che tende a tenere elevato il numero di decessi quotidiani, è l’altissimo numero di positivi e di ospedalizzati. Fatto 100 il numero di soggetti positivi del maggio scorso, ora siamo fra 300 e 500, a seconda dell’indicatore che si utilizza. Per una stima accurata del numero assoluto di soggetti positivi non ci sono dati sufficienti (o meglio: i dati che servirebbero non sono pubblici), ma l’ordine di grandezza si può calcolare: almeno 1 milione di positivi. Poiché il numero di soggetti positivi si riduce con estrema lentezza, e anzi tende a crescere non appena il governo allenta le misure restrittive, è verosimile che questa forza tenderà a tenere alto il numero dei decessi quotidiani.

La seconda forza è la mobilità delle persone, il fatto cioè che la gente tenda a stare in casa o a muoversi e incontrare altre persone. Qui le cose vanno male, e non potrebbe essere diversamente: il fatto stesso di reclamizzare le riaperture come un (sia pur graduale) ritorno alla normalità inevitabilmente comporta una crescita dei comportamenti rischiosi. In che misura ciò stia accadendo ce lo dicono i dati di mobilità di Google: fatta 100 la propensione a stare a casa di un anno fa, la medesima propensione era scesa intorno a 50 nel mese di aprile di quest’anno ed è intorno a 30 oggi. I nostri comportamenti stanno facendo di nuovo salire l’indice di riproduzione Rt, che sta di nuovo avvicinandosi pericolosamente a 1.

Fin qui le forze che supportano i ragionamenti dei pessimisti. Fortunatamente, ci sono però anche due potenti forze che spingono nella direzione opposta, ossia di una limitazione della mortalità. La prima è l’aumento della quota di tempo passata all’aperto, che tende a neutralizzare gli effetti dell’aumento della mobilità. La seconda è la campagna di vaccinazione, che – nella misura in cui privilegia le categorie più a rischio (vecchi e fragili) – abbassa drasticamente il tasso di letalità dell’infezione, ovvero la probabilità che una persona contagiata si ammali e muoia.

Ed ecco la ragione del mio non eccessivo pessimismo. Nessuno ha abbastanza dati (e modelli matematici collaudati) per prevedere quale potrà essere l’effetto congiunto delle due forze “cattive” (tanti positivi, più mobilità) e delle due forze “buone” (vita all’aperto e campagna vaccinale). E’ possibile che le prime abbiano il sopravvento, e il numero di morti torni a salire in modo apprezzabile (specialmente a Milano, dove i tifosi interisti tifano anche per il virus). Ma è anche possibile che la curva epidemica rallenti, e che le vaccinazioni determinino un drastico abbassamento del tasso di letalità, con la conseguenza di impedire un rialzo della mortalità, o addirittura di sospingere ulteriormente verso il basso il numero di morti quotidiano.

Il rischio maggiore che vedo, per i prossimi mesi, è che si scambi un’eventuale, non impossibile, riduzione del numero di decessi per un arretramento del virus, senza comprendere che – con il procedere della vaccinazione – il numero di morti sarà sempre meno un buon indicatore della diffusione del contagio. Sarebbe un errore di valutazione grave, perché ci condurrebbe – ancora una volta – a sottostimare i pericoli che ci attenderanno quest’autunno, quando il rientro a scuola e il ritorno della stagione fredda potrebbero riservarci, ancora una volta, delle brutte sorprese. Che questo rischio di sottovalutazione dei pericoli che ci attendono in autunno sia reale, e non puramente ipotetico, lo suggerisce del resto una constatazione amara: ancora una volta poco o nulla si sta facendo per mettere in sicurezza gli ambienti chiusi (aule scolastiche e universitarie) e semi-chiusi (trasporti pubblici). E’ probabile che questa distrazione sia dovuta alla credenza che la vaccinazione di massa risolverà tutto. Ma giova ricordare che si tratta, per l’appunto, di una credenza, non di una solida certezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 maggio 2021




Resistere alle parole

“Sturm und drang”: tempesta e assalto.

Questa sembra la migliore metafora per una immagine oggi prevalente: quella della vorticosa, incessante presenza delle parole nella nostra vita.

Non è forse la parola la più straordinaria espressione dell’intelligenza umana?

Descrive, spiega, anticipa, apre, conclude, è la chiave di accesso alla porta che si spalanca sul mondo, è il filo sottile che unisce l’umanità, ordito e trama di un invisibile alfabeto universale che ci permette di capire ed essere capiti.

Ma non sempre la sua presenza è così neutrale.

A volte la parola è il nemico invisibile con cui dobbiamo combattere, la catena opprimente che vorremmo spezzare, la verità apparente che ci preme di confutare.

Ci nutriamo avidamente di parole prima che siano loro a impossessarsi della nostra anima.

Volenti o no, siamo più che mai immersi in un oceano di cose dette e sentite, partecipiamo al chiacchiericcio universale che prende le sembianze dei tempi nuovi specie quando si materializza e si alimenta con l’uso delle nuove tecnologie.

È come se l’intero pianeta trattenesse il respiro, avvolto e soffocato dall’abbraccio stretto e infinito delle voci che si levano ovunque e che se potessero pure darsi la mano il nostro mondo sarebbe come impacchettato in una rete impenetrabile.

Un tempo le parole si muovevano con le gambe della gente o si spostavano con misurata lentezza: oggi si mischiano ai fatti in tempo reale, li seguono e li anticipano, sono qui e altrove, davanti a noi e ovunque.

Persino le immagini senza il supporto delle spiegazioni e del commento sono inespresse, sbiadite, spente, indecifrabili.

È come se la stessa realtà, quella dei fatti, dei comportamenti e delle azioni si accendesse di più completi significati smaterializzandosi: la narrazione sostituisce gli eventi e ricostruisce la trama della storia, il ricordo li fa rivivere intimamente, li evoca, li arricchisce, la fantasia li anticipa come non mai si realizzeranno.

Nel turbinio incessante del dire e del commentare le parole vanno misurate, tenute a bada, usate con discernimento: sono apparentemente innocue ma si caricano di valore e di senso, ora appartengono al bene, ora si impregnano del male, hanno un peso, una misura, un esito.

Sono un tesoro da spendere con parsimonia, una risorsa per dare senso alla nostra presenza in mezzo agli altri, un talento per conoscersi e ri-conoscersi.

Se ne pronunciano talmente tante, tutti i giorni e altrettante se ne sentono dire che capita a tutti, prima o poi, di rimanerci impigliati come pesci nella rete, di essere smentiti dall’incoerenza del giorno dopo.

Oltre la cultura della comunicazione e delle immagini sembra materializzarsi quella prevalente del commento, che prende le mutevoli sembianze della riflessione, del dialogo, dell’esternazione, del gossip.

Arriverà il giorno in cui ci scambieremo messaggi con il pensiero?

Lasciamo alle neuroscienze e alle ricerche sull’intelligenza artificiale la risposta a questo affascinante e forse inquietante quesito.

Ma certamente possiamo già fare molto oggi, con i nostri mezzi, per evitare di impostare un rapporto esclusivamente difensivo con le parole.

Per quanto sia diffusa la consuetudine del parlare a vanvera e della chiacchiera, per quanto possa  risultarci fastidioso il mormorio delle voci indistinte, per quanto sia sottile e pervasivo il tambureggiare delle email e dei messaggi di testo, per quanto si possa essere ogni giorno blanditi dai convincimenti mediatici, ci resta pur sempre – a un bel punto – l’opportunità di tacere.

La società muove all’assalto delle coscienze con la lancia della persuasione occulta: cerchiamo di armarci con lo scudo del discernimento e della ragionevolezza, per resistere alle parole che vogliono insinuarsi con l’inganno nella nostra intimità o che finiscono per turbare il nostro già faticoso equilibrio esistenziale.

Mi pare che nello sciocco e inconcludente brusio delle voci senza appartenenza occorra dotarsi di un ponderato senso della misura.

Non possiamo ascoltare tutto né possiamo subire un significato prevalentemente commerciale della comunicazione.

L’aristocrazia della parola non dimora nelle gerarchie dei ceti sociali ma nella nobiltà d’animo di chi ne sa dosare con sapienza e criterio l’uso più appropriato.

Pubblicato su Mente Politica il 1 maggio 2021




Il Csm, la sovranità popolare e la rule of law

Siete mai riusciti a spiegare ai vostri figli, quando studiano educazione civica alle medie, in che cosa consiste esattamente il principio costituzionale della separazione dei poteri dello Stato? Che cosa vuol dire, ad esempio, che il Governo, il potere esecutivo, “esegue” le leggi? E poi, se – com’è naturale – la sovranità appartiene al popolo, che si esprime tramite le elezioni ed elegge i propri rappresentanti in Parlamento, com’è possibile che i giudici, il potere giudiziario, tragga la propria legittimazione in maniera autonoma e svincolata dalla sovranità popolare?

Se le cose non si riescono a spiegare probabilmente è perché non sono chiare.

Ed infatti, ci sono fondamentalmente due modi di intendere la cd. dottrina della separazione dei poteri.

La prima è quella che riconosce come opportuno e saggio – per prevenire abusi e derive autoritarie – che il potere politico sia sottoposto a reciproci condizionamenti.

Si tratta di considerazioni di carattere antropologico ancor prima che di ordine politico e tecnico-giuridico, diffuse già a partire dalla Grecia classica (Platone aveva teorizzato la necessità di forme di indipendenza dei giudici). Sono temi poi ripresi dalla tradizione anglosassone, dalla Magna Charta alla Gloriosa rivoluzione inglese e a John Locke, fino ai checks and balances dell’esperienza costituzionale statunitense; insomma, parliamo del fondamento stesso degli ordinamenti liberali occidentali.

Altra cosa è la sclerotizzazione del principio della separazione dei poteri, tradizionalmente fatto risalire all’opera di Montesquieu e al suo Spirito delle leggi e alla Rivoluzione francese.

Ed infatti, se anche per Montesquieu il potere giudiziario sarebbe concettualmente neutro (i giudici intesi come “bocca della legge”), in realtà fin da subito si assiste negli ordinamenti continentali ad una sorta di autolegittimazione da parte della classe giudiziaria – in origine costituita dai nobili – di fatto contrapposta al corpo elettorale e ai suoi organismi rappresentativi.

Il fenomeno è abbastanza stupefacente e, almeno nel dibattito italiano, non sufficientemente – se non per nulla – analizzato.

Tornando ai manuali di educazione civica su cui studia mia figlia alle medie, i tre poteri costituzionali, legislativo, esecutivo e giudiziario, sono – si dice – pariordinati e reciprocamente autonomi. Ma come ciò si concili con la generale affermazione (art. 1 cost.) secondo cui la sovranità appartiene al popolo non è dato sapere.

Non così succede, invece, nell’ordinamento britannico, dove è fondamentale la cd. rule of law, intesa come assoluta prevalenza della legge, del diritto comune, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario. Ciò è tanto vero che da quelle parti, pur essendo avvertita la necessità di contenere e contemperare i pubblici poteri (i famosi checks and balances), la dottrina della necessità costituzionale della separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – ritenuta immanente negli ordinamenti continentali, è sostanzialmente sconosciuta.

Per intenderci, in Inghilterra i giudici (storicamente distinti dalla pubblica accusa) sono tradizionalmente nominati da parte del Lord Cancelliere tra i migliori avvocati del regno, e non esiste qualcosa di comparabile alla classe giudiziaria come la conosciamo ad esempio in Italia con organi di autogoverno e rappresentanze sindacali.

E non è un caso che il sistema britannico non conosca neppure un sindacato di legittimità costituzionale operato da un organo giudiziario, che rappresenta invece la normalità nell’Europa continentale. Insomma, la volontà popolare, che si esprime tramite i propri organi rappresentativi, non è messa sotto tutela da un organismo giudiziario, a cui spetta di dire se un tale provvedimento legislativo è costituzionalmente legittimo, ovvero – in soldoni – se è giusto o meno.

Allo stesso modo, in America i giudici e i magistrati o sono eletti dal popolo o sono nominati dal presidente federale eletto. C’è sempre una relazione tra la politica e la loro scelta.

Che cosa c’entra tutta questa pappardella con le vicissitudini del Consiglio Superiore della Magistratura di queste ultimi tempi? Beh, se si parte dalla premessa che il potere giudiziario in Italia – seppur privo di ogni forma di legittimazione ed investitura popolare – è potere del tutto autonomo, in particolare da quello politico e legislativo, è evidente come per giustificare le decisioni assunte dall’organo di autogoverno dei giudici bisogna far riferimento a forze tradizionalmente fuori dagli abituali settori di indagine del diritto costituzionale quali lo spirito santo e la cicogna.

Invece, come si dovrebbe sapere, il potere terzo ed autonomo è un po’ come lo sporco impossibile: non esiste.

Sarebbe forse il momento di provare a dire anche da noi che una collettività, una comunità si governa ed amministra – anche per quanto riguarda le decisioni riguardanti la nomina dei giudici – attraverso la proiezione di comportamenti, interessi e valori sufficientemente condivisi che trovano rappresentanza e sintesi attraverso la formazione e selezione di una classe politica, tramite elezioni ed organismi rappresentativi: è, appunto, la rule of law, intesa come prevalenza della legge, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario.

Scorciatoie – al di fuori di derive corporative e di condizionamenti opachi – non ce ne sono.




Brevetti su standard essenziali e shortage di vaccini Covid.

Per questo contributo al sito della Fondazione torno a parlare di diritto, anche se di questioni legali che hanno a che fare col covid. Parto dalla considerazione che l’Italia ha pochi vaccini, in sostanza c’è (ma il discorso vale forse anche per il resto dell’Europa) un surplus di domanda rispetto all’offerta; il che – ovviamente – favorisce l’offerta. Di qui la stipulazione di contratti troppo favorevoli ai titolari dei vari brevetti sui vaccini (che, ovviamente, sono tutti brevettati). Sennonché l’Italia è uno dei principali fabbricanti di farmaci generici d’Europa, dunque avrebbe tutte le potenzialità per produrre da sé i vaccini che gli servono. Ovviamente, per farlo servirebbe il consenso dei titolari del brevetti. Ma siamo davvero sicuri che sia così?

Forse no. I giudici di tutta Europa – Corte di Giustizia UE inclusa – conoscono infatti l’istituto dei brevetti sui cosiddetti standard essenziali (standard essential patents o SEP). Il SEP è un brevetto che copre una tecnologia che è stata inserita, da un ente certificatore, nell’elenco di quelle necessarie per realizzare un certo tipo di prodotto (ad esempio di telefonia mobile). Questa situazione attribuisce al titolare del brevetto un potere di mercato assai maggiore – dunque sproporzionato – rispetto all’effettivo valore della singola tecnologia brevettata. L’esistenza dello standard e l’essenzialità delle tecnologie brevettate necessarie per realizzare prodotti conformi, in altre parole, crea un posizione dominante collettiva di cui beneficiano tutti quanti i titolari dei SEP necessari per realizzare un prodotto che rientri nello standard medesimo. E delle posizioni dominanti, anche se derivano da legittimi diritti esclusivi di proprietà industriale o intellettuale, non si può mai abusare, altrimenti si violano le norme antitrust.

Proprio per questa ragione le corti degli stati europei hanno iniziato a sostenere che – per i SEP – non vale il normale diritto di esclusiva brevettuale “pieno”, bensì un diritto “attenuato”, nel senso che chi intende utilizzare un SEP per realizzare un prodotto che rientri nello standard, ha la facoltà di chiedere al titolare una licenza non esclusiva a condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie (fair, reasonable and non-discriminatory, di qui – appunto – l’acronimo FRAND). Se il titolare del brevetto rifiuta una offerta che rispetta i criteri FRAND, il giudice di fatto ha il potere di “paralizzare” il diritto esclusivo del titolare, in quanto abuso di posizione dominante, non emettendo provvedimenti restrittivi che impediscano al terzo di attuare il brevetto e, nella causa relativa ai danni, condannerà il terzo solo a pagare il canone FRAND, evitando di gravarlo di spese processuali o di costi ulteriori. Inutile dire che, in una simile situazione, il titolare non avrà interesse a continuare a litigare con il possibile licenziatario, ma concederà una licenza a condizioni ragionevoli. Questo schema è stato avallato anche dalla Corte di Giustizia UE, dunque può dirsi ormai acquisito come fonte di principi generali validi sia in Italia che negli altri paesi UE.

Lasciando per un attimo sullo sfondo la questione – peraltro assai importante – della individuazione dei criteri per definire la equità e ragionevolezza del canone di licenza (questione su cui sia la dottrina che i giudici non sono ancora unanimi), possiamo concentrarci sul principio ispiratore di questo genere di licenze, per verificare che si tratta di strumento che intende rimediare ad un problema che presenta una stretta analogia con la situazione dei vaccini Covid. Anche per i vaccini, infatti, abbiamo a che fare con imprese (oltretutto grandi imprese) che – a causa dell’emergenza pandemica – sono titolari di brevetti il cui oggetto ha un valore di mercato assai maggiore (e dunque sproporzionato) rispetto all’oggettivo contenuto tecnologico di quello che, in fin dei conti, è un vaccino contro una nuova variante influenzale. I titolari dei brevetti sui vaccini in questione sono dunque in posizione (contingentemente) dominante rispetto alla domanda di vaccino da parte degli stati. Il che potrebbe giustificare l’applicazione per analogia della dottrina dei SEP anche ai brevetti sui vaccini covid, con conseguente possibilità per chiunque intendesse realizzare quei vaccini, di farlo alla sola condizione di essere disposto ad offrire ai titolari dei brevetti di accettare una licenza non esclusiva con canone e a condizioni FRAND.

Siccome, come si diceva, in Italia abbiamo tanti fabbricanti di farmaci generici, lo stato (o eventualmente anche le regioni, da cui dipende la sanità pubblica) potrebbe allora commissionare alle imprese nazionali che hanno le capacità tecnologiche e produttive la realizzazione dei vaccini covid, al fine di acquistarli e distribuirli alla popolazione, dichiarandosi al contempo disposto a corrispondere ai titolari dei relativi brevetti – in luogo dei fabbricanti – una royalty FRAND. Ovviamente far ciò significherebbe scavalcare l’UE nella gestione dei vaccini, però – se davvero, come in tanti dicono, siamo “in guerra” – lo stato di eccezione dovrebbe poter valere anche per derogare “verso l’alto” alle norme unioniste e non solo per derogare alle regole (anche costituzionali) che, verso il basso, tutelano le libertà fondamentali dei cittadini. E tutto questo a maggior ragione tenendo conto del fatto che la gestione dei contratti di fornitura dei vaccini tra UE e case farmaceutiche è stata, non solo poco trasparente, ma anche assai deludente.




Il modello Taiwan: come l’isola sta contenendo il contagio

È passato più di un anno da quando la pandemia si è insinuata nelle nostre vite limitandole e modificandole irrimediabilmente. Nel corso dei mesi le informazioni più disparate sono giunte da fonti considerate più o meno attendibili e centinaia di protocolli sono stati avviati con l’intento di trovare una soluzione che, sfortunatamente, tarda ad arrivare, poiché tutte le azioni intraprese sino ad ora si sono rivelate sostanzialmente inefficaci. Eppure, in tutto questo caos ci sono piccole realtà che hanno saputo controllare l’epidemia e che hanno ottenuto risultati soddisfacenti nella lotta contro il coronavirus, benché nessuno ne parli. Questo è anche il caso di Taiwan.

Taiwan (o Repubblica di Cina) è una piccola nazione insulare posta a 180 km dalla Cina e conta 23,5 milioni di abitanti. Pur avendo dei numeri di tutto rispetto, però, per l’Organizzazione Mondiale della Sanità sembra non esistere. Nonostante gli straordinari risultati ottenuti, Taiwan non è stata invitata al 73° incontro dell’organo decisionale dell’OMS dello scorso novembre che riguardava proprio la gestione della pandemia. Secondo il Ministero degli Affari Esteri taiwanese dietro a tale decisione ci sarebbe la Cina, la quale considera l’isola una sua provincia e non uno stato sovrano, benché a Taipei sia presente da sempre un esecutivo autonomo, che dal 2016 ha a capo la presidente Tsai Ing-wen, che respinge categoricamente il principio di “una sola Cina” e dopo aver trionfato alle ultime elezioni alla guida del Partito Progressista Democratico ha intensificato gli scambi con Washington. Il governo di Pechino, guidato dal presidente cinese Xi Jinping, ha più volte affermato di voler risolvere la questione, ma di fatto ha dichiarato che Taiwan potrà partecipare alle riunioni dell’Assemblea Mondiale della Sanità solamente se riconoscerà di appartenere alla Repubblica Popolare Cinese.

Nonostante la sua estromissione da parte dell’OMS, a livello globale Taiwan è stata elogiata per il successo ottenuto nel contenimento dell’epidemia di coronavirus e basta consultare il sito ufficiale del governo taiwanese per rendersene conto. Lo studioso Tomas Pueyo ha pubblicato sulla piattaforma Medium un’accurata analisi sulle misure di contrasto attuate da alcuni paesi dell’estremo oriente tra cui figura anche la Corea del Sud, la quale è stata la prima nazione al mondo a estinguere un focolaio di coronavirus senza applicare un lockdown a livello nazionale. I negozi, i ristoranti e le fabbriche sono rimasti aperti. Le quarantene si sono limitate ad aree circoscritte, come ad esempio la città Daegu dove si è verificata l’epidemia principale. Il tracciamento dei malati e la relativa quarantena di tutte le persone entrate in contatto con loro sono risultati fondamentali.

Secondo Pueyo però, Taiwan è sicuramente il modello per eccellenza a cui ispirarsi. Memore dell’epidemia di Sars del 2003, il governo ha agito tempestivamente attuando severi divieti di viaggio e introducendo l’obbligo di mascherine per tutti. In questo modo i livelli di contagio sono stati minimi le e attività produttive hanno subito un leggero contraccolpo rispetto a quanto accaduto, e a quanto sta ancora accadendo in Europa.

L’università di Stanford ha avviato uno studio diretto dal medico taiwanese Jason Wang su come fronteggiare l’epidemia e la conseguente ripartenza dell’economia negli Stati Uniti sulla base dei risultati ottenuti a Taiwan.

Il Dott. Wang, intervistato dalla CNN, ha spiegato che il successo del modello taiwanese risiede in una sanità pubblica efficiente in grado di fronteggiare rapidamente emergenze di grande portata.

Taiwan ha dimostrato che è possibile stabilire norme di quarantena e isolamento anche senza l’uso della forza come avviene invece in un governo autocratico come quello della Cina.

Il Ministero degli Affari Esteri taiwanese ha creato un sito ad hoc consultabile anche in lingua inglese sul quale è possibile trovare ogni genere di informazione e aggiornamento sul Covid-19.

In una sezione speciale sono riportate tutte le misure adottate e i risultati ottenuti, mettendoli a disposizione di tutti affinché gli altri governi possano, se lo desiderano, avvalersi delle tecniche usate sull’isola, eventualmente adattandole alle proprie realtà.

Nella lotta al coronavirus, per Taiwan è stato fondamentale fare ulteriori investimenti nella sanità pubblica, oltre all’utilizzo dell’intelligenza artificiale che ha permesso ai medici di gestire anche a distanza i malati che stavano trascorrendo la quarantena presso le loro abitazioni; pur essendo molto meno invasivo della privacy rispetto al metodo usato in Corea del Sud. Ogni cittadino è in possesso di una smart card collegata al Servizio Sanitario Nazionale sulla quale sono registrati tutti i dati relativi allo stato di salute del paziente; la tessera è risultata fondamentale per la prevenzione del contagio. Ad esempio: per la distribuzione delle mascherine, la gestione della quarantena, per controllare gli spostamenti alle frontiere e la storia clinica dei pazienti.

A febbraio 2020 il ministro del digitale Audry Tang ha dato incarico ad alcuni ingegneri appartenenti al settore privato di realizzare un’applicazione tramite la quale mettere in contatto i cittadini e le farmacie convenzionate per l’acquisto di mascherine. In sole 48 ore l’app era pronta sciogliendo i dubbi e le preoccupazioni delle persone sull’approvvigionamento dei dispositivi di sicurezza. L’applicazione è risultata essere molto attendibile in quanto è in grado di aggiornarsi in un lasso di tempo che va da un minimo di 30 secondi ad un massimo di 30 minuti. Le prenotazioni online hanno permesso di evitare lunghe code fuori dalle farmacie e di scongiurare eventuali nuovi contagi.

La strategia attuata dal governo di Taiwan prevede una vigilanza continua, oltre alla condivisione costante e approfondita delle informazioni con i cittadini. L’utilizzo dei big data e di piattaforme online è stato fondamentale sin dall’inizio della vicenda, quando, a dicembre 2019, hanno iniziato a circolare le prime notizie circa una misteriosa malattia a Whuan. Taiwan ha centinaia di pendolari che si recano giornalmente in Cina per lavoro e pertanto ha trattato la questione con la massima urgenza, controllando i passeggeri dei voli provenienti da Whuan sino a vietarne l’ingresso già a partire da febbraio 2020. Le agenzie di assicurazione sanitaria e di immigrazione hanno incrociato la cronologia dei viaggi dei residenti con i dati delle loro tessere sanitarie, consentendo così a ospedali, cliniche e farmacie di accedere immediatamente alle informazioni dei pazienti. Le persone che si sono sottoposte all’auto-quarantena sono state rintracciate e chiamate con frequenza per accertarsi che non lasciassero la loro residenza.

A partire dal 24 gennaio 2020, Il governo di Taiwan ha interrotto le esportazioni di mascherine chirurgiche e ha chiesto alle aziende locali di aumentare la produzione fino a 10 milioni al giorno per garantire un’adeguata fornitura alla popolazione e al personale medico.

Infine, per garantire un coordinamento efficiente, Taiwan ha costituito un centro di comando con a capo il Ministero della Sanità e del Benessere che ha il compito di controllare la comunicazione pubblica. Sono state così avviate importanti campagne per informare la popolazione circa i rischi della malattia e su come comportarsi in caso di positività al coronavirus.

Il risultato è che dopo più di un anno dall’inizio dell’epidemia il numero totale dei contagi rilevati è di poco superiore a 1000 su 23,5 milioni di abitanti, mentre i morti sono appena 11, ovvero appena 0,5 per milione, che rappresenta il tasso di mortalità più basso del mondo.

Insomma, il modello Taiwan funziona, ma fino a quando gli interessi politici ed economici conteranno più della salute degli uomini, sarà impossibile che una nazione così lontana e poco considerata possa essere guardata come modello virtuoso nella gestione di una pandemia che ha sconfitto governi ben più potenti.


Sitografia:

https://www.taiwan.gov.tw

https://en.mofa.gov.tw/Default.aspx

http://www.taipeitimes.com

https://www.taiwannews.com.tw/en/index

https://chinapost.nownews.com

https://www.worldometers.info/coronavirus/country/taiwan/

https://statistichecoronavirus.it/coronavirus-taiwan/

https://www.lastampa.it

https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/

https://med.stanford.edu/mchri/news/mchri-member-leads-coronavirus-response-drawing-on-lessons-from-taiwan.html

https://edition.cnn.com/2020/04/04/asia/taiwan-coronavirus-response-who-intl-hnk/index.html?fbclid=IwAR1KwAAGiSfr62um0xoiJFfWnsJXjCpErfMAiDEwZBHRDmb3i5cxVQzj64I