Indice DQP: per la pseudo-immunità di gregge (70% di vaccinati) dobbiamo aspettare metà agosto 2021

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

13 marzo 2021: “È stata considerata una progressione della capacità vaccinale dalle 170 mila somministrazioni medie giornaliere (registrate dal 1 al 10 marzo) fino ad almeno 500 mila entro il mese di aprile” (Piano vaccinale del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19). In base al nuovo Piano vaccinale si dovrebbe arrivare a raggiungere il 70% di copertura vaccinale a fine agosto.

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia. Per calcolare la percentuale di vaccinati necessaria (Vc) per avviare il processo di estinzione dell’epidemia occorre conoscere il valore di R0 (velocità di trasmissione in condizioni di normalità) e il valore di E (efficienza media dei vaccini, intesa come capacità di bloccare la trasmissione):

Vc = (1-1/R0)/E

Poiché R0 ed E dipendono dal tipo di varianti presenti in un determinato paese in un dato momento, nonché dalle caratteristiche dei vaccini, nessuno è attualmente in grado di indicare la soglia per l’immunità di gregge. Se E è troppo basso, il valore di Vc supera 1, il che significa che nemmeno vaccinando tutti si ottiene l’immunità di gregge.

Ecco perché la soglia del 70% da noi utilizzata NON è quella che garantisce l’immunità di gregge (e che è sconosciuta), ma è semplicemente la quota realisticamente raggiungibile in un paese come l’Italia, in cui non si possono vaccinare i più giovani (perché manca il vaccino), e una parte degli adulti non intende vaccinarsi.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere una copertura del 70%?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

A metà della ventiseiesima settimana del 2021 (mercoledì mattina, 30 giugno) il valore di DQP è pari a 6 settimane, il che corrisponde al raggiungimento della pseudo-immunità di gregge verso metà agosto del 2021.

Anche questa settimana, il valore del DQP è rimasto sostanzialmente stabile.

Negli ultimi sette giorni, sono state somministrate poco più di 3.8 milioni di dosi, circa 543 mila somministrazioni giornaliere (si è scesi sotto quota 500 mila soltanto nella giornata di domenica 27 giugno), in linea con gli obiettivi del piano vaccinale.

Nel caso in cui si decidesse di utilizzare soltanto vaccini che prevedono una seconda somministrazione, occorrerebbero 3 settimane in più. “Di questo passo” la pseudo-immunità di gregge verrebbe raggiunta in 9 settimane, non prima di fine agosto del 2021.


Nota tecnica

Le stime fornite ogni settimana si riferiscono ai 7 giorni precedenti e si basano sui dati ufficiali disponibili la mattina del giorno in cui viene calcolato il DQP (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione completa procedendo “Di Questo Passo”.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni settimana, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “Di Questo Passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 3 parametri:

  1. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana considerata;
  2. quante vaccinazioni erano già state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  3. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa su due ipotesi ottimistiche, e precisamente:

  • l’obiettivo è solo di vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano in modo completo una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.



Quale potrebbe essere l’impatto del COVID-19 in Italia nel prossimo autunno-inverno?

Credo che oggi molti italiani (persone comuni e anche medici) si stiano chiedendo, soprattutto per le notizie che arrivano dal Regno Unito: dobbiamo preoccuparci della variante “Indiana”? E cosa succederà il prossimo autunno / inverno? Ci saranno ancora dei morti? E, se sì, quanti? Probabilmente, anche molti medici non saprebbero rispondere a questa domanda, perché all’apparenza il problema presenta troppe incognite: non sappiamo quante persone si vaccineranno, quali varianti emergeranno eventualmente nel frattempo, quanti dei vaccinati possono trasmettere il virus, etc. etc.  In realtà, però, se ipotizziamo che le varianti peggiori in autunno restino quelle attuali, dunque salvo sorprese inattese quale l’emergere di una o più varianti che bypassino “bellamente” i vaccini – una possibilità che, come ho illustrato in un mio articolo pubblicato il 10 marzo [1], è contemplata dalla storia di altri vaccini “leaky” (cioè che prevengono la malattia senza prevenire l’infezione), quali sono quelli anti-COVID che stiamo oggi utilizzando – allora si possono fare delle considerazioni piuttosto interessanti con i dati che già abbiamo a disposizione.

L’efficacia dei vaccini nel Regno Unito come sta emergendo dalla letteratura scientifica

In particolare, a questo scopo risulta molto utile una pubblicazione periodica inglese a cura di Public Health England (PHE), un’agenzia esecutiva del Dipartimento di Health and Social Care dell’Inghilterra. Questo organismo – che incorpora ben 5.500 fra scienziati, ricercatori e professionisti della salute, e fornisce al Governo ed al Parlamento inglese expertise scientifica basata su prove – pubblica ogni settimana un rapporto riguardante i vaccini: il “COVID-19 Vaccine Surveillance Report”.

Nell’ultimo rapporto di questa serie (Week 25, [2]), pubblicato il 24 giugno, si legge, in relazione all’efficacia dei vaccini anti-COVID impiegati contro lo sviluppo della malattia sintomatica: “L’efficacia del vaccino contro il COVID-19 sintomatico è stata valutata in Inghilterra sulla base di dati di test collegati ai dati di vaccinazione. Le prove attuali provengono principalmente da adulti più anziani, che erano tra i primi gruppi vaccinati. Le stime sull’efficacia del vaccino vanno dal 55 al 70% dopo 1 dose, con poca evidenza di variazione per vaccino o gruppo di età [3, 4, 5]. I dati su 2 dosi indicano un’efficacia di circa il 65-90% [3, 6].

Tabella 1. Il riassunto delle evidenze sull’efficacia dei due vaccini anti-COVID utilizzati nel Regno Unito (Pfizer e Astrazeneca) nei confronti di diversi esiti di interesse: malattia sintomatica, ospedalizzazione, mortalità, infezione, trasmissione. (fonte: COVID-19 Vaccine Surveillance Report – Week 25)

Per quanto riguarda invece la mortalità, recita: “Stanno emergendo dati che suggeriscono alti livelli di protezione contro la mortalità. I dati sulla vaccinazione e i dati sulla mortalità indicano che entrambi i vaccini Pfizer-BioNTech e Oxford-AstraZeneca sono efficaci intorno al 75-80% nel prevenire la morte con COVID-19 dopo una singola dose [3, 7]. I dati su 2 dosi sono attualmente disponibili solo per il vaccino Pfizer-BioNTech e ne indicano l’efficacia contro la morte con COVID-19 di circa il 95-99% [7]”.

Si è osservata anche un’alta efficacia contro il ricovero in ospedale (ospedalizzazioni): “Diversi studi hanno stimato l’efficacia contro l’ospedalizzazione negli anziani, che indicano tutti livelli più elevati di protezione contro l’ospedalizzazione dopo una singola dose rispetto a quelli osservati contro la malattia sintomatica, circa dal 75 all’85% dopo 1 dose del vaccino Pfizer-BioNTech o Oxford-AstraZeneca [3, 8, 9, 10]. I dati su 2 dosi sono attualmente disponibili solo per il vaccino Pfizer-BioNTech e indicano un’efficacia contro l’ospedalizzazione di circa il 90-95% [10]”.

Per quanto riguarda invece l’efficacia nel ridurre l’infezione, il rapporto recita: “Sebbene gli individui possano non sviluppare sintomi di COVID-19 dopo la vaccinazione, è possibile che possano essere ancora infettati dal virus e possano trasmettersi ad altri. Gli studi hanno ora riportato l’efficacia contro l’infezione negli operatori sanitari, nei residenti nelle case di cura e nella popolazione generale. Con Pfizer-BioNTech, le stime di efficacia contro l’infezione variano da circa il 55 al 70%, con il vaccino Oxford-AstraZeneca variano dal 60 al 70% circa [5, 11, 12, 13]. Le stime per 2 dosi sono attualmente disponibili solo per il vaccino Pfizer-BioNTech e indicano un’efficacia contro l’infezione dal 70 a 90% [5, 11]”.

Per quanto concerne l’efficacia nel ridurre la trasmissione virale, lo stesso report ci dice: “Gli individui non infetti non possono trasmettere; quindi, i vaccini sono efficaci anche nel prevenire la trasmissione”. Ciò è ovvio, peccato però che molti di quelli vaccinati infetti possono invece trasmetterla (vedi Tabella 1). E continua: “I dati dalla Scozia hanno dimostrato che i contatti familiari degli operatori sanitari vaccinati hanno un rischio ridotto di diventare un caso, in linea con gli studi sull’infezione [14]. [..] Uno studio sulla trasmissione domestica in Inghilterra ha scoperto che i contatti familiari di casi vaccinati con una singola dose avevano circa il 35-50% di riduzione del rischio di diventare un caso confermato di COVID-19. Questo studio utilizzava i dati dei test di routine, quindi includeva solo i contatti familiari che avevano sviluppato sintomi e hanno richiesto un test. Non si possono escludere casi secondari asintomatici o lievemente sintomatici che hanno scelto di non richiedere un test per il COVID-19 [15]”.

Si noti che nel Regno Unito la maggior parte dei dati disponibili si riferiscono a un periodo in cui il principale virus circolante era la variante B.1.1.7 (chiamata anche Alfa o variante Inglese). Di seguito vengono riassunti anche i dati emergenti sull’efficacia contro la malattia sintomatica con la variante B.1.617.2 (chiamata anche Delta o variante Indiana). Dopo una singola dose si è verificata una riduzione assoluta del 14% dell’efficacia del vaccino contro la malattia sintomatica con la variante Delta rispetto alla Alfa, ma solo una modesta riduzione (pari al 10%) dell’efficacia del vaccino dopo 2 dosi (v. Tabelle 2 e 3).

Tabelle 2 e 3. Efficacia dei vaccini contro la malattia asintomatica e le ospedalizzazioni per le varianti Alfa (Inglese) e Delta (Indiana). Quest’ultima risulta essere leggermente più resistente ai vaccini. (fonte: COVID-19 Vaccine Surveillance Report – Week 25)

L’efficacia del vaccino Pfizer in Israele ed in Scozia secondo gli studi pubblicati su Lancet

In Israele, il Ministero della Salute ha lanciato per primo nel mondo una campagna di vaccinazione di massa per immunizzare i 6,5 milioni di residenti dai 16 anni in su con un unico tipo di vaccino: Pfizer. Perciò Israele rappresenta, meglio ancora del Regno Unito, uno straordinario banco di prova per capire l’efficacia sul campo (quelle che in gergo si chiama in realtà “efficienza”) di questo vaccino.

Uno studio pubblicato a maggio sulla prestigiosa rivista The Lancet [16] ha stimato l’efficacia reale di due dosi di Pfizer contro una serie di esiti del SARS-CoV-2 (infezione asintomatica, infezione sintomatica e ospedalizzazione correlata a COVID-19, ospedalizzazione grave o critica e morte), per valutare l’impatto a livello nazionale sulla salute pubblica a seguito della diffusa introduzione del vaccino. L’efficacia del vaccino contro tali esiti è stata calcolata sulla base dei tassi di incidenza in individui completamente vaccinati (definiti come quelli per i quali erano passati almeno 7 giorni dalla seconda dose di vaccino) rispetto ai tassi di individui non vaccinati (che non avevano ricevuto qualsiasi dose del vaccino),

Le stime dell’efficacia del vaccino a 7 giorni o più dopo la seconda dose sono risultate essere: 95,3% contro l’infezione da SARS-CoV-2; 91,5% contro l’infezione asintomatica, 97,0% contro l’infezione sintomatica; 97,2% contro il ricovero in ospedale correlato a COVID-19; 97,5% contro il ricovero grave o critico correlato a COVID-19 e 96,7% contro la morte correlata al COVID-19. L’incidenza degli esiti da SARS-CoV-2 è diminuita in tutte le fasce di età con la copertura vaccinale. Gli 8.472 campioni testati hanno mostrato una prevalenza stimata della variante B.1.1.7 (Inglese) del 94,5% tra le infezioni da SARS-CoV-2.

Tabella 4. L’efficacia di 2 dosi del vaccino Pfizer (dopo almeno 7 giorni dalla somministrazione) nei diversi gruppi di età della popolazione israeliana. Si noti come le stime di efficacia rispetto a tutti gli esiti del COVID-19 siano superiori al 96% tra le persone di età pari o superiore a 75 anni per gli esiti più seri (dall’infezione sintomatica alla morte). (fonte: Haas et al. [16])

L’efficacia “sul campo” di un vaccino, come detto, viene stimata confrontando i tassi di malattia negli individui vaccinati con i tassi negli individui non vaccinati. Il tasso di incidenza delle infezioni da SARS-CoV-2 tra gli adulti di età pari o superiore a 16 anni è risultato essere di 91,5 per 100.000 giorni-persona nel gruppo non vaccinato e di 3,1 per 100.000 giorni-persona nel gruppo dei soggetti completamente vaccinati, con un’efficacia stimata del vaccino (aggiustata per fascia di età, sesso e settimana di calendario) contro l’infezione da SARS-CoV-2 che è risultata pertanto essere del 95,3%, come ho già anticipato in precedenza.

Si noti come l’efficacia del vaccino Pfizer contro la mortalità riscontrata sulla popolazione israeliana sia analoga (circa 97%) a quella riscontrata sulla popolazione del Regno Unito. Vi sono invece delle piccole differenze per quanto riguarda gli altri esiti, nei confronti dei quali in Israele si è riscontrata un’efficacia leggermente maggiore. Ciò potrebbe essere forse spiegato con la crescente diffusione, in Gran Bretagna, della variante Delta o Indiana, che oggi è responsabile di oltre il 98% di tutti i nuovi casi di COVID (e in Italia di almeno il 17% dei casi, secondo l’ultima stima ufficiale dell’ISS). Ad essa risulta essere associato un rischio di ospedalizzazione maggiore (nonché un rischio di infezione fra le mura domestiche del 64% maggiore e outdoor del 40% maggiore) rispetto alla variante Alfa o Inglese [2].

Da quando è apparso il SARS-CoV-2 nella popolazione umana, e cioè a Wuhan (Cina) nel corso del 2019, vi sono stati alcuni grossi aumenti nella trasmissibilità dello stesso. Il primo è avvenuto con la variante Alfa, o Inglese (B.1.1.7), del 40-80% più trasmissibile rispetto alla variante originale del SARS-CoV-2 e caratterizzata anche da un tasso di mortalità di ben il 67% maggiore, a conferma della maggior virulenza di questa variante [17], nata probabilmente da eventi di ricombinazione in individui immunocompromessi (nei quali possono verificarsi un numero enorme di mutazioni). L’altro grosso aumento della trasmissibilità è avvenuto più di recente proprio con la comparsa della variante Indiana (B.1.617.2), che a sua volta ha un rischio di ospedalizzazione doppio  [18] ed è del 40% (ma secondo alcune stime addirittura del 100%) più trasmissibile rispetto alla variante Inglese [19], mentre il suo tasso di mortalità è ancora ignoto.

Un altro recentissimo articolo pubblicato su Lancet [18], relativo alla vaccinazione in corso in Scozia, mostra che il vaccino Oxford-Astrazeneca si è rivelato meno efficace del vaccino Pfizer-BioNTech nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2 nei contagiati dalla variante Indiana (Delta). Infatti, l’efficacia dei due vaccini nel prevenire, contro la variante Delta, l’infezione confermata da tampone molecolare (PCR) è risultata essere del 92% per Pfizer ma di “solo” il 73% per Astrazeneca. Tuttavia, data la natura osservazionale di questi dati – non trattandosi cioè di uno studio controllato randomizzato –  le stime di efficacia del vaccino vanno interpretate con cautela. Se però la cosa verrà confermata, vuol dire che il Regno Unito avrà presto un po’ di problemi, avendo vaccinato circa metà degli anziani con Astrazeneca, a differenza dell’Italia, che almeno inizialmente ha vaccinato gli anziani con i vaccini migliori, cioè quelli a mRNA.

Verso un limite superiore per i morti da COVID-19 in Italia nel prossimo autunno-inverno

Mi è sempre piaciuto cercare di prevedere il futuro, cosa possibile entro certi limiti e con opportuni approcci e modelli, come illustrato nel mio libro Mondi Futuri [20]. Ma prevedere il numero preciso di morti da COVID-19 in Italia che possiamo aspettarci nel prossimo autunno-inverno è, in generale, impossibile, per cui non avrebbe neppure senso provarci. Tuttavia, quello che invece si può fare è stimare almeno un limite superiore per il numero di possibili morti da COVID, ovvero un valore oltre il quale è difficile che si vada se la protezione fornita dai vaccini nel frattempo somministrati durerà per tutto l’inverno (cosa abbastanza verosimile secondo i dati forniti dalla letteratura scientifica e che illustrerò più avanti).

Infatti, se non ci saranno “sorprese” eclatanti – ovvero la comparsa di uno o più ceppi “mutanti di fuga” che rendano di fatto inutili uno o più dei vaccini attuali – in uno scenario “business as usual” (naturalmente nei limiti di quanto la situazione attuale si possa considerare usuale!) è possibile fare due “conti della serva” per capire quale potrebbe essere il numero massimo di morti nel caso peggiore. Dove, appunto, il caso peggiore non è per davvero quello peggiore in assoluto, bensì il peggiore fra quelli più realistici. Il punto chiave, difatti, è che vi sono già degli elementi per impostare matematicamente il problema.

La questione è molto semplice. Nel caso peggiore realistico, la variante Indiana si potrebbe diffondere anche in Italia e circolare – con una velocità impossibile oggi da stimare – grazie al fatto che non tutta la popolazione è vaccinata e che una percentuale per nulla trascurabile della popolazione vaccinata è in grado di trasmettere il SARS-CoV-2 (generando casi secondari) se si infetta. Quindi, si tratta semplicemente di stimare innanzitutto il numero massimo di morti possibili fra i non vaccinati e poi il numero massimo di morti possibili, invece, fra le persone vaccinate (giacché anche loro, come abbiano appena visto, possono morire, sebbene con probabilità circa 10 volte più bassa). Il totale di questi due contributi ci darà, evidentemente, il limite superiore cercato, salvo piccole correzioni di cui parlerò più avanti.

Naturalmente, dato che la campagna vaccinale italiana è ancora in corso e tutt’altro che conclusa (nel senso che non si è ancora vicini a un plateau nel numero cumulativo di vaccinati con due dosi), un calcolo che utilizzi il numero di vaccinati attuali porterebbe a uno scenario irrealistico, tuttavia come vedremo anch’esso risulta assai utile per capire meglio in che direzione spingere la campagna vaccinale. Pertanto, calcolerò poi un secondo scenario più realistico, basato su numeri prevedibili per la campagna vaccinale al termine dell’estate, quando chi voleva vaccinarsi avrà senz’altro avuto modo di farlo.

La percentuale di italiani vaccinati nelle varie fasce di età, come disponibile da dati pubblici pubblicati online il 25 giugno. Questi valori sono stati utilizzati in uno dei due scenari, formulato principalmente a scopo di benchmark, per la stima del limite superiore sul numero di possibili morti in Italia nel prossimo autunno-inverno, che illustrerò più avanti in questo articolo. (fonte: Lab24 – Il Sole 24 Ore)

Naturalmente, è difficile prevedere il futuro perché sono in gioco molti fattori, tra cui: nuove varianti con il potenziale per un aumento della trasmissione (nel momento in cui scrivo, preoccupano già tre sottotipi della variante Indiana, e soprattutto quella denominata Delta 2, cui si è aggiunta, negli ultimi giorni, la Delta Plus); cambiamenti nel nostro comportamento mentre la pandemia si trascina; effetti stagionali che possono aiutare a ridurre la trasmissione nei mesi estivi e, viceversa, aumentarla nei mesi autunnali ed invernali. Inoltre, la vaccinazione sta trasmettendo a molte persone un falso senso di sicurezza, e questo è spesso un “nemico”, come quando, diversi decenni or sono, l’introduzione delle cinture di sicurezza in Inghilterra portò a un aumento dei morti per incidenti stradali – anziché a una loro diminuzione – poiché la gente, sentendosi più sicura, guidava più velocemente.

Una cosa positiva che sta chiaramente emergendo anche dalla letteratura scientifica è la cosiddetta “convergenza evolutiva” della proteina spike (il bersaglio dei vaccini) verso un maggiore adattamento evolutivo (fitness), nonostante i programmi di vaccinazione globali spostino la pressione verso “mutazioni di fuga” dalle difese immunitarie. In biologia, la convergenza evolutiva è il fenomeno per cui lo stesso tratto emerge in diversi lignaggi indipendenti nel tempo, di solito quando si adattano ad ambienti simili. Infatti, un recente studio [21] mostra che, del vasto numero di mutazioni rilevate nei genomi SARS-CoV-2, solo alcune sono salite ad alte frequenze. In altre parole, le varianti del SARS-CoV-2 finora non sembrano altamente variabili: sono soggette a un insieme limitato di mutazioni, per cui non ci sarà la guerra multifronte che molti temono, con un numero infinito di nuove versioni virali [22]. La prevedibilità dell’evoluzione convergente della proteina spike può aumentare le probabilità che i vaccini “universali” di seconda generazione proteggano efficacemente la popolazione mondiale dalle varianti virali attuali e future.

Fra le varie cose, invece, che ancora non sono affatto chiare – e che dunque rendono impossibile fare previsioni precise – è se questo autunno-inverno vi sarà o meno la somministrazione di “terze dosi” di vaccini alla popolazione più anziana, magari come scusa per liberarsi di assai probabili rimanenze. Di certo, da una parte le lobby delle Big Pharma hanno interesse a promuovere nuovi vaccini “aggiornati” contro le più recenti varianti (un po’ come i produttori di software fanno con i loro sistemi operativi o con gli antivirus), tanto che si sono già inventati perfino il vaccino unico per COVID e influenza [23]; dall’altra, alcuni esperti mettono in guardia dall’improvvisazione vaccinale ormai dilagante che ha portato prima al “pasticciaccio brutto” della vaccinazione eterologa Astrazeneca-Pfizer per gli under 60 e ora al caso, purtroppo passato in sordina, sollevato dallo stimabile prof. Roberto Cauda, il quale rileva come “chi si è vaccinato con vaccini a mRNA (come Pfizer o Moderna) dovrebbe usare un vaccino diverso, come quelli proteici (ad es. Novavax, ndr) poiché gli effetti avversi potrebbero aumentare a ogni richiamo” [24].

Il fatto che la variante Indiana non sia ancora molto diffusa in Italia non deve trarre in inganno, poiché altrove si è diffusa assai velocemente (fra l’altro in India sta già diffondendosi la variante “Delta Plus”, che è ancora più veloce nel trasmettersi e che potrebbe causare anche una malattia più grave). Alcuni si sono domandati perché da noi la variante Indiana fosse poco diffusa rispetto al Regno Unito. In un ottimo pezzo pubblicato di recente sul Messaggero [25], Luca Ricolfi ha sottolineato una delle possibili ragioni: la scelta del Regno Unito di allungare il tempo fra una dose e l’altra, sommata al fatto che una sola dose di vaccino è assai meno efficace contro la trasmissione virale. Mi permetterei, però, di aggiungere una ragione più semplice e ovvia: nel Regno Unito vi sono circa 1,5 milioni di residenti di etnia indiana (prima di guadagnare l’indipendenza nel 1947, l’India era infatti una colonia britannica), mentre in Italia, al 31 dicembre 2017, i cittadini indiani erano appena 151.800, cioè 10 volte di meno.

Il modello di calcolo impiegato: il semplice simulatore “MorSup”

In pratica, ho realizzato una tabella Excel in cui, come al solito, le caselle di colore verde sono quelle con i dati forniti in ingresso, quelle di colore rosso sono frutto di calcoli e quelle azzurre sono dati in ingresso che si possono considerare fissi. Nella tabella ho considerato solo le classi di età più anziane (maggiori o uguali a 50 anni), poiché sappiamo che il 95% dei morti sono over 60, mentre quasi il 98% dei morti sono over 50; pertanto, il contributo ai possibili morti per COVID-19 (passati, presenti e futuri) da parte delle classi di età non considerate è, evidentemente, del tutto trascurabile. Guardiamo ora la parte alta della Tabella 5.

Tabella 5. La tabella del simulatore “MorSup” sviluppato dall’Autore per stimare il limite superiore dei morti che ci si potrebbe attendere, per il prossimo autunno-inverno, in uno scenario “business as usual”, ovvero con le percentuali attuali di vaccinati. La parte superiore e quella inferiore della tabella si devono intendere come poste su un’unica riga, sono state raffigurate su due solo per esigenze di maggiore leggibilità.

Per ciascuna classe di età, è riportata nella seconda colonna la popolazione italiana secondo i più recenti dati Istat disponibili. Nella terza colonna, invece, ho riportato la letalità reale del virus per i non vaccinati. Ricordo al lettore che la letalità apparente è quella ottenuta dai dati epidemiologici dividendo il numero di morti per COVID-19 per il numero di contagiati sintomatici ufficiali, mentre la letalità reale è un numero alquanto più basso perché tiene conto della presenza rilevante di soggetti asintomatici. Ho spiegato in un mio articolo del 4 febbraio [26] come si ricavano i valori di letalità reale che ho riportato nella tabella.

Nella quarta colonna della tabella, ho riportato la percentuale di vaccinati con una dose, come fornita dai dati ufficiali riportati da Lab24 Il Sole 24 Ore [27]. L’idea implicita dietro questa scelta è che queste persone, prima o poi, si vaccineranno con la seconda dose (come visto in precedenza, l’efficacia di un vaccino è ben diversa con 1 o 2 dosi). La quinta colonna, invece, mostra il numero massimo di morti attesi fra i non vaccinati, calcolato sottraendo alla popolazione italiana di una determinata fascia di età il numero di vaccinati in quella stessa fascia di età e moltiplicando il valore così ottenuto per la letalità reale.

La parte inferiore della Tabella 5, invece, stima il numero massimo di morti attesi fra i vaccinati. In particolare, nella seconda colonna viene prima calcolata la popolazione vaccinata, data dal prodotto della popolazione italiana in una determinata fascia di età per la percentuale di vaccinati nella medesima fascia di età. Nella terza colonna, invece, è inserita l’efficacia dei vaccini anti-COVID contro la mortalità (per semplicità ho ipotizzato un’efficacia (“flat”, cioè uguale per tutte le fasce di età) pari al 97% di media, come risulta dagli studi scientifici mostrati prima relativi alla vaccinazione in Israele e nel Regno Unito.

I morti fra i non vaccinati sono dati, semplicemente, dai vaccinati moltiplicati per (100% – l’efficacia suddetta, cioè dei vaccini anti-COVID contro la mortalità), e sono riportati nella quarta colonna, sempre della parte inferiore della tabella. Infine, l’ultima colonna della tabella inferiore riporta il totale dei morti attesi fra i vaccinati ed i non vaccinati. Questo numero rappresenta il limite superiore cercato. Ma è interessante valutare non solo tale valore, bensì anche – come ora vedremo – il diverso contributo al totale portato dalle varie classi di età, poiché esso ci fa capire come si debba migliorare la campagna vaccinale.

Analisi dei risultati ottenuti nello scenario “attuale” e in quello atteso di “fine campagna”

Nello scenario “attuale” riportato nella Tabella 5, in cui i vaccinati italiani attuali con 1 dose sono stati immaginati vaccinarsi a breve anche con la seconda dose (per cui per l’efficacia del vaccino ho adottato il valore relativo a 2 dosi), vediamo che il numero di possibili morti in autunno-inverno supera i 70.000, che vanno confrontati con i morti per COVID-19 fino a oggi (oltre 128.000 alla data del 25 giugno). Ricordiamo però che questi rappresentano solo i deceduti ufficiali per COVID, cioè quelli segnalati al sistema di Sorveglianza Nazionale Integrata COVID-19 dall’inizio dell’epidemia nel nostro Paese.

Ma, come mostrato l’anno scorso da un noto rapporto dell’Istat realizzato in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità [28], durante la prima “ondata” della pandemia – cioè quella della primavera 2020 – vi è stato a livello nazionale (ma soprattutto nel Nord Italia) un aumento significativo della mortalità rispetto ai valori degli anni precedenti. Essendo la pandemia una novità rispetto al periodo precedente, questo eccesso può essere ragionevolmente attribuito proprio alla pandemia stessa. Secondo i dati Istat si tratta, detratti da questo eccesso i morti ufficiali per COVID, di circa 12.000 morti aggiuntivi, per cui il totale dei decessi dall’inizio dell’epidemia in Italia sale a circa 140.000 morti.

Pertanto, se avessimo 70.000 morti aggiuntivi nel prossimo autunno-inverno, si tratterebbe praticamente di circa la metà dei morti avuti finora, dunque un numero davvero ragguardevole, che potrebbe portare le Autorità sanitarie italiane a scelte già viste (alcune delle quali però non più sopportabili dal tessuto socio-economico del Paese [29]) nel tentativo di impedirli. Tuttavia, per avere una stima più realistica del limite superiore di morti, anziché adottare la percentuale di vaccinati attuale occorre adottare i valori attesi alla fine della campagna vaccinale. Ho quindi ipotizzato un secondo scenario, che chiamerò “di fine campagna”, che ipotizza per le varie fasce di età le percentuali di vaccinati con 2 dosi riportate nella Tabella 6 (parte in alto, quarta colonna), che sono comunque tutte superiori all’80% (che è la percentuale di vaccinati che il generale Figliuolo si è prefisso di raggiungere entro settembre per la popolazione italiana).

Tabella 6. Il limite superiore dei morti che ci si potrebbe attendere in Italia, per il prossimo autunno-inverno, adottando le percentuali di vaccinati ipotizzabili (sebbene forse leggermente ottimistiche) alla fine della campagna vaccinale, cioè in pratica al termine dell’estate. Al solito, la parte superiore e quella inferiore della tabella si devono intendere come poste su un’unica riga. (fonte: elaborazione dell’Autore)

In questo scenario più realistico (corrispondente a una percentuale media di vaccinati complessiva, per le 5 classi di età considerate, di circa l’86%), si può vedere che il numero massimo di morti attesi è di circa 60.000, ovvero è calato solo di poco più del 20% rispetto allo scenario precedente. Inoltre, si noti come il contributo nettamente maggiore ai morti totali venga dai non vaccinati, e soprattutto fra quelli di età compresa fra 70 e 90 anni (che contribuiscono infatti per il 75% ai morti totali attesi). Potrebbe sembrare uno scenario che ha una possibilità remota di realizzarsi, tenendo conto che da noi il numero di contagi “ufficiali” è in costante calo; ma non dimentichiamo che la variante Delta o Indiana nel Regno Unito e in Portogallo sta facendo rapidamente crescere il numero di contagiati, e pertanto in un prossimo futuro potrebbe succedere – come molte persone in cuor loro temono – lo stesso nel nostro Paese.

Dunque, la situazione potenzialmente non è rosea, sebbene sia decisamente migliorata rispetto alla scenario calcolato nel mio articolo del 4 febbraio [26] praticamente “al buio” (poiché all’epoca ancora non si conosceva la reale efficienza sul campo dei vaccini anti-COVID poi usati, ma solo l’efficacia nei trial, che è una cosa abbastanza diversa): in quel caso, sotto l’ipotesi di una popolazione over 70 vaccinata per l’80% e di un’efficacia media dei vaccini del 62%, si trovava un numero di morti residue possibili pari a 212.000, che – come mostrai nel medesimo articolo – sono circa la metà dei circa 450.000 morti che verosimilmente avremmo avuto in Italia se all’inizio della pandemia si fosse lasciato circolare liberamente il virus, cioè senza attuare lockdown, usare mascherine e attuare restrizioni varie.

Inoltre, occorre considerare che ora la campagna vaccinale in Italia si sta orientando prevalentemente alla vaccinazione delle classi di età intermedie (trentenni e quarantenni) e dei giovani (under 30 fino a 12 anni, poiché la Circolare del 4 giugno del Ministero della Salute ha esteso l’indicazione di utilizzo del vaccino Pfizer a tale età [30]), le quali però contribuiscono pochissimo (o, nel caso dei giovani, sostanzialmente per nulla, rappresentando meno dello 0,02% dei morti totali), alla riduzione della mortalità complessiva. Per di più, al momento la popolazione under 12 non è previsto che sia vaccinata, ed essa comprende poco meno di 5 milioni di persone, per cui rappresenta quasi il 10% della popolazione italiana.

Come se non bastasse, vi è l’esercito degli immigrati irregolari (ovvero senza permesso di soggiorno): circa 650.000 stranieri non raggiungibili dal vaccino, in quanto senza tessera sanitaria i sistemi informatici non li riconoscono [31]. In realtà, quella illustrata è quasi certamente una stima per difetto, poiché si tratta di persone che vivono sommerse, senza documenti e senza diritti, nelle nostre città e nelle relative periferie, contribuendo inoltre al crescente degrado del Bel Paese. Pertanto, dato che in genere gli irregolari circolano liberamente in barba a divieti e restrizioni, né ovviamente hanno interesse a interagire con le Istituzioni in virtù della loro posizione, rappresentano una sorta di nutrita “quinta colonna” che può contribuire anch’essa a mantenere viva la circolazione del virus nel nostro Paese.

Il contributo alla circolazione virale fornito dai non vaccinabili (essenzialmente giovanissimi e immigrati, più le persone fragili per le quali il vaccino è sconsigliato, come ad es. gli immunodepressi) è tuttavia certamente compensato dall’esistenza, nella popolazione italiana, di una buona percentuale di immunizzati per via naturale dal SARS-CoV-2 (percentuale che in teoria andrebbe sottratta dalle persone non vaccinate), ed è per questo che non ho tenuto esplicitamente conto di tutte queste correzioni nel mio foglio di calcolo MorSup, visto che lo avrebbero appesantito di molto senza cambiare sostanzialmente il risultato. Infatti, tenendo conto anche degli asintomatici, gli italiani immunizzati per via naturale potrebbero essere oggi circa il 20% della popolazione, ma si è scoperto che negli asintomatici gli anticorpi durano pochissimo, per cui gli immunizzati naturali che avranno ancora anticorpi quest’inverno dovrebbero essere assai meno.

Dove si dovrebbe a mio avviso “indirizzare” la campagna vaccinale

Probabilmente, nello scenario “di fine campagna” appena illustrato ho adottato perfino delle percentuali di vaccinazione leggermente ottimistiche, poiché – fra l’altro – si ipotizza che tutti i vaccinati over 80 attuali ricevano una seconda dose, cosa non necessariamente scontata data la notevole confusione nella comunicazione del rischio dei vaccini fatta dalle Autorità sanitarie italiane, che ha portato in altre fasce di età una percentuale significativa di persone alla rinuncia della seconda dose. Per capire se le percentuali ipotizzate siano abbastanza realistiche, possiamo però confrontarle con quelle di altri Paesi, a cominciare da Israele, quello in cui la vaccinazione è proceduta in modo di gran lunga più spedito.

La percentuale di persone vaccinate con almeno una dose di vaccino, alla data del 25 giugno, nei Paesi più avanti con la campagna vaccinale, fra cui Israele, Regno Unito, Italia e altri (fonte: Our World in Data)

Come si vede dalla figura qui sopra, la percentuale di persone che in Israele hanno ricevuto almeno una dose di vaccino è attualmente del 63,9% (peraltro di poco inferiore a quella del Regno Unito, pari al 64,3%), mentre in Italia è di circa il 54%. In realtà, come si può vedere dalla figura, il Paese con la maggiore percentuale di vaccinati è diventato da poco tempo il Canada, sebbene sia partito lentamente, con il 67% di persone che hanno già ricevuto almeno una dose. L’Italia si colloca quindi nel gruppetto più in basso, in compagnia di Stati Uniti, Germania e Francia. Non benissimo, quindi, ma neppure così male, se non fosse per il fatto che – come abbiamo visto con il mio scenario di MorSup – andrebbero vaccinate soprattutto le persone di età compresa fra 70 e 90 anni (che contribuiscono per ben il 75% ai morti totali attesi).

Il trend ripido della curva relativa al nostro Paese suggerisce che la percentuale di vaccinati con una dose (e quindi anche con 2) da noi possa ancora crescere molto, sebbene si noti l’esistenza di un punto cosiddetto “di flesso”, che segnala come il numero di vaccinati giornalieri stia diminuendo. Il punto, però, è che la gran parte dei nuovi vaccinati appartengono a classi di età che sono sostanzialmente ininfluenti ai fini del possibile bilancio di morti futuri. O, almeno, certamente non lo sono direttamente. Peraltro, come illustrato in un mio precedente articolo [32], si stanno esponendo i giovani (in particolare gli under 25) a rischi reali (a causa di un rapporto rischio/beneficio sfavorevole) e potenziali sul medio e lungo termine.

Perché, quindi, si sta esponendo a tali rischi i giovani (e anche quelli un po’ meno giovani, poiché il punto di pareggio fra rischi e benefici della vaccinazione anti-COVID è calcolato in una situazione di pandemia galoppante, ma in realtà si sposta verso classi di età più elevate man mano che la campagna vaccinale procede) senza che tutti questi soggetti ne abbiano alcun vantaggio personale? La questione è stata sollevata anche da Luca Ricolfi in una trasmissione televisiva (Quarta Repubblica del 14 giugno) alla quale era presente il prof. Guido Rasi (già direttore esecutivo dell’EMA), il quale ha fornito una motivazione – “vaccinare i giovani serve per non far circolare la variante Indiana” – che, come mostrerò fra poco, appare reggere fino a un certo punto, per usare un cortese eufemismo.

Come avevo già illustrato il 4 febbraio nel mio articolo “Perché la vaccinazione degli anziani va ‘maneggiata con cura’: un’analisi per scenari” [26], con l’entrata in gioco dei vaccini le fasce più anziane della popolazione – ovvero quelle responsabili delle morti e delle ospedalizzazioni che rischiano di paralizzare il Sistema Sanitario Nazionale – dovrebbero essere gestite in modo diverso dal resto della popolazione. In particolare, si dovrebbe puntare a vaccinare, realizzando campagne di persuasione sotto forma di spot televisivi e contattandoli uno per uno, la percentuale di anziani più elevata possibile e nel minor tempo possibile con due dosi e, come sottolineai all’epoca, riservando loro i vaccini più efficaci.

Purtroppo, attualmente non si sta andando in questa direzione, poiché l’attenzione è indirizzata piuttosto: (1) a vaccinare i giovani e le fasce di età intermedia (riservando loro una fetta rilevantissima dei vaccini migliori ora che Astrazeneca è stato riservato, ahimè, agli over 60); (2) a “sbolognare” i vaccini in eccesso o meno efficaci (in particolare Astrazeneca) con open day; (3) a promuovere alla popolazione sempre più disorientata “mix” – per il momento quanto meno dubbi poiché gli studi sulla sicurezza di tale pratica sono assai limitati – fra dosi di vaccini diversi (vaccinazione eterologa). Insomma, l’attenzione di chi conduce la campagna vaccinale è ormai assorbita da problemi che poco hanno a che fare con il raggiungimento dell’obiettivo di gran lunga primario, che è la “messa in sicurezza” della quasi totalità degli anziani.

Infatti, come ebbi a dimostrare quantitativamente con delle semplici simulazioni numeriche nel medesimo mio articolo [26], poiché i potenziali bersagli del COVID dati dalla percentuale di persone non vaccinate si combinano con quelli costituiti dalla percentuale di persone che – come mostrato dai dati relativi a Israele e Regno Unito – non sono protette contro la mortalità da COVID-19, pure il raggiungere una soglia di vaccinati all’apparenza alta (come può essere l’80% degli anziani) in realtà non è così rassicurante. Ciò spiega perché con lo scenario ottenuto con MorSup si trova un limite superiore così elevato per i possibili morti in autunno-inverno. E un discorso analogo si applica anche all’esito “trasmissione da parte dei vaccinati” del virus, poiché questa si combina con la trasmissione da parte dei non vaccinati, impedendo nei prossimi mesi il raggiungimento della famosa “immunità di gregge”.

Perché la vaccinazione degli under 30 non ci regala l’immunità di gregge

La questione della vaccinazione dei giovani è, a mio avviso, un altro esempio di come si concentrino risorse rilevanti (in termini di denaro, personale, e ore-lavoro) su un problema relativamente secondario anziché su quelli primari (ricordo che, se ad es. oggi il tracciamento dei contagiati in Italia è quasi inesistente, è perché una rilevante parte del personale che se ne occupava è stato dirottato sulla campagna vaccinale, poiché come sappiamo l’arruolamento di infermieri e medici che si cercò di fare con “due spicci” all’inizio della stessa andò quasi del tutto deserto). Cercherò dunque di spiegare nel modo più chiaro possibile come stanno le cose, perché ho la sensazione che, a parte pochi esperti e persone con un buon background matematico, a tutti gli altri – compresi i decisori politici – sfugga purtroppo l’essenza della questione.

L’idea originaria alla base della vaccinazione dei giovani era quella di poter raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge”, o protezione di gregge, così chiamata perché quando la maggior parte di una popolazione è immune a una malattia infettiva, ciò fornisce protezione indiretta alla parte di popolazione non vaccinata (perché non vuole o, in certi casi, perché non è indicato sottoporsi alla vaccinazione, come nel caso dei bambini e degli immunocompromessi, quali ad es. i soggetti portatori del virus Hiv). Ad esempio, se l’80% di una popolazione è immune a un virus, quattro su cinque persone che incontrano qualcuno con la malattia non si ammaleranno (e non diffonderanno ulteriormente la malattia). È uno dei possibili modi per tenere sotto controllo la diffusione delle malattie infettive [33].

Come spiegato da Randolph & Barreiro [34], a seconda della prevalenza dell’immunità (totale: da vaccino + naturale) esistente a un agente patogeno in una popolazione, l’introduzione di un individuo infetto porterà a esiti diversi. Se una frazione della popolazione è immune al medesimo patogeno, la probabilità di un contatto efficace tra ospiti infetti e suscettibili è ridotta, poiché molti ospiti sono immuni e, quindi, non possono trasmettere il patogeno. Se la frazione di individui suscettibili in una popolazione è troppo bassa, l’agente patogeno non può diffondersi con successo e la sua prevalenza diminuirà. Il punto in cui la proporzione di individui suscettibili scende al di sotto della soglia necessaria per la trasmissione è la soglia dell’immunità di gregge. Al di sopra di questo livello di immunità, l’immunità di gregge inizia ad avere effetto e gli individui suscettibili beneficiano di una protezione indiretta dall’infezione.

(A) L’immunità di gregge illustrata con un semplice modello SIR (S = Suscettibili, I = Infetti, R = immunizzati) per un’infezione completamente immunizzante e R0 = 4 (R0 è il numero medio di infezioni secondarie causate da un singolo individuo infetto introdotto in una popolazione completamente suscettibile). Il modello assume una popolazione chiusa in cui nessuna persona esce e non vengono introdotti nuovi casi. In seguito all’introduzione di un singolo individuo infetto, la proporzione di individui infetti (linea rossa) aumenta rapidamente fino a raggiungere il suo picco, che corrisponde alla soglia di immunità di gregge. Dopo questo punto, i nuovi individui infetti infettano meno di un individuo suscettibile, poiché una percentuale sufficiente della popolazione è diventata resistente, impedendo un’ulteriore diffusione del patogeno (linea arancione). (B) Rappresentazione schematica delle dinamiche di propagazione della malattia quando un individuo infetto viene introdotto in una popolazione completamente suscettibile (pannello superiore) rispetto a una situazione in cui un individuo infetto viene introdotto in una popolazione che ha raggiunto la soglia di immunità di gregge (pannello inferiore). Nella popolazione completamente suscettibile (naive), emerge rapidamente un focolaio, mentre nello scenario dell’immunità di gregge, il virus non riesce a diffondersi ed a persistere nella popolazione. (fonte: Randolph & Barreiro [34])

Matematicamente, la soglia di immunità di gregge è definita da 1 – 1/R0 (ad esempio, se R0 = 4, la corrispondente soglia di immunità di gregge è 0,75, cioè 75%) [34]. Pertanto, più un agente patogeno è trasmissibile, maggiore è l’R0 associato e maggiore è la proporzione della popolazione che deve essere immune per bloccare la trasmissione sostenuta. Un parametro simile importante per comprendere l’immunità a livello di popolazione è il numero effettivo di riproduzione (Rt), definito come il numero medio di casi secondari generati da un singolo caso indice in un periodo infettivo in una popolazione parzialmente immune. A differenza di R0, Rt non presuppone una popolazione completamente suscettibile e, di conseguenza, varierà a seconda dello stato immunitario di una popolazione, che cambierà dinamicamente quando si verifica un evento epidemico o – come nel nostro caso – una campagna di vaccinazione.

Peccato, però, che questo sia un discorso del tutto teorico, giacché, come sottolineai nel mio articolo del 3 aprile sull’ottimizzazione della campagna vaccinale [35], il modello semplicistico appena illustrato alla base dell’immunità di gregge vale per i vaccini cosiddetti sterilizzanti (cioè che impediscono a un agente patogeno di replicarsi nelle cellule e quindi di trasmettere l’infezione ad altri, come ad es. quello per il morbillo, la poliomelite, etc.). Per i vaccini “leaky”, che come sappiamo bloccano i sintomi e impediscono la morte delle persone ma non prevengono l’infezione o la trasmissione successiva ad altri [1], l’immunità di gregge è piuttosto utopica. E non esiste alcuna prova scientifica che i vaccini anti-COVID attuali non siano “leaky”, anzi come abbiamo visto prima i dati del Regno Unito lo confermano, evidenziando un’efficacia tutt’altro che vicina al 100% contro l’infezione e contro la trasmissione, oltre a un aumento delle infezioni nonostante la campagna vaccinale sia più avanti rispetto alla nostra.

Inoltre, come illustrato molto bene da un articolo pubblicato ad aprile su Nature [36], comunque l’immunità di gregge sarebbe raggiungibile: (1) solo con elevati ritmi di vaccinazione, cioè con una campagna vaccinale di durata relativamente breve; e (2) con una somministrazione coordinata su scala globale, poiché l’Italia non è certo isolata dagli altri Paesi, come ad esempio il Sud del mondo; inoltre, (3) con le nuove varianti più trasmissibili la soglia per l’immunità di gregge si innalza e bisogna vaccinare una percentuale della popolazione ben più elevata che non con la variante originale di Wuhan, giovani compresi; infine, (4) se nascono nuove varianti fortemente resistenti ai vaccini (i cosiddetti “ceppi mutanti di fuga” [1]), l’immunità acquisita potenzialmente svanisce e ci possiamo trovare a dover affrontare future ondate; e, in ogni caso, (5) l’immunità di un vaccino così (proteina spike-)specifico non dura per sempre.

La soglia attuale per la pseudo-immunità di gregge e la stima del limite inferiore per i morti

Nel settembre 2020, Fontanet & Cauchemez [37] stimarono che per la Francia la soglia di immunità di gregge per il SARS-CoV-2 avrebbe richiesto, con le varianti circolanti all’epoca, circa il 67% di immunità della popolazione. Un valore simile era ragionevole anche per l’Italia. Ma le varianti tanto più alzano la soglia dell’immunità di gregge quanto più alta è la loro trasmissibilità. Ad esempio, con la variante Indiana la soglia richiesta per la (pseudo-)immunità di gregge della popolazione è, secondo il fisico Roberto Battiston (con cui ho avuto il piacere di collaborare quando eravamo entrambi all’INFN), all’incirca dell’88% [38]; ma probabilmente ha usato il limite superiore dell’intervallo di incertezza – oppure “si è portato avanti con il lavoro” immaginando future sottovarianti più contagiose – poiché in realtà, come tra poco vedremo, per la variante Indiana la soglia “teorica” per la pseudo-immunità di gregge è dell’80% (si noti, inoltre, che oggi circa il 20% della popolazione italiana potrebbe essere già naturalmente immune al SARS-CoV-2).

Per quanto all’immunizzazione della popolazione contribuiscano sia i vaccini sia l’immunizzazione naturale attraverso il contagio (sintomatico e, sul breve termine, anche quello asintomatico) – è il fatto che una percentuale dei vaccinati si possano infettare e trasmettere a loro volta l’infezione a far “saltare tutto”! Infatti, come spiegano ancora Randolph & Barreiro, “il modello dell’immunità di gregge si basa su diversi presupposti chiave, tra cui la mescolanza omogenea di individui all’interno di una popolazione e che tutti gli individui sviluppano un’immunità sterilizzante, cioè un’immunità che conferisce protezione permanente contro la reinfezione, dopo la vaccinazione o l’infezione naturale. Nelle situazioni del mondo reale – come nel caso del SARS-CoV-2 – questi presupposti immunologici non sono soddisfatti, e l’entità della protezione indiretta attribuita all’immunità di gregge dipenderà dalle variazioni di questi presupposti” [34].

Vi mostrerò due modi diversi per vedere quantitativamente perché nel caso del SARS-CoV-2 non si raggiunge l’immunità di gregge con la vaccinazione. Il primo è il seguente (il secondo, ancora più preciso, è illustrato graficamente nella figura qui sotto). Con la vaccinazione, il virus cesserà di diffondersi a condizione che R0 x (1 – VE x PV) < 1, dove VE è l’efficienza del vaccino e PV è la frazione della popolazione che è stata completamente vaccinata (cioè con 2 dosi) [46]. Se questa condizione è soddisfatta senza la necessità di restrizioni comportamentali, l’immunità della popolazione è stata raggiunta. Peccato, però, che – come abbiamo visto all’inizio dell’articolo – i dati provenienti dalla letteratura scientifica relativi al Regno Unito suggeriscano, verosimilmente, un’efficacia dei vaccini contro la trasmissione dell’ordine del 60-70%, mentre come percentuale di popolazione vaccinata ipotizzeremo quella pari alla soglia della pseudo-immunità di gregge, che per la variante Indiana (caratterizzata da R0 = 5, mentre l’Inglese ha R0 = 3,75 e la variante di Wuhan R0 = 2,5 [47]) è data da (1 – 1/R0) = 0,8, ovvero 80%. Dunque, R0 x (1 – VE x PV) = 5 x (1 – 6,5/10 x 8/10) = 5 x (1 – 0,52) = 2,4 che è molto maggiore di 1 (come volevasi dimostrare).

In questa figura ho schematizzato, in modo al tempo stesso grafico e quantitativo, i “contributi mancanti” all’immunità di gregge sulla base delle informazioni ricavabili dalla letteratura scientifica, e sotto l’ipotesi: (a) di una campagna vaccinale che vaccini l’80% della popolazione italiana, essendo l’obiettivo che il generale Figliuolo conta di raggiungere entro settembre; (b) di una percentuale di persone immunizzate naturalmente pari al 20%. Da semplici conti, risulta contribuire all’immunità di gregge solo il 56% della popolazione, mentre il 44% non vi contribuisce. Questi dati si riferiscono alla variante Inglese; con quella Indiana la situazione è, molto verosimilmente, ancora peggiore. (fonte: elaborazione dell’Autore)

Nella formula precedente ho usato l’efficienza dei vaccini contro la trasmissione perché, per stabilire l’immunità di gregge, l’immunità generata dalla vaccinazione o dall’infezione naturale deve prevenire la trasmissione successiva, non solo la malattia clinica [33]. Se non lo fa, occorre tenerne conto. Per alcuni agenti patogeni, come il SARS-CoV-2, le manifestazioni cliniche sono uno scarso indicatore di trasmissibilità, poiché gli ospiti asintomatici possono essere altamente infettivi e contribuire alla diffusione di un’epidemia. Inoltre, una volta raggiunta la soglia di immunità di gregge, l’efficacia dell’immunità di gregge dipende in gran parte dalla forza e dalla durata dell’immunità acquisita. Per i patogeni in cui viene indotta un’immunità permanente, come nel caso della vaccinazione o dell’infezione da morbillo, l’immunità di gregge è altamente efficace e può prevenire la diffusione del patogeno all’interno di una popolazione.

Tuttavia questa situazione è relativamente rara, poiché l’immunità per molte altre malattie infettive, come ad es. la pertosse e il rotavirus, diminuisce nel tempo. Di conseguenza, l’immunità di gregge è meno efficace e possono ancora verificarsi epidemie periodiche (qualora non si proceda a un “rinforzo” della protezione anticorpale con terze dosi o non si passi a vaccini “universali”). Ma almeno su questo versante ci sono buone notizie, poiché un recente studio pubblicato su Nature [39] ha dimostrato che i pazienti guariti da COVID-19 presentano ancora le cellule che producono gli anticorpi contro il virus a 11 mesi dalla guarigione, e un’analoga durata è stata dimostrata, da altri studi [40], per l’immunizzazione da vaccino anti-COVID (ma la durata dell’immunità potrebbe essere in realtà molto più lunga, solo che non è ancora passato abbastanza tempo dalle prime infezioni monitorate e dalle prime vaccinazioni per poterlo scoprire).

Precedenti studi in pazienti sintomatici confermati con la SARS del 2002-2003 hanno dimostrato che le risposte di anticorpi neutralizzanti persistevano da diversi mesi a 2 anni, sebbene tutti gli individui mostrassero titoli anticorpali bassi dopo circa 15 mesi [41]. Pertanto, il già citato studio di Nature lascia sperare che l’immunità naturale contro il virus abbia un orizzonte temporale alquanto più lungo di quanto temuto fino a oggi (e anche quella indotta dai vaccini, eccetto che nel caso dell’eventuale comparsa di un ceppo mutante di fuga), sebbene il livello di immunità potrebbe essere più basso tra le persone con un sistema immunitario più debole (come ad es. le persone anziane) ed è comunque improbabile che duri per tutta la vita. Inoltre, se l’immunità è distribuita in modo non uniforme all’interno di una popolazione, possono rimanere dei gruppi di ospiti suscettibili che si contattano frequentemente tra loro. Anche se la proporzione di individui immunizzati nella popolazione nel suo complesso superasse la soglia di immunità di gregge, queste sacche di individui suscettibili sarebbero ancora a rischio di epidemie locali [34].

Quindi, quand’anche si raggiungesse l’immunità di gregge, il virus potrebbe ancora circolare, sia pure più limitatamente, non è che non circoli affatto come alcuni ingenuamente pensano. Circolerà all’interno di “sacche” più o meno piccole qua e là per il Paese, dove l’epidemia tenderà comunque a estinguersi poiché il famoso “numero di riproduzione calcolato nel corso del tempo” (Rt) avrà a quel punto un valore inferiore a 1 (attualmente Rt è inferiore a 0,7): ciò vuol dire che una persona tende in media a infettarne meno di una, per cui l’epidemia tende per forza a estinguersi. Ma basta che ad es. un turista infetto entri senza controlli nel nostro Paese (come di solito accade alle frontiere stradali del Nord Italia) per far innescare abbastanza facilmente nuovi piccoli focolai, che come un incendio in una zona con rade sterpaglie finiranno alla lunga sempre per auto-estinguersi, se le varianti circolanti non sono in grado di resistere più di tanto ai vaccini.

Ciò spiega anche perché è irrealistico un limite inferiore pari a 0 per i morti attesi nel prossimo autunno-inverno. Vale a dire che, anche nello scenario più sfrenatamente ottimistico, non avremo 0 morti. Infatti, di tanto in tanto, nei piccoli focolai che permarrebbero anche nel caso in cui le cose procedessero davvero al meglio, potrebbe ammalarsi (e in alcuni casi morire) alcuni over 60 non coperti dal vaccino o perché non si sono vaccinati o perché fanno parte di quella percentuale di vaccinati sui quali il vaccino è inefficace. Si noti inoltre che, anche dopo il raggiungimento della soglia di immunità di gregge, ci vuole molto tempo prima che non ci siano più nuovi casi, e quindi nessun nuovo decesso [30]. Pertanto, come il lettore può comprendere, è difficile attribuire un valore numerico al limite inferiore per i morti italiani da COVID totali nel prossimo autunno-inverno (cioè da settembre a marzo): se però proprio dovessi sbilanciarmi, direi minimo qualche decina e forse, più realisticamente, qualche centinaia.

Perché la vaccinazione dei giovani non è così cruciale come si vuol far credere

Bene, ora abbiamo tutti gli elementi per capire come mai la vaccinazione degli under 30 non sia affatto così “decisiva” e irrinunciabile ai fini del controllo della situazione (e ciò a prescindere dal fatto di mettere “sotto il tappeto”, come si sta facendo, il discorso dei rischi corsi a livello individuale dai vaccinandi – peraltro non solo quelli giovani – non soltanto quelli noti sul breve termine, ma anche quelli del tutto ignoti sul medio e lungo termine). Potremo dunque ora capire meglio: (a) perché la frase di Rasi “vaccinare i giovani serve per non far circolare la variante Indiana” esprima una tesi alquanto difficile da sostenere; ma, soprattutto, (b) perché la vaccinazione dei giovani non sia così cruciale come si vuol far credere.

Innanzitutto, l’idea di Rasi che vaccinare i giovani non faccia circolare la variante Indiana si basa, evidentemente, sul presupposto che vaccinando i giovani si potrebbe raggiungere l’immunità di gregge. Ma, come abbiamo visto analizzando la letteratura scientifica sul tema, il concetto di immunità di gregge si applica per i vaccini sterilizzanti, e questo non è purtroppo il caso dei vaccini anti-COVID attuali, che sono leaky. E purtroppo i vaccini “leaky” sono, in generale, preoccupanti perché la storia dei vaccini insegna che, con questo tipi di vaccini, può – in teoria – succedere di tutto [1]: (1) possono portare alla nascita di nuove varianti (i “ceppi mutanti di fuga”, in quanto nel caso di un virus non gli impediscono di entrare nelle cellule e di replicarsi a dismisura); (2) possono promuovere l’evoluzione, nel tempo, di una maggiore virulenza dei patogeni (a scapito soprattutto dei non vaccinati); e (3), dopo un certo tempo, possono iniziare a fallire, causando gli effetti gravi anche nei soggetti vaccinati. Si noti, peraltro, che (1) e (2) si osservano già.

Dato che i vaccini anti-COVID attuali sono “leaky”, e trasmettono quindi in una certa percentuale di casi l’infezione generando casi secondari, la protezione della popolazione non immunizzata attraverso la pseudo-immunità di gregge che potrà essere realisticamente raggiunta con la campagna vaccinale italiana sarà, necessariamente, alquanto inferiore perfino vaccinando a tappeto i giovani; per cui l’obiettivo di non far circolare la variante Indiana – almeno nel periodo invernale, poiché come sappiamo i virus respiratori sono caratterizzati da un’elevata stagionalità – comunque non potrà essere raggiunto con la sola vaccinazione di massa, poiché bisognerebbe non solo vaccinare l’80% della popolazione (soglia per la pseudo-immunità di gregge) ma anche – e ciò appare alquanto utopico! – anche tutto il resto della popolazione (fino a coprire, quindi, il 100% della stessa), al fine di compensare il fatto che una percentuale assai significativa di vaccinati può trasmettere il virus.

A questo punto, probabilmente anche il lettore avrà capito che, ancora una volta, ci si è concentrati su un “falso” problema – quello di raggiungere un’immunità di gregge che nel caso dei vaccini leaky non può essere raggiunta – anziché concentrarsi sui due veri problemi, che sono: (a) mettere in sicurezza la maggior percentuale possibile di over 60; (b) implementare tutte le possibili misure di un “piano B”, complementare ai vaccini, per limitare sia la circolazione del virus sia la mortalità di chi non si vaccina. In definitiva, l’obiettivo dei programmi di vaccinazione con vaccini sterilizzanti è portare il valore del numero di riproduzione netto della malattia (il famoso Rt) al di sotto di 1. Ciò si verifica quando la percentuale della popolazione con immunità (da vaccini e/o naturale) supera la soglia di immunità di gregge [30]. A questo punto, la diffusione del patogeno non può essere mantenuta, quindi c’è un calo del numero di individui infetti all’interno della popolazione e, di conseguenza, anche dei morti.

Ma, come ormai sappiamo, vi sono in realtà molti altri modi per intervenire per ridurre il numero delle infezioni e il numero dei morti in un’epidemia, ovvero per mantenere Rt – il parametro chiave che determina se l’epidemia si estingue o meno – al di sotto di 1. La vaccinazione è sicuramente uno di questi, ma non è affatto l’unico! Gli interventi si possono distinguere, fondamentalmente, in due diversi tipi: (1) quelli farmaceutici (comprendenti l’uso domiciliare o ospedaliero di integratori, farmaci, anticorpi monoclonali, vaccini, etc.) e (2) non farmaceutici. Questi ultimi includono l’uso delle mascherine, il distanziamento sociale, misure come le restrizioni sui viaggi e la chiusura delle scuole, etc. La vaccinazione è uno dei più efficaci modi per ridurre il numero delle infezioni (specie se si usano vaccini “sterilizzanti”) e, soprattutto, la mortalità dei vaccinati (come nel caso dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio) [35], ma puntare solo su questa (e non sull’intero “arsenale” di possibili opzioni) è un errore.

I principali mezzi usati fino ad oggi dalle autorità politiche e sanitarie per ridurre il numero di infezioni e/o di morti per COVID-19. Si noti l’assenza, tuttora, di un (serio ed efficace) protocollo di cura domiciliare fra i possibili mezzi impiegati finora dalle Autorità sanitarie italiane, nonostante ora esso sia disponibile nella letteratura scientifica peer-reviewed. (fonte: elaborazione dell’Autore)

Infatti, il punto chiave è che ciascuno di questi possibili interventi è in grado di dare un contributo (sebbene spesso difficile da stimare quantitativamente, anche perché l’efficacia di una medesima misura può essere in realtà diversa da Paese a Paese) alla diminuzione dell’Rt, e quindi al controllo della pandemia. Non dimentichiamo, difatti, che l’obiettivo della campagna vaccinale italiana non è affatto quello di eradicare il virus – cosa successa nella storia solo contro il vaiolo, ma utilizzando un vaccino di tipo sterilizzante – bensì quello di diminuire il più possibile il numero di morti per COVID e, secondariamente, di diminuire il più possibile le ospedalizzazioni. Infatti, se incontrollata, la diffusione del SARS-CoV-2 travolgerebbe rapidamente i sistemi sanitari, e un esaurimento delle risorse sanitarie porterebbe non solo a un’elevata mortalità da COVID-19, ma anche a un aumento della mortalità per tutte le cause.

Occorre focalizzarsi sempre sugli aspetti che davvero contano

Paradossalmente, è più facile prevedere il futuro a lungo termine dell’attuale pandemia che non quello a breve e medio termine. Secondo i principali epidemiologi mondiali, infatti, il virus diventerà alla fine endemico – cioè continuerà a circolare fra la popolazione umana – come già successo in un lontano passato ad altri due coronavirus, che oggi ci provocano solo un semplice raffreddore. È inoltre interessante notare che la modellizzazione della dinamica di trasmissione del SARS-CoV-2 prevede che l’immunità a breve termine (∼10-12 mesi) nei confronti del SARS-CoV-2 darebbe luogo a epidemie annuali, mentre l’immunità a lungo termine (∼2 anni) porterebbe a epidemie biennali [42], quindi con analoghe tempistiche – pressioni delle lobby e varianti permettendo – per le “terze” dosi dei vaccini ed i successivi richiami.

Come ho illustrato in precedenza, il numero di morti (minimo e massimo) che ci si potrebbe aspettare in Italia nel prossimo autunno-inverno è compreso fra poche decine di morti (limite inferiore, peraltro alquanto ottimistico) e oltre 50.000 (limite superiore stimato con il mio simulatore MorSup, basato sul semplice modello illustrato in precedenza); vale a dire che potrebbero arrivare a essere circa 8 volte superiori ai morti annuali pre-pandemia dovuti all’influenza (che erano circa 8.000 l’anno). In realtà, il numero di morti reale si collocherà probabilmente in qualche punto intermedio fra questi due estremi, i cui valori saranno raffinabili nei prossimi due mesi via via che avremo dati più “solidi” per i due parametri chiave del simulatore. Ma quanti saranno realmente i morti – sempre nell’ipotesi che non emergano nel frattempo varianti più resistenti ai vaccini attuali – dipenderà moltissimo sia dalle misure che verranno prese dalle Autorità politiche e sanitarie sia dal comportamento e dalle scelte delle persone.

Infatti, se attualmente in Italia il virus sta abbassando la cresta, è perché il famoso Rt è minore di 1, e ciò è dovuto non solo alla campagna di vaccinazione ma anche a due altri motivi: (1) la stagionalità dei virus respiratori (dovuta al fatto che con il caldo le particelle di aerosol si disidratano in brevissimo tempo e il virus di conseguenza si degrada perché non ha più un supporto acquoso, all’innalzamento dei livelli di vitamina D nelle persone che prendono il sole, al maggior tempo trascorso all’aperto anziché in luoghi chiusi, al più frequente ricambio d’aria grazie alle finestre aperte, etc.); (2) il fatto che la gente stia ancora attuando delle precauzioni come ad es. l’uso delle mascherine negli ambienti indoor (almeno da quel che vedo nella zona in cui vivo). In autunno, il contributo della stagionalità verrà meno, e contribuirà notevolmente a innalzare l’Rt, insieme alla presenza della variante Delta, che avendo un R0 più grande (cioè un infetto contagia più persone, a parità di altre condizioni) fa aumentare anche l’Rt. Perciò, se non ci prepariamo per tempo con un “piano B”, in teoria fra alcuni mesi si rischiano ancora lockdown locali.

Un altro degli aspetti cruciali di una vaccinazione di successo è il tempo. Poiché un’infezione si può propagare rapidamente attraverso una popolazione, in generale prima le persone vengono immunizzate e meglio è, soprattutto se i vaccini sono sterilizzanti. Poiché questo sappiamo non essere il caso degli attuali vaccini anti-COVID, i decisori politici e sanitari devono ottimizzare la velocità della vaccinazione e l’efficacia della risposta, piuttosto, in termini di vite salvate: quest’ultima non è solo legata all’efficienza dei vaccini nel proteggere la popolazione sul campo, ma anche al vaccinare per prime le persone “giuste”: ovvero gli anziani e gli over 60, nonché le persone “fragili” di tutte le età, e non certo i ragazzi o ad es. i trentenni in perfetta salute); mentre la velocità della vaccinazione di questi soggetti dipende anche dalla logistica, dall’organizzazione, dalla capacità effettiva di contattare in maniera attiva le persone anziane e fragili, dai tipi di “premi” e “punizioni” applicati o meno per convincere gli indecisi, etc.

Se poi non vogliamo ripetere l’inerzia estiva dello scorso anno, occorre quanto prima implementare tutte le possibili misure di un “piano B” per limitare sia la circolazione del virus sia la mortalità di chi non è protetto dall’immunità. Queste misure comprendono, fra le altre: (1) l’adozione ufficiale di un protocollo di cure domiciliari serio, come quello del prof. Remuzzi et al., la cui elevatissima efficacia è provata da una pubblicazione peer-reviewed [43]; (2) la promozione di campagne di informazione per l’integrazione della vitamina D (consigliabile a prescindere dal COVID, data la carenza nella popolazione italiana); (3) una campagna di misurazione in tutti i luoghi pubblici dei livelli di anidride carbonica (CO2), che se elevati sono segno di un ricambio d’aria insufficiente (che comporterebbe un’elevata concentrazione di aerosol virale in presenza di individui infetti) [44]; (4) il controllo a tappeto e in modo rigoroso che tutte le mascherine vendute in Italia, soprattutto sul web, superino i test di laboratorio, pena il ritiro dal mercato.

Infatti, secondo uno studio scientifico recentemente pubblicato sul New England Journal of Medicine [45], il mascheramento facciale è uno dei pilastri del controllo della pandemia di COVID-19, e può aiutare anche a ridurre la gravità della malattia ed a garantire che una percentuale maggiore di nuove infezioni sia asintomatica. Ciò perché questa possibilità è coerente con una teoria di vecchia data sulla patogenesi virale, che sostiene che la gravità della malattia è proporzionale all’inoculo virale ricevuto. In realtà, questo è proprio quanto avevo affermato io nel mio articolo del 25 marzo [32], trattandosi a mio parere di una totale ovvietà, essendo l’emergere della malattia sintomatica e la sua gravità legate in prima istanza all’esito della “gara” che ha luogo nell’organismo fra moltiplicazione del virus da una parte e produzione di anticorpi neutralizzanti dall’altra (per cui più si assorbe un’elevata dose di virus e più si sposta il bilancio a suo favore). Ma fa sempre piacere ritrovare le stesse idee e conclusioni su una rivista peer-reviewed!

La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è, inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste particelle virali. Per questo alcuni integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di prevenzione della progressione della malattia verso stadi più gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle particelle di virus e aiutano le difese immunitarie. (fonte: elaborazione personale pubblicata nel mio articolo del 25 marzo)

Inoltre, oggi sarebbero necessari assai più sequenziamenti delle varianti virali, molto più contact tracing, una migliore strategia di screening per chi arriva dall’estero e – cosa di cui non si parla mai! – dei test sierologici di massa per determinare quanti individui sono immuni per infezione naturale e quanto siamo lontani dal raggiungere la soglia di pseudo-immunità di gregge; ma mentre questa indagine lo scorso anno in Italia è stata fatta, ora che servirebbe ancor di più non la si è nemmeno tentata su un campione più limitato! Per inciso, secondo vari medici andrebbe fatto il test sierologico anche prima della dose 1 dei vaccini anti-COVID, per individuare chi ha già sviluppato naturalmente gli anticorpi contro il SARS-CoV-2. Infatti, secondo il procuratore della Repubblica che ha seguito il caso della morte del giovane militare siciliano Stefano Paternò, avvenuta poco dopo la sua vaccinazione, egli aveva avuto il COVID in forma asintomatica, e l’interazione del vaccino proprio con questi anticorpi ha provocato la tempesta citochinica con conseguente insufficienza respiratoria e, infine, decesso.

In autunno-inverno torneranno le restrizioni o si andrà verso il “liberi tutti”?

Gli studi scientifici suggeriscono che la protezione contro la reinfezione con specie di coronavirus tende a diminuire dato un tempo sufficiente, sebbene siano necessari ulteriori studi sierologici longitudinali per valutare la durata effettiva dell’immunità nel caso del SARS-CoV-2. Se comunque ciò si dimostrasse vero anche per il SARS-CoV-2, la (pseudo-)immunità di gregge persistente potrebbe non essere mai raggiunta in assenza di vaccinazione ricorrente. Il che giustifica ulteriormente la necessità di lavorare a un “piano B” complementare ai vaccini, poiché non tutti si ri-vaccineranno. Detto questo, anche se la reinfezione può verificarsi dopo la sterilizzazione dell’immunità, le cellule di memoria durature del sistema immunitario adattativo probabilmente faciliterebbero il controllo immunitario del virus e limiterebbero la patologia della malattia, il che si spera possa diminuire la gravità clinica delle infezioni successive [30].

Si noti, inoltre, che in futuro avremo probabilmente vaccini sterilizzanti – quali sono ad es. i vaccini “inattivati” – che potrebbero permetterci di raggiungere realmente l’immunità di gregge, o quasi. Dunque, la corsa ai vaccini sembra essere in realtà soltanto all’inizio della sfida che ci aspetta, mentre le nostre economie e il tessuto sociale sono sempre più provati. Pertanto, negli altri Paesi molti esperti si chiedono se saremo in grado di stare dietro – come progettazione e produzione dei vaccini, nonché accettazione degli stessi da parte della popolazione – alle ulteriori future varianti di SARS-CoV-2 che potrebbero sorgere nel corso del tempo, indotte in molti casi dai vaccini medesimi [1]. Proprio per tutte queste ragioni è – a parere dell’Autore – importante, per la politica sanitaria anti-COVID, non solo riflettere con molta più obiettività e lungimiranza su tutta la faccenda, ma soprattutto implementare fin d’ora, indipendentemente dalla campagna di vaccinazione, un “piano B” che sia del tutto svincolato dai vaccini.

Se dovessimo davvero tornare a uno stile di vita pre-pandemia, avremmo bisogno dell’immunità di gregge (e quindi di vaccini sterilizzanti o “universali”) per mantenere basso il tasso di infezione senza restrizioni sulle attività. Ma questo livello, come sappiamo, dipende da molti fattori, tra cui l’infettività del virus (possono nel frattempo evolversi varianti ancora più infettive) e dal modo in cui le persone interagiscono tra loro. Ad esempio, quando la popolazione riduce il proprio livello di interazione (attraverso il distanziamento, l’uso di mascherine, etc.), i tassi di infezione rallentano. Ma man mano che la società si apre in modo più ampio e il virus muta per diventare più contagioso, i tassi di infezione aumenteranno di nuovo. Poiché attualmente non siamo a un livello di protezione che possa consentire alla vita di tornare alla normalità senza vedere un altro picco di casi e decessi, ora è una corsa tra infezioni e iniezioni [33].

Nel peggiore dei casi (ad esempio, se smettiamo di prendere le distanze di sicurezza reciproche e di indossare la mascherina e rimuoviamo i limiti alle riunioni affollate al chiuso), continueremo a vedere ulteriori ondate di infezione in aumento. Il virus infetterà e ucciderà ancora molte persone prima che la campagna di vaccinazione raggiunga tutti (cosa che, molto verosimilmente, non accadrà mai, trattandosi fra l’altro di vaccini di fatto sperimentali approvati solo “per l’uso in emergenza”, che quindi non possono essere imposti come avviene per certi vaccini normali). E le morti non sono l’unico problema. Più persone infetta il virus, più possibilità ha di mutare. Ciò può aumentare il rischio di trasmissione, ridurre l’efficacia dei vaccini e rendere la pandemia più difficile da controllare a lungo termine. Ancora una volta, quindi, si capisce perché è così importante avere un “piano B”, implementato e rodato fin d’ora.

Nel migliore dei casi, infatti, da una parte vacciniamo le persone il più rapidamente possibile, mantenendo le distanze e altre misure di prevenzione per mantenere bassi i livelli di infezione e, dall’altra, contemporaneamente implementiamo le misure del “piano B” per tenere bassa – di concerto con l’azione dei vaccini – la circolazione del virus (cioè Rt < 1 e, possibilmente, Rt << 1) e, quel che più ci interessa, i tassi di ospedalizzazione, di ricovero in terapia intensiva e di mortalità dei non immunizzati. Anche se di certo non ci sarà una “giornata dell’immunità di gregge” in cui la vita tornerà immediatamente normale, questo approccio ci offre la possibilità di evitare numerosi morti, di minimizzare l’impatto socio-economico della pandemia e fornisce delle possibilità a lungo termine di sconfiggere la pandemia senza ulteriori “bagni di sangue” in termini di mortalità e di conseguenze economiche su cittadini e imprese.

Il risultato più probabile è che il prossimo autunno ci si collochi da qualche parte nel mezzo di questi due estremi. Quando i tassi di mortalità e di infezione diminuiscono, possiamo allentare le misure di allontanamento e alcune altre misure con le quali abbiamo dovuto convivere con mesi, ma ciò può portare a un rimbalzo delle infezioni, poiché le persone interagiscono tra loro più da vicino [33]. In autunno potrebbe quindi essere necessario re-implementare queste misure per ridurre nuovamente le infezioni, se queste hanno un impatto rilevante in termini di ospedalizzazioni e di mortalità oppure se si pensa che lo avranno sia per il previsto effetto di “stagionalità” simile a quello dell’influenza, sia sulla base di quanto accaduto in altri Paesi, a cominciare dal Regno Unito. E questo dipende, ancora una volta, da quali varianti avremo di fronte quest’autunno-inverno, cosa che rappresenta senza dubbio la maggiore incognita.

Finché ci saranno popolazioni non vaccinate nel mondo, il SARS-CoV-2 continuerà a diffondersi ed a mutare ed emergeranno ulteriori varianti. In Italia e altrove, la vaccinazione di richiamo potrebbe rendersi necessaria prematuramente se sorgessero varianti che possono eludere la risposta immunitaria provocata dai vaccini attuali. Sarà probabilmente necessario ancora uno sforzo prolungato per prevenire un grave impatto su salute ed economia fino a quando la nuova generazione di vaccini non sarà pronta, testata nei trial, autorizzata dalle Autorità regolatorie e diffusa fra la popolazione. Anche allora, è molto improbabile che SARS-CoV-2 venga debellato; probabilmente infetterà ancora i bambini e altri che non sono stati vaccinati, e forse dovremo ugualmente aggiornare il vaccino e fornire dosi di richiamo su base regolare. Ma, via via che i vaccini saranno più efficaci anche contro la trasmissione, le continue ondate di diffusione esplosiva (a cui stiamo ancora assistendo in questo momento in altri Paesi) finiranno per scomparire [33].

Le strategie del piano B (di cui ne ho illustrato poco fa alcune fra le principali) potranno aiutarci fortemente a controllare la situazione. Inoltre, il semplice obbligo di indossare le mascherine in ambiente indoor proteggerà i non immunizzati (cioè sia i non vaccinati sia la percentuale di vaccinati che non è protetta dal vaccino). Inoltre, le mascherine contribuiscono in modo rilevante ad abbassare il valore dell’Rt, per cui sono un po’ come le barre di grafite in un reattore nucleare: aiutano a impedire una reazione (nel nostro caso una diffusione) incontrollata. Inoltre, poiché le mascherine possono ridurre la gravità della malattia, dovrebbero anche aumentare l’immunità della popolazione. Infatti, secondo il prof. Hassan Vally, epidemiologo a La Trobe University (Australia), “sappiamo che le mascherine proteggono le persone dall’infezione, ma anche se non si impedisce completamente che ciò accada – quindi se si lascia entrare solo un piccolo numero di particelle di virus – allora potenzialmente ci si espone a una quantità sufficiente di virus affinché tu possa organizzare una risposta immunitaria che ti proteggerà in futuro” [45].

AVVERTENZA. Onde evitare qualsiasi interpretazione errata da parte di chi avesse scorso solo fugacemente il presente articolo, vorrei chiarire che NON mi aspetto che nel prossimo autunno-inverno si verificheranno, in Italia, i numerosissimi morti qui stimati come possibile limite superiore, poiché questa stima è intesa verificarsi solo nel caso in cui non venisse adottata nessuna restrizione delle nostre libertà. Tuttavia, l’entità della posta in gioco in termini di vite umane ed i “contributi mancanti” alla pseudo-immunità di gregge che ho stimato nel testo fanno capire che, molto verosimilmente, anche in autunno-inverno dovremo portare le mascherine al chiuso, e che pure questo potrebbe non bastare, nel qual caso il Governo potrebbe ricorrere a misure “facili” ma dannose per l’economia (quali ad es. lockdown locali) se non avrà preparato nel frattempo, parallelamente alla vaccinazione, un opportuno “piano B”.


Riferimenti bibliografici

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[2]  Public Health England (PHE), “COVID-19 Vaccine Surveillance Report – Week 25”, 24 giugno 2021.

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Il successo del “sistema misto” di Singapore

Continua la nostra riflessione sui paesi orientali che meglio hanno affrontato la pandemia. Fino ad ora abbiamo visto come Corea del Sud e Taiwan hanno dimostrato come un protocollo efficiente possa contenere, o quantomeno limitare, i danni derivanti dal Coronavirus. Tuttavia, non bisogna dimenticarsi di Singapore, una città-Stato di quasi 6 milioni di abitanti in cui la cultura cinese, indiana e occidentale convivono in armonia e dove finora si è avuto un numero di contagiati di poco superiore a 62.000 e un numero di morti ancor più esiguo: appena 34, il che equivale a un tasso di 6 morti per milione di abitanti, uno dei più bassi al mondo.

Inoltre, va considerato che la maggior parte dei contagi e dei decessi si è verificata all’inizio dell’epidemia, giacché da diversi mesi Singapore ha arrestato l’avanzata del virus: da metà settembre in poi i nuovi casi giornalieri si sono mantenuti stabilmente quasi sempre sotto la decina per cui dobbiamo chiederci come sia potuto accadere.

Anzitutto, dobbiamo notare che il fattore tempo è stato fondamentale nella scelta delle strategie da adottare per la gestione dell’epidemia. Nella cosiddetta “Svizzera d’oriente” si è deciso di rispondere anticipatamente e con aggressività al problema, forse memori delle recenti epidemie e forti dell’esperienza maturata dal National Centre for Infectious Diseases. Così come è accaduto a Taiwan, infatti, anche il governo di Singapore ha disposto dei controlli pressoché immediati per chiunque arrivasse dalla Cina e in particolare da Wuhan, benché queste restrizioni siano costate molto in termini di introiti economici, in quanto la Cina continentale è per Singapore il principale partner commerciale e una grande fonte di turismo.

Già a inizio gennaio 2020 il ministro della salute aveva predisposto il controllo della temperatura per tutti i viaggiatori in entrata, per poi, di lì a poco, annullare completamente i voli con la Cina, quando il resto del mondo stava ancora cercando di capire cosa stesse accadendo. Inoltre, era stato attivato un articolato sistema di tracciamento e l’obbligo di quarantena per due settimane per tutte le persone che erano state a contatto con i contagiati e per chiunque provenisse da un paese estero con dei casi di coronavirus.

All’inizio il sistema ha funzionato, ma verso metà marzo c’è stata un’improvvisa impennata dei contagi, principalmente nei dormitori riservati ai lavoratori stranieri, molto affollati, in cui le misure di sicurezza non venivano rispettate. Così il 7 aprile 2020, il governo ha deciso di istituire un lockdown generalizzato di 8 settimane, oltre alla quarantena obbligatoria per oltre 20.000 migranti che risiedevano nei dormitori divenuti i principali focolai di trasmissione del virus.

Va notata la tempestività con cui il governo di Singapore ha reagito, dimostrando di avere perfettamente capito, diversamente dai governi occidentali, quella che Ricolfi chiama «l’aritmetica dell’epidemia» (La notte delle ninfee, Milano 2021, p. 17). Queste misure, infatti, sono state adottate quando in tutto il paese c’erano stati appena 5 morti e i contagi giornalieri erano un centinaio (per avere un termine di paragone, in Italia il semi-lockdown è stato dichiarato quando c’erano già stati oltre 7000 morti e si viaggiava sui 1500 contagi al giorno). Tuttavia, il dato allarmante non era il valore assoluto, ma il fatto che a metà marzo in pochi giorni si era passati da pochi casi sporadici a oltre una ventina al giorno e quindi, verso fine mese, da 20 a 100 nel giro di una settimana, il che significava che la crescita stava diventando esponenziale.

Nei giorni seguenti, infatti, i casi rilevati hanno continuato a crescere, fino ai 1426 del 20 aprile, ma poi, dopo solo due settimane, la tendenza si è invertita. A partire dal 2 giugno 2020, con il calo del numero dei contagi, si è giunti alla riapertura dei negozi e dei locali, mantenendo però severe norme di distanziamento sociale e l’obbligo di indossare la mascherina.

Inoltre, Singapore ha provveduto a creare un efficiente tracciamento dei contatti che si fonda su un sistema misto e decentralizzato, differente da quello offerto da Apple-Google con il modello Api, utilizzato invece in Corea del Sud. Durante la passata epidemia di Sars il governo di Singapore era stato infatti criticato aspramente per aver adottato misure fortemente lesive della privacy, come, ad esempio, l’obbligo delle persone poste in quarantena di misurare la temperatura due volte al giorno e di essere costantemente connesse ad una webcam. Per questo stavolta il governo ha scelto di seguire una strategia differente.

A testimonianza dell’efficienza delle misure di contenimento attuate dal governo possiamo considerare il modello utilizzato nei campus universitari. Per evitare che il contagio si diffondesse gli studenti sono stati confinati in diverse aree, gli è stato vietato di affollare i luoghi di aggregazione e sono stati obbligati a scaricare un’applicazione di tracciamento che attestasse la loro negatività. Dallo scorso dicembre, inoltre, agli alunni di età superiore ai sette anni è stato chiesto di indossare un dispositivo; un token grande come una moneta chiamato TraceTogether. Questa decisione è stata presa in quanto i bambini non sempre hanno uno smartphone di loro proprietà e i token, oltre ad essere gratuiti (il costo è a carico del governo), si possono indossare come una collana. Questo progetto si inserisce in una visione ben più ampia che ha permesso, utilizzando metodi analoghi, il riavvio di fiere e conferenze pubbliche grazie a una maggiore tracciabilità.

Le autorità tengono a precisare che il token non è obbligatorio, benché sia fortemente consigliato, e che per via dell’assenza di un chip di geolocalizzazione l’App TraceTogether non è da considerarsi come un dispositivo di tracciamento munito di tag elettronico e volto a individuare la posizione e gli spostamenti dei cittadini. Si tratta invece di uno strumento utile a seguire a ritroso le tracce del contagio, in cui però l’uploading dei dati è consentito solo con il consenso e la partecipazione dell’interessato. Le informazioni raccolte vengono archiviate sui dispositivi per 25 giorni e poi cancellate e vengono condivise con il ministero della salute solo in caso di positività al Coronavirus, allo scopo di consentire agli operatori di ricostruire la catena dei contagi. Chi viene contattato dal ministero in quanto potenzialmente contagiato è obbligato a collaborare e a fornire qualsiasi informazione possa essere utile. Questa formula sta riscuotendo i favori della critica perché, a differenza delle App coreane, questi dispositivi comportano meno rischi per la privacy e ottengono ugualmente ottimi risultati.

Il rovescio della medaglia è che la minore invasività del sistema di tracciamento implica la necessità di fare un maggior numero di tamponi rispetto alla Corea, ma comunque non in quantità eccessive. Attualmente, infatti, Singapore è 17° al mondo per numero di tamponi in rapporto alla popolazione col 217%, il che significa che in media ogni abitante è stato testato un po’ più di due volte. È circa il doppio dell’Italia (38a con il 114%) e degli altri principali paesi occidentali (che viaggino più o meno sulla stessa media dell’Italia), ma sempre molto meno del 1095% della Danimarca, che guida la classifica, avendo controllato i propri abitanti oltre 10 volte a testa, ottenendo però un risultato (435 morti per milione) certamente migliore di gran parte degli altri paesi occidentali, ma comunque lontanissimo da quello di Singapore. Ciò dimostra che fare molti tamponi certo aiuta, ma ancora più importante è farli bene.

Inoltre, ultimamente il ministero della salute ha avviato una sperimentazione chiamata BreFence Go Covid-19 Breath Test System. Si tratta di un test rapido non invasivo, alternativo ai tamponi e all’analisi sierologica: bastano solo sessanta secondi di attesa dopo aver fatto un bel respiro. Il sistema è stato messo a punto dalla Breathonix, una startup dell’Università Nazionale di Singapore, e può ricordare gli alcool test a cui sono sottoposti i guidatori in stato di ebbrezza, ma in realtà questo tipo di tecnologia deriva da quella in uso per la rilevazione di markers tumorali.

Il paziente deve soffiare in una valvola monouso e uno spettrometro rileva la composizione molecolare del suo respiro per scovare indizi di malattie in corso, tra cui indizi riconducibili al Covid. Un software di machine learning confronta il risultato ottenuto con il profilo del respiro ipotetico in caso di malattia. La procedura richiede un minuto e i risultati vengono mostrati in tempo reale. Il test è poco invasivo e può essere fatto anche da personale non medico. I tre trial clinici finora condotti su 180 pazienti hanno dimostrato che il sistema ha una sensibilità ai marker del Covid del 93% e una specificità del 95%: il margine di falsi negativi e falsi positivi è quindi molto basso. Il ministro della salute di Singapore sta collaborando con la Breathonix al fine di avviare una sperimentazione sul campo. I test rapidi verranno usati sulle persone che entrano in città dalla Malesia: la sperimentazione è necessaria in quanto nella vicina Malesia sono state individuate delle nuove varianti di Coronavirus trasmesse all’uomo dai cani. Comunque, anche per il futuro si avrà certamente bisogno di nuove tecnologie e di test rapidi non invasivi, economicamente sostenibili e applicabili su larga scala.

Il successo della strategia attuata dal governo di Singapore si può imputare a vari fattori. Anzitutto, come Taiwan, il riconoscimento della pericolosità del Covid-19 già in una fase embrionale. Inoltre, anche a Singapore, come a Taiwan e in Corea, si erano dovuti scontrare con le epidemie di Aviaria e di Sars, pertanto erano preparati e avevano i mezzi per intervenire, sia sul controllo dei casi di importazione, sia per il tracciamento e la quarantena degli infetti mediante l’utilizzo di tamponi gratuiti per tutta la popolazione. A ciò si aggiungono poi le severe sanzioni per chiunque disobbedisca alle disposizioni governative, tra cui la revoca del visto e l’espulsione per chi non è cittadino singaporiano.

Inoltre, di certo aiuta il fatto che Singapore presenti un territorio circoscritto che rende più semplice il controllo dei movimenti in entrata e in uscita dal paese e inoltre abbia una gestione singola e centralizzata che evita dissidi tra governi e autonomie come avviene invece in Europa o negli Stati Uniti. Ma anche l’aspetto culturale conta molto: Singapore nutre da sempre grande fiducia nella scienza, che è presente in ogni decisione politica e i medici posso ordinare tamponi per i pazienti sospetti basandosi esclusivamente sulle proprie valutazioni.

Infine, il governo di Singapore ha avviato una grande campagna comunicativa. È stato lanciato persino un video rap per invogliare i cittadini a vaccinarsi contro il Covid. I protagonisti del filmato sono alcuni interpreti di una sitcom molto famosa negli anni Novanta: Phua Chu Kang Pte Ltd. Il comico Gurmit Singh per l’occasione veste i panni di Phua Chu Kang, un eccentrico appaltatore che canta: “Insieme possiamo vincere. È ora di vaccinarci tutti insieme”. Con questo video il governo di Singapore vuole dissipare i dubbi e le preoccupazioni degli anziani e di tutti coloro che hanno dei problemi di salute in merito ai possibili rischi dei vaccini.

Singapore sta circoscrivendo molto bene i focolai di Covid-19, mentre i paesi occidentali sono sfiniti dalla quarantena e arrancano provando ad uscire dall’emergenza, mentre dovrebbero approfondire lo studio dei modelli asiatici di gestione della pandemia. A differenza dei suoi vicini, tuttavia, Singapore non ha puntato su un solo metodo, bensì su un “sistema misto”, che, molto pragmaticamente, cerca di prendere il meglio da ciascuna strategia, con un approccio caratterizzato da brevi lockdown alternati a momenti di maggiore libertà, insieme a una capillare azione per identificare e isolare i contagi. Una strategia che secondo molti esperti (si veda per esempio l’articolo di potrebbe essere la più funzionale per rendere sopportabile la convivenza con il Coronavirus.

 

Sitografia




Variante delta, qualcosa è cambiato

Premetto che posso sbagliarmi, e che il futuro potrebbe rivelarsi – speriamo – più roseo di come io l’immagino. Però penso che non sia opportuno nascondere, o minimizzare, alcuni dati che stanno emergendo negli ultimi tempi riguardo all’andamento dell’epidemia.

Comincio da quel che sta accadendo nel Regno Unito, ossia nel paese europeo più avanti con la vaccinazione. Ebbene, passata l’euforia da riaperture del mese di aprile, da qualche settimana le autorità sono preoccupate perché tutti i principali indicatori dell’andamento dell’epidemia sono in risalita. Negli ultimi 15 giorni sono cresciuti il numero di morti, gli ingressi in terapia intensiva, le ospedalizzazioni, il numero di nuovi casi, il quoziente di positività, nonché il valore di Rt (quest’ultimo abbondantemente sopra 1 da oltre un mese). In breve: a dispetto della campagna di vaccinazione più avanzata del continente europeo, e nonostante il favore della stagione (sole + vita all’aperto), l’epidemia sta rialzando la testa.

Perché?

Difficile attribuire la responsabilità alle timide riaperture di maggio, o alla indisciplina degli inglesi, non certo superiore a quella degli italiani. Secondo la maggior parte degli osservatori, la causa del riaccendersi del contagio è la cosiddetta variante indiana (ora ribattezzata delta, per non offendere gli indiani: ci mancava pure il “vaccinalmente corretto”…), che nel Regno Unito nel giro di pochissimi mesi è diventata largamente dominante (98%). La sua velocità di trasmissione è circa il 60% maggiore di quella della variante inglese, cha a sua volta era del 50% più veloce di quelle dominanti durante il primo lockdown. Alla diffusione della variante ha certamente contribuito il ritardo con cui il governo inglese ha limitato gli ingressi dall’India, e probabilmente anche la scelta (imitata dalle autorità sanitarie italiane) di allungare il tempo fra una dose e l’altra, allo scopo di ampliare la platea dei vaccinati almeno con una dose, senza valutare adeguatamente che il fatto che la protezione assicurata dalla prima dose è sensibilmente inferiore a quella delle due dosi.

Che la variante indiana c’entri con la ripresa dell’epidemia è confermato da quel che sta succedendo in Portogallo, un paese che aveva gestito benissimo l’epidemia a inizio anno, ma che nel giro di pochi mesi è divenuto il secondo paese europeo (dopo il Regno Unito) per diffusione della variante delta (96%). Ebbene in Portogallo, dopo una discesa spettacolare di tutti gli indicatori fra febbraio a maggio, da una decina di giorni la tendenza si è invertita, e quasi tutti sono di nuovo in aumento.

E in Italia?

Da qualche tempo le autorità sanitarie provano a rassicurarci ripetendo che, qui da noi, la variante indiana è marginale (sotto l’1%), e non desta quindi particolari preoccupazioni. Peccato che i dati usati siano un po’ vecchiotti, e che giusto in questi giorni un’analisi del database Gisaid condotta dal Financial Times riveli che la penetrazione della variante indiana nel nostro paese è del 26%, in base all’ultimo aggiornamento dei dati. In concreto questo significa che la sua velocità di diffusione è altissima (meno di due settimane fa la variante delta era ferma al 2.8%), e che nel giro di un mese o due potremmo trovarci in una situazione simile a quella di Regno Unito e Portogallo, con una curva epidemica che tende a risalire nonostante la campagna vaccinale e il caldo. Il che significa: nuovo aumento dei casi, degli ospedalizzati, dei morti, eccetera.

A quanto pare anche una campagna di vaccinazione molto avanzata come quella del Regno Unito non basta a frenare l’avanzata della variante indiana. Ciò peraltro non deve stupire, per (almeno) tre motivi. Primo, anche nel Regno Unito, e a maggior ragione in Italia, una frazione considerevole della popolazione non è vaccinata, o è vaccinata con una sola dose. Secondo, la variante indiana pare più capace di eludere i vaccini. Terzo, le analisi più recenti condotte dalle autorità sanitarie inglesi suggeriscono che chi è vaccinato con una sola dose conservi una elevata capacità di tramettere il virus ad altri, sia con AstraZeneca, sia con Pfizer (per i vaccinati con due dosi non si sa, perché non ci sono abbastanza dati).

Se proiettiamo queste tendenze nel periodo medio-lungo, uno degli scenari che non possiamo escludere è lo scenario del tipo “quasi tutti si infettano – quasi nessuno muore”: la vaccinazione di massa riesce ad abbattere la letalità dell’infezione, ma  non basta a fermare la circolazione del virus. Uno scenario che a molti può apparire rassicurante, ma lo sarebbe davvero solo se fossimo certi che non emergeranno varianti più letali di quelle attuali, e la ricerca medica ci assicurasse che, per i vaccinati, l’infezione non solo non conduce alla morte, ma non lascia danni seri e durevoli a chi si è infettato.

Che dire, in conclusione?

Forse, semplicemente che stiamo ripetendo esattamente gli errori di un anno fa, quando la maggior parte dei paesi occidentali, per rilanciare l’economia, scelsero di assecondare il turismo internazionale, che è benzina sul fuoco di una pandemia.

Oggi quell’errore, ai nostri governanti ma anche a noi comuni cittadini, non appare più tale “perché questa volta abbiamo i vaccini”. Io penso invece che stiamo facendo male i nostri calcoli. Perché è vero che i vaccini abbattono sensibilmente il rischio di ospedalizzazione e di morte per una frazione della popolazione (quella dei pienamente vaccinati), ma è altrettanto vero che i pienamente vaccinati sono solo 1 su 4, e la trasmissibilità del virus è enormemente aumentata rispetto a un anno fa. E’ come se un antico cavaliere pensasse di poter battere l’avversario perché, ora, dispone finalmente di una robusta armatura di ferro, e non si accorgesse che l’avversario non combatte più con la spada, ma con una moderna mitragliatrice.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 giugno 2021




L’Italia del post covid come laboratorio politico e sociale per un neo keynesianesimo non socialista

C’era una volta in Italia la sinistra. Era per lo più comunista e stava all’opposizione. Un’opposizione numericamente importante e molto influente a livello sociale. Al governo invece, dalla fine della guerra sino a tangentopoli, stava la democrazia cristiana, un partito un po’ cattolico, un po’ di destra ma anche un po’ di sinistra. Con Craxi il partito socialista, che era stato di sinistra, passava dall’opposizione al governo, diventando anch’esso di centro. Questo equilibrio tra sinistra di piazza e centro di governo ha funzionato per decenni, dando luogo a politiche economiche e sociali – di tipo keynesiano – capaci di creare un benessere diffuso ed esteso a diversi strati della popolazione. Eppure il miracolo italiano si fondava su un equivoco ideologico.

Soltanto la DC è stato infatti il movimento che ha davvero perseguito in Italia politiche keynesiane, mentre il PCI (insieme ai socialisti del dopoguerra) era un movimento politico profondamente legato al marxismo sovietico, che – di conseguenza – non ha mai condiviso ideologicamente quelle ricette. I comunisti accettavano le politiche democristiane, certo, ma esclusivamente per pragmatismo ed esigenza tattica, perché – rispetto alle ricette proposte dai liberali – il keynesianesimo democristiano conduceva a risultati più favorevoli per proletari e impiego pubblico (tradizionali bacini elettorali del PCI). Ma i comunisti, quelle ricette, non perdevano occasione per criticarle con forza “da sinistra”. Keynes – in altre parole – non è mai stato “abbastanza socialista” per un partito che considerava ancora Mosca il suo modello ideale di società. Dunque occorre dirlo chiaro: i nostri socialisti (quelli ortodossi) non sono mai stati keynesiani e mai hanno considerato Keynes “uno dei loro”. Del resto, non poteva che essere altrimenti, essendo noto che lo stesso J.M. Keynes aveva criticato il marxismo, giungendo a dichiarare apertamente di non riuscire a capirlo e di non trovarvi nulla di interessante.

A riprova di questo atteggiamento del socialismo storico nazionale verso l’economista britannico citiamo qui sotto – dal sito dell’Avanti – ampi stralci di un articolo di Gianfranco Sabattini del 26 novembre 2019 in cui si riassumono con chiarezza le ragioni per cui i socialisti ortodossi affermavano (ed affermano anche ora) che Keynes non poteva essere considerato socialista. “Poiché (Keynes, n.d.r.) non aveva previsto la necessità di allargare l’intervento pubblico, sino a realizzare un socialismo di Stato che abbracciasse la maggior parte della vita economica della collettività, Keynes, per i suoi critici marxisti, non è possibile ritenerlo un socialista; anche perché, essendosi egli limitato ad affermare che, per assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi, non è tanto necessario che lo Stato assuma la piena proprietà dei mezzi di produzione, quanto che agisca con la sua diretta iniziativa per promuovere un volume complessivo di produzione corrispondente alla piena occupazione, la teoria neo-classica che lui criticava ha avuto modo di riproporre la validità dei suoi algoritmi. Il non-socialismo di Keynes, quindi, non sarebbe tanto motivato sulla base del rifiuto del socialismo di Stato, quanto sul fatto che le sue prescrizioni varrebbero a riproporre la validità della teoria neo-classica, sia pure in presenza dell’azione diretta dello Stato, per stabilire un volume complessivo di produzione tale da richiedere la piena occupazione”. Per proseguire così: “Keynes, quindi, non può essere considerato un socialista, perché la sua analisi non coglie le contraddizioni intrinseche all’ordinamento del capitalismo, e perché la sua critica al pensiero economico tradizionale è limitata al rifiuto della validità solo di due dei massimi principi del liberalismo: il primo, che ogni singolo soggetto sociale, perseguendo egoisticamente la propria felicità, concorra a realizzare quella di tutti; il secondo, che il mercato sia il sistema in grado di contribuire, meglio di ogni altro, alla ricchezza generale e all’equa distribuzione del prodotto sociale. Con ciò Keynes avrebbe concorso a salvare il capitalismo, limitandosi ad indicare quanto di esso può essere salvaguardato per assicurare l’uso efficiente delle risorse”. E chiudere con un perentorio “ciononostante, il mito di un Keynes socialista si è stato preservato e il suo pensiero ha continuato ad essere proposto come alternativa all’economia di mercato e all’ideologia propria del liberalismo. In realtà, la sua critica alla teoria neo-classica non ha nulla a che vedere con la critica marxista del modo di produzione capitalista; ciò perché la critica keynesiana non è stata volta al superamento della logica del profitto, ma è stata orientata a porre rimedio alle sue contraddizioni, solo attraverso una “macro-gestione tecnica” dell’economia. Troppo poco perché Keynes possa essere considerato un socialista; secondo i critici marxisti, la sua denuncia dei presunti malfunzionamenti del capitalismo “liberale” non gli ha consentito di proporre una strategia politica, economica e sociale con cui “salvare” la civiltà nel lungo periodo”.

La cartina al tornasole di come stessero davvero le cose tra socialisti e keynesiani è del resto rappresentata dal rapporto della sinistra storica con la classe media italiana. La DC ha infatti costruito il proprio successo politico proprio sulla creazione del benessere in una ampia classe media che potremmo definire come “trasversale” (usando le categorie marxiste), in quanto composta tanto da dipendenti privati e pubblici (dunque da proletari) quanto da piccoli imprenditori, artigiani e professionisti (dunque da soggetti che erano detentori di mezzi di produzione). I socialisti ortodossi e i comunisti invece – ragionando in termini marxisti e leninisti – dividevano la classe media in due categorie: i lavoratori dipendenti, che erano dei proletari da tutelare, e tutti gli altri che invece erano kulaki ai quali espropriare (a colpi di tasse) il capitale e i mezzi di produzione. La sinistra storica italiana ha dunque – per decenni – sostenuto e alimentato la divisione sociale tra la classe media “buona” da tutelare e quella “cattiva” da colpire, laddove la DC ha cercato sempre una sintesi nel benessere diffuso, mirando a trasformare gli ex proletari in piccoli borghesi.

Tangentopoli, come è noto, spazzava via DC e pentapartito. Il vuoto politico veniva però rapidamente occupato da Berlusconi che, essendo un uomo d’impresa, non comprendeva immediatamente che il successo dello scudo crociato non era fondato sull’anticomunismo in quanto tale, bensì su una abile disattivazione per via keynesiana delle derive marxiste della porzione “proletaria” del ceto medio. Berlusconi voleva diventare un Craxi o un Andreotti senza averne compreso fino in fondo la politica. Questo spiega perché lo stesso Berlusconi – cavalcando l’onda della caduta del muro di Berlino – si impelagava in una retorica liberale (del tutto estranea al sentire dell’ex democristiano di classe media) e anticomunista (sentimento invece ben radicato nei “kulaki” nazionali). Il tutto col risultato di aggravare la polarizzazione e la divisione nella classe media del paese, dunque – in sostanza – facendo, a differenza della DC, esattamente il gioco della sinistra ex comunista, che ovviamente non chiedeva di meglio per proseguire coi vecchi slogan, dunque accusando Berlusconi di essere un fascista e l’amico degli evasori-kulaki e – di conseguenza – il nemico giurato di chi aveva il cuore a sinistra.

Guardando tuttavia ai programmi del centrodestra del post-tangentopoli, si nota come – passando il tempo – Berlusconi, dopo un inizio dai toni assai “liberali”, si sia via via spostato verso politiche di stampo più democristiano. Col tempo, probabilmente, Berlusconi aveva intuito cosa la DC voleva essere e perché ha avuto successo. Il punto che mancava a Berlusconi – o che forse ha realizzato solo quando era tardi – era che la DC era stata in grado di “disattivare” i marxisti con le politiche keynesiane, perché lo stato, in passato, era libero di far due cose: svalutare la moneta e far emettere alla banca d’Italia moneta per acquistare i titoli del debito pubblico emessi dal tesoro. Il miracolo italiano indotto dal keynesianesimo non socialista della DC era stato infatti finanziato con debito pubblico monetizzato e sostenuto da svalutazioni competitive della lira al fine di rafforzare l’esportazione senza dover ricorrere alla compressione salariale per recuperare competitività. Dunque Berlusconi non si è accorto che – a partire dal divorzio tra Banca d’Italia e tesoro ma, soprattutto, con l’adesione dell’Italia all’Euro e al trattato di Maastricht – riproporre la politica keynesiana con cui la DC aveva reso benestanti così tanti italiani, creando una classe media “allargata e trasversale” che aveva lasciato in panchina per diversi decenni i comunisti, era diventato impossibile.

In quegli stessi anni, la sinistra che era stata comunista – pur accogliendo nel partito esponenti della DC (in particolare i dossettiani facenti capo a Prodi) – anche dopo la caduta del muro di Berlino era invece restata leninista, seguitando tetragona a perseguire l’ideale dell’ugualitarismo “al ribasso”. Laddove la DC aveva cercato di usare la spesa pubblica – finanziata col debito pubblico – per creare una sempre più ampia classe media (dunque con una spinta a migliorare il tenore di vita dei lavoratori dipendenti), la sinistra, anche dopo tangentopoli, continuava invece a concepire l’intervento pubblico essenzialmente come strumento – fondato sul prelievo fiscale – per “redistribuire” la ricchezza, dunque per rendere tutti uguali, ma al ribasso. In breve: mentre la DC voleva (ed era riuscita per decenni a) usare il debito pubblico per rendere borghese il proletario, la sinistra italiana ha sempre voluto (e vuole ancora oggi) usare le tasse per ridurre il borghese alla condizione di proletario.

La maniera in cui gli ex comunisti intendono l’uguaglianza è tuttavia, paradossalmente, quella che risultava più gradita ai nuovi padroni della globalizzazione: assai più del vecchio keynesianesimo democristiano. Questo spiega perché a “spingere” tangentopoli (ma soprattutto le riforme che sono seguite alla mattanza del pentapartito) ci siano stati interessi finanziari e imprenditoriali (anche stranieri) di vario tipo e genere. Anzi, spiega bene perché quegli stessi interessi avessero iniziato a “lavorare ai fianchi” il sistema democristiano ben prima di tangentopoli, a partire appunto dal divorzio tra bankitalia e Ministero del tesoro, che può considerarsi senza dubbio l’inizio della fine del keynesianesimo all’italiana. Può dunque essere il caso di fare una breve digressione sul tema.

Il libero mercato – in mancanza di correttivi adeguati – spinge naturalmente il lato dell’offerta verso le concentrazioni e l’oligopolio. E gli oligopolisti, non dovendo per definizione temere la concorrenza dei loro pari, finiscono per concepire la questione della produttività in termini di ricerca tecnologica e riduzione di costi. Dal canto suo, il sistema finanziario – che nel frattempo, anche in Italia, aveva visto la cancellazione della distinzione tra banche d’affari e banche a tutela del risparmio e del credito diffuso – non vedeva di buon occhio politiche espansive, in quanto potenzialmente inflattive, e per altro verso aveva tutto l’interesse a prestare danaro ai “solidi” oligopolisti piuttosto che non alla piccola borghesia imprenditoriale, meno remunerativa in termini di rendimento e meno affidabile in termini di solvibilità. Se dunque lo stato non poteva più iniettare ricchezza nell’economia usando il debito monetizzato, ecco che le banche potevano sostituirlo, ovviamente lucrandoci sopra. Ma, a differenza dello Stato che era stato disposto per ragioni politiche a “finanziare” ampiamente anche la piccola borghesia imprenditoriale, le banche (ormai tutte banche d’affari) avevano un chiaro interesse a prestare soldi esclusivamente alle imprese più “performanti”, ossia quelle grandi e strutturate. Per altro verso, se lo stato dismetteva le sue partecipazioni nelle grandi imprese pubbliche, ecco che le finanziarie di venture capital potevano sostituirlo, ma per fare utile. E, anche qui, investire soldi in grandi imprese in situazione di oligopolio era certamente un affare assai più lucrativo che non tutelare il risparmio e far credito alla piccola e media impresa. Infine, se lo stato non poteva più far debito pubblico “facile”, l’inflazione restava bassa e le imprese potevano comprimere i costi, soprattutto quello del lavoro. Una situazione che conveniva sia alle grandi imprese (che tagliavano i costi invece che fare ricerca e innovazione) sia alle banche (che potevano iniziare a fare credito al consumo anche ai lavoratori a basso reddito che non erano più in grado di risparmiare).

Questo significa, in sostanza, che tanto gli oligopolisti quanto le grandi banche d’affari e i grandi investitori istituzionali – tra le altre cose – erano (e sono) tutt’altro che contrari, da un lato, alla distruzione della piccola e media impresa (concorrenti fastidiosi e debitori meno affidabili) e, dall’altro, a un’economia a crescita moderata, sostenuta dal lavoro di una massa di proletari poco pagati e finanziata da un sistema creditizio che elargisce prestiti a tassi contenuti alle poche imprese di grandi dimensioni che in tal modo si spartiscono il mercato esercitando una posizione dominante collettiva. Ecco dunque spiegate le ragioni per cui tanto la finanza quanto la grande impresa sono state disposte a scendere a patti con gli eredi della nostra sinistra storica, ad esempio concedendo che alla massa degli ugualmente poveri – invece di un lavoro stabile e adeguatamente remunerato  – fosse concesso, ad integrazione di impieghi precari e poco pagati, un sussidio o qualche posto pubblico precarizzato.

Da parte sua, alla sinistra che era stata comunista, bastava rinunciare al dogma del monopolio pubblico dei fattori produttivi e i termini dell’accordo col grande capitale erano belli e pronti: riduzione complessiva del welfare pubblico e aumento della tassazione sulla classe media (anche su patrimonio e risparmio) con utilizzo delle risorse, da un lato, per fornire servizi gratuiti di assistenza solo ai cittadini in situazione di indigenza certificata e, dall’altro lato, per attuare politiche di incentivo sul lato dell’offerta di fatto accessibili solo per le grandi imprese e i grandi operatori finanziari e – infine –  concedendo dei sussidi assistenziali agli inoccupati e/o ai salariati sottopagati, con conservazione delle “vecchie” garanzie di stabilità e progressione salariale solo per il pubblico impiego, al prezzo – per il settore privato – di accettare una generalizzata compressione dei salari e una progressiva precarizzazione del lavoro (compensata appunto dai sussidi di stato).

Tra sinistra ex comunista, grandi oligopoli nazionali e stranieri e finanza internazionale si è insomma creata – a partire dagli anni novanta del secolo scorso – una convergenza di interessi nel senso di trasformare progressivamente l’Italia (ma il discorso vale anche per altri stati del sud Europa, come ad esempio Francia e Spagna) da una società del welfare diffuso in una società orizzontale di ugualmente poveri e sussidiati, sostenuta dall’influenza degli oligopoli e della finanza così come dal voto dei rentier così come dei poveri sussidiati, di quello dei dipendenti privati sindacalizzati e delle varie burocrazie e clientele pubbliche. Nel contesto di questo nuovo modello sociale, gli ex comunisti potevano infatti ritagliarsi il ruolo di elite burocratica e politica che gestisce il potere e le risorse pubbliche (dunque, grosso modo, il ruolo che avrebbero rivestito in un sistema di socialismo reale), lasciando tuttavia agli oligopoli privati sostenuti dalle banche e dagli investitori istituzionali (invece che alle imprese di stato) il compito di dare lavoro (poco pagato) ad una parte della popolazione attiva e di creare la ricchezza necessaria per consentire allo stato di distribuire ancora salari e posti pubblici e/o sussidi agli inoccupati. Il tutto garantendo la presenza costante nel paese di una grande massa di cittadini impoveriti e sussidiati e di dipendenti pubblici che, avendo un interesse alla continuità del “sistema”, sarebbero stati elettori assai fedeli di quella stessa sinistra che faceva favori ai loro padroni. E quando i poveri autoctoni hanno iniziato a scarseggiare (per ragioni demografiche), ecco che la soluzione per mantenere il sistema in piedi veniva immediatamente trovata dalla nuova sinistra nell’importazione dei poveri da altri paesi, mediante una politica dell’immigrazione (e – in prospettiva – della concessione della cittadinanza) a maglie a dir poco larghe.

Il vecchio comunismo socialista, a valle dello schianto del blocco sovietico, si è insomma evoluto in un neo-statalismo più mercantilista che marxista, nel senso che diversi principi tradizionali della vecchia sinistra ortodossa sono stati sacrificati dai post comunisti sull’altare dell’alleanza strategica con gli interessi degli oligopoli e la finanza. Questa è dunque l’essenza ultima dell’azione politica delle forze della neo-sinistra italiana (PD e M5S), ma che ispira anche – in Europa – la cosiddetta “grande coalizione” tra popolari e socialisti. Questa deriva del resto spiega bene anche perché l’ex PC (ora PD) manifesti di recente sempre più forti simpatie sia verso i democratici americani e professi una incondizionata adesione, per non dire aperta sudditanza, vero le politiche rigoriste e deflattive dell’UE a trazione tedesca. I post comunisti di casa nostra sono fatalmente attratti dal vincolo esterno dell’UE rigorista e deflattiva, in quanto vi scorgono – analogamente a quanto accadeva con l’URSS prima della caduta del muro – l’appiglio ideologico ideale per continuare la loro narrazione fondata sull’eterna lotta al kulako che impoverisce il proletario. Certo, tutto questo avviene al prezzo di consegnare il tenore di vita del proletario ai padroni delle ferriere e ai grandi banchieri. Però, tutto sommato, se quei padroni sono pochi, dare in pasto agli elettori di sinistra la rovina della piccola borghesia potrebbe bastare per evitare che la base elettorale del partito scenda al di sotto di un certo livello. Il resto lo fanno il deep state, l’informazione e la cultura “amiche” oltre naturalmente all’influenza economica di quegli stessi padroni. Sinora peraltro, lo schema ha funzionato molto bene, contando che il PD è da dieci anni che governa senza quasi mai aver vinto le elezioni.

Per giungere ad un simile risultato, come si diceva, la sinistra giallorossa ha accettato di sacrificare il tema del benessere diffuso dei cittadini in nome dell’ugualitarismo classista al ribasso, “finanziato” e sostenuto dalla pretesa maggiore efficienza, in termini aggregati, dal mercato oligopolistico a trazione finanziaria e dalle politiche deflattive e rigoriste imposte all’Italia dai paesi del nord Europa per mezzo del vincolo esterno dell’UE. La nuova sinistra ha smesso di promettere progresso economico al paese, riducendosi a garantire ai suoi elettori che – nella decrescita – almeno il loro vicino di casa non potrà avere qualcosa più loro (tutto questo, ovviamente, al prezzo di far accettare a quegli stessi elettori che i pochissimi padroni del vapore abbiano tantissimo). La deriva dalle “sorti progressive” di un tempo verso la decrescita felice con sollecitazione dell’invidia verso il kulako di oggi, insomma, è il destino cui vanno incontro gli eredi della tradizione del PCI così come gli ex contestatori del sistema a suon di vaffa. Un destino mesto e – visti i presupposti ideologici di partenza – ben poco esaltante. Non stupisce dunque che la “nuova sinistra” sia oggetto di critica anche “da sinistra”.

Di recente si sono moltiplicate infatti nel dibattito le voci che, dichiarandosi “di vera sinistra”, sostengono che la neo-sinistra piddo-grillina sarebbe niente meno che “neoliberista”, dunque omettendo di considerare che il fatto che la sinistra attuale di certo ha abbandonato alcuni dogmi marxisti, ma in compenso è restata classista (seppure restando legata alle classi ottocentesche, senza essere capace di usare l’analisi marxista per rileggere i rapporti di classe alla luce della situazione sociale attuale) e pure in certo modo è ancora leninista nel suo odio per la classe media, dunque che – in sostanza – è ancora “un po’ comunista”. Ma è proprio qui che emerge il tic gauchista più duro a morire (e che, come vedremo, rende velleitari i tentativi di criticare la sinistra da sinistra): l’incapacità di separare Marx (e la sua teoria sociale ed economica) da Lenin (e il sistema di socialismo reale), con conseguente difficoltà a ripensare Marx in modo non integralista, vale a dire riuscendo a mettere in discussione alcuni dei suoi aspetti.

Quello che i neo-gauchisti faticano a intuire è probabilmente che la nuova sinistra “ufficiale” – ossia PD e M5S – persegue in fin dei conti lo stesso fine ultimo di Marx (uguaglianza di un popolo fatto quasi solo di lavoratori dipendenti) per mezzo di una struttura sociale simile a quella che voleva lo stesso Lenin (elite ristretta che gestisce in autonomia e in modo centralizzato il potere politico ed economico), con la differenza però che – per la neo-sinistra in salsa europeista giallorossa – gli apparati politici e burocratici occupati dal partito spartiscono l’appartenenza alla cerchia della ristretta elite di potere con pochi grandi (oligo)capitalisti e con i padroni della moneta privata (dunque non rispettando il dogma marxista della proprietà pubblica dei mezzi di produzione). Siccome però lo stesso Marx sosteneva che la società comunista sarebbe sorta spontaneamente per effetto delle contraddizioni del capitalismo (mentre Lenin, con la dittatura del proletariato e il socialismo reale sovietico, intendeva solo dare un “aiutino” alla storia per velocizzare il processo dialettico), ecco che per un elettore medio di sinistra (che sia poco attento all’ortodossia ideologica, ma dotato della naturale invidia che spesso lo connota) è possibile leggere questa nuova fase come un passaggio intermedio (alternativo al socialismo reale ispirato al leninismo) nell’evoluzione del sistema capitalistico verso la società comunista dell’uguaglianza (al ribasso) che da sempre quel tipo di elettore vagheggia. Ed ecco spiegato il modo in cui la sinistra giallorossa – facendo leva in pratica solo sull’invidia sociale – riesce ad autoassolversi davanti a Marx, continuando ad apparire “autenticamente di sinistra” ai suoi elettori. Questa è del resto anche la ragione per cui i post comunisti del PD (così come i neo pauperisti del M5S) non hanno avuto problemi di sorta a mandare al macero il Keynesianesimo per sposare una specie di leninismo del mercato capace di sostenere al contempo gli oligopoli e le grandi banche, il rigore dei conti pubblici, la disoccupazione assistita, il reddito di cittadinanza e il mercantilismo globalista. Anzi, proprio la deriva antikeynesiana dei postcomunisti da quando sono arrivati al governo, rappresenta la conferma definitiva del fatto che il comunismo italiano non è mai stato keynesiano, ma – nella sua effettiva attuazione in prassi politica – profondamente leninista e sovietico (ancor più che marxista).

Chi invece critica la nuova sinistra da sinistra lo fa proponendo un “ritorno” al modello di sviluppo keynesiano, sul presupposto che quel modello sarebbe “autenticamente di sinistra”, perché corrisponde a quello pensato dai vecchi comunisti e socialisti italiani che hanno contribuito alla stesura della carta costituzionale. Il problema è che, a differenza della DC (e degli altri partiti che poi avrebbero costituito il “pentapartito”) che erano keynesiani, il socialismo tradizionale e il comunismo in Italia – come si è visto all’inizio di questo scritto – non sono mai stati keynesiani. Questo significa che i “neo socialisti costituzionali” di oggi si trovano costretti a proporre, spacciandola per autenticamente di sinistra, una costituzione economica (keynesiana) che i veri marxisti e socialisti dell’epoca (cui, si badi bene, questi nuovi “veri socialisti” vorrebbero ispirarsi) criticavano duramente proprio perché non la consideravano abbastanza socialista. Il che finisce per disorientare – inconsciamente – l’elettore medio di sinistra, per il quale essere di sinistra, proprio grazie alla lunga stagione del PCI, non può significare tornare alle politiche democristiane, ma semmai consiste nel considerare ancora il kulako come la sola causa di tutti i mali dei poveri, con la conseguenza che, per l’elettore medio che si riconosce nell’ideologia delle sinistra storica italiana, è difficile pensare che possa essere essere davvero “di sinistra” una qualunque proposta di politica economica che consente ai bottegai o agli idraulici di arricchirsi più degli operai.

Criticare la sinistra giallorossa “da sinistra”, nel nome della tradizione socialista e comunista, non porta dunque molto lontano, per il semplice fatto che i cittadini che mettono l’uguaglianza davanti alla crescita equilibrata della ricchezza (tratto assai comune a sinistra, sia nell’elettorato del vecchio PCI che in quello piddo-grillino cresciuto a pane e odio verso Berlusconi) si sono ormai quasi tutti naturalmente convertiti alle idee della “nuova” sinistra giallorossa, parte politica che sostiene con forza la retorica (tradizionale del comunismo italiano ma proseguita con l’antiberlusconismo) della lotta alle disuguaglianze mediante la disgregazione del benessere del ceto medio. I giallorossi, dunque, in sostanza cercano e trovano ancora i loro voti come i loro illustri predecessori, essenzialmente aizzando la massa degli ultimi contro i penultimi, ma lo fanno ora per favorire (oltre a sé stessi a livello politico) i pochissimi primi del grande capitale globalizzato. I nuovi “keynesiani socialisti” si sforzano invece di criticare la sinistra giallorossa sostenendo le stesse ricette democristiane che il socialismo tradizionale in passato non ha mai condiviso ideologicamente, ma anzi ha sempre attaccato. Critica che – dunque – è inevitabilmente destinata ad infrangersi contro la spessa coltre di invidia sociale che la sinistra ufficiale (comunista prima e antiberlusconiana poi) non ha mai smesso di creare nel paese dal dopoguerra ad oggi.

Tutto questo mi porta a concludere che, se qualcuno volesse proporre oggi in modo credibile il ritorno alle ricette dell’epoca d’oro del dopoguerra keynesiano, dovrebbe per prima cosa avere il coraggio di smarcarsi dall’eredità ideologica comunista e socialista, rifacendosi assai più a un De Gasperi e a un Mattei piuttosto che non, tanto per fare quale esempio illustre, a un Lelio Basso o a un Berlinguer. Ma i neogauchisti di casa nostra questo difficilmente potranno farlo, in sostanza perché sono ancora dei nostalgici, che – a livello profondo – non hanno ben metabolizzato la caduta dell’URSS, non accettando in particolare il dato storico per cui il socialismo reale sovietico è fallito perché modello economico meno efficiente, in termini di produzione di ricchezza aggregata, rispetto al mercato. Riconoscere questo, infatti, li avrebbe obbligati ad ammettere che la strada per l’attuazione del marxismo pensata in URSS (e risalente al bolscevismo leninista) non rappresenta più il modello cui un marxista moderno dovrebbe ispirarsi per far evolvere il capitalismo nella società comunista descritta da Marx. Questa resistenza inconscia a restare marxisti pur “lasciando Mosca” fa in modo che la maggior parte di chi critica la sinistra da sinistra non riesca a collocarsi politicamente: risulterà infatti non abbastanza “socialista” (nel senso non sufficientemente anti piccolo borghese) per la massa dei convertiti alla neo-sinistra piddo-grillina dell’invidia sociale, sarà ovviamente troppo marxista per i liberali ma – quel che è paggio – risulterà ancora troppo “comunista” per tutti i moderati (di centro) che, non essendo liberisti, sarebbero comunque a favore di politiche keynesiane volte a creare un benessere maggiore e diffuso. I nostalgici del socialismo postbellico (quello comunista e marxista), nella misura in cui parlano da Keynesiani ma usando come auctoritas dei padri costituenti socialisti e comunisti, si condannano dunque all’irrilevanza politica.

Dalla sostanziale sterilità delle critiche “da sinistra” alla nuova sinistra si deduce che quello che con ogni probabilità manca nel nostro panorama politico e sociale – come credibile antitesi dialettica del pensiero unico vertente sul dirigismo oligopolistico e mercantilista del nuovo centro-sinistra giallorosso – è un movimento keynesiano, che – senza cercare padri nobili o geniture ideologiche nella tradizione socialista e comunista del dopoguerra – metta semplicemente al centro del proprio programma delle politiche economiche espansive e anticicliche. Un movimento che, in altre parole, persegua – restando equidistante sotto il profilo ideologico tanto dal socialismo quanto dal neo-liberalismo classico – la creazione di un benessere diffuso e ben distribuito mediante lo stimolo alla domanda interna e la creazione di lavoro, evitando di cadere nella facile retorica della dekulakizzazione del ceto medio così come nella facile scappatoia dell’assistenzialismo strutturale come misura idonea per risolvere il problema della povertà indotta dalla carenza di lavoro. D’altro canto, questo movimento neo-keynesiano dovrebbe respingere con decisione una serie di concetti liberali che invece oggi vanno per la maggiore, quali l’austerità come virtù a prescindere, l’inoccupazione sussidiata e la estrema flessibilità del lavoro come valido strumento di soluzione del disagio sociale, il taglio della spesa pubblica come bene assoluto e l’inflazione come male assoluto. Sul versante dell’impiego pubblico, essere keynesiani vuol dire ammettere che assumere dipendenti pubblici (o investire in appalti pubblici) per fare cose utili è cosa buona, mentre non essere socialisti significa riconoscere d’altro canto che invece non è affatto cosa buona assumere persone che non vanno a fare cose utili né è cosa buona finanziare con danaro pubblico attività inutili. E si noti che mi sono riferito ad attività “utili” e non “necessarie”, per sottolineare che l’impiego di risorse pubbliche nell’economica non va ritenuto un male da ridurre al minimo, bensì – quando serve a far qualunque qualcosa che vada oltre il solo fatto di dotare di reddito spendibile una persona (per quello basta il reddito di cittadinanza, che è misura più socialista che keynesiana) – è comunque un arricchimento per il paese. Il debito pubblico è infatti ricchezza privata. Essere keynesiani ma non liberisti, infine, dovrebbe significare anche – contro i dogmi del capitalismo finanziario –  riconoscere che il credito e le banche devono avere anche la funzione di favorire il risparmio diffuso e l’incentivo a far credito alla piccola e media impresa territoriale, non rappresentando solo strumenti per la moltiplicazione del danaro e per l’investimento speculativo.

Si tratta peraltro di principi tutti ampiamente riconosciuti nella nostra Costituzione (che ha un impianto keynesiano, anche se questo assetto deriva in realtà dal compromesso tra liberali e comunisti, sotto la spinta del mondo cattolico) e che si pongono nel solco della dottrina sociale tradizionale della chiesa cattolica, ai quali potrebbero dunque prestare adesione sia elettori liberali moderati, sia di area cattolica. Per altro verso, si tratta di principi che non dovrebbero dispiacere a quegli elettori di sinistra, che hanno saputo superare il “trauma sovietico” e la retorica leninista fondata sull’invidia sociale verso il kulako.

Per tutti questi elettori il mercato può insomma ancora ben rappresentare la trave portante dell’economia nazionale, a patto che non si guardi con sfavore preconcetto – come invece predica la vulgata attuale del mainstream mercantilista della nuova sinistra europea – all’intervento pubblico per stimolare la domanda interna e la crescita della piccola e media impresa. Si badi bene, infatti, che anche nella società del mercantilismo oligopolista a trazione finanziaria vengono spesi soldi pubblici. E ne vengono spesi anzi parecchi, ma solo per alimentare le burocrazie e le clientele pubbliche e per incentivare le grandi imprese e banche private. Chi invece lavora nel privato (dipendente o kulako che sia), viene tagliato fuori dal circuito degli incentivi e, anzi, è chiamato a subire (sia fiscalmente che a livello di reddito) la forte deflazione artificialmente indotta dal meccanismo del rigore dei conti pubblici in presenza di una alta spesa pubblica di cui non può beneficiare. Un movimento neo keynesiano (non socialista) dovrebbe dunque proporsi come interprete della coscienza di classe di questa ampia e trasversale categoria di classi lavoratrice e produttrici oppresse dai percettori di rendite pubbliche e private. Che poi è quello che era riuscita a fare – più o meno consapevolmente, grazie al gioco delle correnti interne – la vecchia democrazia cristiana.

Certo, per portare avanti una linea politica di questo genere occorrono risorse (che non siano reperite nei redditi e nei risparmi del ceto medio lavoratore). Questo significa che, per attuare il paradigma keynesiano in un sistema di economia di mercato, diviene ineludibile sottrarre i decisori politici alla necessità di farsi prestare le risorse della finanza privata, che in cambio chiede incentivi alla produttività, strette fiscali mirate sui lavoratori, precariato e compressione salariale. Dunque, voler essere keynesiani oggi in Europa significa mettere sul tavolo il tema di un ritorno alla possibilità per le banche centrali di acquistare i titoli emessi dal tesoro e di emettere moneta per farlo, tornando ad agire come prestatori di ultima istanza. Inoltre, occorre anche affrontare la questione della restituzione ai governi nazionali della possibilità di svalutare competitivamente la moneta, invece di obbligarli – con un sistema di cambi fissi in aree economiche non omogenee – a svalutare il lavoro. Tutto questo porta inevitabilmente al “problema dei problemi”, rappresentato dal rapporto dell’Italia con l’Euro e con la costituzione economica del trattato UE.

Si tratta di un problema ormai ineludibile: la nostra costituzione economica è chiaramente keynesiana e dunque è ispirata a principi pressoché opposti rispetto a quella dei trattati fondamentali dell’UE. Questo significa che qualunque movimento che voglia oggi essere keynesiano ma non socialista deve dunque in certa misura essere anche sovranista (quanto meno sui temi di politica monetaria e sulla questione del controllo del tesoro sulla banca centrale). Quella del sovranismo in politica economica è infatti questione tutt’altro che ideologica, considerando che l’attuazione della nostra costituzione economica nazionale, in passato, ci ha resi ricchi ed ammirati nel mondo (tanto da giungere ad essere la quinta potenza economica mondiale), mentre – da quando abbiamo iniziato ad adeguarci alla costituzione economica impostaci dall’unione europea – ci siamo impoveriti progressivamente e, ormai, veniamo trattati dagli altri paesi dell’UE come uno stato mezzo fallito e come un popolo di incapaci e fannulloni. E la scusa della spesa pubblica eccessiva (con annessa retorica del “vivere al di sopra della proprie possibilità”) non regge di fronte alla constatazione che – prima dell’esplosione del debito da covid – il paese è stato in costante avanzo primario per due decenni e che, se il debito si allargava, era solo per pagare gli interessi su operazioni finanziarie (sbagliate) fatte dal Tesoro decenni addietro: interessi che, manco a dirlo, stanno arricchendo le grandi banche d’affari internazionali. In sostanza: siamo rimasti in debito per pagare interessi spropositati alle banche d’affari che ci avevano prestato soldi quando gli interessi erano alti e che, invece, noi dobbiamo restituire quando gli interessi sono bassi. Quello della spesa pubblica eccessiva è dunque un mito. Del resto, se fosse stato così, come si potrebbe spiegare il fatto che per decenni sono stati tagliati tutti i servizi pubblici, sono aumentate le imposte e il debito pubblico è comunque salito?

Dunque la verità è che gli stati del nord Europa è da decenni che ci legano mani e piedi – con regole unioniste di rigore di bilancio ritagliate per funzionare bene solo coi loro modelli economici – per poi poterci meglio accusare di non saper stare al loro passo ed obbligarci ad adottare misure di austerità che ci legano ancora di più. La cosa più grave non è peraltro la comprensibile volontà degli altri stati di perseguire il loro interessi nazionali a danno nostro, bensì il fatto che – qui da noi – tanto i liberal-liberisti all’amatriciana quanto gli ex comunisti e molti dei neo tribuni della plebe grillini (tutti folgorati sulla via di Bruxelles) si fanno in quattro per sostenere questa retorica anti-italiana, forse dimenticando che – quando quelle splendide regole unioniste non c’erano e dunque la piccola borghesia nazionale e le imprese di stato erano lasciate libere di fare “a modo nostro” – nel paese c’erano meno disuguaglianze e più ricchezza, tanto che erano gli stati del nord Europa a dover rincorrere noi.

Ma forse qualcosa si muove, per effetto dello scossone subito dal sistema per effetto del ciclone Covid. Se si presta attenzione alle fibrillazioni politiche seguite alla chiamata a Palazzo Chigi di Mario Draghi per guidare un governo di salvezza nazionale (e – soprattutto – a quelle attualmente in corso per il Quirinale), si comprende che in pentola sta bollendo qualcosa di grosso. Non credo che tutti gli attori politici del processo siano consapevoli di quel che sta accadendo, ma – per dirla con Hegel – la dialettica storica agisce spesso a prescindere dagli (e addirittura contro gli) intenti delle persone che di volta in volta la incarnano. Fatto sta che Mario Draghi è allievo di Federico Caffè, non è di certo né socialista né marxista, è vicino a certo mondo cattolico, non ha mai mostrato particolare simpatia per le politiche rigoriste dell’UE (dunque risultando inviso ai tedeschi), ma soprattutto a Rimini, l’estate dell’anno scorso, ha tenuto un discorso interessante (qui il mio commento). Inoltre – con le prossime elezioni politiche italiane e, ancora prima, con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica – assisteremo con ogni probabilità a uno spostamento verso destra (e verso una destra che include una forte componente sovranista) del baricentro politico delle istituzioni nazionali. Il che potrebbe favorire l’inizio di una stagione politica nel segno della discontinuità rispetto al decennio piddino prima e piddo-grillino dopo.

Contando allora che – nel frattempo – si svolgeranno anche elezioni politiche sia in Germania (con probabile vittoria dei falchi dell’austerità, che dovrebbero far cessare le attuali politiche monetarie espansive della BCE) sia Francia (in cui Macron è sempre più debole di fronte alla destra nazionalista e, in caso di cessazione della politica espansiva, si troverebbe a gestire un bilancio pubblico peggiore del nostro); ma contando anche sul fatto che è in atto da tempo un duro scontro a livello geopolitico tra Stati Uniti e Germania (sempre più vicina alla Cina e alla Russia); e contando infine sul fatto che gli Stati Uniti hanno adottato un poderoso pacchetto di stimoli economici monetari alla loro economia che andrà avanti qualche anno, mentre l’UE – sotto spinta della Germania e dei soliti “frugali” – sta già iniziando a mostrare i primi segni di voler cessare il quantitative easing post covid; tenendo conto di tutti questi fattori – dicevamo – il quadro geopolitico appare propizio per consentire un cambiamento di traiettoria in senso neo-keynesiano nella nostra politica economica nazionale. Stiamo dunque a vedere, perché viviamo tempi difficili ma anche interessanti e – forse – di svolta. Potrebbe essere infatti che questa volta la “crisi” sia vera, nel senso di corrispondere all’etimo greco della parola.