Il rispetto – vincolante – del precedente giurisprudenziale: solo una provocazione?

Negli ultimi tempi nel nostro Paese è avvertita, da molti se non da tutti, la necessità di procedere alla riforma – tra le altre – della giustizia. Ed in effetti, le ultime vicissitudini del Csm, la per lo più generalizzata constatazione dell’enorme potere esercitato dalle Procure, il perdurante circuito mediatico-giudiziario, a cui fa da contraltare l’intollerabile lungaggine dei processi civili e la frequente invasione di campo dei TAR, deporrebbero a favore dell’improcrastinabilità della riforma.

Dopo di che, in quale direzione si debba effettivamente andare, al di là di generiche prese di posizione riguardo alla necessità di moralizzare e rendere più efficiente il sistema, oltre all’immancabile litania sulla digitalizzazione, non è dato sapere.

Sospetto che la questione sia purtroppo ancora un po’ più complicata di come viene generalmente posta. Ritengo – ma pare che si tratti di un’opinione non troppo condivisa – che il problema investa la stessa natura del potere giudiziario e la tradizionale teoria della divisione dei poteri: se si parte dalla premessa che il potere giudiziario – seppur privo di ogni forma di investitura e legittimazione popolare – è potere del tutto autonomo, in particolare da quello politico e legislativo, è evidente come per giustificare le decisioni assunte dal Csm quale organo di autogoverno dei giudici bisogna appellarsi a criteri vaghi orientati al moralismo. Analogo discorso vale per le decisioni prese dai giudici nello svolgimento delle loro funzioni istituzionali: a chi rispondono?

Ma forse c’è ancora di più. Dalle nostre parti, vale per la cultura giuridica accademica ma anche per il sentire comune, per l’opinione dell’uomo della strada, per governare una collettività è condizione essenziale – si pensa – produrre regole, che saranno evidentemente nuove, emanare leggi, legiferare.

E’ quello che gli addetti ai lavori chiamano giuspositivismo, che è un tratto comune della storia giuridica dell’Europa continentale e che risale al processo di codificazione degli stati nazionali ed ha poi trovato nuovo impulso nei principi della rivoluzione francese: il diritto è il prodotto dell’attività legislativa, la legge e i codici. Nulla preesiste, di giuridicamente vincolante, alla produzione legislativa, che interviene a disporre quello che è giusto o sbagliato facendo tabula rasa dell’assetto precedente, ipotizzando e presumendo di poter di volta in volta illuministicamente plasmare una società nuova e migliore. Chi la pensa diversamente è un ingenuo, che ancora non ha capito la differenza tra il diritto, che solo ha validità ed efficacia vincolante erga omnes, e le convinzioni morali e personali di ciascuno.

Ma è realistico pensare che per governare una comunità, con la sua storia, le sue tradizioni, il suo senso di appartenenza, si possa ogni volta tirare una riga su comportamenti ritenuti leciti fino ad un istante prima, modificare repentinamente e bruscamente convinzioni ed abitudini, disattendere affidamenti?

Forse non è necessariamente così. Le persone sanno in genere cosa è giusto e cosa è sbagliato, quello che si deve o non si deve fare: nelle famiglie non ci sono disposizioni scritte per regolare i comportamenti dei propri membri (se mia figlia non vuole fare i compiti probabilmente devo evitare di fornirle un accurato decalogo con l’indicazione delle punizioni conseguenti); nei posti di lavoro, se il clima è buono e produttivo non c’è bisogno di regole di condotta dettagliate; sull’autobus, la buona educazione è forse più importante delle minuziose condizioni generali del contratto di trasporto; la pedante normativa anticorruzione – che sostanzialmente si risolve nella richiesta agli interessati di una sorta di autocertificazione di virtuosità – garantisce effettivamente dai comportamenti illeciti?

Probabilmente è allora arrivato il momento di provare a fare qualche riflessione più generale. Storicamente, la stessa nozione di diritto per come la intendiamo noi oggi è un’invenzione degli antichi romani. Ebbene, per i romani, le norme che disciplinano una comunità, una città, non vengono create dal legislatore, ma preesistono e vengono in qualche modo rinvenute dai giudici così come un linguista codifica le regole grammaticali dall’effettivo uso che ne fa chi parla e scrive una certa lingua. Le collettività, per funzionare, hanno bisogno di comportamenti reiterati e regole potremmo dire immanenti, che si creano e perfezionano nel tempo in una sorta di moto browniano di tutti i soggetti che fanno parte di quella comunità (che ricomprende gli antenati, i presenti e quelli ancora non nati), sulla base di senso di appartenenza, convinzioni religiose e morali, aspettative di reciprocità, timori di riprovazione sociale.

Non è forse un caso che, a distanza di tempo, la modernità, per come la conosciamo oggi, abbia la forma degli ordinamenti anglosassoni.

Anche da quelle parti il diritto, le regole, ciò che è giusto o sbagliato, è per buona parte consuetudinario e prescinde dalla contingenza dell’attività legislativa. Così come per i prati all’inglese – per cui serve prendere un terreno, dissodarlo ed irrigarlo per qualche centinaio d’anni -, allo stesso modo la convivenza sociale si basa su principi secolari, sul rispetto delle libertà individuali fondamentali e dei principi di correttezza e buona fede nei contratti e negli affari – la fairness – che spesso prescinde dalla formalizzazione scritta, realizzandosi invece una lenta e costante opera di rinvenimento e sistematizzazione da parte dei giudici in ossequio al fondamentale rispetto del precedente.

Ecco, il rispetto del precedente. E’ un principio generale dei sistemi di common law, in forza del quale il giudice è obbligato a conformarsi alla decisione adottata in una fattispecie precedente, nel caso in cui la vicenda portata al suo esame sia identica o simile a quella già trattata.

In fondo, non è un meccanismo troppo dissimile da quello – a cui si accennava sopra – utilizzato dal linguista: sul dizionario Devoto – Oli una certa definizione di un dato termine viene censita quando ne viene registrato un uso costante da parte degli utilizzatori; analogamente, le regole grammaticali altro non fanno che recepire gli usi (una certa costruzione sintattica è corretta perché consolidata nel parlare comune). Ebbene, esattamente allo stesso modo nei repertori giurisprudenziali vengono catalogate le pronunce dei giudici che di fatto recepiscono le valutazioni – in termini di liceità o meno – su determinati comportamenti (se una data condotta è giusta, se una certa violazione determina un obbligo di risarcimento, ecc.), ed a cui quindi riferirsi per le definizioni di liti future.

Nella mia esperienza di giurista pratico, capita regolarmente che il cliente chieda se un dato comportamento è lecito e/o consentito o meno, se una certa cosa si può o meno fare. E’ in definitiva la – fondamentale – domanda che le persone si pongono. Solo che, a differenza che altrove, nel nostro ordinamento per lo più non si riesce a rispondere, se non illustrando una serie infinita di distinguo (a Genova per il Tribunale questa cosa si può fare, ma la Corte d’Appello è di diverso avviso, il dato Giudice ha una posizione particolare, bisogna poi vedere cosa dice la Cassazione, però c’è un orientamento minoritario che …, ecc.): è insomma il regno del latinoroum dell’azzeccagarbugli.

Vige in particolare nel nostro ordinamento l’idea (che ha un fondamento costituzionale: il giudice è soggetto soltanto alla legge in base all’art. 101 Cost.) che la soluzione della controversia e la conseguente pronuncia giurisdizionale – la cui fondamentale qualità dovrebbe consistere nella sua prevedibilità (oltre che celerità), per garantire giustizia sostanziale ed efficienza del sistema – debba invece essere originale, riconoscere sempre nuovi (asseriti) diritti e percorrere strade ancora non battute.

Dalle nostre parti il precedente giurisprudenziale è uno solo tra i tanti argomenti che vengono utilizzati (lo spirito della legge, la volontà del legislatore, l’argomento sistematico, quello teleologico, ecc.) e – in ogni caso – il rispetto di tale principio non è assolutamente ritenuto vincolante: ogni giudice è libero di interpretare il dato normativo e di risolvere la controversia a lui assegnata come ritiene più opportuno, con una decisione di fatto scarsamente verificabile.

Insomma, tirando le fila del ragionamento, nell’Europa continentale, ed in particolare nel nostro Paese, assistiamo a due fenomeni che si sovrappongono e concorrono nel determinare una complessiva arbitrarietà e frammentarietà del sistema giudiziario: da una parte il potere giudiziario è considerato potere costituzionale autonomo, seppur privo di ogni forma di investitura e legittimazione popolare, e non si capisce bene a chi debba rispondere; dall’altro, anche in ragione dell’idea giuspositivistica per cui il diritto è il prodotto dell’attività legislativa, la legge e i codici, e nulla preesiste, di giuridicamente vincolante, alla produzione legislativa (sovrabbondante e spesso schizofrenica), ogni singolo giudice è soggetto soltanto alla legge e non è obbligato a conformarsi alla decisione adottata in una fattispecie precedente (in definitiva, alle convinzioni e alle abitudini della comunità), nel caso in cui la vicenda portata al suo esame sia identica o simile a quella già trattata.

Siamo sicuri che, con queste premesse, i problemi della giustizia in Italia si risolvano con la sempre auspicata digitalizzazione?

Sarebbe invece opportuno fare qualche riflessione di carattere più generale e si potrebbe ad esempio iniziare dal considerare il rispetto vincolante del precedente giurisprudenziale non più come un taboo.




Indice DQP: per la pseudo-immunità di gregge (70% di vaccinati) dobbiamo aspettare agosto 2021

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

13 marzo 2021: “È stata considerata una progressione della capacità vaccinale dalle 170 mila somministrazioni medie giornaliere (registrate dal 1 al 10 marzo) fino ad almeno 500 mila entro il mese di aprile” (Piano vaccinale del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19). In base al nuovo Piano vaccinale si dovrebbe arrivare a raggiungere il 70% di copertura vaccinale a fine agosto.

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia. Per calcolare la percentuale di vaccinati necessaria (Vc) per avviare il processo di estinzione dell’epidemia occorre conoscere il valore di R0 (velocità di trasmissione in condizioni di normalità) e il valore di E (efficienza media dei vaccini, intesa come capacità di bloccare la trasmissione):

Vc = (1-1/R0)/E

Poiché R0 ed E dipendono dal tipo di varianti presenti in un determinato paese in un dato momento, nonché dalle caratteristiche dei vaccini, nessuno è attualmente in grado di indicare la soglia per l’immunità di gregge. Se E è troppo basso, il valore di Vc supera 1, il che significa che nemmeno vaccinando tutti si ottiene l’immunità di gregge.

Ecco perché la soglia del 70% da noi utilizzata NON è quella che garantisce l’immunità di gregge (e che è sconosciuta), ma è semplicemente la quota realisticamente raggiungibile in un paese come l’Italia, in cui non si possono vaccinare i più giovani (perché manca il vaccino), e una parte degli adulti non intende vaccinarsi.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere una copertura del 70%?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

A metà della ventiduesima settimana del 2021 (mercoledì mattina, 2 giugno) il valore di DQP è pari a 11 settimane, il che corrisponde al raggiungimento della pseudo-immunità di gregge non prima del mese di agosto del 2021.

Il valore del DQP è rimasto sostanzialmente stabile rispetto a quello della settimana scorsa.

Questa settimana sono state somministrate poco più di 3.5 milioni di dosi, raggiungendo così le 500 mila dosi giornaliere previste dal piano vaccinale.

Nel caso in cui si decidesse di utilizzare soltanto vaccini che prevedono una seconda somministrazione, occorrerebbero 3 settimane in più. “Di questo passo” la pseudo-immunità di gregge verrebbe raggiunta in 14 settimane, non prima di inizio settembre del 2021.


Nota tecnica

Le stime fornite ogni settimana si riferiscono ai 7 giorni precedenti e si basano sui dati ufficiali disponibili la mattina del giorno in cui viene calcolato il DQP (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione completa procedendo “Di Questo Passo”.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni settimana, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “Di Questo Passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 3 parametri:

  1. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana considerata;
  2. quante vaccinazioni erano già state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  3. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa su due ipotesi ottimistiche, e precisamente:

  • l’obiettivo è solo di vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano in modo completo una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.



Una lezione di Carla Fracci

Mi è capitato, qualche sera fa, di assistere a una trasmissione televisiva in cui Ritanna Armeni (ex firma del Manifesto) sosteneva, in modo assai accorato, che la propria generazione era stata fortunata, molto fortunata, mentre le nuove generazioni sarebbero sfortunate, molto sfortunate. Questa tesi lasciava alquanto perplessa, per non dire di stucco, la conduttrice Barbara Palombelli (ex firma di Repubblica), che ricordava alla collega che anche per la loro generazione – quella dei cosiddetti baby-boomers – farsi largo nella vita non era stato semplicissimo, e spesso era costato anni e anni di duro lavoro, senza facilitazioni e scorciatoie.

In realtà l’idea che i giovani abbiano diritto oggi a una sorta di risarcimento per il destino cinico e baro cui gli adulti li avrebbero condannati, è molto diffusa. E qualche fondamento ce l’ha pure: non c’è dubbio che, se l’Italia è nello stato penoso in cui si trova, è perché così l’hanno ridotta coloro che l’hanno governata e guidata fin qui.

E tuttavia, di qui a dire che i baby boomers sono una generazione fortunata e i giovani di oggi una generazione sfortunata c’è un salto logico. Quel che è difficilmente controvertibile, perché lo dicono i dati, è che le opportunità di ascesa sociale si sono ridotte, e che passare dai ceti medio-bassi a quelli medio-alti è diventato più difficile. Questo già solo per il fatto che lo stock di posizioni sociali pregiate, che grazie all’industrializzazione prima e alla terziarizzazione poi era impetuosamente cresciuto nei primi decenni del dopoguerra, ha ormai da tempo smesso di espandersi. E anche per una seconda ragione, su cui si preferisce sorvolare: in cinquant’anni lo scarto fra titolo di studio rilasciato e competenze effettivamente acquisite è cresciuto a dismisura, e con esso il divario fra ciò cui un giovane è autorizzato ad aspirare (perché ha il pezzo di carta) e ciò che il mercato del lavoro è disposto a riconoscergli.

Molto più controvertibile, invece, è la tesi che la condizione giovanile sia  sostanzialmente peggiorata. Chi sostiene questa tesi dimentica il dato sociologico fondamentale della “classe disagiata”, mirabilmente descritta da Raffaele Alberto Ventura in un libro di qualche anno fa (Teoria della classe disagiata, Minimum Fax 2017): la possibilità, per molti, di dilazionare le scelte fondamentali e, al tempo stesso, usufruire di un tenore di vita relativamente elevato, con poche responsabilità e molti paracadute. Tecnicamente: una condizione “signorile di massa” che nessuna delle generazioni del passato aveva mai sperimentato.

Detto più crudamente: il lusso di consumare senza lavorare, la generazione dei baby boomers non se lo poteva permettere. Quel lusso, invece, è divenuto una caratteristica distintiva delle ultime generazioni, un lusso che – in questi giorni di riaperture – ha assunto tratti grotteschi allorché migliaia di esercenti, provati da 15 mesi di chiusure e alla disperata ricerca di personale da assumere, si sono sentiti rispondere che loro – giovani e meno giovani – preferivano il reddito di cittadinanza, o addirittura volevano essere assunti in nero per non perderlo (come faccia, in questo contesto, il segretario del Pd a proporre una “dote” di 10 mila euro a metà dei 18-enni è per me un mistero). Una situazione che esisteva già prima, ma che nel dopo-Covid, con l’enorme allargamento dei sussidi intervenuto nell’ultimo anno, ha assunto tratti ancora più patologici, coinvolgendo un po’ tutte le generazioni. Quasi a significare che il “paradigma vittimario”, ben descritto dallo storico Giovanni De Luna in un libro di una decina di anni fa (La Repubblica del dolore, Feltrinelli 2011), fosse ormai il solo registro in cui sappiamo pensarci e riconoscerci.

Naturalmente questo non significa che tutti i giovani consumino senza lavorare, o che non vi sia anche un robusto settore di giovani che lavorano con serietà e impegno (non di rado all’estero!). Ma è certo che il tenore di vita medio dei giovani italiani è oggi nettamente più alto di quello dei loro padri e nonni alla medesima età, e la quota di giovani che non studiano e non lavorano (i cosiddetti Neet), o ancora studiano in età nelle quali si dovrebbe lavorare, è enormemente aumentata rispetto a cinquant’anni fa.

Ed ecco il paradosso: a fronte di condizioni economiche indubitabilmente migliori e privilegiate rispetto a quelle delle generazioni precedenti, la politica e i mass media hanno cucito addosso ai giovani un abito falso e ingannevole, che li dipinge come vittime da compiangere e da risarcire, anziché come persone dotate di autonomia e padrone della loro vita. Come se le generazioni del passato avessero beneficiato di privilegi non dovuti, e come se quel che – nel bene e nel male – hanno costruito fosse stato sottratto alle generazioni attuali. Soprattutto, come se gli obiettivi più alti si potessero raggiungere senza fatica, impegno e duro lavoro, e il successo fosse un diritto da esercitare, anziché un traguardo da conquistare.

Lo aveva capito bene Carla Fracci, figlia di un tranviere e un’operaia, che di sé stessa ha detto: “Sa qual era la mia forza? Sapevo da dove venivo. E volevo farcela. Ecco: decoro, dignità, voglia di fare. Non la rabbia, il disfattismo, l’invidia sociale, non il rancore che oggi è così diffuso”.

Un giudizio severo, su cui varrebbe la pena meditare.

Pubblicato su Il Messaggero del 1 giugno 2021




Corea del Sud: il metodo del tracciamento elettronico

In questo articolo continuo l’analisi dei diversi metodi di prevenzione del Covid messi in atto dai paesi del Pacifico, che era iniziata con quello di Taiwan, basato principalmente sulla chiusura tempestiva delle frontiere.

Oggi prenderò in esame quello della Corea del Sud, basato principalmente sul tracciamento elettronico dei contagi. Tale metodo è anche l’unico di cui si sia talvolta parlato anche da noi, ma senza entrare quasi mai nei dettagli, come invece cercherò di fare qui.

La Corea del Sud è uno dei paesi che è riuscito a contenere maggiormente la diffusione del Coronavirus. Ad oggi, su 51,71 milioni di abitanti, sono 134.117 i casi accertati, mentre il numero di morti si attesta a 1.920 dall’inizio della pandemia, con un tasso di letalità rilevato (CFR: case fatality ratio) dell’1,4%, un numero decisamente basso rispetto a quello rilevato in Occidente. Ciò non significa che in Corea il virus sia meno letale che da noi, ma piuttosto che in quel paese i contagi che sfuggono al rilevamento sono davvero molto pochi: infatti, il tasso di letalità rilevato si avvicina molto a quello che, secondo le stime fatte dagli scienziati, dovrebbe essere il tasso reale (non superiore all’1%), il cosiddetto IFR, o infection fatality ratio.

Il primo focolaio del contagio si è sviluppato nella città di Daegu, situata a 240 km dalla capitale Seul, per poi propagarsi in tutto il paese. Ciononostante, il numero totale di contagi è rimasto sempre molto basso, grazie alla pronta azione del governo, con a capo il presidente Moon Jae-In, che si è messo subito all’opera per contenerlo evitando un blocco completo degli spostamenti, permettendo alle persone di continuare a recarsi regolarmente al lavoro e riducendo così al minimo le ripercussioni economiche.

Anzitutto, il governo ha deciso di veicolare in modo del tutto trasparente le informazioni riguardanti i pazienti infetti. Siti web, mappe interattive e applicazioni per i cellulari rendono disponibili in tempo reale tutti i dati riguardanti gli spostamenti che i cittadini infetti hanno compiuto prima di essere diagnosticati, il che permette di informare tramite sms tutti i cittadini interessati ogni volta che si verificano dei casi nella zona in cui vivono. Una lista dettagliata dei movimenti delle persone infette permette di risalire a ristoranti e negozi che hanno frequentato, i quali vengono poi disinfettati e chiusi temporaneamente. In questo modo le altre persone possono sapere se devono sottoporsi a quarantena preventiva e fare il test.

Il rapido accesso da parte del governo alle registrazioni delle telecamere di videosorveglianza e ai dati delle carte di credito e dei telefoni ha permesso di realizzare un sistema di controllo di questo tipo. Inoltre, è stata fondamentale per il contenimento dell’epidemia la creazione di un sistema di test veloci ed efficaci; in tutto il paese sono stati infatti dislocati ben 118 hub di analisi che sono in grado di comunicare gli esiti dei tamponi via sms entro 24 ore. Le autorità hanno anche messo in atto una massiccia campagna per favorire il distanziamento sociale, lasciando però gli esercizi aperti e permettendo ai cittadini di scegliere volontariamente se frequentarli o meno.

Il successo del protocollo adottato dalla Corea del Sud è certamente in gran parte dovuto alla precedente esperienza avuta con l’epidemia di Mers del 2015, che registrò 186 casi e 38 decessi. A epidemia terminata, la legislatura coreana definì infatti una strategia di tracciamento dei contatti che prevede l’individuazione delle persone infette e la relativa quarantena di tutti quelli che hanno interagito con loro. Gli emendamenti autorizzano perciò le autorità sanitarie all’utilizzo dei big data per ricostruire abitudini e spostamenti delle persone potenzialmente esposte al contagio.

I risultati ottenuti dimostrano inequivocabilmente che le misure introdotte, almeno finora, sono riuscite a tenere molto basso il numero dei casi. Ciononostante, il governo è sempre stato molto attento a intervenire in modo tanto rapido quanto deciso al minimo accenno della nascita di nuovi focolai, attuando delle restrizioni mirate nei quartieri interessati. Significativo è il caso avvenuto a maggio 2020, quando un ventinovenne è risultato positivo dopo aver frequentato diversi locali notturni di Seul nel quartiere di Itaewon. L’allarme è scattato quando da zero positivi al giorno in poco tempo si è passati a 30. Una volta individuato il diffusore iniziale, il governo sudcoreano è riuscito a contenere i contagi rintracciando un numero enorme di persone che avevano avuto contatti con i clienti dei locali e individuando circa la metà dei visitatori dell’intero quartiere: in tre settimane sono stati testati 46 mila contatti e rintracciate 160 persone infette.

Questo è stato possibile anche perché i clienti dei locali di Seul sono obbligati a lasciare i propri riferimenti prima di accedere a ristoranti e bar. Quando le autorità hanno identificato l’area interessata dal focolaio hanno predisposto la chiusura immediata di tutti i bar e le discoteche della città, mentre il governo ha inviato un sms a tutti i cittadini, chiedendo a chiunque si fosse trovato in quella zona in un determinata finestra temporale di sottoporsi al tampone anche in assenza di sintomi.

La polizia ha lavorato in sinergia con le società di telecomunicazioni al fine di utilizzare i dati dei cellulari e individuare chi si trovava nel quartiere quel fine settimana. Localizzazioni GPS, registrazioni di carte di credito e videosorveglianza sono state fondamentali per eseguire il tracciamento. Infine, una volta raccolte tutte le informazioni, il governo le ha pubblicate in forma anonima su un sito apposito dove tutti possono verificare se sono stati a rischio contagio.

Una speciale app di tracciamento chiamata Corona 100m provvede inoltre ad inviare alle persone degli avvisi di emergenza quando raggiungono i 100 metri di distanza da un luogo visitato di recente da una persona affetta da coronavirus. Il sistema consiglia agli utenti dei percorsi alternativi sicuri per recarsi e tornare dal lavoro in modo da non effettuare lo stesso tragitto fatto in precedenza dai soggetti infetti. In questo modo quella che poteva essere la seconda ondata è stata bloccata nel giro di poche settimane.

Il contact tracing digitale è stato nevralgico per combattere il virus, in quanto presenta numerosi vantaggi, come ad esempio l’impiego degli operatori sanitari solo laddove sono strettamente necessari e l’uso mirato dei tamponi (non per nulla, la Corea del Sud è tra i paesi che ne hanno fatti di meno al mondo: vedi Paolo Musso), con conseguente abbattimento dei costi nonostante un tracciamento molto più puntuale.

In molti altri paesi questo tipo di raccolta dati è sembrata una violazione della privacy, ma in Sud Corea ha ricevuto grandi consensi. Secondo un sondaggio condotto dalla Graduate School of Public Health della Seul National University, il 78% dei 1.000 intervistati è risultato favorevole all’allentamento della tutela dei propri diritti al fine di contenere il coronavirus. Cionondimeno, è innegabile che la violazione della privacy risulta sempre più invasiva e, nonostante l’anonimato, in pratica non è difficile riconoscere i positivi segnalati. Per esempio, nel caso di Itaewon il giovane che aveva dato origine al contagio era stato subito identificato dai social network.

Alla base di queste scelte vi è un approccio utilitaristico volto a giustificare le limitazioni alle libertà personali in virtù di esigenze superiori come la salvaguardia della salute pubblica, tant’è vero che il monitoraggio pubblico nelle civiltà orientali è una costante indipendentemente dalla fase emergenziale e dal sistema di contact tracing. Lo screening dei contatti è stato già utilizzato in passato con malattie infettive come il morbillo o l’HIV, divenendo uno strumento fondamentale di prevenzione e controllo.

Ciò è reso possibile da un contesto socioculturale totalmente differente da quello europeo, in cui l’importanza della difesa della sfera privata è poco percepita dalla popolazione. Le realtà orientali tendono a privilegiare misure coercitive e restrittive di controllo basate su sistemi informatici e applicazioni che possono prescindere dall’avere il consenso della popolazione. Di fatto, sia in Corea del Sud che in Cina gli strumenti tecnologici sono stati utilizzati in modo massiccio e invasivo, con la conseguente diminuzione della sfera di riservatezza dei singoli, nonostante la prima sia una democrazia e la seconda una dittatura, il che è indicativo di una mentalità di base comune, che precede e travalica le differenze politiche.

Ad ogni modo è opportuno ricordare che la Corte Costituzionale sudcoreana in base al cosiddetto Fingerprint Case ha riconosciuto a gennaio 2020 ai data privacy rights lo status di diritti di rango costituzionale ai sensi degli articoli 10 e 17 della Costituzione, equiparando le impronte digitali a informazioni strettamente personali il cui utilizzo rappresenta una restrizione del right to information self determination. Finora, però, ciò non sembra avere influito in alcun modo sulla gestione della pandemia.

Anche in Europa durante la prima ondata della pandemia la paura ha prevalso sulla difesa della privacy. I cittadini si sono rivelati accondiscendenti verso le restrizioni a molte libertà fondamentali come quella di circolazione, di culto, di impresa, ecc. Nei paesi dell’Unione Europea si è scelto di appiattire la curva epidemica mediante la limitazione delle attività affiancato all’utilizzo di tecnologie con le quali monitorare i soggetti potenzialmente infetti.

Una rete di autorità nazionali che opera in campo della digital health and care, l’eHealth Network, ha sviluppato un pacchetto di strumenti chiamato Common EU Toolbox of Practical Measures per l’uso di applicazioni mobili e di dati sulla mobilità delle popolazioni su base volontaria. Tuttavia, tali applicazioni sono state studiate con l’approvazione dell’autorità sanitaria nazionale, nel rispetto della vita privata e della tutela dei dati personali e a condizione che i dati venissero distrutti nel momento in cui non fossero più stati necessari per contrastare l’epidemia.

L’approccio europeo si basa perciò sulla minimizzazione della raccolta dei dati personali. Quelli utilizzati sono i soli dati di prossimità, raccolti con il ricorso alla tecnologia Bluetooth a bassa energia, che possono poi essere conservati o sullo stesso dispositivo della persona interessata (decentralised processing), sia sul server dell’autorità sanitaria pubblica (backend server solution). Al modello decentralizzato hanno aderito stati come l’Italia con l’app Immuni, la Germania con Corona Warn Up, la Svizzera con Swiss Covid e l’Austria con Stop Corona. Alcuni paesi come: Stati Uniti, Estonia, Finlandia e Portogallo hanno preferito invece avvalersi di un codice fornito da Apple e Google con una tecnologia basata sull’exposer notification: un codice identificativo anonimo viene scambiato tramite Bluetooth con un altro utente nelle vicinanze e se uno dei due risulta essere positivo al Covid-19 una notifica viene inviata a tutti quelli che sono entrati in contatto con loro.

Indipendentemente dal sistema prescelto, comunque, il tracciamento digitale si fondava sempre sull’adesione volontaria dei cittadini, che, contrariamente alle aspettative dei governi, è stata deludente, visto che il numero dei download si è attestato su percentuali modeste (ad oggi Immuni è al 19,6%, ben lontano dal milione di utenti raggiunto nei primi dieci giorni di vita dell’app coreana). Ma soprattutto sono stati pochissimi quelli che l’hanno utilizzata realmente (Immuni ha scoperto in tutto poco più di 5000 contagi: quanti fino a pochi giorni fa se ne verificavano in 6 ore), anche perché c’era la percezione diffusa (e purtroppo esatta) che il sistema non fosse affiancato da un’organizzazione capace di eseguire rapidamente i tamponi, senza la quale il tracciamento diventa inutile.

Ad agosto 2020, un’indagine pubblicata su Nature ha cercato di far luce sull’atteggiamento nei confronti del contact tracing in 19 paesi. È emerso che solo i tre quarti degli intervistati, quando positivi, hanno fornito informazioni complete sui contatti avvenuti nei giorni precedenti. Secondo il sociologo Robert Groves, ex direttore dell’US Census Bureau: “la fiducia del pubblico in tutti i tipi di istituzioni sta diminuendo” specialmente nelle grandi aree urbane. Mary Basset, ricercatrice di sanità pubblica presso la Harvard University di Cambridge, nel Massachusetts sembra non esserne sorpresa in quanto: “alcune comunità che sono state più colpite da COVID-19 hanno una sfiducia di vecchia data nei confronti delle autorità sanitarie pubbliche”. Il modello orientale, con la Corea del Sud in testa, rappresenta dunque un banco di prova sul quale misurare i termini del rapporto tra pubblico e privato e tra la tutela dell’anonimato e gli interessi della collettività in difesa della salute. In virtù dei risultati ottenuti dalla Corea del Sud non si può fare a meno di interrogarsi se non valga la pena rinunciare almeno in parte alle proprie libertà in favore del bene comune, ma resta il dubbio se un tracciamento massiccio simile a questo potrebbe realmente essere impiegato in Europa, dove le imposizioni sono da sempre mal tollerate.

 


SITOGRAFIA

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https://www.saluteinternazionale.info/2021/01/covid-19-italia-vs-corea-del-sud/




Indice DQP: per la pseudo-immunità di gregge (70% di vaccinati) dobbiamo aspettare agosto 2021

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

13 marzo 2021: “È stata considerata una progressione della capacità vaccinale dalle 170 mila somministrazioni medie giornaliere (registrate dal 1 al 10 marzo) fino ad almeno 500 mila entro il mese di aprile” (Piano vaccinale del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19). In base al nuovo Piano vaccinale si dovrebbe arrivare a raggiungere il 70% di copertura vaccinale a fine agosto.

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia. Per calcolare la percentuale di vaccinati necessaria (Vc) per avviare il processo di estinzione dell’epidemia occorre conoscere il valore di R0 (velocità di trasmissione in condizioni di normalità) e il valore di E (efficienza media dei vaccini, intesa come capacità di bloccare la trasmissione):

Vc = (1-1/R0)/E

Poiché R0 ed E dipendono dal tipo di varianti presenti in un determinato paese in un dato momento, nonché dalle caratteristiche dei vaccini, nessuno è attualmente in grado di indicare la soglia per l’immunità di gregge. Se E è troppo basso, il valore di Vc supera 1, il che significa che nemmeno vaccinando tutti si ottiene l’immunità di gregge.

Ecco perché la soglia del 70% da noi utilizzata NON è quella che garantisce l’immunità di gregge (e che è sconosciuta), ma è semplicemente la quota realisticamente raggiungibile in un paese come l’Italia, in cui non si possono vaccinare i più giovani (perché manca il vaccino), e una parte degli adulti non intende vaccinarsi.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere una copertura del 70%?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

A metà della ventunesima settimana del 2021 (mercoledì mattina, 26 maggio) il valore di DQP è pari a 13 settimane, il che corrisponde al raggiungimento della pseudo-immunità di gregge non prima del mese di agosto del 2021.

Il valore del DQP è rimasto sostanzialmente stabile rispetto a quello della settimana scorsa.

Anche questa settimana sono state somministrate più di 3 milioni di dosi, circa 480 mila al giorno, poco meno delle 500 mila dosi previste dal piano vaccinale (l’obiettivo delle 500 mila somministrazioni giornaliere è stato raggiunto soltanto per tre giornate consecutive, fra il 20 e il 22 maggio).

Nel caso in cui si decidesse di utilizzare soltanto vaccini che prevedono una seconda somministrazione, occorrerebbero 2 settimane in più. “Di questo passo” la pseudo-immunità di gregge verrebbe raggiunta in 15 settimane, non prima di inizio settembre del 2021.


Nota tecnica

Le stime fornite ogni settimana si riferiscono ai 7 giorni precedenti e si basano sui dati ufficiali disponibili la mattina del giorno in cui viene calcolato il DQP (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione completa procedendo “Di Questo Passo”.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni settimana, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “Di Questo Passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 3 parametri:

  1. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana considerata;
  2. quante vaccinazioni erano già state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  3. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa su due ipotesi ottimistiche, e precisamente:

  • l’obiettivo è solo di vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano in modo completo una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.