“Pillole” anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato

Una delle cose che mi hanno più colpito negativamente in questo anno di pandemia è stata la quasi più totale assenza – se si eccettua lo spot iniziale sull’igiene delle mani e quello sull’app Immuni – di campagne di informazione e prevenzione del Ministero della Salute attraverso il mezzo televisivo, e in particolare la mancanza di una comunicazione rivolta agli anziani, che, oltre a rappresentare la stragrande maggioranza delle vittime del COVID, sono persone che, in molti casi, si informano esclusivamente attraverso la televisione. Oltre a ciò, ho notato che vari temi rilevanti per la prevenzione del COVID non sono stati trattati tout court, neppure in trasmissioni giornalistiche e medico-scientifiche. In questo articolo affronterò, perciò, 10 fra le principali questioni che la gente a casa si è posta o trovata ad affrontare in questi mesi senza ricevere, a mio parere, delle risposte o delle indicazioni soddisfacenti.

In particolare, cercherò di fornire qui, nei limiti di una trattazione divulgativa ed al meglio delle conoscenze attuali disponibili, delle “pillole” di informazioni utili che purtroppo non sono mai state date da chi avrebbe dovuto farlo: (1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia? (2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19? (3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali? (4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19? (5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura scientifica? (6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19? (7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere? (8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a casa? (9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID? (10) I vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia?

Gli studi nella letteratura medica pubblicata in questo anno di pandemia riportano che i pazienti ammalati di COVID-19 possono presentare, come sintomi all’esordio: febbre, tosse secca, fame d’aria e affaticamento. Sono stati segnalati come possibili sintomi in pazienti infetti anche mal di gola, congestione nasale e naso che cola. Un numero significativo di pazienti (20%-60%) sembra avere una perdita dell’olfatto (nota anche come anosmia), che può essere il primo sintomo di presentazione [1].

Secondo quanto diffuso dai Centers for Diseases Control (CDC) di Atlanta, che negli Stati Uniti si occupano di epidemie e malattie emergenti, nei pazienti infetti sono stati segnalati anche brividi e tremore persistente, dolori muscolari, mal di testa, nonché cambiamenti nel senso del gusto. Un sintomo del contagio è talvolta la congiuntivite, per chi entra a contatto con il virus attraverso la mucosa degli occhi. Un altro disturbo che può emergere è la comparsa di vescicole sulla pelle, lesioni pruriginose e necrosi.

Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite virale. Ed in circa il 90% delle diagnosi di ricovero ospedaliero di pazienti italiani morti per COVID-19 nel 2020 sono menzionate o condizioni (ad es. polmonite, insufficienza respiratoria) o sintomi (ad es. febbre, affanno, tosse) riconducibili, per l’appunto, al SARS-CoV-2 [2]. Nei ricoverati in Cina nel gennaio 2020 (relativi a 552 ospedali del Paese), la febbre era presente nel 44% dei pazienti all’ammissione, il secondo sintomo più comune era la tosse (68%), mentre nausea e vomito (5%) e diarrea (3,8%) erano poco comuni [3].

Il COVID-19 è una malattia caratterizzata da tre fasi [4], la prima delle quali è una fase virale che dura 7-10 giorni a partire dalla prima manifestazione dei sintomi. In approssimativamente il 20% dei casi è seguita da un secondo stadio – quello infiammatorio – annunciato da marcatori pro-infiammatori (ferritina, proteina C reattiva, etc.) e caratterizzato dall’apparizione di infiltrati nei polmoni, che sono seguiti in alcuni casi dal calo del livello di ossigeno nel sangue (ipossemia), rivelabile tramite un comune saturimetro.

Quest’ultima terza fase – che si verifica solo in un piccolo sottoinsieme dei pazienti iniziali (circa il 5%) – è caratterizzata da un’iperinfiammazione, che porta a una cosiddetta “tempesta citochinica” (una reazione immunitaria sistemica con cui il sistema immunitario combatte i microrganismi patogeni e induce le cellule a produrre altre citochine), che causa la “Sindrome di Distress Respiratorio Acuto” (ARDS), patologia potenzialmente fatale per la quale i polmoni non sono in grado di funzionare correttamente.

Le tre fasi della malattia COVID-19. Come vedremo, è molto importante agire già sulla prima fase, sia attraverso una prevenzione fai-da-te con opportuni integratori sia con il supporto di terapie domiciliari adeguate somministrate dai medici di base o dalle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). Tutto ciò è ancora più determinante con la comparsa di varianti del SARS-CoV-2 più virulente.

Come spiega il prof. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, “la prima fase, quella asintomatica che dura da 3 a 5 giorni, è caratterizzata da un’alta carica virale, che aumenta ulteriormente con la comparsa dei sintomi. La malattia va quindi affrontata prima che scenda ai polmoni. Se si parte presto, di solito è possibile evitare il ricovero” [5]. È ovviamente fondamentale, allo scopo, avvertire ai primi sintomi il medico, cui spetta di indicare i farmaci da assumere e le dosi (alcuni possono avere effetti collaterali, specie se presi in concomitanza con altri).

Con la cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7), oggi predominante anche in Italia, la prima fase si è però ridotta a soli 2-3 giorni. Ciò suggerisce che il virus si replichi più velocemente dando meno tempo al nostro sistema immunitario per sviluppare gli anticorpi. Ma, soprattutto, secondo uno studio di Grind et al. [10], la variante inglese del SARS-CoV-2 risulta essere più letale rispetto alla variante originale, con un rischio di morte di ben il 67% maggiore, a conferma della maggior virulenza di questa variante. Come vedremo nella risposta all’ultima domanda, quest’ultimo è un effetto che potrebbe essere legato ai vaccini oggi usati.

2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19?

Sono ormai noti tre diversi fattori di rischio che caratterizzano un esito infausto nel COVID-19: (1) l’età, dato che ben l’85% delle vittime italiane hanno più di 70 anni (e circa il 95% delle vittime ha più di 60 anni); (2) la presenza di comorbidità (anche i pochi morti italiani sotto i 40 anni presentano, nella maggior parte dei casi, gravi patologie preesistenti: cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità [2]); (3) la carenza di vitamina D (nel sangue), come evidenziato da numerosi studi nel mondo [6, 7].

Si noti che, all’interno del 20% di pazienti la cui condizione, dopo la prima settimana di malattia COVID-19, può all’improvviso deteriorare si trovano anche persone che inizialmente avevano una sintomatologia lieve [4]. Di conseguenza risulta vantaggioso avere la capacità di distinguere – al di là della semplice valutazione dei fattori di rischio – i casi che avranno un andamento clinico non complicato da quelli che hanno maggiore probabilità di sviluppare distress respiratorio e che necessitano di terapie precoci.

Uno studio svolto da Cabanillas et al. [4] ha mostrato che, sebbene fra i malati di COVID-19 vi fossero differenze statisticamente significative fra i casi a basso rischio di morte e quelli a basso rischio, tuttavia non era possibile identificare uno o più fattori nella manifestazione clinica della malattia che potevano essere usati in modo affidabile per classificare i pazienti in gruppi a basso rischio o a ad alto rischio, in modo da riservare il ricovero ospedaliero soltanto a quelli del secondo gruppo e da curare a casa gli altri.

Infatti uno si aspetterebbe, intuitivamente, che la frequenza dei sintomi sia minore nei casi a basso rischio. Ma, contrariamente alle aspettative degli autori dello studio, la maggior parte dei casi seguiti – e rivelatisi a posteriori a basso rischio – presentavano, al momento della diagnosi, due o tre sintomi, il che indica come non potessero essere identificati come tali sulla base della sola sintomatologia.

Tuttavia, gli stessi autori hanno suggerito dei criteri nuovi sulla base dei quali i casi a basso rischio possono essere identificati e monitorati a casa, anche senza trattamento farmacologico (l’integrazione di vitamina D3 è comunque consigliabile anche in questi casi, dato l’elevato profilo di sicurezza nelle dosi consigliate dagli esperti a scopo preventivo: 4.000 UI al giorno, in particolare per anziani e persone “fragili” [8]), piuttosto che ricorrere all’ospedalizzazione o alla cura ambulatoriale del paziente COVID.

Il loro approccio è basato su una serie di parametri misurabili (Interleuchina-6, ferritina, D-dimero, proteina C reattiva, colesterolo HDL, linfopenia, saturazione dell’ossigeno) comprendenti essenzialmente marcatori infiammatori basati sul sangue. Questo metodo ha mostrato un’eccellente correlazione con l’esito clinico e costituisce un miglioramento rispetto al metodo del “Punteggio CALL” (che considera l’età, la presenza di comorbidità, il livello HDL e la linfopenia per assegnare un punteggio prognostico).

Infine, molte fonti di informazioni suggeriscono che in una grossa percentuale di casi la trasmissione virale avvenga in casa. Quando possibile, e in assenza di COVID hotel, gli altri contatti stretti sani dovrebbero lasciare il domicilio o quanto meno rimanere isolati in modo assai stretto. Ciò riduce la re-inoculazione del virus attraverso l’inspirazione di bioaerosol virale [9] in caso di successiva (o precedente) infezione di altri conviventi, cosa che può potenzialmente aumentare la gravità della malattia. Dunque, le persone che vivono in famiglia possono essere più a rischio rispetto a quelle che vivono da sole.

3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali?

Nella pandemia da COVID-19, in Italia a livello sanitario ci si è concentrati principalmente su due tipi di risposta: (1) il contenimento della diffusione dell’infezione e (2) la riduzione della mortalità dei pazienti ricoverati. Sebbene questi sforzi fossero ben giustificati, nella prima fase si sono trascurati del tutto i pazienti rimasti a casa [6], cui veniva negato l’accesso alle cure ambulatoriali del proprio medico curante. In seguito le cose non sono migliorate molto, poiché in quasi tutte le regioni le unità USCA nate allo scopo sono poche ed i loro medici sono spesso giovani con poca esperienza e iniziativa.

D’altra parte, l’attento studio dell’epidemiologia dei ricoverati suggerisce fortemente che si dovrebbe, al contrario, puntare moltissimo proprio sulle cure a domicilio dei pazienti COVID. Infatti, la maggior parte dei pazienti che arrivano ai Pronto soccorso degli ospedali con sintomi di COVID-19 non necessitano, inizialmente, di cure mediche avanzate: solo il 25% ha bisogno di ventilazione meccanica, supporto circolatorio avanzato o di terapia sostitutiva renale (per il filtraggio del sangue dei reni) [9].

Quindi, è ragionevole pensare che una buona parte – se non la maggior parte – dei ricoveri potrebbero essere tranquillamente evitati con una cura a casa dei pazienti come primo approccio, cosa che richiede il solo potenziamento dell’accesso ai farmaci ed all’ossigeno, nonché a un fondamentale dispositivo low-cost di monitoraggio come il pulsossimetro. Quest’ultimo, peraltro, potrebbe venire anche acquistato del tutto autonomamente dal paziente, se questi solo venisse meglio informato, anche con degli spot, della sua utilità, soprattutto nel rilevare forme silenti di scarsa ossigenazione del sangue (ipossemia) [11].

In altri Paesi, e anche in Italia, le cure domiciliari – per quei pochi medici che le hanno praticate e in più usando un protocollo di cura autogestito in deroga a quello stabilito dall’AIFA – hanno contribuito a trattare in sicurezza i pazienti con diversi gradi di complessità raggiungendo bassissimi tassi di ospedalizzazione e di mortalità se confrontati con quelli delle case di cura [12] oppure con quelli dei pazienti “trattati” con il protocollo dell’AIFA del 9/12/20, basato essenzialmente su un antipiretico, la tachipirina (dal prof. Remuzzi ritenuta inutile e controproducente) e sulla “vigile attesa” (come dire: aspetta e spera…).

Dunque le cure domiciliari, se fatte con protocolli opportuni, non solo (1) riducono gli accessi agli ospedali dei malati di COVID, ma anche – a cascata – (2) i ricoveri in terapia intensiva e (3) i morti, che sono i tre numeri che l’Italia non è riuscita a controllare, al punto da dover ricorrere a lockdown prolungati. Se ciò poteva forse essere tollerabile nella prima fase primaverile del 2020, quando si era del tutto impreparati, ciò non avrebbe dovuto ripetersi nell’autunno, quando c’erano tutto il tempo e il know-how necessari per spostare gran parte delle cure dalla fase tardiva ospedaliera a quella precoce domiciliare.

In Italia, alcuni medici di base di tutte le regioni si sono riuniti in un gruppo, il “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19”, che ha messo a punto e testato sui propri pazienti un protocollo di cura. È grazie a loro e all’efficacia dimostrata sul campo dal loro protocollo che l’Italia ha avuto un po’ meno morti di quelli che avrebbe potuto avere, dato che solo una percentuale del tutto irrisoria dei loro pazienti ha richiesto in seguito il ricovero. Tuttavia si è trattato di una goccia del mare, poiché tutti gli altri medici di base e quelli delle USCA si sono invece attenuti al protocollo ufficiale, quello dell’“aspetta e spera” [13].

Il Comitato in questione – che comprende anche uno stimato medico ospedaliero, l’oncologo Luigi Cavanna – è nato inizialmente sui social, dove è seguito da oltre 100.000 persone, e poi si è tramutato in un’associazione, la quale da tempo chiede che il proprio protocollo di cura basato sull’uso precoce di certi farmaci (quali idrossiclorochina, azitromicina, eparina, etc. e anche vitamina D) venga riconosciuto ufficialmente a seguito dell’efficacia mostrata dai numeri. Esso è in contatto con medici all’estero (Brasile, Stati Uniti, etc.) che hanno sperimentato con analogo successo protocolli molto simili.

4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19?

Sebbene ora siano disponibili opzioni di cura per i pazienti con malattia COVID grave che richiedono il ricovero in ospedale, è urgentemente necessaria l’adozione di interventi che possano essere somministrati precocemente a casa durante il corso dell’infezione per prevenire la progressione della malattia e le complicanze a lungo termine [14]. I trattamenti precoci per il COVID-19, tanto più se associati a un vaccino efficace, avrebbero implicazioni rilevanti per la capacità di porre fine a questa pandemia.

Il vantaggio di curare precocemente le infezioni da agenti patogeni (e ridurre così la probabilità di ricoveri e di esiti infausti) è noto da oltre un secolo, ma per ridurre i costi e gli effetti collaterali i farmaci sono tipicamente prescritti come trattamento terapeutico, il che significa solo dopo che si sono manifestati i sintomi della malattia [15]. Inoltre, in Italia molte persone sono morte di COVID perché anche quei 2-3 giorni o più per aspettare l’esito del tampone prima di dare dei farmaci ha fatto spesso la differenza.

I medici di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19” hanno avuto successo non solo perché hanno usato un buon protocollo di cura, ma anche perché non hanno aspettato l’esito di tamponi, bensì hanno dato subito i farmaci (come del resto suggerito pubblicamente anche dal prof. Remuzzi). Chi disponeva di un ecografo portatile l’ha usato per diagnosticare la polmonite interstiziale, e l’acquisto di tale strumentazione – che è poco costosa – per medici di base e USCA sarebbe stato un investimento del Governo molto più saggio rispetto a quello per i banchi di scuola.

Lo studio sulla risposta immunitaria al COVID-19 suggerisce che un intervento precoce potrebbe aiutare a bilanciare la risposta immunitaria efficace contro l’azione dannosa causata dal SARS-CoV-2, in modo da costruire una risposta forte per combattere il virus. Poiché i pazienti con malattia moderata non hanno ancora sviluppato danni agli organi terminali, i dati suggeriscono che l’inizio del decorso della malattia è il momento migliore per intervenire con varie opzioni di trattamento per prevenire gli squilibri immunitari, proteici e metabolici osservati con la malattia più grave degli stadi successivi [16].

È proprio la fase iniziale  del COVID-19, quella in cui appaiono i primi sintomi, ad essere quella più ottimale per trattare la malattia, prima che la risposta infiammatoria passi da utile a dannosa in quanto assolutamente eccessiva. In parole povere, questi risultati suggeriscono che l’intervento con vari integratori antivirali e immunomodulanti nelle prime fasi del COVID-19 (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.) potrebbe limitare la disfunzione nella risposta del sistema immunitario alla lotta contro il virus [16].

La cosa non è difficile da capire. Nella prima fase della malattia, assistiamo a una sorta di gara fra, da una parte, la replicazione del virus che si moltiplica creando sempre più unità di se stesso e, dall’altra, il sistema immunitario che deve produrre velocemente sempre più anticorpi per neutralizzare le particelle del virus. Gli integratori a loro volta agiscono, da una parte, rallentando la replicazione del virus (azione antivirale) e, dall’altra, favorendo la produzione di anticorpi (azione immunomodulante). Dunque, facilitano di molto il rapido prevalere dei “difensori” (gli anticorpi) rispetto agli “attaccanti” (le particelle virali).

La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è, inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste particelle virali. Alcuni integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di prevenzione della progressione della malattia verso stadi più gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle particelle di virus e aiutano le difese immunitarie.

L’importanza del favorire i nostri “difensori” naturali, del resto, è palese anche con gli attuali vaccini anti-COVID, che stimolano l’organismo umano a produrre anticorpi (e una memoria immunitaria) contro la famosa proteina “spike” (una delle 26 proteine del SARS-CoV-2), che è l’uncino con cui si lega alle nostre cellule. Infatti, quando una persona viene infettata da questo virus, la risposta del sistema immunitario di un vaccinato è rapida e imponente proprio poiché “l’esercito” di anticorpi è già pronto e l’organismo non è preso alla sprovvista, come invece avviene a un non vaccinato (e non immunizzato).

5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura?

La patogenesi del COVID-19 è altamente complessa e comporta la soppressione della risposta immunitaria innata e antivirale dell’ospite, l’induzione di stress ossidativo seguita da iperinfiammazione descritta come “tempesta di citochine”, che causa il danno polmonare acuto, fibrosi tissutale e polmonite [17]. Attualmente, ancora diversi farmaci sono in fase di valutazione per la loro efficacia, sicurezza e per la determinazione delle dosi per il COVID-19, ma ciò richiede molto tempo per la loro convalida.

Pertanto, esplorare la riproposizione di composti naturali contro il COVID-19 può fornire alternative sul breve termine, in quanto questi non presentano effetti collaterali e sono di basso costo e di facile reperibilità per il grande pubblico. Diversi nutraceutici hanno una comprovata capacità di potenziare il sistema immunitario e di agire come antivirali, antiossidanti e antinfiammatori. Questi includono la vitamina D, la vitamina C, la lattoferrina, lo zinco, la curcumina, i probiotici, la quercetina, etc.

Assumere alcuni di questi fitonutrienti sotto forma di integratore alimentare può dunque aiutare a rafforzare il sistema immunitario, rallentare la replicazione del virus, precludere la progressione della malattia allo stadio grave e sopprimere ulteriormente l’iperinfiammazione fornendo supporto sia profilattico che terapeutico contro il COVID-19, come sottolineato da uno studio [17] svolto da un gruppo di ricercatori indiani e pubblicato su una importante rivista di immunologia. Tra l’altro, potrebbe non essere un caso che l’India abbia avuto 10 volte meno morti COVID (per milione di abitanti) rispetto all’Italia.

La carenza di vitamina D è risultata essere, secondo svariati studi scientifici anche a livello di meta-analisi [5], un fattore di rischio indipendente per le forme gravi di COVID-19, per cui può essere usata sia in ambito preventivo (in dosi di 4.000 UI al giorno nella sua forma di vitamina D3), sia in ambito terapeutico (ad alte dosi). Pure la lattoferrina – una proteina che, come la vitamina D, ha proprietà antivirali, immunomodulanti e anti-infiammatorie – ha mostrato una notevole efficacia negli studi clinici [18, 19] nell’abbattere il rischio di forme gravi di COVID-19, e viene perciò assunta da tempo da moltissimi medici e farmacisti.

La vitamina C può potenzialmente proteggere dalle infezioni a causa del suo ruolo essenziale sulla salute immunitaria. Questa vitamina supporta la funzione di varie cellule immunitarie e migliora la loro capacità di proteggere dalle infezioni. È stato dimostrato che l’integrazione con Vitamina C riduce la durata e la gravità delle infezioni delle vie respiratorie superiori (la maggior parte delle quali si presume siano dovute a infezioni virali), compreso il comune raffreddore, che può essere prodotto da alcuni tipi di coronavirus con cui la nostra specie convive da tempo [20]. La dose raccomandata di Vitamina C varia da 1 a 3 g / giorno.

Lo zinco è un metallo essenziale coinvolto in una varietà di processi biologici grazie alla sua funzione di cofattore, molecola di segnalazione e elemento strutturale. Regola l’attività infiammatoria e ha funzioni antivirali e antiossidanti. Lo zinco è considerato il potenziale trattamento di supporto contro l’infezione da COVID-19 a causa dei suoi effetti antinfiammatori, antiossidanti e antivirali diretti. Quest’ultimo effetto è ottenuto riducendo l’attività dell’ACE-2, la proteina delle cellule a cui l’uncino (spike) del SARS-CoV-2 si lega per entrare nella cellula [17]. La dose raccomandata da vari studi varia da 20 a 92 mg / settimana.

La curcumina, che possiamo assumere aggiungendo un cucchiaino di curcuma al cibo, ha un ampio spettro di azioni biologiche, comprese attività antibatteriche, antivirali, antimicotiche, antiossidanti e antinfiammatorie [21]. Inoltre inibisce la produzione di citochine pro-infiammatorie nelle cellule, ed esercita un effetto antivirale su un’ampia gamma di virus, tra cui virus dell’influenza, adenovirus, epatite, virus del papilloma umano (HPV), virus dell’immunodeficienza umana (HIV), etc. [22]. Pertanto, la curcumina potrebbe essere un altro integratore interessante nella lotta alla patogenesi del COVID-19.

6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19?

Come per qualsiasi altro agente patogeno (batteri, funghi, etc.) o veleno, i virus sono di solito più pericolosi quando si presentano in quantità maggiori. Sola dosis venenum facit, ovvero “è la dose che fa il veleno”, dicevano i latini e il concetto si applica, mutatis mutandis, anche ai virus. “Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono risultare letali”, come ha spiegato molto bene il professore di chimica e genomica Joshua Rabinovitz.

Lo sappiamo bene nel caso dei batteri, in quanto è proprio la concentrazione di noti batteri indicatori di contaminazione fecale – l’Escherichia coli e gli enteroccchi intestinali – a definire se un’acqua costiera è balneabile o meno. Ad es., il valore limite dei primi è di 500 UFC (Unità Formanti Colonie) / 100 ml di acqua. Oltre questa soglia la balneazione è vietata, poiché alcuni ceppi di questi batteri possono causare nell’uomo infezioni a carico del tratto digerente, delle vie urinarie o di molte altre parti del corpo.

La cosiddetta “carica virale” è invece un’espressione numerica della quantità di virus in un dato volume di fluido corporeo (ad es. l’espettorato, il plasma sanguigno, etc.). Ogni virus ha la capacità di sopravvivere per un certo tempo nell’ambiente all’interno del fluido, ma è necessaria una carica virale minima per produrre l’infezione negli esseri umani: ad es. sono sufficienti circa 100 particelle virali nel caso del norovirus [23] – il virus a RNA responsabile della diarrea – e tale quantità minima è diversa da virus a virus.

Pertanto, per proteggersi dal COVID-19, occorre cercare di prevenire l’esposizione ad alte dosi di virus. In pratica, entrare in un palazzo di uffici in cui qualcuno è stato con il coronavirus non è così pericoloso come sedersi accanto a quella persona per un’ora in treno. Perciò, la durata breve dell’esposizione – così come il distanziamento sociale e una corretta igiene – aiutano a ridurre la dose di virus che possiamo inalare. Anche le mascherine FFP2 possono contribuire ad abbattere di molto la dose in questione.

L’esposizione ad alte dosi di SARS-CoV-2 è più probabile nelle interazioni ravvicinate fra le persone, come nel corso di riunioni o in bar affollati, o nel toccarsi il naso o la bocca dopo aver ricevuto quantità sostanziose di virus sulle mani. Le ricerche hanno mostrato che le interazioni interpersonali sono più pericolose in spazi chiusi e a breve distanza, con un’escalation nelle dosi che aumenta con il tempo di esposizione. Quest’ultimo rappresenta quindi una variabile molto interessante.

Più tempo si trascorre in un ambiente chiuso o semichiuso con aria infetta dal virus e maggiori sono le probabilità di infettarsi, a parità di altre condizioni. L’uso della mascherina, se questa è scelta e indossata correttamente, può abbattere quindi di molto la probabilità di contagio e, quando anche quest’ultimo si verificasse, la barriera costituita dalla mascherina permette di assorbire una carica virale inferiore.

Un esperimento effettuato dall’Istituto per le Malattie infettive americano (NIAD) [24] ha mostrato come il virus SARS-CoV-2 possa rimanere sospeso nell’aria, sotto forma di aerosol, fino a 3 ore. Tuttavia, la quantità di virus si dimezza nel giro di un’ora ed è bassa negli spazi aperti. Pertanto, la minaccia di contagio può arrivare soprattutto dai luoghi chiusi (o semi-chiusi) e affollati, con i mezzi di trasporto (metropolitane, autobus, tram, treni locali, etc.) a farla da padrone per l’elevata densità di persone associata.

Una volta capito il concetto di carica virale, si può comprendere facilmente perché il COVID-19 ha spesso sterminato intere famiglie: in Cina come in Italia e in altri Paesi sono state innumerevoli le famiglie i cui membri si sono tutti ammalati e sono morti uno dopo l’altro in casa (per la saturazione degli ospedali e per la mancanza dei cosiddetti “COVID hotel”). Infatti, il non usare le mascherine in famiglia e il non isolare subito i contagiati espone gli altri familiari a dosi di virus assai elevate, donde gli esiti infausti.

7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere?

Secondo uno studio anticipato dal The New England Journal of Medicine [25], la carica virale del SARS-CoV-2 rilevata nei pazienti COVID asintomatici era simile a quella dei sintomatici, il che dà un’idea quantitativa del potenziale di trasmissione dei soggetti asintomatici o minimamente sintomatici rispetto ai sintomatici. Dato che non possiamo sapere se siamo nei pressi di un soggetto asintomatico o paucisintomatico che potrebbe trasmetterci l’infezione, l’indossare una mascherina di protezione è fondamentale.

La mascherina non serve solo a impedire l’infezione, ma anche a ridurre la carica virale cui potremmo essere esposti. Oltre all’utilità nella protezione individuale, l’uso di massa delle mascherine può ridurre di molto la trasmissione dei virus respiratori. Ad es., secondo uno studio di Wu et al. [26], durante l’epidemia di SARS del 2003 l’abbattimento della trasmissione virale è stato addirittura del 70%. E, sempre grazie all’uso delle mascherine, nell’inverno 2002-2003 a Hong Kong l’influenza di fatto non circolò.

Esistono, come è noto, tre diversi tipi di mascherine di tipo medico: (1) chirurgiche (di forma rettangolare, sono inadatte a un filtraggio superiore al 65%, non essendo aderenti al viso); (2) respiratorie di tipo FFP2 (o N95), che filtrano almeno il 95% delle particelle di 0,6 micron o più grandi; (3) respiratorie di tipo FFP3 (o N99), che filtrano almeno il 99% delle particelle di 0,6 micron o più grandi. Queste ultime, però, se espellono l’aria della persona tramite una valvola non proteggono le altre persone (sono perciò dette “egoiste” e non devono mai essere usate per la protezione dal SARS-CoV-2).

Poiché le nuove varianti attecchiscono molto più facilmente, è senza dubbio raccomandabile l’utilizzo di mascherine FFP2, ma è importante accertarsi che siano prodotte in Italia e che forniscano una certificazione rilasciata da un ente del settore. Oggi le si possono trovare facilmente digitando nei siti di commercio elettronico “mascherine ffp2 italiane certificate”. Ovviamente, vanno poi indossate bene adattando l’archetto metallico alla forma del proprio naso. Una FFP2 è garantita per un uso di almeno 8 ore, ma se la usate solo negli ambienti chiusi (e all’esterno usate una chirurgica) di solito dura di più.

Le mascherine e le superfici possono essere sterilizzate in modo assai efficace con una soluzione idroalcolica al 70%, come illustrato in un mio articolo sull’argomento [3]. Gli ambienti, invece, possono essere sterilizzati facilmente usando lampade germicide a raggi UV-C, che vanno usate sempre solo in assoluta assenza di persone, poiché i raggi UV-C sono cancerogeni per la pelle e molto pericolosi per gli occhi. Per sterilizzare una grande stanza in 10 minuti, servono circa 5 W di UV-C [4]. Sconsiglio invece l’uso di ozonizzatori, perché potrebbero operare nella regione “tossica” per i polmoni.

Consiglio inoltre di avere a casa un saturimetro, detto anche pulsossimetro (tenetevi invece alla larga dalle app per misurare l’ossigeno). I modelli con il miglior rapporto qualità / prezzo sono quelli marchiati GIMA, usati anche dagli equipaggi delle ambulanze, mentre eviterei quelli cinesi low-cost, quasi del tutto inutili. Un normale livello di ossigeno nel sangue (SpO2), per polmoni sani, è compreso in genere fra il 95% ed il 100%. In generale, una lettura del saturimetro inferiore al 95% è considerata bassa. Pertanto, già al di sotto di questa soglia – specie se il trend è decrescente – andrebbe avvisato il medico.

Nel caso ci si dovesse mai trovare in una situazione come quella verificatasi nella primavera del 2020 – con gli ospedali pieni e le persone malate di COVID che si dovevano curare a casa da sole, ma il loro numero era tale che c’era scarsità di bombole di ossigeno – è bene sapere che, in assoluta mancanza di alternative, per una persona che ha difficoltà nel respirare si può usare, in associazione a una maschera per ossigenoterapia, un concentratore di ossigeno, che lo produce da solo per cui il gas non si esaurisce mai. Ormai ne esistono sul mercato vari modelli, ed i migliori producono 6-8 litri al minuto [4].

8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a casa?

Come in tutte le aree della medicina, anche per le cure domiciliari il grande studio clinico “randomizzato, controllato con placebo, a gruppi paralleli in pazienti appropriati a rischio con esiti significativi” rappresenta il gold standard teorico per raccomandare la terapia. Questi standard, però, non sono abbastanza rapidi o rispondenti alla pandemia COVID-19 [9], in quanto seguire i pazienti a casa per uno studio controllato rappresenta uno sforzo organizzativo ed economico molto grande da affrontare.

Se gli studi clinici controllati sui pazienti a casa non sono facili, è evidentemente necessario esaminare altre informazioni scientifiche relative all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci. Pertanto, nel contesto delle attuali conoscenze, data la gravità della malattia e la relativa disponibilità, costo e tossicità delle terapie, ogni medico e paziente devono fare una scelta: vigile attesa passiva in auto-quarantena o trattamento attivo più o meno “empirico” allo scopo di ridurre le probabilità ospedalizzazione e la morte [9], ad es. sfruttando il protocollo dei colleghi medici di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19”.

Quest’ultimo si basa principalmente sull’idrossiclorochina in associazione con l’azitromicina, nonché sull’eparina e altri farmaci, secondo lo schema molto dettagliato pubblicato in uno studio di McCoullogh et al. [9], coordinato dall’epidemiologo statunitense Harvey Risch. Uno studio condotto in Francia su pazienti ricoverati e positivi al SARS-CoV-2, e confermato da uno successivo più ampio, ha in effetti evidenziato che l’aggiunta di azitromicina all’idrossiclorochina ha determinato una riduzione della carica virale e un significativo miglioramento del decorso della patologia [29].

Algoritmo di trattamento per la malattia COVID-19 confermata in pazienti ambulatoriali a casa in quarantena automatica. BMI = indice di massa corporea; CKD = malattia renale cronica; CVD = malattia cardiovascolare; DM = diabete mellito; Dz = malattia; HCQ = idrossiclorochina; Mgt = gestione; O2 = ossigeno; Ox = ossimetria; Yr = anno. (fonte: McCoullogh et al. [9])

L’infezione da SARS-CoV-2, come molte altre, può essere più suscettibile di terapia nelle prime fasi del suo corso, ma probabilmente non risponde agli stessi trattamenti molto tardi nelle fasi ospedaliere e terminali della malattia. Perciò, è necessario iniziare il trattamento prima che i risultati di tamponi PCR siano noti. Inoltre, poiché il COVID-19 esprime un ampio spettro di malattie che progrediscono dall’infezione asintomatica a quella sintomatica fino alla fulminante sindrome da distress respiratorio e al cedimento del sistema multiorgano, è necessario personalizzare la terapia [9].

L’estensione a livello nazionale del protocollo adottato di recente dal Piemonte, mutuato dall’esperienza del“Comitato per le Cure Domiciliari” (e basato sull’impiego della vitamina D  della idrossiclorochina, etc.) – e che pare aver dato risultati notevoli, sebbene non pubblicati per le ragioni di cui sopra – sarebbe forse preferibile rispetto all’adozione di linee guida “teoriche” (come quelle proposte da Remuzzi [30], da Matteo Bassetti, etc.), che si basano su studi di farmaci testati in fasi di cura del COVID più avanzate, ma non ancora in fase precoce con studi controllati (tuttavia uno studio sull’approccio Remuzzi è in corso).

In ogni caso, perfino uno di questi ipotetici protocolli “sintetici”, teorici, non ancora validati in fase precoce rappresenterebbe, quasi certamente, un notevole “upgrade” rispetto alle indicazioni terapeutiche fornite a novembre dal Ministero della Salute nella circolare dal titolo “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” [31], basata sulle raccomandazioni dell’AIFA (e sospesa dal TAR del Lazio il 4/3/21). In base a tale documento, si possono usare antinfiammatori come paracetamolo (ad es. Tachipirina) o FANS per pazienti sintomatici, in particolare in caso di febbre, dolori articolari o muscolari.

Il testo dichiara, inoltre, che “l’uso dei corticosteroidi è raccomandato nei soggetti con malattia COVID-19 grave che necessitano di supplementazione di ossigeno”. Invece, l’eparina è indicata solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto. Al medico, infine, la circolare suggerisce di avere un approccio di “vigile attesa” con “misurazione periodica della saturazione dell’ossigeno” tramite il saturimetro. Nel documento si suggerisce poi di monitorare i parametri vitali tramite un punteggio: quello consigliato è il “Modified Early Warning Score”. Ma quanti medici di base hanno l’hanno davvero calcolato?

9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID?

Nel valutare i vaccini, in realtà, si usano due diversi tipi di indicatori – l’efficacia e l’efficienza – e poiché i media non spiegano mai la differenza fra i due, è facile che nei lettori si ingeneri una grande confusione, poiché non si può confrontare ad es. l’efficacia di un vaccino X con l’efficienza di un vaccino Y, poiché sarebbe un po’ come confrontare le mele con le pere: semplicemente non ha senso. Inoltre, quella che ci interessa da un punto di vista pratico è più l’efficienza che non l’efficacia.

La cosiddetta “efficacia” (efficacy) di un vaccino è la percentuale di riduzione dell’incidenza della malattia in un gruppo vaccinato rispetto a un gruppo non vaccinato in condizioni ottimali. La cosiddetta “efficienza” (effectiveness) del vaccino, invece, è la capacità del vaccino nel prevenire esiti di interesse per il “mondo reale” [2]. La seconda dà una valutazione meno rigorosa (anche perché non è ottenuta attraverso uno studio controllato randomizzato su un campione prescelto) ma più rilevante dal punto di vista sanitario.

In termini statistici, l’efficacia è un’unità di misura che definisce quanto un vaccino riduce il rischio di contrarre una malattia, come ad esempio il COVID-19. In pratica, nei trial si osserva quante persone vaccinate con il vaccino in esame hanno contratto il SARS-COV-2 e si compara questo dato con quante persone (che hanno ricevuto soltanto il placebo) si sono ammalate. La differenza risulta nella percentuale di efficacia dichiarata dai produttori (ad es. 95% per il Pfizer contro la variante originale del virus).

Zero efficacia significa che i vaccinati corrono lo stesso rischio delle persone che non hanno ricevuto il vaccino. Un’efficacia del 100% vuol dire che il rischio di contrarre la malattia è risultato azzerato. Solitamente, però, l’efficacia varia a seconda del Paese in cui viene effettuato lo studio. Ad esempio, le sperimentazioni dei vaccini anti-COVID in genere mostrano un’efficacia più bassa in Sudafrica o in Sud America, dove sono largamente presenti due varianti verosimilmente indotte dai vaccini stessi [32].

L’efficienza di un vaccino, invece, è la sua capacità di ridurre esiti spiacevoli per la persona o per il sistema sanitario, che nel caso del COVID-19 sono, essenzialmente tre: (1) l’ospedalizzazione in reparti a bassa intensità di cura; (2) il ricovero nel reparto di terapia intensiva; (3) la morte del paziente. Da questo punto di vista, ad esempio, il vaccino Pfizer con cui in Israele si è vaccinato oltre il 95% della popolazione ha mostrato di avere una capacità assai elevata di prevenire tutti e tre questi esiti.

Dunque, per poter confrontare i vari vaccini anti-COVID, in realtà conoscere la sola efficacia risultante dai trial (in cui il vaccino è somministrato a un campione di persone sane selezionate ad hoc) risulta utile fino a un certo punto. Una volta che il vaccino viene impiegato sul campo per la vaccinazione di massa, è l’efficienza il dato che dobbiamo valutare e confrontare, anche se la somministrazione a una popolazione non selezionata può introdurre dei bias, e quindi i dati ottenibili sono meno “solidi”.

Dai dati disponibili finora, i vaccini attualmente usati in Italia (Pfizer, Moderna e Astrazeneca) mostrano tutti una buona efficienza contro la variante inglese (B.1.1.7), che dunque non è resistente agli anticorpi neutralizzanti da essi indotti. Al contrario, la variante sudafricana (B.1.351) pone maggiori problemi, non tanto per i vaccini a mRNA (Pfizer e Moderna), quanto per Astrazeneca, i cui anticorpi neutralizzanti hanno mostrato un’attività molto bassa contro questa variante, un serio segnale di allarme sui problemi che i virus resistenti possono porre nel prossimo futuro [33].

10) I vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

La sicurezza di un vaccino dipende dai suoi effetti collaterali. Questi possono essere divisi, essenzialmente, in tre diversi tipi: (1) effetti a breve termine (minuti, ore, pochi giorni), (2) effetti a medio termine (settimane, mesi), e (3) effetti a lungo termine (anni). In un vaccino normale vengono studiati tutti e tre i tipi di effetti, ma nel caso dei vaccini anti-COVID – sviluppati frettolosamente per uso “in emergenza”: (a) gli effetti a lungo termine non sono stati studiati; (b) si tratta, fondamentalmente, di vaccini “leaky” (vedi  [32]), il che può comportare una serie di conseguenze imprevedibili sul medio termine.

Ma vediamo le cose più in dettaglio. Gli effetti a breve termine dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio in Italia (Pfizer, Moderna, Astrazeneca) non pongono particolare motivo di preoccupazione, se non forse per le donne incinte, per chi avesse un’infezione COVID in corso (altra circostanza non testata nei trial, per cui potrebbe essere prudente realizzare un test antigenico prima del vaccino), e – verosimilmente – per la popolazione più giovane. Infatti, come ora vedremo, il rapporto rischi/benefici sembra invertirsi al di sotto di una certa età, sebbene non esistano dati diretti sull’argomento.

Grazie al database USA degli effetti avversi (VAERS), l’ing. A. Tsiang ha stimato [34], in modo semplice ed elegante, che le morti per milione di dosi somministrate associate ai vaccini Pfizer + Moderna sono state circa 100 volte maggiori di quelle segnalate per la vaccinazione antinfluenzale 2019-20 (vedi l’Appendice qui sotto). In pratica, le morti imputabili a questi due vaccini anti-COVID sono pochissime: solo 23 per milione di dosi (in ottimo accordo con i 21,2 e 28,3 morti/milione segnalati, rispettivamente, per Pfizer e Astrazeneca nel database del Regno Unito (MHRA) [35]. Ciò significa che il rischio di morire per il vaccino uguaglia quello di morire per COVID-19 per i ragazzi di circa 25 anni (vedi Appendice).

Il rischio di morire per una dose di vaccino anti-COVID posto nella giusta prospettiva. Anche considerando un numero di dosi ricevute di vaccino anti-COVID pari a 2 o 3, si tratta comunque di un rischio di morte statisticamente molto basso rispetto ad altri cui siamo esposti comunemente nel corso della nostra vita. (fonte degli altri rischi: U.S. National Safety Council – Center for Health Statistics)

Per quanto riguarda invece gli effetti a medio termine dei vaccini anti-COVID in commercio, attualmente non si conosce la loro incidenza (ad es. quella di complicazioni tromboemboliche o di eventuali risposte infiammatorie che portino a condizioni autoimmuni) a molte settimane dalla dose ricevuta (quando tali eventi vengono più difficilmente inseriti nei database degli affetti avversi) e tanto meno conosciamo gli effetti di tali vaccini quando l’immunità tende a svanire, verosimilmente dopo molti mesi. Inoltre, prima o poi potrebbero emergere nuove varianti del virus che “bypasseranno” del tutto i vaccini attuali e/o saranno più virulente e pericolose per la popolazione, come ho illustrato con vari esempi storici qui [32].

Il virologo e grande esperto di vaccini Geert Vanden Bossche (che ha lavorato per OMS, FDA, CDC, GAVI, Bill e Melinda Gates Foundation, etc.) è assai preoccupato: fare una vaccinazione di massa a pandemia in corso, con vaccini “non sterilizzanti” (come quelli ora usati [32]) ha un’altra importante conseguenza: la soppressione temporanea del baluardo contro questo virus costituito dall’immunità naturale “innata”, cosa assai problematica (specie fra i più giovani), poiché prima o poi la pressione evolutiva esercitata dai vaccini può selezionare ceppi mutanti di SARS-CoV-2 resistenti ai vaccini – come sta già accadendo con la resistenza agli antibiotici – rendendo addirittura controproducente l’immunità artificiale indotta dagli attuali vaccini, che è solo “proteina spike-specifica” [36, 37].

Infine, normalmente il processo per approvare un nuovo vaccino richiede un decennio, così da poter escludere effetti a lungo termine. La durata troppo breve degli studi fatti per ottenere le autorizzazioni “in emergenza” dalle autorità regolatorie (FDA, EMA, etc.) – la FDA ad es. richiede solo 2 mesi di dati raccolti – non consente una stima realistica degli effetti tardivi. Ad esempio, per i vaccini a mRNA (mai usati prima!) non è stato studiato l’impatto sulla fertilità e l’eventuale trasmissione alla progenie di mutazioni dannose e, per quelli a vettore virale, l’eventuale cancerogenesi. Non a caso, a chi fa il vaccino anti-COVID in Italia viene fatto firmare un modulo di consenso informato che nell’allegato  recita “non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza”.

In conclusione, poiché i vaccini devono essere somministrati solo se i benefici superano i rischi, in considerazione: (1) di quanto fin qui illustrato, (2) del fatto che i vaccini “leaky” non producono immunità di gregge, e (3) tenendo conto del fatto che circa il 96% dei morti per COVID in Italia sono costituiti da over 60 [38] (più alcuni individui fragili), a mio avviso si dovrebbe vaccinare solo la popolazione a rischio – appunto, over 60 e persone “fragili” di ogni classe di età (ad es. immunodepressi, etc.), come del resto avviene da sempre per la vaccinazione contro i virus dell’influenza – senza far correre alla popolazione più giovane anche i rischi sul medio e lungo termine, oggi del tutto imprevedibili per dei vaccini sperimentali.

APPENDICE – Stima della mortalità legata ai vaccini anti-COVID negli USA

L’ing. A. Tsiang dell’Environmental Health Trust (EHS) statunitense, ispirato da un articolo apparso sulla testata The Epoch Times [39], ha stimato i tassi di mortalità legati ai due vaccini anti-COVID usati negli USA (Pfizer e Moderna) tramite un attento confronto, possibile grazie al database pubblico VAERS, con i tassi di mortalità riscontrati nella vaccinazione antinfluenzale 2019-20, che sono risultati essere di circa 100 volte più bassi. Infatti, se le morti segnalate come affetti avversi dei vaccini anti-COVID fossero per la maggior parte casuali, logicamente dovrebbero essere simili (in percentuale sulle dosi somministrate) a quelle segnalate per l’influenza, e non due ordini di grandezza più grandi. Ma ecco quanto ha trovato.

Poiché i morti negli USA segnalati al VAERS nella campagna antinfluenzale 2019-2020 sono stati circa 45 su 170 milioni di vaccinati, l’incidenza è stata dello 0,000026%, pari a circa 0,26 morti per milione di dosi. Viceversa, poiché i morti segnalati in relazione ai vaccini anti-COVID negli USA sono stati, dal 14 dicembre 2020 al 19 febbraio 2021 (circa 2 mesi), 966 su 41.977.401 dosi somministrate, l’incidenza è stata dello 0,0023%, pari a circa 23,0 casi per milione di dosi. Dunque, i morti in eccesso prodotti dai 2 vaccini anti-COVID Pfizer + Moderna sono stimabili in (23,0 – 0,26 =) 23 morti per milione di dosi somministrate. Siamo quindi ora in grado di stimare il rapporto rischi-benefici per le varie classi di età.

Si noti che il tasso di mortalità da infezione COVID negli USA è stato, secondo i CDC di Atlanta, dello 0,003% per la fascia di età 0-19 anni, e dello 0,02% per la fascia di età 20-49 anni. Quindi il rapporto rischi-benefici nel fare questi due vaccini sembra essere maggiore solo per le persone di età, verosimilmente, maggiori di circa 25 anni. Per le persone più giovani di (all’incirca) questa età, il rischio di morire per il vaccino o per il COVID-19 sembra essere dunque praticamente equivalente, e ciò dovrebbe essere un aspetto da valutare con attenzione in una seria politica di salute pubblica, anche in considerazione del fatto che poco o nulla si sa sui possibili effetti a medio o a lungo termine dei vaccini a mRNA (mai usati prima sull’uomo).

Vorrei sottolineare che questo risultato si può considerare molto “solido”, poiché:

  1. La platea dei vaccinati per l’antinfluenzale è composta per lo più da anziani, quindi in realtà se si facessero le correzioni per età il rapporto in questione (100 x) risulterebbe ancora più grande.
  2. Entrambe le vaccinazioni sono state fatte a una platea di persone vastissima (decine di milioni di persone), perciò l’errore statistico risulta essere del tutto ininfluente.
  3. Vi è un ottimo accordo con i dati ottenuti per il Regno Unito dal database MHRA [35] e con quelli ottenibili, sia pure indirettamente, per l’Italia (ciò sarà mostrato in un futuro articolo).
  4. Secondo l’ultimo rapporto dell’AIFA, il numero di segnalazioni (per 100.000 dosi) degli effetti avversi dei vaccini anti-COVID appare essere maggiore per le classi di età più giovani [40].

Riferimenti bibliografici

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[8]  Isaia G., D’Avolio A., e altri 155 medici italiani, appello promosso dall’Accademia di Medicina di Torino, “Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze”, Medico e paziente, 3 dicembre 2020.

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[13]  Ferro A., “Ecco la terapia italiana anti-Covid che il Governo non prende in considerazione”, Il Giornale, 10 febbraio 2021.

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[16]  Su Y. et al., “Multi-Omics Resolves a Sharp Disease-State Shift between Mild and Moderate COVID-19”, Cell, Dicembre 2020.

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[19]  Li Q. et al., “Early transmission dynamics in Wuhan, China, of novel coronavirus–infected pneumonia”, New England Journal of Medicine, 2020.

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[21]  Catanzaro M. et al., “Immunomodulators inspired by nature: a review on curcumin and Echinacea”, Molecules, 2018.

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[23]  Robilotti, E. et al., “Norovirus”, Clinical Microbiology Reviews, 2015.

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[25]  Zou L. et al., “SARS-CoV-2 Viral Load in Upper Respiratory Specimens of Infected Patients”, Letter, The New England Journal of Medicine, Marzo 2020.

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[27]  Menichella M., “Come sterilizzare e ‘riciclare’ una mascherina”, Esperimentanda, 2020.

[28]  Cicala L., “Coronavirus – Concentratori di ossigeno”, Theremino, 2020.

[29]  Gautret P. et al., “Hydroxychloroquine and azithromycin as a treatment of COVID-19: results of an open-label non-randomized clinical trial”, Int. J. Antimicrob. Agents, 2020.

[30]  Perico N. et al., “A recurrent question from a primary care physician: How should I treat my COVID-19 patients at home?”, Clinical and Medical Investigations, Novembre 2020.

[31]  Direzione Generale della Programmazione sanitaria, “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2”, Portale web del Ministero della Salute, 30 novembre 2020.

[32]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un future pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[33]  Moore J.P., “Approaches for Optimal Use of Different COVID-19 Vaccines Issues of Viral Variants and Vaccine Efficacy”, JAMA, 4 marzo 2021.

[34]  Tsiang A. (Environmental Health Trust, USA), “200X Higher Overall Deaths after COVID-19 vs. Flu vaccines”, Comunicazione tramite mailing list, 11 marzo 2021.

[35]  Ricolfi L., Analisi dei dati del database MHRA degli effetti avversi nel Regno Unito (per un articolo in preparazione), Comunicazione personale, 19 marzo 2021.

[36]  Vanden Bossche G., “Mass Vaccination in a Pandemic – Benefits versus Risks”, Intervista effettuata dal Dr. Philip McMillan, YouTube, 6 marzo 2021.

[37]  Vanden Bossche G., “Public Health Emergency of International Concern”, appello indirizzato alle principali Autorità sanitarie di tutto il mondo, Agenzia Stampa Italia, 2020.

[38]  Menichella M., “Perché la vaccinazione degli anziani va maneggiata con cura: un’analisi per scenari”, Fondazione David Hume, 4 febbraio 2021.

[39]  Farber C., “Adverse incident reports show 966 deaths following vaccination for COVID-19”, The Epoch Times, Febbraio 2021.

[40]  Agenzia Italiana del Farmaco, “Secondo Rapporto sulla sorveglianza dei vaccini COVID-19 (27/12/2020 – 26/2/2021)”, Sito web dell’AIFA, 2020.

 




Quer pasticciaccio brutto de AstraZeneca

Mentre milioni di cittadini europei, spaventati dalle notizie sui decessi avvenuti dopo la somministrazione del vaccino AstraZeneca, si interrogano sui rischi della vaccinazione, le autorità sanitarie nazionali ed europee aspirano all’impossibile: rassicurare senza fornire i dati completi.

In questo articolo proverò a dire come vede la situazione un sociologo abituato a lavorare con i dati, ma prima di qualsiasi cosa devo fare una premessa. Oggi nel mondo una discussione aperta e disinibita su vantaggi e rischi dei vaccini è possibile solo in una manciata di paesi, e precisamente nei paesi che, avendo sostanzialmente estirpato il virus, sono in grado di scegliere fra avviare e non avviare una vaccinazione di massa. In Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, sembra che, finora, sia prevalsa la scelta di vaccinare molto poco, non sappiamo se per aspettare di vedere come andranno le cose altrove, o per il timore che proprio la vaccinazione di massa favorisca la formazione di nuove varianti, più trasmissibili e/o più pericolose.

La nostra situazione, in Italia e nella maggior parte dei paesi europei, è del tutto diversa. Noi abbiamo scelto di mitigare l’epidemia, non di sradicare il virus. E avendo scoperto che non siamo in grado né di convivere con il virus, né di sradicarlo, ci siamo trovati di fronte ad un’unica alternativa: quella di avviare una campagna di vaccinazioni di massa in piena pandemia, sperando che basti a sconfiggere il virus, e non provochi guai ancora maggiori. Quindi è normale che politici ed autorità sanitarie, non avendo (o non volendo considerare) le alternative, facciano tutto il possibile per convincerci a vaccinarci, e a farlo con qualsiasi vaccino già autorizzato. Ed è altrettanto normale, ancorché profondamente anti-scientifico, che ogni portatore di dubbi sia visto come disertore, o sabotatore della campagna vaccinale.

Ecco perché è difficile, in questa contingenza, parlare del caso AstraZeneca in modo veramente libero. Ci proverò lo stesso, a partire dalla mia professione, che è quella di leggere i dati con freddezza, senza parteggiare per un’ipotesi contro un’altra.

Riassumo la questione: i casi di decesso dopo una vaccinazione (non necessariamente mediante AstraZeneca) sono o non sono attribuibili al vaccino?

La prima risposta, incontrovertibile, è che una parte dei decessi sono sicuramente non dovuti al vaccino. Ogni giorno in Italia muoiono quasi 2000 persone, di cui circa 1700 per cause diverse dal Covid. Se vaccinassimo un italiano su 10 (è più o meno quel che abbiamo fatto finora), e i vaccinati fossero scelti a caso, osserveremmo circa 170 decessi al giorno fra le persone vaccinate, ed è del tutto logico immaginare che, per puro caso, alcune delle morti che vi sarebbero state comunque avvengano a ridosso del giorno di vaccinazione, e vengano classificate come sospetti effetti del vaccino. E poiché i vaccinati non sono scelti a caso, ma sono prevalentemente vecchi e soggetti fragili, è perfettamente ragionevole attendersi che il numero di decessi per cause indipendenti dal vaccino sia ancora maggiore.

Ed eccoci al punto cruciale: come si fa a sostenere che una parte dei morti dopo la vaccinazione sia morta a causa della vaccinazione? O, ancora più analiticamente, come si fa a sostenere che i (pochi) decessi avvenuti a seguito di determinati eventi avversi (eventi tromboembolici, ad esempio) siano stati causati dal vaccino?

Qui le strade sono due. La strada del medico è lo studio clinico dei singoli casi, anche mediante autopsia. La strada dello statistico è l’analisi dei dati. Se ci sono dati a sufficienza, e se non vengono secretati, si può valutare se in una certa classe di casi (ad esempio le morti per eventi tromboembolici) la frequenza dei decessi fra i vaccinati sia superiore a quella che ci si può aspettare per i non vaccinati a parità di condizioni (ossia per una popolazione che ha la medesima composizione per genere, età, condizioni di salute, eccetera).

Un’analisi di questo tipo, se condotta rigorosamente e con onestà intellettuale, può fornire una risposta al nostro interrogativo iniziale. Risposta che può essere di molti tipi, alcuni rassicuranti altri meno. Può emergere che i decessi dei vaccinati sono di più, e che l’eccesso non è attribuibile a fluttuazioni casuali. Ma può anche emergere che la differenza è imputabile al caso, o non è casuale ma è così piccola da poter essere trascurata. L’esito dell’analisi statistica, in altre parole, può aiutare le autorità nei loro sforzi di rassicurazione, oppure può far emergere verità preoccupanti, che minano la fiducia della popolazione nei vaccini, e costringono quindi le autorità a frenare o rimodulare la campagna vaccinale, magari puntando su altri vaccini.

Insomma: fornire i dati, e fornirli completi, è un’opportunità ma è anche un rischio. Può restituire fiducia alla gente, ma anche legare le mani alle autorità.

Ma qual è la strada finora seguita?

Dipende dai paesi. Ci sono paesi in cui alcune informazioni minime (insufficienti, ma utili) sono note. Per esempio sappiamo che nei primi due mesi della campagna vaccinale il sistema di sorveglianza britannico (basato sulle segnalazioni spontanee, mediante la cosiddetta “yellow card”) ha registrato 227 decessi nei vaccinati con Pfizer, e 275 nei vaccinati con AstraZeneca, e che il tasso di decessi rispetto alle segnalazioni è un po’ maggiore con AstraZeneca. Inoltre, tutti i decessi sono suddivisi fra centinaia di categorie estremamente analitiche, che permettono di conoscere qual è il tipo di evento (ad esempio trombosi) che ha preceduto il decesso.

In Italia, ad oggi, sappiamo molto poco. A quel che ho potuto vedere, il sistema di sorveglianza dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) segnala nei primi due mesi 40 decessi su 4 milioni di vaccinazioni, ma non indica neppure se sono decessi Pfizer o AstraZeneca, né a quale evento avverso è associato ogni singolo decesso. In compenso il rapporto AIFA, non diversamente dall’omologo britannico, è ossessivamente costellato di affermazioni che tendono ad escludere qualsiasi nesso di causa-effetto fra vaccinazione e sospette reazioni avverse.

Che fare?

Le strade sono solo due: continuare nella pratica di non rendere pubblici tutti i dati disponibili su reazioni avverse ed effetti collaterali, così alimentando la diffidenza del pubblico, le perplessità degli scettici, la propaganda No Vax. Oppure mettere a disposizione i dati, tutti i dati. Un tracciato minimo, ma già sufficiente a consentire analisi statistiche accurate, potrebbe includere, per ogni segnalazione: data di vaccinazione, tipo di reazione avversa, data dell’evento avverso, genere, età, tipo di vaccino, lotto, dose (prima o seconda), comune in cui è avvenuta la somministrazione.

L’ideale sarebbe avere queste 9 semplici informazioni (vedi tabella) per ogni soggetto per cui è stata segnalata una reazione avversa, ma sarebbe già un buon risultato averle per il piccolo sottoinsieme dei decessi, o per quello degli eventi tromboembolici. E’ difficile pensare che AIFA non disponga di questo tipo di dati, e sarebbe inquietante scoprire che non è disposta a condividerli.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 marzo 2021




Terza Repubblica o colonia del nord Europa?

I partiti italiani. Parte terza

Dopo aver trattato per sommi capi della storia della prima repubblica e dopo aver analizzato nascita e crisi della seconda repubblica, giungiamo finalmente alla terza e ultima parte di questo lavoro, in cui mi occuperò dello scenario politico nazionale attuale, ossia della fase che – concludendo il travaglio della seconda repubblica iniziato con il governo Monti – dovrebbe verosimilmente aprire una nuova importante stagione politica nazionale.

Populismo e sovranismo come prime reazioni politicamente organizzate degli esclusi dall’agenda UE.

Come si era già accennato nella seconda parte di questo lavoro, due sono state le forze politiche nazionali che negli ultimi anni hanno incarnato l’opposizione all’agenda mercantilista (da alcuni definita neo-liberista) dell’UE, attuata dal centro sinistra a trazione PD: la Lega e il Movimento 5 stelle. Si tratta tuttavia di due forze politiche differenti per genesi e interessi di riferimento. Il che peraltro spiega l’evoluzione di linea politica che ciascuno dei due movimenti ha avuto durante la lunga stagione del centro-sinistra europeista.

La Lega – come si è accennato – esisteva da decenni, già dalla fine della prima repubblica, come movimento inizialmente connotato da un forte radicamento territoriale ed identitario nelle regioni del nord Italia: regioni in cui – come è noto – è molto alta la percentuale di soggetti che appartengono proprio al quel ceto medio di commercianti, operai ed impiegati benestanti, artigiani e piccoli imprenditori, il cui benessere le politiche mercantiliste che piacciono all’UE mirano specificamente a disgregare. Non dovrebbe dunque stupire che la parte del ceto medio allargato che votava il centrodestra, e in particolare una parte degli elettori che una volta erano berlusconiani, si siano progressivamente spostati – a partire dalla “grande depressione montiana” inaugurata nel 2011 – verso il movimento leghista. Altrettanto ha fatto una certa porzione dell’elettorato di sinistra, rappresentato dai lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (dunque quelli meno sindacalizzati), che rappresentano la vittima – forse non designata, ma certamente inevitabile – dei modelli economici e sociali che l’UE (e dunque il centrosinistra a guida PD) stava imponendo al paese. E’ tuttavia bene ricordare sin d’ora che nella Lega convivono due anime: quella industriale manifatturiera del nordest e, ma in minor proporzione, anche del nord ovest (e che non è in via di principio sfavorevole a una integrazione europea, in quanto è riuscita a inserirsi nella filiera produttiva tedesca o a farsi finanziare da capitali francesi) e quella meno “nordista” e – in generale – più legata al mondo del commercio, dell’artigianato e delle libere professioni, assai più dipendente dalla domanda interna e, di conseguenza, assai meno europeista.

Questa è la ragione per cui la Lega – scegliendo di restare all’opposizione (a differenza di Forza Italia) sin dall’inizio della lunga fase politica del rigore deflattivo inaugurata da Monti, ma soprattutto decidendo di abbandonare la sua tradizionale identità “nordista” e secessionista – ha gradualmente assunto il ruolo di principale forza anti-europeista (ma sarebbe meglio dire “anti-unionista”) non tanto per precisa scelta ideologica, ma in quanto ha finito per raccogliere i consensi (e dunque rappresentare gli interessi) di una vasta porzione del ceto medio allargato (non più solo del nord del paese) che le politiche del nuovo centro sinistra tendono a ricacciare nel proletariato da sussidiare o, almeno, a collocare fuori dall’area del benessere di cui godeva in passato. Sono stati dunque i “nuovi leghisti” del centro e del sud (insieme ad una parte dei vecchi leghisti del nord) a spostare il baricentro della Lega verso posizioni euroscettiche.

L’altro movimento di protesta contro “il sistema” – ossia il Movimento 5 stelle – appare invece focalizzato sugli interessi di parecchi tra quelli che, già prima di Monti, non se la passavano per niente bene, ma che la crisi e le politiche del rigore montiano hanno portato in “avanzato stato di riproletarizzazione”. Questo significa che il Movimento 5 stelle – quanto meno nella sua fase dei “vaffa” – incarnava una protesta, da un lato, più estrema nelle forme, ma per altro verso decisamente meno omogenea, sotto il profilo degli interessi di classe economica, rispetto a quella della Lega. Nei sostenitori del movimento sono infatti confluite alcune componenti dell’elettorato della sinistra estrema (in particolare quelle deluse dalla svolta europeista e mercantilista del PD ma che non si riconoscevano nel comunismo ortodosso di tradizione marxista), sia alcuni anarchici e sia – soprattutto – tutta quella vasta platea di soggetti, ideologicamente neutrali, che però – per effetto delle crisi economiche degli ultimi anni, aggravate dalle ricette deflattive del rigore europeo – hanno finito, specie nel meridione del paese ma anche nelle grandi aree urbane del centro-nord, a dover “campare” di lavoricchi precari (spesso para dipendenti precarizzati con partita IVA) se non di espedienti. In breve: se la Lega “denordizzata” si preoccupava degli interessi di quelli che temevano di essere i futuri esclusi dal benessere, il M5S nasceva per rappresentare quelli che esclusi lo erano già.

Entrambi i movimenti – Lega e Movimento 5 stelle – sono comunque cresciuti nei rispettivi consensi perché si opponevano alle politiche rigoriste e deflattive della “sinistra europeista” a guida PD, ma la Lega captava la protesta e il consenso delle categorie produttive e dei lavoratori del settore privato che chiedevano in sostanza di poter continuare a lavorare per tornare a far crescere il loro benessere (così come di chi voleva garantirsi pensioni proporzionate ai contributi versati e agli anni di lavoro effettuati), laddove il M5s riscuoteva consensi in categorie che – per migliorare la propria situazione – potevano avere interesse anche solo a percepire sussidi (o posti) pubblici per continuare a campare.

Questa differenza – che si traduce anche in una diversa distribuzione geografica dei relativi elettori: centro nord leghista e sud e isole a cinque stelle – è fondamentale per comprendere l’evoluzione successiva dello scenario politico. Si noti infatti che una fetta non trascurabile dell’elettorato del movimento 5 stelle, anche nella fase di protesta antieuropeista, era rappresentato proprio da quelle categorie di cittadini che – nel sistema tedesco ispirato al modello Hartz – sono destinatari di sussidi pubblici. Questo spiega bene del resto perché i grillini abbiano trovato con la Lega uno dei pochi punti di convergenza (e, per converso, di frizione col PD) sul tema delle politiche migratorie: i migranti economici sono infatti dei diretti concorrenti – specie in alcune aree geografiche del paese – degli elettori grillini proprio sul mercato (oltre che del lavoro, anche) dei sussidi pubblici ai bisognosi.

La differente composizione tra l’elettorato leghista e quello grillino rappresenta peraltro anche la ragione per cui – dopo la tornata elettorale che mandava in minoranza il blocco europeista e vedeva un sensibile successo del Movimento 5 stelle, seguito a distanza dalla Lega – il governo gialloverde riusciva a produrre solo i decreti sicurezza (unica misura realmente condivisa a livello ideologico), la flat tax e quota cento (in quota Lega) e il reddito di cittadinanza (in quota cinque stelle), prima di finire travolto dai conflitti tra i due partiti, peraltro innescati delle abili manovre messe in campo, al momento della formazione del governo, da quelle parti del deep state da sempre favorevoli al blocco europeista e al PD. Merita infatti di essere segnalato che il Presidente Mattarella, a suo tempo eletto dal blocco europeista (specie grazie ad un Matteo Renzi, allora segretario del PD, assai impegnato a favore della sua elezione) soprattutto per assicurare una continuità agli indirizzi politici della presidenza Napolitano, mostrava un deciso, e secondo alcuni irrituale, interventismo nella formazione del governo gialloverde: dapprima il Presidente della Repubblica si rifiutava di accettare una lista di ministri in cui era stato inserito – in quota Lega – un soggetto che era oggettivamente dotato di tutti i requisiti “tecnici” per rivestire l’incarico come Paolo Savona (escluso per il solo fatto di aver manifestato in passato posizioni euroscettiche, dunque per una ragione esclusivamente politica), per poi fare in modo che MEF e ministero degli esteri fossero occupati da due ministri “tecnici” che, oltre a non provenire dalle fila dei partiti della maggioranza di governo, per collocazione e percorso politico potevano essere annoverati tra gli europeisti. E qui c’è davvero poco da replicare a chi stigmatizza l’operato di Sergio Mattarella: un organo che, per costituzione, è privo di ogni responsabilità politica, eccede chiaramente le proprie prerogative nella misura in cui pretende di superare il parlamento per dare un indirizzo politico al governo nazionale. Il vulnus costituzionale c’è stato ed è pure stato assai grave. Ovviamente tutto è avvenuto nell’assordante silenzio di giuristi e mass media.

Oltre che poco in linea con la costituzione, peraltro, si è trattato di un intervento gravido di conseguenze politiche (il che peraltro – secondo alcuni commentatori – era esattamente quel che l’intervento in questione mirava a ottenere). L’inserimento in posizioni chiave di questi due ministri – insieme al successivo doppiogiochismo del premier Conte sui dossier europei, in relazione alle quali prendeva decisioni non aderenti all’indirizzo politico parlamentare – avrebbe infatti rappresentato un fattore decisivo per mettere in crisi il governo gialloverde, entrato in fibrillazione per il fatto che, alle elezioni europee del 2019, la Lega faceva il pieno di voti, accreditandosi dunque come prima forza del paese a livello di consensi. Una simile situazione, secondo le liturgie della politica, avrebbe dovuto portare a un ampio rimpasto di governo, con aumento del “peso” – in termini di ministri e sottosegretari – della Lega rispetto all’allora alleato di governo.

Sennonché l’esperienza di governo gialloverde aveva con ogni probabilità convinto i vertici politici della Lega del fatto che la componente pentastellata della maggioranza – con la sponda dei già citati due ministri tecnici “europeisti” e a causa dell’ormai conclamata ambiguità del Presidente del Consiglio su alcuni dossier europei, peraltro ampiamente sostenuta dal Quirinale – difficilmente avrebbe consentito l’adozione di una linea politica che andasse al cuore del problema italiano che, come dovrebbe essere ormai chiaro a chi legge, per la Lega è rappresentato dal conflitto tra il tradizionale modello di sviluppo keynesiano espansivo del nostro paese (che trova chiaro riscontro nella carta costituzionale nazionale) e l’assetto mercantilista e rigorista del modello economico dell’UE (per come definito da TUE, TFUE e nei regolamenti in materia di moneta unica e aiuti di stato nonché in quelli che regolano il settore creditizio). Questo spiega perché la Lega, invece che spingere per un immediato rimpasto, tentava di forzare la mano, alla ricerca di elezioni anticipate, togliendo l’appoggio parlamentare al primo governo Conte. E qui finisce quella che possiamo definire “storia politica”. Il resto è attualità, di cui parleremo qui appresso.

Premessa: i diversi livelli del conflitto sotteso all’attuale fase politica.

Per comprendere la situazione politica attuale è il caso di fare un po’ di analisi marxista (o, per chi preferisce, hegeliana), senza tuttavia la pretesa (né invero l’auspicio) di essere marxisti anche nelle soluzioni. Il travaglio della seconda repubblica ha infine fatto emergere le due nuove classi economiche e sociali in conflitto (o – per chi preferisce Hegel – la tesi e l’antitesi). E si tratta di un conflitto articolato su più livelli: economico, giuridico e sociale (per questo la sintesi – se mai arriverà – sarà comunque difficile).

A livello economico il discorso dovrebbe essere ben chiaro per chi ha letto le prime due parti di questo scritto: lo scontro è tra il modello keynesiano (fondato su politiche anti cicliche di spesa pubblica espansiva tendente alla piena occupazione e allo stimolo della domanda interna) e il mercantilismo secondo il modello delle riforme Hartz (politiche pro cicliche deflattive e di controllo dei prezzi, con disincentivo della domanda interna e delle dinamiche salariarli, accompagnate da una concentrazione degli interventi pubblici in incentivi alla produttività e all’export con contestuale sussidio diretto – sempre con risorse pubbliche – alle sacche di disoccupazione e povertà che l’adozione del modello in questione inevitabilmente genera).

Questo conflitto tra modelli economici si traduce tuttavia –nel nostro ordinamento – in un conflitto giuridico tra l’assetto costituzionale del ’48 (chiaramente di stampo keynesiano) e i principi (altrettanto chiaramente mercantilisti) che stanno invece alla base dei trattati unionisti di Lisbona e Maastricht, così come dei vari regolamenti in tema di moneta unica, di aiuti agli stati e di mercato finanziario e bancario. Il conflitto, si badi bene, sorge proprio con la creazione della “nuova” Unione Europea (che rappresenta il risultato della ristrutturazione dell’architettura europea seguita alla caduta del blocco sovietico), per aggravarsi ulteriormente con la successiva adozione della moneta unica sotto il controllo dalla BCE. La precedente struttura della CEE secondo il trattato di Roma  – in quanto semplice area di libero scambio e di libera circolazione – era infatti ideologicamente più neutrale, consentendo ancora ai singoli stati membri di adottare i modelli di sviluppo economico che preferivano.

Sul piano sociale, infine, il conflitto economico si risolve nel nostro paese in una forte pressione politica sul ceto medio allargato, tesa a polarizzarlo e, dunque, a spezzarlo: da una parte il ceto medio che potremmo definire “produttivo” (professionisti, artigiani, commercianti al dettaglio e piccole e medie imprese) che – per non scomparire – finisce per sostenere le agende più Keynesiane insieme ai lavoratori dipendenti del settore privato e – dall’altra parte – l’apparentemente paradossale alleanza tra i rentier, la grande finanza e la grande impresa, per un verso, e i variamente diseredati, il ceto medio a più alto reddito, l’impiego pubblico, che hanno un preciso interesse ad appoggiare le forze politiche che propongono modelli mercantilisti e produttivisti, ma anche più assistenzialisti. Lavoro produttivo (ogni tipo e forma di lavoro che contribuisce ad una attività il cui risultato soddisfa una domanda effettiva di beni o servizi) contro rendita (ogni tipo e forma di rendita, incluso il relativo “indotto”) potrebbe dunque essere il modo più semplice – ma anche in certa misura semplicistico – per definire lo scenario attuale sotto il profilo del conflitto sociale. Si tratta di uno scenario semplificato, in quanto la situazione è complicata dal fatto che vi è una parte del mondo produttivo – rappresentato dalle imprese piccole e medie, specie del nord est del paese, che sono integrate nelle filiere produttive della mitteleuropa – che in realtà ha interessi convergenti, quanto meno in termini di integrazione europea, con quelli delle categorie improduttive e del grande capitale.

Inutile dire che una situazione sociale ed economica tanto intricata sta generando uno scenario politico assai complesso e, quel che più conta, molto difficile da ricomporre in una sintesi efficace. Ma vediamo finalmente di capire cosa sta succedendo ai giorni nostri.

La (ri)collocazione del movimento cinque stelle: dai “vaffa” grillini a gamba mancante della dottrina Hartz all’italiana.

Al termine dell’esperienza del primo governo Conte, il Movimento 5 stelle, essenzialmente per non correre il rischio di perdere – con elezioni anticipate – il ruolo di prima forza politica in parlamento, sceglieva di allearsi con il suo arcinemico del giorno prima, rappresentato dal PD e dalle altre forze europeiste, creando il paradosso di una maggioranza “giallorossa” a sostegno di un esecutivo appoggiato dal centro sinistra, ma guidato dal medesimo Presidente del Consiglio che aveva retto il governo precedente, che esprimeva un programma in antitesi con quello del PD. La cosa non deve però stupire, giacché Conte – anche nel primo mandato – aveva in realtà, con la sponda del Quirinale e contro l’indirizzo politico dalla sua maggioranza parlamentare, portato avanti un’agenda politica che potremmo definire “cripto-europeista”. Dunque il secondo Conte – inteso come Presidente del Consiglio – è solo il primo Conte che può finalmente agire alla luce del sole nel portare avanti l’agenda europeista (dunque franco-tedesca), in piena continuità rispetto agli esecutivi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.

Le ragioni del favore mostrato sin da subito dall’UE per l’alleanza tra PD e Movimento cinque stelle non dovrebbero  dunque essere difficili da comprendere per chi ha capito i termini dello scontro politico e sociale attualmente in corso in Europa: la maggioranza giallorossa, sotto il profilo della rappresentanza politica, esprime infatti alla perfezione l’alleanza tra gli esponenti delle categorie sociali che stanno ai due estremi del modello Hartz: grande capitale, deep state e impiego pubblico, in quota PD, e neo-proletariato interessato al sussidio pubblico (o al massimo al “posto” pubblico) in quota M5S. Poco conta dunque che il M5S si sia poi spaccato sull’appoggio al governo Draghi, giacché la linea politica che entrambe le anime del movimento rappresenta, seppure in diverso modo e con differenti sfumature di “vaffa”, è appunto il lato assistenziale della dottrina Hartz. Il M5S – anche se scisso o diviso in diversi gruppi parlamentari – tenderà dunque d’ora innanzi a collocarsi nello stesso blocco del PD e dei partiti europeisti più radicali. Un segno evidente in tal senso è il tentativo di Grillo di riconfigurare il movimento affidandolo alla guida dello stesso Conte, ossia a chi era stato il garante dell’alleanza di governo con il PD.

Il gruppuscolo degli ultraeuropeisti

In parlamento vi sono ormai da qualche tempo dei piccoli partiti (Azione, +Europa, Leu) che, di fatto, rappresentano le truppe di complemento della prosecuzione dell’asse tra PD e M5S. Si tratta infatti a ben vedere – sotto il profilo della linea politica – di altrettanti correnti del PD, in quanto ne condividono l’europeismo ad oltranza, pur declinandolo secondo differenti sensibilità: ad esempio abbiamo l’impostazione radical liberal (in linea con la radical left americana) per il partitino di Emma Bonino e anche per Leu, che trovano terreno comune col PD – ritagliandosi uno spazio di agibilità politica – puntando sui noti temi sociali e civili del liberalismo più estremo (gender, cancel culture, individualismo spinto etc.).

Il partito di Calenda è invece assai più interessante, non tanto per quel che dice (proponendo in sostanza una nozione di politica come di buona amministrazione), quanto per il fatto che – in fin dei conti – è il primo partito che ammette di non avere una sua visione politica: la “grande” politica delle scelte di fondo, per Calenda e soci, la fa infatti già l’UE, laddove alla politica nazionale resterebbe in definitiva solo il compito di amministrare bene lo stato nel rispetto di linee programmatiche già decise altrove. Il movimento in questione – non so quanto consapevolmente – è insomma il vero paradigma di quel che potrebbero essere i partiti italiani di centro sinistra: una sorta di versione più efficiente (e meno ispirata a logiche clientelari) del PD, dunque partiti che si occupano di gestire al meglio la colonia italiana nei limiti delle direttive di Bruxelles. Ovviamente – per ragioni intuibili – tutti questi movimenti resteranno per sempre Legati a doppio filo allo schieramento del PD.

Le due anime del carroccio.

La Lega è l’unico partito in senso proprio che è restato sulla scena politica nazionale, essendosi tutti quanti gli altri movimenti politici trasformati o in piccoli o grandi comitati elettorali o in comitati di gestione di piccole o grandi clientele politiche. Il movimento leghista, oltre ad essere ancora presente e capillarmente articolato sul territorio in vere e proprie sezioni, è infatti dotato di una organizzata gerarchia interna ed applica una ferrea disciplina di partito. Gli aderenti si dividono tra semplici sostenitori (che non hanno obblighi di collaborare all’attività del partito ma non possono ambire a cariche o candidature) e veri e propri tesserati (che devono invece fare attività sul territorio e possono in cambio ambire a incarichi politici). Si tratta insomma – quanto a struttura e organizzazione – di un partito di stampo “sovietico”, nel senso che è modellato sulla falsa riga del vecchio PCI degli anni della cortina di ferro. Solo un partito con queste caratteristiche poteva del resto superare pressoché indenne il micidiale colpo assestatogli dalla magistratura con l’azzeramento della sua capacità finanziaria in seguito alla nota vicenda dei 49 milioni di euro.

Proprio questa ferrea disciplina e organizzazione interna rende meno evidenti le dinamiche delle “correnti” interne. Come si è accennato, infatti, nella Lega convivono due componenti, una più antica (e più “nordista”) e una più recente (e più “nazionale”). La componente nordista (facente capo alla vecchia guardia che si identifica in personaggi come Giorgetti e Calderoli e che trova in Zaia il riferimento di nordest) è meno decisamente euroscettica e si mostra più incline ad accettare politiche liberali (nel senso di mercantiliste), trovando i propri consensi sia in un certo mondo finanziario e imprenditoriale lombardo sia nelle imprese medie e piccole del triveneto (ma anche lombarde e piemontesi) che si trovano integrate nelle filiere produttive del nord Europa, così come nelle imprese che si sono internazionalizzate a livello di capitale e in quelle che si reggono principalmente sull’export. La componente più “nazionale” del partito (che si identifica grosso modo nella linea dei “nuovi” economisti della Lega, Borghi e Bagnai) è più giovane anagraficamente ed esprime posizioni nettamente euro critiche nonché una linea di politica economica neo-keynesiana, rappresentando il riferimento politico – oltre che dei lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese e di una parte dell’impiego pubblico – soprattutto del piccolo commercio e dell’artigianato, del mondo delle professioni e, infine, della piccola e media impresa meno internazionalizzata e di quella che ancora si rivolge principalmente al mercato interno.

Si noti anche – perché è importante per capire il senso di alcune mosse della Lega – che gli interessi delle categorie che si riconoscono nella corrente più nordista della Lega sono in certa parte assimilabili a quelli di parte dell’elettorato della “prima” Forza Italia (quella che qualche anno fa rastrellava consensi quasi plebiscitari in Lombardia), di guisa che proprio l’esistenza di questa corrente rappresenta in realtà il collante che tiene in vita l’alleanza tra Forza Italia e la Lega. E’ infatti verosimile supporre che – a una ricollocazione di Forza Italia in un polo di centro con Italia viva a sua volta alleato con il centrosinistra (ripetendo lo schema europeo delle “grandi coalizioni” tra popolari e socialisti) – implicherebbe la conservazione dei voti di Forza Italia nel sud del paese, ma al grave prezzo di una probabile emorragia di voti nordisti verso la Lega: voti che finirebbero per essere intercettati dalla corrente nordista del carroccio. La maggiore importanza acquisita dalla corrente nord-leghista in seguito all’appoggio della Lega al governo Draghi consente dunque in realtà alla Lega di consolidare – nei confronti di Forza Italia – una posizione di vantaggio politico tale da consentirgli di esercitare meglio la sua leadership nel centrodestra.

Matteo Salvini è sinora riuscito a interpretare assai bene il (non facile) ruolo di mediatore tra le due anime del carroccio, sia utilizzando le sue abilità tattiche per far crescere i consensi del partito senza scontentare oltremodo nessuna delle due correnti, sia focalizzando l’elettorato sulla sua figura di “capitano” del movimento. Sino a quando infatti i consensi si manterranno elevati e dipenderanno in ampia misura dal gradimento verso la persona dell’attuale segretario, infatti, nessuna delle due correnti del partito avrà alcun interesse a mettere in dubbio la leadership di Salvini nel partito. Personalizzare il consenso è insomma uno dei modi in cui Salvini riesce a mantenere l’equilibrio nel suo partito. Quel che tuttavia è ancora più interessante notare è come la Lega – in questa fase storica – stia tentando di realizzare al suo interno proprio la sintesi politica che dovrebbe anche realizzare la politica nazionale nel suo complesso, vale a dire coniugare il rilancio della domanda interna nel contesto di un ritorno a politiche economiche più keynesiane con la permanenza del paese nella cornice dell’UE.

Forza Italia dopo Berlusconi e la scommessa al centro di Matteo Renzi

Un tentativo di sintesi, ma differente, potrebbe peraltro essere in atto anche al centro. Dai tempi della vecchia DC il centro era infatti scomparso dai radar, frantumato dal terremoto di tangentopoli per poi essere diviso e assorbito a destra e a sinistra dall’adozione di sistemi elettorali maggioritari. Quando le leggi elettorali hanno iniziato a inserire correttivi proporzionali più significativi, ecco che il centro è magicamente ritornato un ipotesi politica. Si tratta però di un centro assai differente rispetto a quello di un tempo: numericamente assai più esiguo, si propone infatti lo scopo di rappresentare l’ago della bilancia tra il blocco di sinistra a guida PD e quello di destra capeggiato dalla Lega. Un simile ruolo politico potrebbe essere svolto solo se le due ali “centriste” dei due schieramenti – vale a dire forza Italia da una parte e Renzi dall’altra – riusciranno a unirsi in un unico gruppo parlamentare con sufficiente peso elettorale: una specie di kleine Koalition, che – però – avrebbe un peso politico importante – e anche determinante – qualora alle prossime elezioni raggiungesse consensi tali da consentirgli di essere appunto l’ago della bilancia tra le coalizioni di centrodestra e centrosinistra.

In questa direzione pare muoversi abbastanza decisamente una componente di Forza Italia che appare sempre meno allineata a Berlusconi e che, dunque, potrebbe tentare di acquisire un ruolo importante quando si aprirà la successione per la leadership del partito. Quanto a Renzi, la sua ben nota spregiudicatezza e i suoi altrettanto noti repentini ricollocamenti tattici rendono difficile fare previsioni attendibili, ma – guardando alla sua storia politica – è possibile supporre che la creazione di una “piccola DC”, che sommi – trasformandole in correnti interne al partito – le componenti meno berlusconiane di Forza Italia agli esponenti di Italia Viva (includendo magari anche renziani ancora in forza al PD), sia una ipotesi plausibile (e per ora frenata dal fatto che, se questo nuovo soggetto politico si presentasse domani alle elezioni, probabilmente la corrente Renziana avrebbe meno peso elettorale rispetto a quella forzista).

Quel che non è ancora chiaro è dunque se Renzi vuole fare la “nuova DC” riducendosi ad una alleanza di Italia Viva con Forza Italia (o con una sua parte) oppure se mira a qualcosa di ben più ambizioso: riprendere il controllo del PD, ricollocandone la linea politica più al centro, per poi assorbire quel che resta del partito di Berlusconi e creare davvero una nuova DC. Le recenti dimissioni di Zingaretti da segretario del PD, con designazione di Bonaccini, uomo notoriamente vicino a Renzi, potrebbe essere sintomo del fatto Renzi sta lavorando anzitutto a questo secondo scenario, lasciando dunque l’opzione “ago della bilancia” solo come “piano B”.

Fratelli d’Italia come vero partito conservatore italiano e il suo ruolo nel centrodestra

Fratelli d’Italia si è posto in evidente discontinuità di linea politica rispetto alla vecchia Alleanza Nazionale. Laddove infatti il partito di Gianfranco Fini aveva tentato di trasformare il partito in un movimento in giacca e cravatta “moderatamente liberale” (che aveva appoggiato il governo Monti), dunque che puntava allo stesso elettorato di Forza Italia e a una parte degli elettori meno nordisti della Lega, l’epoca di Giorgia Meloni segna invece un percorso di riavvicinamento verso posizioni più coerenti con le radici storiche (missine) del partito.

Fratelli d’Italia appare oggi l’unico partito autenticamente  conservatore presente nel panorama italiano nonché – in campo economico – l’unico movimento politico che esprime compatto una linea ideologicamente avversa al liberalismo. In sostanza la linea di Giorgia Meloni è nazionalista (dunque antieuropeista e sovranista per scelta ideologica), tradizionalista (dunque avversa all’agenda culturale liberal) nonché propensa all’interventismo pubblico in economia di tipo keynesiano (ma anche autarchico e corporativo) e per nulla mercantilista (e tanto meno globalista). Fratelli d’Italia – rispetto alla Lega – offre dunque una solida rappresentanza politica (ideologicamente più coerente anche se più polarizzata a destra) per chi sostiene posizioni euroscettiche, anti mercantiliste e anti globaliste.

Questo spiega perché, con Fratelli d’Italia, il gioco degli equilibri di coalizione nei confronti della Lega si svolge a parti invertite: l’indebolimento, con l’appoggio a Draghi, della componente sovranista della Lega a favore dell’ala più liberale – se rafforza la Lega nei suoi rapporti di potere con l’altro alleato, Forza Italia – gioca invece contro la Lega e a favore del partito di Giorgia Meloni. La presenza di Fratelli d’Italia nella medesima coalizione elettorale con la Lega, tuttavia, ha anche una funzione importante (e invece positiva) nella misura in cui consente che i voti leghisti “persi” per effetto della svolta “moderata” della Lega, restino comunque appannaggio della medesima coalizione, trasferendosi a Fratelli d’Italia. Fratelli d’Italia rappresenta dunque a sua volta una componente fondamentale per l’equilibrio della coalizione di centrodestra e anche per la stessa Lega, che – nella situazione attuale – ha di certo più interesse a conservare l’alleanza con il partito di Giorgia Meloni che non quella con il movimento di Berlusconi, specie contando – come si è detto – che una parte di Forza Italia sta flirtando in modo ormai piuttosto scoperto con Matteo Renzi e il PD.

Quel che resta di Gramsci

Una menzione a parte meritano i partiti (o, per meglio dire, il partito) di “vera” sinistra, ossia ispirati al socialismo marxista. In parlamento sono infatti restati a sventolare bandiera rossa solo i comunisti italiani di Rizzo, che portano avanti una linea politica avversa all’europeismo, individuando correttamente nell’UE un nume tutelare del capitalismo finanziario e mercantilista, che – ovviamente – chi si richiama al marxismo ortodosso non può che osteggiare (con buona pace del PD). E’ tuttavia altamente improbabile che il partito di Rizzo possa apparentarsi – in prospettiva elettorale o anche solo di governo – ad alcuno dei due schieramenti maggioritari e neppure all’eventuale “nuovo centro”. Quel che resta di Gramsci, dunque, starà perennemente all’opposizione, come il vecchio PCI, ma senza avere anche solo un frazione dell’influenza sociale e degli strumenti di pressione su cui poteva contare il vecchio partito comunista.

Si noti tuttavia che, negli ultimi tempi, vi è stato un fiorire di movimenti catalogabili come di sinistra (ad esempio Vox Italia, recentemente ridenominato in Ancora Italia, o il fronte sovranista italiano). Si tratta di movimenti accomunati dal tentativo di usare la bandiera dell’anti europeismo per cercare una ardita sintesi tra posizioni politiche ispirate alla sinistra più keynesiana (e anche a volte marxista), sovranismo nazionalista, umanesimo laico e libertarismo di matrice liberale classica. Solo il tempo dirà se il tentativo in questione riuscirà, per un verso, a incontrare consensi elettorali tali da portare a una rappresentanza parlamentare effettiva e, successivamente, a esprimere una linea politica parlamentare coerente. L’impressione è che simili movimenti – in ragione della loro forte opposizione alle politiche deflattive unioniste e all’austerità – se giungessero in parlamento potrebbero appoggiare più agevolmente l’azione di governo della coalizione di centro destra, che non quella del centro sinistra a giuda PD. Poco plausibile – per quanto non da escludersi a priori – appare anche l’apparentamento di questi movimenti coi comunisti italiani, considerando che il movimento in questione in questi ultimi anni ha sempre tenuto una linea assai identitaria nei confronti di ogni forma di “nuova sinistra” comparsa nell’agone politico nazionale, finendo in tal modo per perdere pezzi per strada e per non trovare alleati.

Terza Repubblica italiana o colonia dell’Unione Euroteutonica?

Se il governo gialloverde ha rappresentato l’antitesi della tesi politica euro montiana, il governo giallorosso ha segnato un chiaro tentativo di ritornare a quella tesi. Il punto vero è tuttavia che l’economia del paese è in sofferenza da troppi anni e, dopo il colpo tremendo assestato dal Covid, ormai è diventato difficile – per le categorie che del rigore europeista ancora beneficiano – riuscire a sostenere in modo credibile dinanzi alle maggioranze impoverite la narrazione per cui l’adesione al sistema dell’Euro e all’UE garantirebbe un benessere diffuso. La presa progressiva presa di coscienza del ceto medio allargato delle conseguenze nefaste dell’adesione all’UE e alla moneta unica sta quindi portando il sistema verso una vera crisi (nel senso dell’etimo greco); il che – se vogliamo adottare una prospettiva storicistica – significa che i tempi sono maturi per una sintesi.

Se la prospettiva è quella corretta, il tentativo di dare vita a un governo di larghe intese per gestire la coda dell’emergenza Covid potrebbe, hegelianamente, essere considerato lo strumento obbligato per una sintesi dialettica tra i modelli socioeconomici che si fronteggiano nell’agone politico e sociale. Se infatti da un lato sarebbe assai poco realistico proporre un semplice ritorno al vecchio keynesianesimo democristiano (che è il sistema ancora indicato da alcuni per mettere fine al “neoliberismo” globalista), sarebbe per converso ingiusto (oltre che ben poco costituzionale) accettare supinamente l’imposizione ex abrupto al nostro paese di modelli economici e sociali che – oggettivamente – da noi non hanno funzionato, portando a una riduzione sensibile del benessere della maggioranza degli italiani e recando danni enormi al tessuto produttivo ed economico (imposizione che, in sintesi, è invece quello che vorrebbero ottenere i pasdaran dell’europeismo a tutti i costi, PD in testa). Occorre in sostanza che – in Italia – tra Keynes e Hartz venga trovato un punto di equilibrio. Ma, e qui sta il punto vero, la sintesi non è necessaria solo a livello italiano (e, a dire il vero, neppure lo sarebbe solo a livello di Unione Europea). Siccome la crisi generata dallo scontro tra le tesi ed antitesi in conflitto è globale, altrettanto globale deve essere la sintesi. Ma chi potrebbe trovare il bandolo di una simile matassa?

Chi ha letto il mio commento sul discorso di Mario Draghi a Rimini dovrebbe sapere già come la penso al riguardo: Mario Draghi – nascendo keynesiano e dunque comprendendo perfettamente i termini economici e sociali del problema (così come le ricadute a livello globale delle eventuali soluzioni scelte per risolverlo), sapendosi muovere con sicurezza nel mondo della politica economica e monetaria internazionale, avendo dimostrato di essere europeista ma non appiattito sugli interessi di Berlino e Parigi e, dulcis in fundo, godendo di appoggi e fiducia in ambienti che possono decidere di investire risorse ingentissime sulle sue eventuali scelte di politica economica – è forse la sola persona che potrebbe tentare di elaborare, proprio partendo dall’Italia, una proposta di nuovo modello di sviluppo economico-finanziario che, adattando le idee di Keynes al nuovo contesto e alle diverse esigenze della globalizzazione, operi un riequilibrio nella struttura di una UE che invece, ora come ora, è oggettivamente tanto sbilanciata a favore di alcune economie e a danno di altre da rendere più che probabile un suo collasso a medio termine, in assenza di correttivi. Siccome però la stabilità dell’UE rappresenta un tassello fondamentale per gli equilibri geopolitici ed economici globali, ecco che adottare la “cura Draghi” per l’Italia e l’UE potrebbe giocare anche nell’interesse di attori politici, economici e finanziari extraeuropei, primi fra tutti gli Stati Uniti.

La storia potrebbe dunque ripetersi: così come – nonostante i mal di pancia di Berlino – Mario Draghi, con l’assenso di Parigi, aveva già a suo tempo salvato l’Euro cambiando le carte in tavola rispetto alle regole unioniste, ce la farà questa volta supermario a salvare l’Italia e a ravvivare, avviandone un ripensamento complessivo, l’ormai stanco progetto dell’Unione Europea? Solo il tempo può dirlo. A noi tocca sperare che le forze politiche nazionali così come le cancellerie europee (e, come vedremo qui appresso, Parigi in particolare) gli consentano ancora di fare whatever it takes, nella consapevolezza che si tratta di una delle poche persone che è in grado di trovare il bandolo della matassa italiana senza far saltare in aria in malo modo la costruzione europea.

L’Euro non funziona? Facciamone due!

La pre-condizione che potrebbe consentire una sintesi tra Hartz e Keynes in Europa è che – nel contesto di una maggiore integrazione anche politica dell’Unione Europea, che dovrebbe infine dotarsi della possibilità di emettere titoli di debito pubblico autonomo e finanziabile con l’emissione di moneta da parte della BCE – si formino due aree valutarie distinte: un Euro del sud meno forte (che includerebbe Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) e un Euro del nord rivalutato (ossia in sostanza un grande marco) che includerebbe la mitteleuropa insieme alla Finlandia e agli altri paesi inclusi nell’area di influenza economica più diretta della Germania.

La prospettiva non è affatto irrealistica, considerando che la Francia potrebbe trarre benefici tanto da un vero bilancio europeo che solidarizzi il debito pubblico (laddove la Germania da sempre osteggia con vigore simili soluzioni) quanto dallo stare in un’area monetaria unica con l’Italia (ma senza la Germania). La Francia – in questi decenni – ha infatti investito ingentissimi capitali nel nostro paese (acquisendo il controllo di parecchie grandi imprese, banche e assicurazioni nazionali), dunque non dovrebbe essere disposta a correre il rischio di veder svalutare i propri asset finanziari per effetto o di una italexit o della creazione di un “euro 2” che non vedesse la partecipazione anche della Francia. Se invece fosse la Germania, insieme ai suoi paesi satelliti, a lasciare l’area monetaria in cui stanno Italia e Francia, quest’ultima non avrebbe problemi di svalutazione dei propri investimenti nel nostro paese.

Si noti poi che anche la Germania potrebbe in realtà trarre alcuni vantaggi dalla separazione delle aree monetarie, a patto che entrambe le aree restassero nel contesto di un mercato unico europeo di libera circolazione delle merci. I tedeschi potrebbero infatti beneficiare della svalutazione dell’Euro del sud (o, se si preferisce, dalla rivalutazione del grande marco) per importare a minor prezzo quel che già importano ora delle imprese del sud Europa (e, per quel che interessa a noi, del nord Italia) che sono integrate nelle sue filiere produttive. Il problema di una divisione delle aree monetarie, per i tedeschi, starebbe dunque solo nella riduzione dell’export verso il sud Europa e – soprattutto – nel fato che il suo già traballante settore bancario vedrebbe svalutata la (davvero notevole) mole di crediti accumulati in questi anni nei confronti di debitori dei paesi del sud.

 Nello scenario in questione – anche se non è il caso di approfondire in questa sede un argomento tanto complesso – va considerata anche la spinosa questione del saldo passivo Target 2, ossia degli ingentissimi crediti (per ora solo figurativi, a causa del fatto che nel sistema Euro sia le banche centrali dei paesi creditori che quelle dei paesi debitori sono altrettante emanazioni della BCE) vantati dal sistema bancario tedesco confronti di quello italiano e degli altri paesi del sud Europa. In caso di creazione di una duplice moneta nell’area dell’UE, la gestione di questi crediti potrebbe infatti essere negoziata, compensando in qualche modo l’inevitabile svalutazione dei crediti in questione che seguirebbe alla creazione della seconda moneta.

La partita vera – a livello di politica internazionale – si giocherebbe tuttavia sulla creazione di un bilancio dell’UE, che sia finanziato, non solo e non tanto con tasse unioniste, ma anche e con emissioni di titoli pubblici comuni, garantiti da una BCE capace a sua volta, non solo di emettere moneta, ma anche di acquistare direttamente quegli stessi titoli e, dunque, di assumere il ruolo di vero e proprio prestatore di ultima istanza. Una simile prospettiva – come già si diceva – va nell’interesse di Francia e Italia, mentre è qualcosa che la Germania, quanto meno sinora, ha sempre mostrato di non voler in alcun modo accettare. Se dunque nell’UE iniziasse a formarsi – nei paesi del sud Europa – un fronte comune a favore di una riforma nei termini espressi in precedenza, potrebbe a quel punto essere la stessa Germania a prendere in considerazione la soluzione della duplice moneta UE (o di andarsene essa stessa dall’Euro o dall’Unione), in modo da poter organizzare secondo i principi economici e monetari più funzionali ai suoi specifici interessi (ma che poi sono quelli che attualmente ispirano il sistema dell’UE e che vengono imposti a tutti quanti, anche se ne beneficiano in pochi) solo la sua area più prossima di influenza economica.

Si noti infine che, in questo complesso gioco di equilibri, l’Italia ha in mano uno strumento di pressione da non sottovalutare e che sinora non è mai stato messo sul tavolo da alcuno dei governi di centro-sinistra. L’eventuale uscita unilaterale dell’Italia dal sistema della moneta unica (previa “segregazione” pure unilaterale del suo sistema finanziario, ossia limitazione per legge alla possibilità di circolazione dei capitali in uscita dal nostro paese), provocherebbe infatti nell’UE – specie nel sistema finanziario e bancario di Germania, Olanda e Francia – un mezzo cataclisma. Per un verso infatti l’italexit renderebbe assai meno conveniente per la stessa Germania la conservazione di una moneta unica (strumento che, è inutile raccontarsi le favole, è stata voluta dalla Germania anche per ridimensionare il solo vero concorrente europeo sul manifatturiero, ossia l’Italia). La Francia si troverebbe a sua volta di fronte alla prospettiva di una pesante svalutazione dei suoi ingentissimi investimenti in Italia e a dei rischi di rientro dei capitali investiti nel nostro paese. Infine, il già traballante sistema bancario e finanziario tedesco (ma anche quello olandese) dovrebbero affrontare il rischio non riavere mai indietro (o, comunque, di veder pesantemente svalutati) i crediti verso l’Italia, sia a livello di crediti verso i privati sia a livello di saldo Target 2. In sintesi: l’Italia – anche se il gioco in UE dovessi iniziare a farsi duro – avrebbe a disposizione tutti gli strumenti per reggerlo a muso altrettanto duro. Queste sono cose che, ovviamente, Mario Draghi sa benissimo.

Quo vadis Mario?

La linea politica di un nuovo governo si valuta solitamente usando due criteri: equilibri tra partiti nella sua composizione e primi provvedimenti. Vediamo di capire che sta facendo Draghi. La lista dei ministri presentata per il suo governo non include nomi di spicco nei posti chiave (ad eccezione forse del MEF). Dunque è restato deluso chi, come me, si aspettava un esecutivo composto esclusivamente di tecnici di alto livello, senza chiara appartenenza politica, confinando la “vera politica” al livello – pure importante, ma meno decisivo in termini di immagine e di linea politica – dei sottosegretari.

 Se ci limitassimo all’esame dei ministri ci troveremmo di fronte ad una specie di riedizione del Conte bis, che parrebbe voler dare il colpo di grazia politico al M5S e coinvolgere la Lega in ministeri o poco importanti o “difficili”, considerando anche che il solo incarico ministeriale di peso è stato attribuito a un esponente della corrente più europeista della Lega. Quanto ai ministri in quota Forza Italia, ben due su tre stanno a loro volta nell’ala del partito più favorevole all’intesa col PD. In sintesi: il partito che politicamente ha tratto più vantaggi dalle nomine ministeriali è stato il PD, che non solo ha guadagnato ministeri importanti, ma soprattutto ha consolidato la sua leadership nella coalizione di centro sinistra. Per il resto, il governo Draghi pare essere stato composto per dare un assist a Forza Italia (ma indebolendo la posizione di Silvio Berlusconi nel partito) e alla vecchia guardia della Lega (quella nordista e meno keynesiana).

L’impressione è insomma di avere a che fare con ministri nominati più da Mattarella che da Draghi, il quale – quanto meno in quella prima fase – non ha mostrato particolare ansia di cercare una discontinuità di indirizzo politico rispetto al suo predecessore (e – di conseguenza – rispetto ai governi degli ultimi dieci anni), in modo da ritagliarsi sin da subito un ruolo da protagonista che, per competenze e prestigio, avrebbe potuto anche voler assumere sin da subito (e che, a dire il vero, diversi italiani – e non solo di centro sinistra – sperano vivamente che possa assumere). Draghi, uomo notoriamente prudente, potrebbe insomma aver voluto iniziare a saggiare solo in punta di piedi il terreno minato della politica nazionale, onde evitare false partenze.

Si tratterebbe peraltro di una prudenza più che giustificata, se si pensa che conferire l’incarico a Draghi già nella prima parte dell’anno (dunque a emergenza sanitaria in corso) – mettendolo a capo di una maggioranza eterogenea e di una compagine ministeriale che sembra fatta apposta per creare discordia più che per governare in armonia una crisi epocale – potrebbe anche essere una strategia del PD(R) per “bruciare” lo stesso Draghi come candidato alla presidenza della repubblica, onde tentare un Matterella bis (mandato che, nel PD, è ritenuto assai importante trovandosi a cadere in un periodo in cui il parlamento sarà quasi certamente appannaggio del centro-destra). Dalle parti di Berlino (e dunque di Bruxelles), peraltro, un Draghi “forte” al Quirinale piacerebbe certamente meno del remissivo Mattarella. Dunque non è peregrino supporre che il PD, di concerto col Colle, abbia tentato di ostacolare la corsa al Quirinale di Draghi, creando una compagine ministeriale tale da generare tensioni e conflitti nella nuova maggioranza, sperando magari che sia proprio la Lega – come era accaduto già con il primo governo Conte – a volersi poi assumere la responsabilità politica dinanzi al paese di mandare a monte l’esecutivo di larghe intese.

Il sospetto che qualcuno, a sinistra, potrebbe voler mettere in difficoltà Draghi pare avvalorato dalla considerazione che il primo provvedimento adottato dal governo ancor prima della fiducia (e proprio dal ministro Speranza, ossia da uno dei “reduci” di Conte salvati da Mattarella) è stata la chiusura degli impianti da sci dieci ore prima della riapertura già preparata – con il placet dello stesso ministero – da diverse settimane, inducendo gli imprenditori a fare gli ennesimi investimenti inutili in un momento di assenza di fatturato. Draghi è stato informato del decreto e non si è opposto, ma – a governo non ancora “fiduciato” – difficilmente avrebbe potuto fare diversamente. Nello stesso senso potrebbe peraltro essere letta la cronometrica precisione delle esternazioni del solito Ricciardi che chiede immediatamente (al solito Speranza) un lockdown nazionale totale. Ma non diversamente potrebbe dirsi della già ampiamente manifestata volontà del ministro della salute di proseguire fino a Pasqua nella vecchia linea “chiusurista a colori” sinora adottata (peraltro senza particolari risultati) e che trova eco nelle politiche di chiusura ad oltranza imposte anche da Parigi e Berlino nei rispettivi paesi.

Chiunque creda che certe iniziative abbiano a che fare con la crisi sanitaria, coltiva pie illusioni perché evidentemente non conosce bene la politica italiana. Simili provvedimenti e annunci hanno infatti assai poco a che vedere con la volontà di risolvere l’epidemia, ma perseguono scopi chiaramente politici, essendo mirati (dal lato Speranza) più che altro a colpire chirurgicamente gli interessi della piccola borghesia che vota Lega o centroderstra (ossia di chi è costretto a lavorare per campare, non appartenendo a nessuna delle varie categorie protette che vanno a comporre quella che è stata efficacemente definita come “società signorile di massa” e che – in maggioranza – vota il centrosinistra). Simili attacchi al ceto medio lavoratore e produttivo alimentano infatti tensioni interne al governo ma anche tra le due anime della Lega e, infine, creano delle frizioni tra gli alleati della coalizione di centrodestra. Se Draghi – che per ora ha dato assenso alla linea Speranza sulla crisi sanitaria – si mostrasse in futuro troppo condiscendente di fronte simili giochi politici (giochi che, è bene chiarirlo, se davvero sono frutto della strategia sopra ipotizzata, andranno avanti senza tregua), potrebbe essere Draghi stesso a pagare, insieme alla Lega, il conto politico.

Probabilmente in questa prospettiva va dunque letta la scelta del centrodestra che – prevedendo possibili imboscate di Mattarella e del PD – ha scelto, verosimilmente di comune accordo tra i partiti della coalizione, di lasciare Fratelli d’Italia all’opposizione. Una simile scelta mitiga l’impatto negativa, in prospettiva elettorale, dell’appoggio leghista al governo Draghi, dato che i sovranisti più “duri e puri” eventualmente delusi dalla Lega – alle prossime elezioni – traghetterebbero quasi certamente nel partito di Giorgia Meloni, lasciando invariata la forza elettorale complessiva della coalizione. A loro volta, invece, una parte degli elettori di Forza Italia potrebbero scegliere di passare a votare una Lega “più moderata”, specie se – in caso di nuova crisi di governo – l’ala meno berlusconiana di Forza Italia riuscisse a imporre al partito o una alleanza con il centro sinistra o una convergenza col nuovo centro renziano. Se Mattarella e il PD hanno dunque mostrato la consueta abilità nel tentare di trasformare Draghi nel presidente del consiglio dell’ennesimo governo a trazione PD, il centrodestra sta giocando bene le sue carte per mandare a monte il piano senza rompersi le ossa alle prossime elezioni.

Ed infatti le conseguenze politiche dell’appoggio della Lega a Draghi non hanno tardato a mostrarsi: coalizione di centrodestra che resta coeso anche con la Meloni all’opposizione, Movimento 5 stelle prossimo alla scissione che si affida a Conte, dunque togliendo consensi al PD, che dunque a sua volta entra in grave fibrillazione con dimissioni di Zingaretti, aprendo la delicata fase del “con Renzi” o “contro Renzi”. Sin qui, dunque, si può dire con una certa sicurezza che il centrodestra stia portando a casa la partita sul piano tattico. Ma quel che interessa davvero capire è altro: al di là dei giochi dei partiti politici che lo sostengono da che parte sta davvero – in termini di linea politica – Mario Draghi?

Per capire le intenzioni del nuovo Presidente dei Consiglio appaiono interessanti anzitutto le nomine dei sottosegretari (che, a quanto sembra, sono state decise da Draghi in autonomia dopo un confronto coi partiti e dunque senza un intervento diretto di Mattarella). I sottosegretari sono infatti una componente meno nota – ma altrettanto essenziale e politicamente importante – nella composizione dell’esecutivo. E qui Draghi ha mostrato di voler “compensare” la Lega (e scontentare il PD), assegnando al carroccio vice ministri di dicasteri “pesanti” e soprattutto strategici in termini di influenza politica per la stessa Lega (ad esempio gli interni). Pure nel senso di una cesura rispetto al passato piddino suona la scelta di affidare a un tecnico senza evidenti targhe politiche (l’ex capo della polizia, Gabrielli) la delicatissima delega ai servizi segreti, su cui Conte e Renzi erano entrati in conflitto. Analogamente – con l’aggiunta del fatto che si tratta di uomini considerati vicini al ministro Speranza – deve dirsi della sostituzione del capo della protezione civile, Borrelli, e soprattutto del supercommissario Arcuri. Anche i primi passi di politica estera – specie in UE – paiono mostrare una certa discontinuità rispetto alla linea, totalmente filotedesca, mostrata dal Conte bis, ad esempio sulla questione del passaporto vaccinale e sul blocco all’export dei vaccini. Qualche segnale importante di discontinuità rispetto al Conte due, dunque, il nuovo Governo lo sta dando.

Mario Draghi – controllando il ministero dell’economia (che è stato affidato a un tecnico suo fedelissimo) – si è inoltre messo nella posizione di regolare la distribuzione delle risorse economiche e, di conseguenza, di decidere lo spazio di manovra dei vari ministeri. Lo stesso Draghi gode infine anche di contatti al massimo livello nelle istituzioni finanziarie internazionali e straniere, che potrebbero consentirgli di “gestire” sia lo spread che i rating con facilità maggiore rispetto a qualunque altro uomo politico italiano. Quel che è certo è insomma che l’attuale Presidente del Consiglio ha in mano tutti gli strumenti, se vuole, per avviare una fase nuova nel paese, dando inizio a quella che potremo dunque chiamare la “terza repubblica”. Il che – secondo chi scrive – è un passaggio politico ormai ineludibile.

Dopo un anno di “non gestione” dell’emergenza sanitaria ed economica, l’Italia che lavora e che ha ancora voglia di fare e investire è allo stremo delle forze e al limite della sopportazione (e questo Draghi lo sa o quanto meno dovrebbe saperlo). Il paese – specialmente nel suo ceto medio produttivo, lavoratore e “non garantito” – ha bisogno di ritrovare fiducia nel futuro, dopo essere stato martoriato da dieci anni di austerità e deflazione e, da un anno a questa parte, essere stato spaventato, disorientato e maltrattato dal precedente governo. Se non si restituisce al paese che lavora e fa la fiducia nel futuro, non ci sono ristori o recovery plan che tengano: il paese crolla. Nel suo discorso di Rimini (e nel precedente articolo pubblicato sul Financial Times) Draghi aveva fatto capire di avere delle idee piuttosto diverse rispetto al mainstream UE sul come far uscire l’Europa dalla crisi (e non solo da quella Covid). Idee che – se tradotte in azione di governo – potrebbero davvero rilanciare l’economia nazionale, fiaccata da un decennio di austerità e stremata dalle misure di (non) reazione al Covid messe in campo dal precedente esecutivo. Secondo alcuni, invece, Draghi sarebbe solo un nuovo Monti, vale a dire un liquidatore del benessere degli italiani nell’interesse dei paesi dominanti in UE. Io credo sinceramente che non sia così.

Se l’intento che sta dietro l’operazione politica cui stiamo assistendo fosse stato davvero – di concerto con una UE per nulla disposta a scostarsi dal suo tradizionale rigore teutonico – solo una nuova epoca di tagli di spesa pubblica e aumento delle tasse per divorare il risparmio privato, accompagnato dall’azzeramento di interi comparti economici nazionali per far spazio ad attività green e digital e all’ingresso sempre più massiccio in Italia di imprese e capitali stranieri; se l’intento fosse questo – dicevo – non occorreva certo scomodare un pezzo da novanta del calibro di Mario Draghi per fare al ceto medio produttivo e ai lavoratori del nostro paese un funerale di prima classe, con tanto di banda e carrozza con cavalli neri. A seppellirci vivi in casa, farci perdere il lavoro o chiudere l’attività, alzare le tasse e tagliare il welfare, bastava e avanzava un Conte qualunque. Anzi il secondo governo Conte – con la sua incapacità e litigiosità interna e col suo bias pauperista e anti piccolo borghese – sarebbe stato l’esecutore perfetto di un simile disegno.

Se questo fosse dunque lo scenario in cui si colloca la scelta di Draghi, usare il “nome” e il prestigio del personaggio avrebbe avuto un solo plausibile scopo politico: offrire a Forza Italia e alla corrente meno keynesiana della Lega una occasione “vendibile” ai rispettivi elettorati per far fare anche al ceto medio produttivo la stessa misera fine che il PD ha ormai già fatto fare ai lavoratori dipendenti. Il tutto senza andare a toccare le piccole e grandi rendite di posizione dei vari soggetti che compongono quella società signorile di massa, che – come sempre negli ultimi vent’anni – senza far nulla applaude, incassa e – standosene al calduccio – brinda questa volta alla “salute prima di tutto”, ai prodigi dello smart working, al food delivery e a quanto è bella la consegna a domicilio di Amazon.

Siccome non credo che un politico dello spessore tattico di Matteo Salvini sia stato tanto sprovveduto da accettare un simile rischio (quanto meno senza aver avuto qualche concreta garanzia in sede di consultazioni per la formazione del governo), ritengo che la strategia politica di Mario Draghi sia ben più ampia – e soprattutto non condizionata da eventuali desiderata dell’UE, di Berlino e tanto meno del PD o di Sergio Mattarella – rispetto a quella in cui si era a suo tempo mosso Mario Monti. E si tratta di una prospettiva che non coinvolge solo l’azione di questo governo e neppure solo la gestione dell’emergenza sanitaria ed economica Covid, consistendo nell’impostazione – anche da futuro Presidente della Repubblica – di una complessiva e profonda riforma economica ed istituzionale del paese, volta appunto a superare la logica fallata della deflazione cronica causata dalla società signorile di massa. Riforma che, in quanto volta a modificare lo status quo, non potrà che essere condotta in certa misura “contro” i voleri di PD e Germania (anche se non necessariamente contro l’UE, ove questa sia disposta a sua volta a cambiare qualcosa) e, dunque, “da destra”.

In questa prospettiva va anche considerato che Draghi – a differenza di Conte, ormai legato mani e piedi al movimento 5 stelle e ad una alleanza con la componente prodiana del PD – è certamente uomo “americano” assai più che “cinese”. Siccome gli USA, anche con il neo eletto presidente Biden, continuano a mantenere una linea di nettissima ostilità nei confronti di Pechino (che da parte sua, è bene ricordarlo, è divenuto il primo partner commerciale dell’UE a trazione tedesca, scalzando proprio gli USA), è verosimile aspettarsi che Draghi potrebbe contare anche sulla sponda di Washington se decidesse di spingere modifiche all’UE nel senso di ridurre l’egemonia tedesca nel vecchio continente. Infine, e sempre nell’ottica degli interessi strategici degli attori in gioco, non va sottovalutata neppure la tensione tra Francia e Cina che sta generando il crescente espansionismo di Pechino in Africa. Anche a livello internazionale, dunque, un Draghi che voglia avviare un percorso di riforme contro l’attuale UE “tedesca” potrebbe trovare alleati di peso sia all’interno che al di fuori dell’Unione.

Il momento della verità, con ogni probabilità, verrà presto, ossia quando si tratterà di discutere del ritorno dei vincoli europei ai bilanci nazionali, della cessazione del programma straordinario di acquisti di titoli pubblici da parte BCE per finanziare il rientro dell’emergenza Covid e di eventuali possibili vie alternative per finanziare ulteriormente i debiti pubblici nazionali (così come della sorte ultima del debito monstre accumulato durante il Covid da tutti gli stati dell’Unione). La Germania – che, come di consueto, ha saputo sfruttare la “finestra di libertà” offerta dalla sospensione delle regole unioniste per imbottirsi di aiuti di stato in misura assai maggiore rispetto all’Italia – sta infatti già dando i primi segni di nervosismo di fronte all’inflazione (o, meglio, “stagflazione”) che l’iniezione di liquidità da parte della BCE sta provocando e di cui iniziano già a vedersi i primi segni.

Sarà dunque proprio su questi dossier che – con ogni probabilità – si parrà la nobilitate di Draghi: riuscirà a portare la Francia, che pure di ulteriore liquidità ha disperato bisogno, dalla parte dell’Italia e in opposizione alla Germania? Ma – e direi soprattutto – quale è il “piano B” in caso di insuccesso? Che si fa se la Germania, come è prevedibile, cercherà di proporre un cambiamento in corsa delle regole per aiutare solo la Francia e non anche l’Italia? Mario Draghi accetterà a quel punto di mandare l’Italia in default controllato nell’area euro come è già accaduto con la Grecia (salvando l’UE attuale al prezzo di finire di demolire il benessere della maggioranza degli italiani) o avrà la forza – magari con la sponda di Washington – di mettere sul tavolo dell’UE l’ipotesi concreta di una italexit come “mezzo di persuasione di massa” al fine di giungere alla creazione di due aree monetarie nel contesto dell’Unione o alla creazione di un bilancio unionista capace di emettere titoli di debito comune? E se anche così gli diranno di no, il presidente del consiglio farà a quel punto l’interesse della maggioranza dei cittadini italiani o quelli degli ambienti finanziari? Questo non lo possiamo sapere. Possiamo però sperare nel fatto che sia una brava persona.




La quarta ondata: istruzioni per evitarla

Scenario A. Arrivano i vaccini promessi. Il generale Figliolo fa miracoli, e riesce a far vaccinare il 70% della popolazione entro l’estate. Pochi si spaventano per i casi di reazione avversa, come quelli di questi giorni con AstraZeneca. Le aziende farmaceutiche cominciano a produrre vaccini anche per gli under 16, il che permette di portare la percentuale di vaccinati intorno all’80%. Non emergono, né in Italia né altrove, varianti più trasmissibili o letali di quelle attualmente in circolazione. Gli studiosi scoprono che i vaccinati non trasmettono il virus, o lo fanno in misura molto ridotta. L’arrivo della bella stagione abbatte drasticamente la circolazione del virus, nonostante cospicui flussi turistici in entrata e in uscita. A settembre, dopo un’estate abbastanza tranquilla, tutte le attività ripartono, e il numero di nuovi casi resta molto basso. I pochi focolai che si ripresentano vengono facilmente spenti con il tracciamento e, nei casi più ostici, con pochi, brevi, circoscritti lockdown. Il Papa in persona propone che Mario Draghi sia proclamato santo, ancor prima della sua trionfale elezione alla presidenza della Repubblica.

Se questo, che tutti sogniamo, fosse lo scenario che effettivamente ci attende, la politica sanitaria in atto sarebbe abbastanza razionale, ancorché leggermente cinica. Il rifiuto della linea Ricciardi (lockdown breve e durissimo subito) avrebbe un costo di parecchie migliaia di morti, ma almeno si tratterebbe dell’ultimo tributo al virus. Detto in altre parole: andremmo avanti ancora 3-4 mesi con centinaia di morti al giorno, ma poi l’epidemia si spegnerebbe. E noi incasseremmo il vantaggio di non spendere altri miliardi di euro per controllare l’epidemia con le solite cose che invano si sono chieste al governo Conte, e altrettanto invano una sparuta minoranza sta continuando a chiedere al governo Draghi.

Ma è verosimile lo scenario A? Prima di provare a rispondere a questa domanda vediamo lo scenario opposto.

Scenario B. Le dosi acquisite entro l’estate non sono sufficienti ad attuare il piano vaccinale. Continuano a non essere disponibili vaccini per gli under 16. I (rari) casi di reazioni avverse fanno crescere la quota di popolazione che rifiuta i vaccini. Gli studiosi scoprono che con alcuni (se non tutti) i vaccini utilizzati i soggetti vaccinati continuano a trasmettere il virus. La scelta di vaccinare senza aver prima ridotto la circolazione del virus favorisce la formazione di varianti ancora più trasmissibili. La individuazione delle nuove varianti è sempre tardiva, perché nel frattempo non si è rafforzata a sufficienza la capacità di sequenziamento. L’estate, grazie alla vita all’aperto, conduce sì a un rallentamento dell’epidemia, ma non a una drastica riduzione del numero di nuovi casi, perché i flussi turistici favoriscono la circolazione del virus e l’introduzione di nuove varianti. A settembre quasi tutte le attività riprendono e, dopo poche settimane, ci si accorge dell’arrivo della quarta ondata (la terza, anche se non tutti se ne sono accorti, è quella in corso). A quel punto al governo Draghi vengono rivolti gli stessi (sacrosanti) rimproveri a suo tempo rivolti al governo Conte: non aver rafforzato il trasporto pubblico locale, non aver messo in sicurezza le scuole, non aver varato un protocollo ufficiale di cure domestiche, non aver potenziato il tracciamento, non aver controllato adeguatamente le frontiere, eccetera.

E’ verosimile lo scenario B? O è più verosimile lo scenario A?

A mio parere sono entrambi inverosimili, perché il primo ipotizza che quasi tutto vada per il verso dritto, e il secondo che quasi tutto vada per il verso storto. E’ molto più probabile che, di qui alla fine dell’anno, lo scenario con cui dovremo fare i conti sia intermedio fra l’iper-ottimistico scenario A il catastrofico scenario B. E’ verosimile, in altre parole, che la vaccinazione di massa riduca la circolazione del virus e la mortalità, senza tuttavia condurre alla sostanziale soppressione del virus, come invece è accaduto nei paesi del Pacifico (dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda).

Se questo scenario intermedio è plausibile, la politica sanitaria finora adottata dal nuovo governo non è razionale. Ad essa mancano infatti sia i tasselli preventivi classici (quelli dimenticati da Conte), sia i tasselli – li chimerò tasselli tardivi – su cui una certa consapevolezza sta emergendo solo negli ultimi tempi, grazie alla meritoria opera di studiosi indipendenti.

Senza ripercorrere qui la lista delle omissioni del governo Conte (chi fosse interessato può consultare la petizione del 2 novembre sul sito della Fondazione Hume), vorrei ricordare almeno cinque fra le misure con il rapporto costi-benefici più favorevole. Considerate tutte insieme, costerebbero meno di 2 miliardi, ovvero meno dell’1% del Recovery Fund, e una frazione minuscola dei tanti scostamenti di bilancio varati fin qui.

La prima misura, invano invocata da centinaia di scienziati fin dai primi mesi dell’epidemia, è la messa in sicurezza delle scuole mediante impianti di filtrazione dell’aria. Caldeggiata dall’ing. Giorgio Buonanno e da centinaia di scienziati fin dai primi mesi dell’epidemia, in Italia è stata varata in modo strutturale solo dalla regione Marche, ed è uno dei cavalli di battaglia “costruttivi” di Giorgia Meloni. Il costo per dotare tutte le aule scolastiche italiane di filtri HEPA è dell’ordine di 300 milioni di euro, circa la metà della spesa per i banchi a rotelle.

La seconda misura, incredibilmente ignorata fin qui, è l’attuazione del piano Crisanti per aumentare il numero di tamponi e rafforzare il tracciamento. Il costo è di circa 600 milioni di euro.

La terza misura, anch’essa caldeggiata da decine di scienziati (e in particolare dal prof. Giancarlo Isaia, presidente dell’Accademia di Medicina di Torino), è la somministrazione controllata di vitamina D per rafforzare le difese immunitarie contro il Covid (per un resoconto si vedano i contributi di Mario Menichella sul sito della Fondazione Hume). Si tratta di una misura già da tempo in vigore nel Regno Unito, e finora presa seriamente in considerazione solo dalla Regione Piemonte. Il costo è talmente basso che non richiede necessariamente stanziamenti pubblici.

Una quarta misura è il potenziamento, eventualmente in accordo con le Università, delle capacità di sequenziamento del virus, uno dei talloni d’Achille dell’Italia. Il costo dipende ovviamente dall’ambiziosità degli obiettivi, ma pare fuori discussione che l’individuazione precoce di varianti pericolose potrebbe diventare sempre più cruciale per spegnere tempestivamente i focolai più pericolosi.

Infine una misura a costo zero ma di puro buon senso potrebbe essere il varo di un protocollo nazionale ufficiale, il più possibile condiviso, di cura del Covid nelle fasi inziali, che superi l’attuale balcanizzazione delle cure domestiche, con la sconcertante coesistenza di protocolli più o meno fantasiosamente denominati (Remuzzi, Bassetti Galli, ecc.).

Capisco che la tentazione di pensare che il vaccino risolverà tutto e presto sia, per i governanti, quasi irresistibile. Ma credo che l’esperienza passata, in cui la sordità dei politici e delle autorità sanitarie agli appelli degli scienziati già ci è costata prima l’arrivo della seconda ondata (ottobre), poi quello della terza (febbraio), dovrebbe indurre a fare tutto il possibile per evitare – almeno – l’arrivo della quarta.

Pubblicato su Il Messaggero del 13 marzo 2021




La luce in fondo al tunnel (grazie ai vaccini e al modello inglese)

Per la prima volta da quando tutta questa sciagurata vicenda è cominciata e proprio mentre l’Italia supera la simbolica cifra di 100.000 morti, posso finalmente scrivere di una buona notizia. I vaccini, infatti, non solo stanno funzionando, ma, almeno per quanto si può capire da ciò che sta accadendo nei paesi che hanno già vaccinato una significativa percentuale della loro popolazione, sembrano addirittura funzionare meglio delle previsioni, anche se i dati sono ancora troppo parziali per cantare definitivamente vittoria.

Infatti, al 7 marzo 2021 solo 3 grandi paesi hanno già effettuato più di 25 vaccinazioni ogni 100 abitanti: Israele (101), Gran Bretagna (34,4) e Stati Uniti (27). Gli altri che hanno superato tale soglia, circa una dozzina, sono quasi tutti Stati-isola, che per le loro piccole dimensioni non possono essere considerati statisticamente significativi, più gli Emirati Arabi, che invece lo sarebbero, avendo quasi 10 milioni di abitanti, ma non stanno fornendo dati sufficientemente precisi.

I suddetti numeri, tuttavia, non coincidono con la percentuale di popolazione vaccinata, perché comprendono sia le prime che le seconde dosi. Ora, mentre nella maggior parte dei paesi si è seguito il protocollo normale, che richiede che la seconda dose venga iniettata a poca distanza dalla prima, in Inghilterra si è deciso di rinunciare, per il momento, alla seconda dose, “scommettendo” sul fatto che vaccinare tutti in metà tempo, sia pure con una protezione “ridotta” (peraltro più dal punto di vista della durata che della qualità), risulti più efficace che garantire a tutti la protezione totale in un tempo doppio.

Ciò significa che le 34,4 dosi ogni 100 abitanti dell’Inghilterra, essendo quasi tutte prime dosi, corrispondono quasi alla stessa percentuale di popolazione vaccinata (per la precisione, al 32,7%), mentre le 101 di Israele corrispondono appena al 57,3% di persone vaccinate almeno una volta, anche se la percentuale di quelle che hanno ricevuto il richiamo e possono quindi contare su una protezione completa è del 43,8% contro l’appena 1,6% del Regno Unito. Gli USA, infine, si collocano in una posizione intermedia, avendo un rapporto tra prime e seconde dosi somministrate di circa 2 a 1.

È interessante paragonare queste tre differenti strategie e i risultati che stanno dando e che ho riassunto nella tabella seguente, aggiungendovi Gibilterra, che ha seguito anch’essa il modello inglese, essendo una sua colonia, benché ne sia fisicamente separata: infatti, se è vero che è un paese troppo piccolo (appena 33.000 abitanti) perché normalmente abbia senso inserirlo nelle statistiche, in questo caso particolare ha dati così impressionanti che non possono essere ignorati.

Poiché le campagne vaccinali sono iniziate in momenti diversi, come data di riferimento per valutare il calo di morti e contagi ho scelto il 10 gennaio 2021, giorno in cui è iniziata a Gibilterra, che è stata l’ultima. D’altra parte, mentre Gibilterra ha iniziato subito fortissimo, gli altri paesi avevano sì iniziato prima, ma a un ritmo estremamente basso, che, per una circostanza fortunata, si è alzato significativamente proprio intorno al 10 gennaio, che, non a caso, coincide più o meno ovunque con il picco dei contagi, sicché possiamo considerarla come la “vera” data d’inizio della campagna vaccinale in tutti e quattro i paesi considerati. Ciò è ancora più legittimo se consideriamo che un calcolo del genere è necessariamente approssimato, perché non avrebbe senso paragonare il dato esatto del 10 gennaio con il dato esatto del 7 marzo, visto e considerato che il numero dei casi giornalieri subisce notoriamente forti oscillazioni dovute a vari fattori essenzialmente casuali: quindi il paragone verrà fatto tra la media dei nuovi casi giornalieri “intorno” al 10 gennaio e la media dei nuovi casi giornalieri “intorno” al 7 marzo.

È chiaro che si tratta di dati piuttosto disomogenei, che possono essere confrontati tra loro solo in modo molto approssimativo, non solo per quanto detto sopra, ma anche a causa dei diversi tipi di vaccini usati, delle altre misure di prevenzione adottate, dei diversi metodi per il calcolo dei contagi e delle differenti situazioni sociali, economiche e climatiche. Ciononostante, mi pare che almeno due conclusioni si possano trarre:

1) In generale, i vaccini funzionano molto bene, dato che, qualunque strada si sia seguita, si è avuto un sostanziale e rapidissimo calo sia del numero dei nuovi contagi che dei nuovi morti. Ovviamente, il secondo è inferiore, come è logico che sia, dato che è sempre “in ritardo” di 2 o 3 settimane rispetto quello dei contagi, ma in compenso è molto più oggettivo e conferma in pieno il primo.

2) Il successo del modello inglese sembra innegabile e sembra dimostrare che anche la prima dose di vaccino fornisce una protezione efficace, nonostante le perplessità di molti esperti, che all’inizio potevano essere giustificate, ma, almeno per ora, sembrano essere state smentite dai fatti, dato che il fattore determinante è chiaramente la percentuale di persone vaccinate almeno una volta, mentre il richiamo sembra incidere pochissimo. Certo, sul lungo periodo le cose potrebbero cambiare, ma la speranza (che a questo punto non appare campata in aria) è che prima che ciò possa accadere il virus sia già stato debellato del tutto, come sta accadendo a Gibilterra, che ha praticamente azzerato il contagio usando quasi esclusivamente la prima dose (non inganni il 46,2% di richiami, che sono stati fatti quasi tutti negli ultimi giorni, quando i contagi erano già  scesi del 90%). La cosa è ancora più notevole se si considera che Gibilterra è il paese che ha in assoluto il peggior rapporto tra morti e popolazione (2761 morti per milione di abitanti): e per quanto sia vero che nelle normali statistiche tale dato non può essere paragonato a quello dei grandi paesi, perché su numeri così piccoli anche variazioni minime e sostanzialmente casuali pesano moltissimo, in questo caso particolare il cambiamento è stato così rapido e così radicale che non si può evitare di esaminarlo attentamente.

Devo dire che la cosa non mi stupisce: personalmente ho sempre pensato che sul campo i vaccini avrebbero funzionato meglio, e non peggio, di quanto risultava dai test di laboratorio. Il motivo è semplice: esattamente all’opposto di quanto sostenuto dai complottisti, infatti, avendo dovuto lavorare in condizioni assolutamente senza precedenti e avendo addosso gli occhi di tutto il mondo, era assai più probabile che i produttori dei vaccini preferissero rischiare di sbagliarsi per eccesso di pessimismo che per eccesso di ottimismo, perché in quest’ultimo caso l’avrebbero pagata carissima, non solo in termini economici, ma anche penali.

Inoltre, gran parte delle perplessità sulla reale efficacia dei vaccini, comprese quelle espresse da Mario Menichella su questo stesso sito, si basava sulle critiche di Peter Doshi, che certamente è un grande esperto in materia e aveva sostenuto che la loro reale efficacia potrebbe addirittura andare solo dal 19% al 29%. Tuttavia, dopo aver letto la replica (o, più esattamente, la stroncatura), tanto dura quanto precisa, di Marco Cavaleri dell’EMA, che ho trovato molto convincente, mi sono fatto l’idea (che per ora sembra confermata dai fatti) che, come molti altri scienziati, tra cui persino Fauci, anche Doshi avesse ceduto alla tentazione della “sparata” gratuita per trovare visibilità mediatica a buon mercato.

Se questa è dunque la buona notizia, quella cattiva, anzi, pessima, è invece la disperante lentezza con cui è finora andata avanti la campagna vaccinale in Italia, che attualmente è appena al 44° posto al mondo con 9,3 dosi ogni 100 abitanti, in linea con la media UE, il che però non è una grande consolazione. Anche perché non significa che stiamo facendo come tutti gli altri, bensì che circa metà dei paesi UE sta facendo peggio, ma l’altra metà (tra cui molti scientificamente assai più arretrati di noi) sta facendo meglio.

Tuttavia, da quando, grazie al cielo (e a Renzi), Conte se n’è andato, c’è stata un’innegabile quanto palesemente non casuale accelerazione, giacché, come ha documentato Ricolfi negli aggiornamenti settimanali del suo “Indice DQP”, dall’insediamento del nuovo governo ad oggi, cioè in sole 3 settimane, il traguardo dell’immunità di gregge si è avvicinato di ben 2 anni, passando da maggio 2024 a maggio 2022.

È chiaro che non basta ancora, tuttavia a questo punto mi sento di dire che il ritorno a una sostanziale normalità già a maggio di quest’anno è ormai alla nostra portata. Considerando infatti che l’anno scorso l’arrivo del caldo abbatté da solo i contagi di circa il 90% nel giro di appena 3 settimane, tra fine aprile e metà maggio, se per allora saremo riusciti a somministrare almeno un 35% di prime dosi, il che, in base ai dati di cui sopra, dovrebbe portare almeno a un dimezzamento dei contagi, la somma di questi due fattori ci porterebbe già vicini al completo azzeramento. Il miglioramento della situazione generale, a sua volta, renderebbe poi più facile completare la campagna vaccinale, giungendo alla totale eliminazione del virus nei mesi seguenti, prima che torni il freddo a complicare le cose.

Naturalmente, per questo occorrerà accelerare ulteriormente il ritmo delle vaccinazioni, rendendo più efficienti le procedure (ancor oggi estremamente caotiche), ma soprattutto risolvendo il problema principale, cioè la scarsità dei rifornimenti, anche a costo, se non ci fosse altra via, di adottare decisamente il “modello inglese”, che peraltro in parte si è già imposto nei fatti, visto che in Italia meno della metà di chi ha ricevuto la prima dose ha già ricevuto anche la seconda. L’altra possibilità è concedere un’autorizzazione d’emergenza per l’uso di vaccini non ancora approvati dall’EMA, ma che hanno ormai dimostrato “sul campo” di funzionare, come per esempio lo Sputnik russo o quello americano della Johnson & Johnson, cosa in sé perfettamente legale, come ha ricordato la stessa EMA: il problema è esclusivamente di volontà politica.

Da questo punto di vista, non è certo incoraggiante sentire un illustre infettivologo come Massimo Galli dichiararsi sprezzantemente contrario all’uso del vaccino russo con la motivazione che «non siamo San Marino e, con rispetto parlando, neppure l’Ungheria» (intervista a La Stampa, 6 marzo 2021). Forse qualcuno dovrebbe far presente all’illustre professore che, con rispetto parlando, evidentemente ignora, o finge di ignorare, che l’Ungheria ha sempre fatto meglio di noi nella gestione del virus (anche e soprattutto nella “mitica” prima fase, in cui si continua a dire che abbiamo fatto benissimo, eppure l’Ungheria ebbe appena 36 morti per milione di abitanti contro i nostri 480) e lo sta facendo anche adesso con le vaccinazioni, dato che è al 22° posto nel mondo con 13,34 dosi ogni 100 abitanti.

Per fortuna, pare che l’orientamento di Draghi sia più pragmatico. Staremo a vedere. Ma, per la prima volta, la luce che comincia ad apparire in fondo al tunnel non è più una semplice illusione ottica. Proprio per questo, non fare di tutto per renderla pienamente reale sarebbe imperdonabile.