Reddito di cittadinanza, perché non farlo gestire alle imprese?

Fino a pochi mesi fa c’era ancora qualcuno che immaginava un autunno catastrofico. Fine del blocco dei licenziamenti, 1 o 2 milioni di posti di lavoro bruciati, un esercito di disoccupati alla disperata ricerca di un lavoro.

Oggi no, chi ha occhi per vedere non può non prendere atto che lo scenario che si sta delineando è l’opposto di quello previsto da tanti: quel che manca non sono i posti di lavoro, ma sono i lavoratori. A mia memoria non era mai successo che la difficoltà di trovare personale, specie per i piccoli esercizi, fosse così tangibile, generalizzata e conclamata. Io stesso, in questi mesi, ho raccolto diverse testimonianze sconcertanti. Ci sono attività che, per mancanza di manodopera, non hanno potuto aprire. Altre hanno dovuto lavorare a regime ridotto. Altre ancora sono state costrette a dimezzare l’attività in corso d’opera perché i neo-assunti rinunciavano dopo pochi giorni di lavoro.

Il risultato è che oggi, ancor più di ieri, alle due strozzature classiche dell’economia italiana – tasse e burocrazia – si aggiunge la strozzatura della mancanza di forza lavoro.

E’ paradossale: mentre i media sono impegnati a denunciare (giustamente) i  licenziamenti collettivi in atto in alcuni gruppi internazionali come Embraco, GKN, Whirpool, centinaia di migliaia di piccole e grandi imprese si trovano alle prese con il problema opposto: non riuscire a coprire determinati posti di lavoro (oltre 300 mila, secondo alcune stime).

E il segno più chiaro di tutto ciò è nella dinamica della disoccupazione: negli ultimi due anni il numero di persone in cerca di lavoro, anziché aumentare, è diminuito di circa 200 mila unità. Come se la risposta alla crisi occupazionale provocata dalla pandemia non fosse la ricerca di un nuovo posto di lavoro, bensì il ritiro dal mercato del lavoro.

Il risultato è che l’economia italiana, che in questi mesi sta crescendo a buon ritmo come rimbalzo rispetto al tonfo del 2020, rischia nei prossimi anni di crescere molto al di sotto del suo potenziale: un’eventualità perniciosa, tenuto conto dell’enorme debito pubblico aggiuntivo che ci stiamo accollando, e che prima o poi dovremo ripagare.

E’ dunque il momento di chiedersi: perché manca la forza lavoro necessaria a far girare l’economia a pieno ritmo?

Alcune ragioni precedono la crisi del Covid: i giovani non amano le professioni tecniche, di cui invece c’è ampia richiesta; la formazione professionale è carente e male organizzata; le facoltà scientifiche sono disertate per mancanza di basi adeguate; i salari offerti sono spesso troppo bassi.

Ma la ragione più immediata ed evidente, perché ne tocca con mano le conseguenze qualsiasi datore di lavoro, è la moltiplicazione dei sussidi, iniziata con la crisi del 2008-2012 e culminata nel varo, pochi mesi prima dell’arrivo del Covid, del reddito di cittadinanza. Un provvedimento mal disegnato, che oggi aggrava il problema storico della mancanza di personale disposto a lavorare.

Sul fatto che il reddito di cittadinanza verrà modificato ci sono pochi dubbi. Il problema, però, è di cambiarlo in un modo utile, evitando di limitarsi a un compromesso fra le esigenze di propaganda dei vari partiti.

Al di là dei dettagli tecnici, credo che i cambiamenti fondamentali dovrebbero essere due. Il primo è di distinguere nettamente due funzioni, e quindi due tipi di beneficiari: i poveri non occupabili (circa 2/3 dei percettori attuali: ragazzi, invalidi, pensionati, ecc.), e i poveri occupabili (circa 1/3 dei percettori attuali). Il secondo è di rendere efficace l’avvio al lavoro di questi ultimi, varando quelle “politiche attive” di cui si parla da tanti anni ma che nessun governo è mai riuscito a far decollare con successo.

Ma come?

Io un’idea ce l’avrei: e se a offrire lavoro ai percettori di reddito di cittadinanza fossero direttamente le imprese, saltando in tutto o in parte la inefficace interposizione dei navigator?

Con i mezzi oggi disponibili non dovrebbe essere troppo difficile costruire un database anonimizzato, dove ogni impresa può cercarsi il lavoratore con il profilo giusto, a partire da titolo di studio, lavori precedenti, luogo di residenza (non troppo lontano). All’operatore pubblico spetterebbe soltanto associare al codice identificativo di quel lavoratore un nome e un cognome, trasmettere all’interessato la data del colloquio di lavoro presso l’impresa, registrare l’esito del colloquio (assunzione, mancata assunzione, rifiuto del lavoratore).

Basterebbe?

No, non basterebbe, perché comunque resterebbero in piedi gli altri problemi del nostro mercato del lavoro, a partire dalla mancanza di tecnici e laureati in discipline scientifiche. Però sarebbe un passo avanti, perché almeno certi tipi di imprese (tipicamente: quelle dell’industria turistica) sarebbero messe in condizione di creare più posti di lavoro regolare.

“Sì, sono disponibile, ma solo se mi pagate in nero: non voglio perdere il reddito di cittadinanza” è una risposta che non ascolteremmo più.

 Pubblicato su Il Messaggero del 25 settembre 2021




Vaccinazione, il privilegio italiano

In questi giorni di roventi polemiche sul Green Pass mi è capitato di leggere, a difesa del Green Pass stesso, che nel Regno Unito ne potrebbero fare a meno perché lì i non vaccinati sarebbero una esigua, trascurabile, minoranza, mentre da noi sarebbero un esercito.

Capisco che lo si possa credere, ma è del tutto falso. Nel Regno Unito i non vaccinati puri (nessuna dose) sono il 28.9%, da noi sono un po’ di meno (27.2%), e non molti di più come si è inclini a credere. Quanto ai doppiamente vaccinati, siamo in perfetta parità con il Regno Unito, a un soffio dal 65%.

Ma c’è di più. Gli altri due paesi modello, Israele e Stati Uniti, lodati per tanti mesi dai media di tutto il mondo, hanno anch’essi meno vaccinati dell’Italia: 63.3% di pienamente vaccinati in Israele, e appena il 53.0% negli Stati Uniti. Né le cose vanno tanto diversamente se, dai paesi modello, ci spostiamo su paesi più ordinari: anche Francia, Germania, Svezia hanno meno vaccinati di noi. Fra i paesi europei importanti, solo la Spagna ha una percentuale di completamente vaccinati decisamente superiore alla nostra (76% contro 65%).

Non saprei dire se la tendenza ad amplificare il pericolo NoVax abbia un’origine politica, o dipenda dal sensazionalismo dei media, certo è che – se ci atteniamo ai dati – tutto si può dire dell’Italia tranne che sia indietro con le vaccinazioni. Quel che dovremmo chiederci, semmai, è come abbiamo fatto a raggiungere il buon risultato che, fin qui, abbiamo conseguito. Una risposta possibile è che ci siamo liberati di Arcuri e lo abbiamo sostituito con il generale Figliuolo. Una seconda risposta è che il Green Pass è stato un efficacissimo (ancorché umiliante) escamotage dei nostri governanti: non potendo contare sul nostro senso civico, hanno puntato sul nostro bisogno di vacanze e di normalità. C’è però una terza risposta possibile, che quasi sempre si dimentica: in Italia la clamorosa mancanza di bambini e ragazzi rende molto più agevole che in altri paesi avvicinarsi a percentuali di copertura vaccinale elevate. Se non puoi vaccinare sotto una certa età, e sotto quella età ci sono quattro gatti perché le donne italiane non fanno figli, allora sei in vantaggio rispetto a paesi che, come Israele, hanno legioni di bambini e ragazzi, in quanto i tassi di fecondità femminile sono altissimi (gli under 12 sono il 10.1% in Italia, ma salgono al 23% in Israele).

Arrivati a questo punto, ci si potrebbe chiedere: se la maggior parte degli altri paesi hanno vaccinato meno dell’Italia e, a dispetto di questa circostanza, non adottano il Green Pass, perché noi ce lo infliggiamo? non potremmo sfruttare il nostro “vantaggio vaccinale” per tenere più aperta l’economia? perché limitare così gravemente la libertà di muoversi, di lavorare e di studiare?

Io penso che questa limitazione della libertà che viene imposta a una minoranza (di non vaccinati) per proteggere la maggioranza (dei vaccinati), abbia almeno due giustificazioni, una nobile e l’altra meno.

La giustificazione nobile è che, avendo avuto fin qui più morti per abitante di qualsiasi altra società avanzata (a parte il Belgio), l’Italia ha maturato delle soglie di allarme più severe di quelle di altri paesi. Non tutti lo sanno, ma in questo momento molti dei paesi cui veniamo invitati ad allinearci hanno un numero di morti per abitante molto superiore al nostro. Fatto 100 il numero di morti al giorno dell’Italia, la Spagna ne ha 160, la Francia 178, il Regno Unito 220, Israele 412, gli Stati Uniti addirittura 589 (solo la Germania sta meglio di noi, a livello 58). E cifre analoghe si potrebbero riportare per le ospedalizzazioni, o i ricoveri in terapia intensiva. In poche parole: questi meravigliosi paesi, paladini e custodi delle libertà individuali, stanno pagando un prezzo molto più alto del nostro sul terreno della salute.

C’è anche una giustificazione meno nobile, però. I nostri governanti sanno perfettamente che i prossimi 6 mesi saranno tremendi, perché vedranno l’alleanza (inedita!) fra variante delta e stagione fredda, con conseguente drastica riduzione del tempo di vita all’aperto e moltiplicazione delle interazioni negli ambienti chiusi. Ma sanno pure di non aver fatto quasi nulla sui tre versanti fondamentali: ricambio dell’aria nelle scuole, trasporti pubblici, protocolli di cura domiciliare. E’ quindi naturale che, temendo il peggio, si cautelino imponendo più restrizioni di quelle che appaiono immediatamente logiche e giustificate (anche se, voglio dirlo, trovo un po’ vile aspettare il voto di ottobre per renderle effettive).

Temo che il problema, e la difficoltà di prendere partito pro o contro il Green Pass, stia tutto qui. Per quanto mi riguarda, capisco molte delle obiezioni che i critici del Green Pass, a partire da molti miei colleghi docenti universitari, rivolgono al governo. Ma non posso non notare che, per non sentirci ora costretti ad accettare il Green Pass, avremmo dovuto prepararci da molto tempo a fare tutte le cose che (forse) lo avrebbero reso superfluo, e che nessun governo ha voluto fare. E ancor meno posso dimenticare che, nella battaglia per fare in tempo utile tutto ciò che andava fatto, siamo stati – chiunque fosse al governo – una piccolissima minoranza. Forse, se il mondo dell’università si fosse mobilitato allora, e lo avesse fatto con la forza che deriva dallo studio, dalla cultura e dall’indipendenza di giudizio, oggi non saremmo a questo punto.

  Pubblicato su Il Messaggero del 17 settembre 2021




Tutto quello che non vi dicono sulle cure domiciliari precoci per il Covid-19 (e perché lo fanno)

In questo articolo scoprirete qualcosa di – per certi versi – rivoluzionario, oserei dire quasi “eversivo” in un mondo in cui l’agenda sanitaria sembra essere dettata più dalle Big Pharma attratte dai lauti guadagni legati ai vaccini che non dai medici che hanno davvero a cuore la vita dei pazienti: vedremo, infatti, che il Covid-19 è una malattia curabile! Sì, lo so, vi chiederete perché nessuno ve lo abbia mai detto, e lo capirete leggendo. E non solo vi sono le terapie domiciliari con la loro elevata efficacia (dell’ordine dell’80-85% nell’evitare le ospedalizzazioni), ma anche la prevenzione quotidiana con certi integratori naturali del tutto innocui, che dai primi studi disponibili in letteratura risultano essere quasi altrettanto efficaci nell’evitare i ricoveri di chi si contagia (ciò non stupisce perché si è ormai capito che il Covid nelle primissime fasi si sconfigge ben più facilmente, senza dover usare dei “bazooka” farmacologici). Ma è proprio quando si passa a un’analisi quantitativa, confrontando diversi scenari, che si comprende l’enorme potenziale di questi due nuovi tipi di approcci, peraltro non più costosi dei vaccini (per i quali si parla di 175 dollari a dose entro pochi anni). Si scopre così che: (1) l’implementazione ufficiale di un “serio” protocollo di cure domiciliari equivarrebbe ad aumentare di ben 25 punti la copertura di una campagna vaccinale del 60% degli over 50, portandola quindi “virtualmente” all’85%; (2) la combinazione di un protocollo di cura domiciliare “vero” (non “aspetta e spera”…) con un mix di integratori naturali avrebbe invece, in termini di ospedalizzazioni evitate, un impatto pari a una vaccinazione dell’86% degli Italiani (o degli over 50, visto che la vaccinazione dei giovani non sposta i risultati). Se invece si usassero i due nuovi approcci in aggiunta ai vaccini (e non al loro posto), i morti totali sarebbero poco più di quelli annui di una normale influenza. Infine, non si capisce perché per i vaccini anti-Covid (che hanno numerosi effetti collaterali gravi) si sia derogato alle normali procedure per usarli, mentre per i migliori farmaci delle terapie domiciliari (che non li hanno!) no.

La gente crede che non esistano cure per il Covid, ma non è vero

Su questo argomento è molto chiaro il prof. Peter McCullough, medico, docente universitario ed editor di due importanti riviste di medicina, nonché uno dei ricercatori più pubblicati nel suo campo, che riguarda il cuore ed i reni. Probabilmente, a molti di voi il suo nome non dice nulla, ma è l’autore del protocollo di cura del Covid-19, pubblicato in una rivista peer-reviewed [1], adottato anche in Italia – abbattendo con esso drasticamente il tasso di ospedalizzazione – dal Comitato per le Cure Domiciliari Covid-19 (reso noto da alcuni talk show su Rete 4), e di cui ho parlato diversi mesi fa in un mio precedente articolo [2]. Egli, infatti, aveva dei pazienti con patologie del cuore o dei polmoni che, infettatisi con il SARS-CoV-2, necessitavano di cure immediate, e pertanto si rifiutava di lasciare i pazienti senza cure, ovvero di lasciare che una malattia che durava due settimane a casa (se opportunamente curata) avanzasse al punto da rendere necessaria l’ospedalizzazione dei pazienti quando però, ormai, era troppo tardi per poterli salvare.

Ciò era a lui chiaro fin dall’aprile dello scorso anno, per cui il dr. McCullough usò nella cura dei pazienti con il Covid i migliori farmaci disponibili all’epoca, che venivano prescritti in modo appropriato off label (cioè al di fuori degli usi autorizzati dalla medicina convenzionale, ma come egli sottolinea il “label” è una pubblicità, non un documento scientifico) per curare questa nuova malattia. Egli ha messo su un gruppo di medici operanti sul campo, un nutrito nucleo dei quali operanti in Lombardia (dove la pandemia era inizialmente più diffusa), negli Stati Uniti, in India, etc. Ed i risultati delle loro scoperte sono stati pubblicati ad agosto 2020 nell’ottavo numero dell’American Journal of Medicine, ed il titolo di quell’articolo era “Pathophysiologic basis and rationale for early ambulatory treatment of Covid-19” [1]. Una premessa dell’articolo era che “vi sono due esiti negativi del Covid-19: l’ospedalizzazione e la morte”. La seconda era che “se non facciamo nulla prima dell’ospedalizzazione, non possiamo fermare la malattia”.

Come il dr. McCullough spiega in un’audizione pubblica di fronte al Senato del Texas tenutasi nel marzo di quest’anno, “la cosa interessante è che all’epoca c’erano già 50.000 articoli scientifici nella letteratura peer-reviewed sul Covid, ma neanche uno diceva ai medici di medicina generale come curarlo! Quando lo scoprii, rimasi profondamente colpito e quando il nostro articolo – che reca la firma anche di decine di altri medici – fu pubblicato su una delle migliori riviste di medicina divenne un faro, nonché l’articolo di medicina all’epoca più citato nel mondo. Grazie a mia figlia, realizzai poi un video su YouTube che mostrava 4 slide del protocollo, ed esso divenne immediatamente virale. Ma nel giro di una settimana YouTube disse che esso violava le regole della community. Eppure forniva informazioni molto importanti per aiutare i pazienti nel mezzo di questa crisi, tratte da un articolo pubblicato su una rivista peer-reviewed!”.

Più interessante ancora è quel che dice McCullough subito dopo [3]: “Io sono diventato il testimone principale per il Senato degli Stati Uniti nell’audizione del 19 novembre 2020, e la ragione per cui ho accettato è che c’era un ‘blocco’ quasi totale su qualsiasi informazione riguardante le cure ai pazienti. Ciò che è successo in seguito in America è che siamo entrati in un ciclo di nessuna informazione sulle cure, per cui i pazienti hanno pensato che il Covid fosse incurabile; per cui andavano in giro per avere una diagnosi attraverso un tampone. Ma io sono un sopravvissuto al Covid, mia moglie pure, ed anche mio padre che sta in un casa di riposo. Ti facevano un tampone, scoprivano che sei positivo e ti mandavano a casa. Chiedevi: c’è qualche cura? No, e non c’erano linee guida, protocolli di cura. Questo è lo standard di cura negli Stati Uniti. Quindi non mi meraviglio che nel nostro Paese abbiamo avuto così tanti morti! Il cittadino americano medio crede che non esistano cure, poiché tutto il focus è sui vaccini”.

E non è finita. Il coraggioso medico americano fornisce ulteriori dettagli: “Un nostro secondo articolo è stato pubblicato in un numero dedicato di Reviews in Cardiovascular Medicine [4], ed ha ben 57 autori. In esso mostriamo come abbiamo utilizzato dei farmaci per influenzare la replicazione virale. Noi possiamo usare anti-infettivi intracellulari. Abbiamo usato corticosteroidi e farmaci anti-infiammatori. Il miglior anti-infiammatorio contro il Covid è il cortisone, come mostrato nello studio controllato randomizzato della più alta qualità, con sistema ‘a doppio cieco’ e placebo, svolto su oltre 4.000 pazienti. Vi è stata una riduzione del 50% della mortalità. Ma la gente non lo sa. Non vi è stata nessuna parola su questi risultati: un blocco completo delle informazioni. Come può accadere? E la parte più letale dell’infezione di questo virus è la trombosi, perciò ho sempre trattato i miei pazienti con qualcosa per agire sulla replicazione virale, con qualcosa per trattare l’infiammazione e con qualcosa per trattare le trombosi. Io per la mia specialità seguo pazienti già molto fragili e gravi, ma per il Covid ne ho persi solo due”.

 

Fig.1 – Oggi sappiamo che il mix dei farmaci per curare il Covid-19 deve comprendere tre tipi di farmaci (come illustrato nel testo): antivirali, antinfiammatori e anticoagulanti, con i primi utili soprattutto nelle prime fasi e gli ultimi soprattutto in quelle più avanzate. Come risulterà più chiaro nel seguito di questo articolo, gli antinfiammatori sono i più importanti al fine di evitare le ospedalizzazioni con cure domiciliari precoci, ma alcuni blandi antivirali e antinfiammatori naturali (ovvero “integratori”) hanno il vantaggio di poter essere usati in prevenzione con un elevatissimo profilo di sicurezza e senza necessità di ricetta medica.

La “sordina” sulle cure e le nuove strategie non basate su un razionale scientifico

Infine, McCullough nel suo intervento si sofferma sul silenzio assordante sull’argomento: “Avete mai sentito una sola singola trasmissione sui canali televisivi nazionali dirvi che farmaci dovete prendere dopo che vi è stata diagnosticata un’infezione da Covid-19? Se la risposta è ‘no’, non mi meraviglio: è un completo e totale fallimento a tutti i livelli. Cominciamo dalla Casa Bianca: noi non abbiamo avuto un gruppo di medici a cui sia stato assegnato il compito di rivolgere tutti i propri sforzi per fermare queste ospedalizzazioni per Covid. Noi non abbiamo neppure dottori che curino pazienti in un gruppo ed ogni settimana forniscano alle autorità sanitarie un aggiornamento. Perché non abbiamo tutto ciò a livello di Stato (un po’ l’equivalente delle nostre regioni, ndr)? Perché abbiamo zero di tutto ciò? Noi abbiamo messo completamente i paraocchi sul discorso cure, le abbiamo del tutto cancellate dall’agenda. Per fortuna, negli Stati Uniti vi sono alcuni medici che qui in Texas hanno creato dei centri di cura e che forniscono informazioni alle persone. Ma le uniche linee guida statali riguardano le ospedalizzazioni”.

Purtroppo, per molti mesi quelli realizzati da McCullough et al. sono stati gli unici due articoli nella letteratura peer-reviewed a dire ai medici di base come curare il Covid-19 sulla base delle informazioni scientifiche. E negli Stati Uniti l’unica guida alle cure domiciliari, l’unica informazione disponibile per i pazienti su come curare il Covid-19 a casa, era quella dell’Associazione americana del medici e dei chirurghi (AAPS), che è ancora possibile per qualsiasi cittadino scaricare liberamente dal link [5] in bibliografia (online è scaricabile anche un utile “Vademecum antiCovid” realizzato dall’Istituto Mario Negri” [39]). Per tale ragione, McCullough ha proposto di fare una legge per la quale non vi sia una pubblicazione di risultati senza che vi sia parallelamente una guida alle cure domiciliari e una linea dedicata per chi vuole unirsi a una ricerca su un argomento così importante. Come dice giustamente ai senatori che lo ascoltano, “noi non vogliamo più che vi sia una singola persona che torna a casa dopo un tampone positivo subendo due settimane di disperazione prima di soccombere all’ospedalizzazione e alla morte”.

McCullough sottolinea, infine, come “non c’è un solo dottore la cui faccia è in TV, non uno, che abbia mai trattato un paziente affetto da Covid (tranne poche eccezioni, si può dire lo stesso dei vari medici che sono stati ospiti fissi nei talk show italiani, ndr). Non vi è un singolo medico nella task force della Casa Bianca che abbia mai curato un paziente. Perché non è stato creato un gruppo di medici che abbiano curato pazienti affetti da Covid-19? Perché non facciamo qualcosa insieme scambiando le nostre idee ed esperienze sul campo? Perché non ci chiediamo come possiamo porre fine alla pandemia? Non è incredibile? Pensate alla completa e totale cecità cui assistiamo. Quando, a maggio dello scorso anno, si è visto che il virus poteva essere sensibile ai vaccini, tutti gli sforzi sulle cure sono crollati. I National Institutes of Health avevano un programma multi-farmaco, ma è stato fermato dopo aver coinvolto 20 pazienti dicendo che ‘non potevano trovare pazienti’, una scusa che più ingenua e incredibile non potrebbe essere” [3].

Il programma, dopo che ci si è resi conto che si potevano avere dei vaccini, è diventato “limitiamo la circolazione del virus e aspettiamo i vaccini, poi quando avremo vaccinato tutti gli sforzi si concentreranno ancora sulle vaccinazioni, magari con le terze dosi, quarte dosi e via dicendo”, per la gioia dei produttori dei vaccini e in particolare di Pfizer, che è stato per varie ragioni quello più “gettonato”. Si è poi iniziata a montare la fantasiosa narrativa dell’immunità di gregge da raggiungere, quando qualsiasi esperto di vaccini sa (o dovrebbe sapere) che tale concetto si applica solo ai vaccini “sterilizzanti” (ovvero a quelli che bloccano l’ingresso del virus nelle cellule e ne impediscono la replicazione), non ai vaccini anti-Covid attuali, che sono “leaky” (cioè in molti casi lasciano trasmettere l’infezione a terzi, naturalmente se il vaccinato si infetta) [6]. Con tutti i vaccini anti-Covid attuali l’immunità di gregge è una chimera, come ho mostrato con due tipi di calcoli completamente diversi fra loro in un precedente articolo [7], ed i miei risultati quantitativi sono stati confermati – con onestà intellettuale – anche dal prof. Crisanti [9].

Fig.2 – In questa figura tratta da un mio precedente articolo [7] ho schematizzato, in modo quantitativo, i “contributi mancanti” all’immunità di gregge sulla base delle informazioni ricavabili dalla letteratura scientifica già disponibile un paio di mesi fa, e sotto l’ipotesi: (a) di una campagna vaccinale che vaccini l’80% della popolazione italiana (l’obiettivo che il generale Figliuolo si era proposto di raggiungere entro fine settembre); (b) di una percentuale di persone immunizzate naturalmente pari al 20%. Da semplici conti, risulta contribuire all’immunità di gregge solo il 56% della popolazione, mentre il 44% non vi contribuisce. Questi dati si riferiscono alla variante Inglese; con quella Indiana (cioè la Delta) la situazione è, molto verosimilmente, ancora peggiore. (fonte: elaborazione dell’Autore).

Quindi, le persone che si immunizzano naturalmente hanno un’immunità completa e durevole, per cui – paradossalmente – possono contribuire all’immunità di gregge più dei vaccinati, che in almeno il 50-65% dei casi [21] – ma probabilmente in circa l’85%, come suggeriscono i dati islandesi, israeliani e USA di luglio [30, 100, 101] – contribuiscono alla trasmissione virale. Si noti che, come spiega McCullough, “non si può ‘battere’ l’immunità naturale (che è generale, non proteina “spike” specifica come quella indotta dai vaccini, ndr), non si può pensare di vaccinare chi è già immunizzato naturalmente pensando di ottenere un’immunità migliore. Non vi è alcun razionale scientifico, clinico o di sicurezza per vaccinare contro il Covid un malato guarito, come pure non esiste un razionale per testare con un tampone un malato guarito dal Covid. Ciò dimostra che non ci si sta chiedendo quale sia il razionale dietro le cose che facciamo. Non vi è un razionale scientifico neppure per vaccinare le persone al di sotto di 50 anni che, fondamentalmente, non corrono rischi per la propria salute e, se asintomatiche, difficilmente trasmettono l’infezione, come dimostrato da una ricerca cinese svolta su 11 milioni di persone e pubblicata sul British Medical Journal“.

La situazione italiana e l’abbattimento delle ospedalizzazioni con il “protocollo Remuzzi”

La situazione illustrata da McCullough ricorda molto quella italiana. In effetti, anche in Italia vi è stata una sorta di “buco nero” riguardo il discorso delle cure domiciliari, di cui solo pochi coraggiosi e ammirevoli giornalisti (e trasmissioni televisive) hanno parlato per un certo periodo. Non possiamo biasimare i medici di medicina generale, che sono stati totalmente abbandonati a se stessi, ma non è affatto accettabile che in Italia nessuna istituzione sanitaria statale o regionale abbia mai creato un solo singolo gruppo collaborativo con lo scopo di ridurre le ospedalizzazioni utilizzando le informazioni mediche disponibili nella letteratura peer-reviewed, cioè privilegiando un approccio mirato di medicina territoriale e non “armi di distruzione di massa” per l’economia come i lockdown, le regioni “a colori” ed altre amenità del genere, salvo poi puntare tutte le carte su dei vaccini di cui però presto vedremo gli inquietanti effetti avversi finora sottaciuti. Nel frattempo, forse per favorire i vaccini, le cure sono scomparse dai radar. Silenzio assoluto!

Ma questo non significa che non siano stati messi a punto, nel frattempo, nuovi possibili protocolli di cura. Si noti però che, come osserva il dr. McCullough, “nessun singolo farmaco funziona da solo contro il Covid-19. E, in effetti, uno degli errori sbrigativi che sono stati fatti (purtroppo anche dalle nostre Autorità sanitarie e dai medici “da salotto televisivo”, ndr) è stato quello di limitarsi all’analisi dell’efficacia o meno dei singoli principi attivi impiegati, come ad esempio è avvenuto con l’idrossiclorochina (che è risultata essere molto efficace contro il SARS-CoV-2 in vitro [105] e quando è stata somministrata ai contagiati Covid nelle primissime fasi di malattia insieme a un antibiotico, il cui ruolo – all’apparenza oscuro – sembra essere spiegato da un recente e assai interessante studio italiano [97], ndr). Un altro errore è stato quello di fare studi su un piccolo numero di pazienti – ad esempio 200 – e guardare se la mortalità si riduceva o meno. Noi non facciamo così con il cancro, non facciamo così con l’Aids e nemmeno con l’epatite C. Quello che cerchiamo sono segnali di benefici e sicurezza accettabile, dopodiché li combiniamo. Non possiamo aspettarci che un singolo farmaco riduca la mortalità per Covid, ma più farmaci in combinazione possono farlo: possono sconfiggere un’infezione virale altrimenti potenzialmente letale!”.

Il protocollo di McCullough si basa, in effetti, su un’escalation del trattamento in base ai sintomi (v. figura). Fra i vari farmaci usati, si noti l’uso immediato di idrossiclorochina (in pratica, Plaquenil, 200 mg per dose) più azitromicina (un antibiotico, 250 mg per dose), una terapia che usata in fase precoce ha dato luogo – secondo esperti dell’Istituto di Malattie Infettive di Marsiglia, che hanno pubblicato i risultati di uno studio fatto su migliaia di pazienti [95] – a una letalità per Covid (il “tasso di letalità” è la proporzione di decessi fra i casi confermati di malattia) trascurabile: appena lo 0,06%, pari a circa un trentesimo della letalità reale in Italia (dove non si sono adottate “vere” cure, ma solo “vigile attesa”), che era del 2% circa [111]: un risultato notevole, confermato da un altro studio del medesimo gruppo [106], in cui l’abbattimento della letalità è risultato pari all’82%! Questo studio è di tipo retrospettivo, ma il grandissimo numero di pazienti coinvolti rendono simili risultati degni di interesse [107]. Tuttavia, fra aprile e giugno 2020, le Autorità sanitarie italiane hanno bloccato le terapie che in altri Paesi vari medici stavano praticando con successo, ma ciò è stato fatto valutando l’azione dei farmaci su pazienti ospedalizzati (quindi già in fase avanzata di malattia), non su pazienti trattati precocemente con le cure domiciliari, come si può capire molto bene dal documento ufficiale dell’AIFA che trovate in bibliografia [96].

A influire sulla decisione dell’AIFA era stato probabilmente anche un articolo apparso alcuni giorni prima su Lancet [103], che sosteneva un “aumento di rischi per reazioni avverse” su chi assume clorochina o idrossiclorochina “a fronte di benefici scarsi o assenti”. Peccato, però, che poco tempo dopo lo studio sia stato ritirato dalla rivista stessa perché la ricerca in questione, contestata da oltre 120 scienziati, era basata su dati in pratica “inventati” e presentava forti lacune dal punto di vista metodologico [104]. Ciò talvolta succede, quando un farmaco è “scomodo” per la sua grande efficacia (purché somministrato subito!) e perché poco costoso. Si noti inoltre che l’idrossiclorochina, alle dosi della cura anti-Covid, viene usata da 40 anni per la profilassi anti-malarica di 7 giorni. Vero è che prendere insieme questi due farmaci che allungano il cosiddetto “intervallo QT” può indurre aritmie e aumentare il rischio di mortalità cardiovascolare [96], ma le Autorità sanitarie italiane non sembrano essersi accorte che i numeri assoluti di morti per aritmie erano in realtà piccolissimi – e dunque trascurabili – se confrontati con le morti per Covid evitate (che possiamo stimare in circa 214 morti evitate ogni 10.000 persone contagiate [95]), donde un rapporto rischio / beneficio assolutamente favorevole per i pazienti così curati, specie se over 50.

Fig.3 – Algoritmo di trattamento per la malattia COVID-19 confermata in pazienti ambulatoriali a casa in quarantena automatica. BMI = indice di massa corporea; CKD = malattia renale cronica; CVD = malattia cardiovascolare; DM = diabete mellito; Dz = malattia; HCQ = idrossiclorochina; Mgt = gestione; O2 = ossigeno; Ox = ossimetria; Yr = anno (fonte: McCoullogh et al. [1]). Tali informazioni sono fornite al solo scopo di completezza divulgativa, non per un uso “fai da te” (vedi l’avvertenza in fondo al presente articolo).

Come spiega il dr. McCullough, “due grossi e importanti studi effettuati qui negli Stati Uniti – uno nel Texas e uno a New York – mostrano che, quando i pazienti over 50 con comorbidità, una volta ammalatisi di Covid-19, vengono curati presto con un approccio multi-farmaco – cioè di 4-6 farmaci in sequenza – vi è una riduzione dell’85% delle ospedalizzazioni e delle morti. Noi abbiamo avuto oltre 500.000 morti negli Stati Uniti; ne avremmo potuto evitare fino all’85% (senza alcun vaccino, ndr) se la risposta pandemica fosse stata focalizzata sul problema del paziente malato di fronte a noi. Invece essa è stata focalizzata su tutte le possibili altre questioni al di fuori di questa, a cominciare dalle mascherine per finire con i vaccini. Abbiamo perso il focus sulla questione più fondamentale di tutte”. In effetti, se i vaccini attuali verranno un giorno aggirati da un “ceppo mutante di fuga” – cosa possibilissima, come ci insegna la storia dei vaccini “leaky” [6] – ci ritroveremo punto e daccapo, cosa che invece non succederebbe con un protocollo di cura!

In Italia, un protocollo di cura domiciliare del Covid molto interessante per prevenire l’ospedalizzazione – che, se raggiunge tassi elevati sovraccaricando il sistema sanitario, costringe a “bloccare” il Paese con i lockdown – è stato messo a punto dall’Istituto “Mario Negri” [33] diretto dal prof. Giuseppe Remuzzi, considerato un’autorità di livello internazionale nel campo della farmacologia. L’efficacia del protocollo in questione è stata valutata attraverso uno studio osservazionale retrospettivo elaborato dal prof. Fredy Suter (oggi primario emerito dell’Ospedale “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo) e da Remuzzi, e pubblicato a giugno di quest’anno su una rivista peer-reviewed che fa capo a Lancet [32]. Il protocollo in questione, che offre vantaggi sia al sistema sanitario nazionale sia ai pazienti, è rivolto ai Medici di Medicina Generale e costituisce una proposta di trattamento domiciliare precoce del Covid-19 che dovrebbe iniziare immediatamente alla comparsa dei primi sintomi (tosse, febbre, stanchezza, dolori muscolari, mal di gola, nausea, vomito, diarrea) – che compaiono nei 4-7 giorni successivi all’infezione, quando la carica virale aumenta – senza aspettare i risultati dell’eventuale tampone naso-faringeo.

In Italia, in precedenza, non erano mai stati compiuti studi clinici randomizzati in pazienti con Covid-19 curati a casa, condotti per confrontare l’efficacia di diversi regimi di trattamento. Lo studio retrospettivo “a coorti abbinate” coordinato dal “Mario Negri” è stato effettuato come segue [33]: “90 pazienti con Covid-19 lieve sono stati trattati a casa dai loro medici di famiglia, tra ottobre 2020 e gennaio 2021, secondo l’algoritmo proposto. I risultati ottenuti da questi pazienti sono stati confrontati con i risultati di 1779 pazienti che presentavano le stesse caratteristiche (età, sesso e comorbidità), ma che avevano ricevuto altri regimi terapeutici. Le analisi di questo studio sono state effettuate con il metodo ‘intention to treat’, cioè un’analisi statistica che, nella valutazione di un esperimento, si basa sugli intenti iniziali di trattamento e non sui trattamenti effettivamente somministrati”. Il risultato è stato che si è osservato un notevolissimo  abbattimento della necessità di ricovero in ospedale, che “si è tradotto in una riduzione di oltre il 90% del numero complessivo di giorni di ricovero e dei relativi costi di trattamento”.

Per chi fosse interessato ai dettagli del protocollo in questione, essi sono illustrati in un secondo articolo pubblicato da Suter e Remuzzi [34]. Come è spiegato in maniera divulgativa nel sito web del “Mario Negri” [33], “se la febbre non è l’unico sintomo presente, i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), così come anche l’acido acetilsalicilico (Aspirina), sono da preferirsi al paracetamolo (Tachipirina)”, in quanto quest’ultimo può invece peggiorare i danni. Esempi di FANS che inibiscono in maniera selettiva l’enzima che produce i mediatori dell’infiammazione (chiamato ciclossigenasi-2 o COX-2) e che vengono consigliati nel protocollo sono il celecoxib (Celebrex) e la nimesulide (Aulin), anche se quest’ultima è meno selettiva rispetto al primo. “In questo modo”, spiegano Remuzzi e Suter, “si può prevenire la reazione infiammatoria che, se viene presa in tempo, è curabile a domicilio dal medico di famiglia. In base all’evoluzione del quadro clinico, il medico di famiglia deciderà poi la durata del trattamento. E quando gli antinfiammatori non bastano a controllare la malattia, si passa ad altri farmaci, ma non prima di aver fatto alcuni esami del sangue (elencati nel loro secondo articolo, ndr) con un prelievo a domicilio”.

Fig.4 – Diagramma di flusso delle fasi di monitoraggio raccomandate ai medici di famiglia per seguire i pazienti non ospedalizzati nelle prime fasi di infezione, secondo il protocollo di cura domiciliare del Covid-19 testato sul campo da Remuzzi, Suter et al. Si noti come sia assolutamente necessario che i medici di famiglia seguano i pazienti giorno dopo giorno. (fonte: Suter et al. [34])

Il proliferare dei possibili protocolli di cura basati su farmaci low-cost

Se i risultati dello studio di Suter e Remuzzi verranno confermati da un secondo studio “controllato” (il primo è “imperfetto” perché retrospettivo), potrebbe essere davvero una svolta nella cura della malattia. Tuttavia è assai interessante che, il 1° luglio 2021, un lavoro di ricercatori inglesi e australiani apparso su Lancet [35] ha già confermato i loro risultati con un approccio precoce basato su un preparato anti-asma (contenente una piccola quantità di cortisone, che è un potente antinfiammatorio) da somministrare per inalazione nelle primissime fasi della malattia. Nello studio inglese, “un campione di 73 pazienti trattati con budesonide – in pratica ad es. con Aircort spray, un farmaco che contiene una piccola quantità di cortisone, somministrato per via nasale (una via piuttosto trascurata nella cura del Covid ma molto importante [98]) – nei primi giorni dall’insorgenza di lievi sintomi da Covid-19 è stato messo a confronto con un altro gruppo di 73 pazienti con caratteristiche simili ma trattato con una terapia tradizionale. I risultati hanno dimostrato che nel primo campione con il trattamento cortisonico i ricoveri ospedalieri sono stati 2 contro gli 11 del secondo gruppo (per cui l’abbattimento delle ospedalizzazioni è stato all’incirca dell’81%). Analogamente, nello studio di Suter e Remuzzi, sui 90 pazienti Covid-19 trattati a casa con le terapie raccomandate, solo 2 hanno avuto necessità di ricovero in ospedale, contro i 13 ricoverati tra i 90 pazienti del gruppo di controllo che hanno seguito altre terapie (per cui l’abbattimento delle ospedalizzazioni è stato dell’85%, ndr)” [37].

Nel caso del budesonide somministrato attraverso lo spray nasale, inoltre, si è trattato di uno studio controllato randomizzato, pubblicato peraltro su una delle riviste mediche più prestigiose. Quindi, questa volta da parte delle Autorità sanitarie italiane (AIFA, Ministero della Salute, CTS) proprio non vi sono plausibili “scuse” per ignorarlo. Inoltre, con questo farmaco somministrato due volte al giorno direttamente nel naso con una serie di semplicissimi “puff” dello spray nelle due narici le ospedalizzazioni sono state abbattute dell’80% [36]. Insomma, abbattere le ospedalizzazioni di un tasso praticamente paragonabile a quello ottenibile con una campagna vaccinale di massa sembra essere diventato facile quasi “quanto bere un bicchier d’acqua” (per prendere i 200 mg giornalieri di celecoxib, pari a due pasticche di Celebrex al dì, che comunque va associato a un gastroprotettore, in pratica un “inibitore della pompa protonica” [34]) oppure inalare uno spray. Ma attenzione al fai da te. “È molto importante – sottolinea Suter – che i suggerimenti che derivano da questi studi non siano interpretati come un ‘fai da te’. È il medico di famiglia che deve prendere queste decisioni, giudicando di volta in volta quale sia il farmaco più adatto in rapporto ai sintomi e alle condizioni cliniche del suo paziente”.

Fig.5 – Gli effetti avversi gastrointestinali, nei pazienti trattati con celecoxib a dosi di 400 mg/giorno, sono significativamente più bassi rispetto a quelli trattati con un FANS non selettivo più l’omeprazolo come gastroprotezione. Il grafico mostra la curva cumulativa degli eventi clinici significativi a carico dell’intero tratto gastro-intestinale. La curva viola del celecoxib si mantiene bassissima per circa due mesi di assunzione del farmaco, mostrando quindi un buon profilo di sicurezza per quanto riguarda gli effetti gastrointestinali. Questo farmaco può tuttavia aumentare il rischio di infarto o ictus e, come tutti i FANS, presenta una certa tossicità renale di cui occorre tenere conto. (fonte: [109])

L’Istituto Mario Negri è coinvolto anche in un progetto che vede l’utilizzo di un farmaco molto noto nella cura del Covid-19, con valenza antivirale: l’Ivermectina, già nel 2020 considerata come la possibile arma vincente contro il Covid, riducendo la carica virale del SARS-CoV-2 del 99,8% in sole 24 ore e la mortalità in media del 62% secondo una meta-analisi di 15 paper scientifici [108], e del 75% secondo un’altra recente rassegna [41]. Come spiega Remuzzi [38, 36], “l’Ivermectina è un farmaco utilizzato sia per il trattamento ad ampio spettro di infestazioni di parassiti sia per il trattamento di specifici disturbi della pelle, come la rosacea. I risultati definitivi del nostro studio (fatto da Zeno Bisoffi e colleghi dell’Ospedale di Verona, ndr) saranno disponibili a breve, e speriamo possano avere un impatto importante nel trattamento del Covid. Le evidenze emerse da vari studi di laboratorio, osservazionali, clinici (anche controllati a doppio cieco, ad es. [40], ndr) e da metanalisi hanno mostrato che l’Ivermectina è in grado di bloccare la replicazione del SARS-CoV-2, ma utilizzandola a concentrazioni molto elevate rispetto a quelle raggiunte con le dosi attualmente autorizzate (per altri usi, ndr), causando quindi una certa tossicità”. Come già l’idrossiclorochina usata ai primi sintomi nel protocollo di McCollough, quindi, essa non si presta a un uso fai da te. Per questo, le varie agenzie regolatorie (FDA, EMA ed AIFA) si sono affrettate a dare parere contrario al suo uso.

Come conclude Remuzzi [38], “probabilmente l’uso di medicinali a base di cortisone per inalazione rappresenta un trattamento efficace per i primi sintomi di Covid -19. Questo tipo di terapia alleggerirebbe la pressione sui sistemi sanitari di tutto il mondo. Inalare budesonide è semplice, sicuro, ben studiato, economico (l’Aircort spray nasale costa una ventina di euro, ndr) e il trattamento è ampiamente disponibile. Anche il desametasone (ad es. il Bentelan) è un farmaco ampiamente disponibile e a basso costo, capace di ridurre la mortalità delle forme gravi di COVID-19″. Pure l’Aspirina e il Celebrex costano meno di una decina di euro ciascuno; mentre una cura a base di Ivermectina (che all’estero si trova a circa 3 dollari a flacone di gocce da 5 ml) costerebbe all’incirca 1 euro al giorno [41], per cui è usata con apparente successo in India [43], nonostante l’OMS abbia cercato di “mettersi di traverso” [42, 44], per usare un eufemismo. Si confrontino questi costi con quelli degli anticorpi monoclonali (dell’ordine delle centinaia di euro o più), con quelli della degenza ospedaliera (427 €, 582 € e 1.278 €, rispettivamente, in reparto ordinario, subintensivo e intensivo [32]), e con i guadagni dai vaccini (che vengono somministrati quasi a tutti, non solo ai pochi malati sintomatici!), e  si capirà quali pressioni vi possano essere per mettere la “sordina” alle terapie domiciliari, per far “sparire” certi farmaci o cure low-cost dal mercato, etc.

Ecco infine, nella figura qui sotto uno schema riassuntivo di quanto illustrato che avevo realizzato per far capire meglio le cose ad alcune persone non vaccinate, ma che potrebbe in realtà essere utile – specie nel prossimo autunno-inverno – a tutti, compresi i vaccinati più anziani o più fragili. I farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) sono probabilmente quelli più indicati nelle prime fasi della malattia. Questo perché, come spiega ancora Remuzzi [38], “dopo i 4-7 giorni successivi all’infezione  – durante i quali compaiono i primi sintomi – può seguire un periodo di infiammazione eccessiva, che rappresenta la base su cui si può instaurare la polmonite. Iniziare a curarsi trattando il Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra infezione respiratoria assumendo un farmaco antinfiammatorio, al posto di un antipiretico, fa sì che l’organismo limiti l’entità della risposta infiammatoria innescata per combattere l’attacco virale. Perciò il cortisone, per i suoi effetti antinfiammatori, può essere utile nelle fasi precoci della malattia quando i sintomi COVID-19 persistono nonostante il trattamento per diversi giorni con farmaci antinfiammatori tradizionali”.

Tab.1 – Schema riassuntivo dei principali tipi di cure domiciliari sperimentate con successo contro il Covid-19 e le relative riduzioni delle ospedalizzazioni o della mortalità. Si noti come: (a) vi siano ormai numerose cure che offrono riduzioni assai elevate (> 80%) se praticate immediatamente ai primi sintomi senza aspettare il tampone PCR; e, inoltre, (b) come quelle più recenti (con FANS e/o cortisonici) garantiscano un profilo di rischio per tossicità ben più basso rispetto a quelle in passato “propagandate” da media e no-vax.

L’importanza della tempestività nelle cure e della prevenzione

Curare i pazienti affetti da Covid-19 con il massimo tempismo e direttamente a casa. È questa la strategia messa in campo dai medici dei vari comitati per le cure domiciliari per contrastare il virus e che hanno permesso loro di curare molte persone. Come spiega in un’intervista [12] il dr. Andrea Stramezzi, uno dei medici di base che cura i pazienti Covid a casa prima che abbiano bisogno dell’ospedalizzazione, “le terapie precoci funzionano. Il tempismo è fondamentale. Si deve intervenire subito con l’antinfiammatorio. Da evitare la tachipirina, che non è un antinfiammatorio e abbassa i livelli di glutatione, fondamentali per proteggersi dal Covid. Va bene qualsiasi antinfiammatorio. L’aspirina va benissimo essendo anche un antiaggregante piastrinico. L’Ibuprofene te lo danno solo con la ricetta. L’aspirina anche senza ricetta. Va presa immediatamente, al primo sintomo. Appena si ha la febbre a 38, per esempio, oppure uno strano mal di gola, un accenno di tosse, qualsiasi avvisaglia. Questo è un primo step, perché il tessuto infiammato permette più facilmente l’ingresso del virus, come tutti gli agenti batterici. L’importante è avvertire subito il medico curante, che prescrive poi una terapia adatta al paziente che già conosce”.

L’estrema importanza della tempestività nelle cure è stata di recente dimostrata da un’eccellente meta-analisi [119] di 9 differenti studi indipendenti fra loro (fra cui uno italiano), che fa vedere come le cure precoci nelle case di cura per anziani – dove evidentemente ci sono alcuni dei soggetti più anziani, più  fragili e persone con una o più comorbidità – producano un abbattimento di oltre il 60% della mortalità. Le cure usate con successo sono terapie multifarmaco che includono idrossiclorochina, due o più antinfettivi, corticosteroidi, antitrombotici e nutraceutici. Gli autori sottolineano come gli ospiti delle case di riposo siano un gruppo ad altissimo rischio e, nonostante ciò, le cure precoci risultano essere assai efficaci. Viceversa, qualora questi soggetti non vengano curati subito (cioè appena si manifestano i primi sintomi), si aggravano in misura tale che non riescono a beneficiare delle successive cure ospedaliere, perché i polmoni vengono meno e si producono micro-trombi nei polmoni e nei reni. E insistono sul fatto che le cure precoci dovrebbero essere prese in seria e urgente considerazione dalle Autorità sanitarie e dai decisori politici. Non farlo rappresenta un azzardo morale e di fatto equivale a rifiutarsi di salvare vite.

Perciò, come sottolinea Remuzzi, “occorre intervenire all’inizio della fase sintomatica, iniziando a curarsi a casa e trattando il Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra infezione respiratoria, ancora prima che sia disponibile l’esito del tampone, potrebbe aiutare ad accelerare il recupero e a ridurre l’ospedalizzazione”. Insomma, è proprio la fase del Covid-19 in cui appaiono i primi sintomi ad essere quella più efficace per trattare la malattia, prima che la risposta infiammatoria passi da utile a dannosa in quanto assolutamente eccessiva. Del resto, il vantaggio di curare precocemente le infezioni da agenti patogeni (e ridurre così la probabilità di ricoveri e di esiti infausti) è noto da oltre un secolo [78]. Ma ancor meglio dell’intervenire subito con i farmaci non appena si manifestano i sintomi del Covid è, molto verosimilmente, effettuare una prevenzione con l’assunzione quotidiana di opportuni integratori naturali (che possono essere presi da tutti in totale sicurezza) con proprietà antivirali, immunomodulanti e antinfiammatorie, i quali non prevengono affatto l’infezione, ma possono aiutare ad accelerare il recupero ed a ridurre non poco il rischio di ospedalizzazione e di effetti gravi del Covid [79]. Il motivo di ciò è illustrato più avanti, dalla Fig. 6.

Dell’uso della vitamina D nella prevenzione del Covid ho ampiamente parlato in un mio precedente articolo [71], peraltro revisionato da uno dei maggiori esperti italiani dell’argomento: il prof. Giancarlo Isaia. Sulla base di sempre più numerose evidenze epidemiologiche riportate nella letteratura medico-scientifica, appare ogni giorno più chiaro come il raggiungimento – tramite esposizione al sole o semplice integrazione quotidiana – di adeguati livelli di vitamina D3 (4.000 UI/die [72]) sia necessario non solo per prevenire le numerose patologie croniche che possono ridurre l’aspettativa di vita negli anziani e creare “comorbidità” che aggravano il Covid-19, ma anche per determinare direttamente una maggiore resistenza al Covid-19 e, di conseguenza, un netto calo della mortalità e dei ricoveri in terapia intensiva [75, 77]. Ciò non stupisce, anche alla luce del ruolo protettivo della vitamina D in numerose altre patologie virali. L’Italia, fra l’altro, è – come ben noto ai medici di base – uno dei Paesi europei (insieme a Spagna e Grecia) con maggiore carenza di vitamina D nella popolazione [73]. Pertanto, il compenso a scopo preventivo della carenza di vitamina D, può essere prezioso (non è un caso che l’Inghilterra abbia distribuito a inizio anno la vitamina D agli anziani) nel ridurre di circa 2/3 l’incidenza di infezioni respiratorie acute e degli aggravamenti del Covid nei soggetti carenti (<20 ng/mL) [87, 88]; e ne è auspicabile l’impiego terapeutico in aggiunta alle attuali cure ospedaliere, come già avvenuto con successo in vari studi condotti in altri Paesi [74, 76].

Fig.6 – La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è, inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste particelle virali. Alcuni integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di prevenzione della progressione della malattia verso stadi più gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle particelle di virus e aiutano le difese immunitarie.

Un altro integratore che ho poi scoperto essere usato in primis da numerosi medici e farmacisti in funzione di prevenzione contro il Covid è la lattoferrina. Si tratta di una glicoproteina che si trova classicamente nel latte dei mammiferi, essendo un nutriente protettivo. Ha importanti proprietà immunologiche: è sia antibatterico che antivirale [123], ed anche un antinfiammatorio e anti-cancro [126]. Vi sono prove che possa legarsi ad almeno alcuni dei recettori utilizzati dai coronavirus e quindi bloccarne l’ingresso [68], perciò può essere un ottimo integratore da assumere come contributo alla prevenzione contro l’infezione e l’infiammazione [122]. Inoltre in vitro blocca la replicazione  del SARS-CoV-2 [69, 124, 125]. Come osservava ad aprile il dr. Enrico Naldi, medico di Medicina Generale, “ad oggi ho più di 200 persone in profilassi con essa e nessuna di queste si è ammalata” [128]. Alcuni studi italiani ne hanno dimostrato anche il valore terapeutico se la si assume quando si ha il Covid-19, probabilmente perché potenzia il sistema immunitario innato e contrasta l’eccessiva risposta la “tempesta citochinica” [70, 127]: sotto forma di Mosiac in capsule, a dosaggi di circa 1 g al giorno (5 capsule) è risultata efficace in tutti gli oltre 150 pazienti Covid trattati fra Roma e Firenze, a cui ha evitato l’ospedalizzazione mostrando una diminuzione dei fenomeni infiammatori e tempi di negativizzazione dei tamponi PCR più brevi [84], senza dare effetti avversi.

Il tè è la bevanda più consumata al mondo e l’idea di sfruttare le sue molecole polifenoliche antivirali è per molti entusiasmante. L’epigallocatechina gallato (EGCG) e le teaflavine (TF) sono catechine polifenoliche che si trovano in abbondanza nel tè, soprattutto – rispettivamente – nel tè verde e nel tè nero, con una vasta gamma di benefici per la salute. Sono infatti potenti agenti antiossidanti, antinfiammatori e antivirali. La loro attività antivirale è state segnalata contro varie infezioni virali e un’analisi approfondita ha rivelato che entrambe sono molecole antivirali ad ampio spettro, senza siti di interazione definiti [66]. Agiscono in diverse fasi del ciclo virale. Alcuni studi hanno anche suggerito che hanno attività profilattica, ed un gruppo di ricercatori italiani [67] le ha testate su 10 pazienti positivi al tampone, sintomatici per SARS-CoV-2, trattandoli per 15 giorni a domicilio con due sedute di inalazione più tre capsule al giorno (catechine totali: 840 mg; EGCG totale: 595 mg). Tutti i pazienti si sono ripresi completamente e non hanno avuto sintomi in una mediana di 9 giorni, e sono usciti dalla quarantena perché privi di sintomi. Questi interessanti risultati possono aprire nuove prospettive nella prevenzione con integratori (a riguardo mi permetto di consigliare l’estratto di tè verde della Long Life); e già si studiano farmaci anti-Covid che sfruttano le molecole del tè verde, le quali funzionano contro tutte le varianti del SARS-CoV-2 e in modo dose-dipendente [120].

L’arsenale degli integratori che possiamo prendere a scopo preventivo comprende anche:

  • La vitamina C. Può potenzialmente proteggere dalle infezioni a causa del suo ruolo essenziale sulla salute immunitaria. Questa vitamina supporta la funzione di varie cellule immunitarie e migliora la loro capacità di proteggere dalle infezioni. È stato dimostrato che l’integrazione con Vitamina C riduce la durata e la gravità delle infezioni delle vie respiratorie superiori (la maggior parte delle quali si presume siano dovute a infezioni virali), compreso il comune raffreddore, il quale può essere prodotto da alcuni tipi di coronavirus con cui la nostra specie convive da tempo [80]. La dose di vitamina C raccomandata dagli studi varia da 1 a 3 g / giorno.
  • Lo zinco. È un metallo essenziale coinvolto in una varietà di processi biologici grazie alla sua funzione di cofattore, molecola di segnalazione e elemento strutturale. Regola l’attività infiammatoria e ha funzioni antivirali e antiossidanti. Lo zinco è considerato il potenziale trattamento di supporto contro l’infezione da Covid-19 a causa dei suoi effetti antinfiammatori, antiossidanti e antivirali diretti, tanto da essere impiegato anche in terapia in alcuni trial clinici attualmente in corso contro il Covid-19 [130]. L’effetto antivirale è ottenuto riducendo l’attività dell’ACE-2, la proteina delle cellule a cui l’uncino (spike) del SARS-CoV-2 si lega per entrare nella cellula [81]. La dose raccomandata da vari studi varia da 20 a 92 mg / settimana.
  • La curcumina. La possiamo assumere aggiungendo ogni giorno un cucchiaino di curcuma al cibo (associata sempre o ad olio o altri grassi od a pepe nero, che la rendono biodisponibile), ha un ampio spettro di azioni biologiche, comprese attività antibatteriche, antivirali, antimicotiche, antiossidanti e antinfiammatorie [82], oltre ad avere un potente azione anti-cancro. Inoltre inibisce la produzione di citochine pro-infiammatorie nelle cellule, ed esercita un effetto antivirale su un’ampia gamma di virus, tra cui virus dell’influenza, adenovirus, epatite, virus del papilloma umano (HPV), virus dell’immunodeficienza umana (HIV), etc. [83]. Pertanto, la curcumina potrebbe essere un altro integratore interessante nella lotta alla patogenesi del Covid-19.
  • La quercetina. Si tratta di un flavonoide le cui proprietà antivirali sono note da vari studi [121]. Tre trial clinici hanno mostrato che l’integrazione di quercetina riduce incidenza e durata delle infezioni del tratto respiratorio [129]. Essa inibisce due bersagli del SARS-CoV-2 ed ha la capacità teorica, ma significativa, di interferire con la replicazione di questo virus, al punto da risultare fra i primi 5-6 composti candidati per la realizzazione di nuovi antivirali contro il SARS-CoV-2 [122]. Vi sono evidenze che l’uso della quercetina insieme alla vitamina C eserciti un’azione antivirale sinergica che aumenta l’efficacia della quercetina, per cui sono indicati nella profilassi in popolazioni ad alto rischio e nel co-trattamento di pazienti con Covid-19 [81, 121]. Anche le azioni antinfiammatoria e di inibitore della trombina possedute dalla quercetina potrebbero risultare utili a riguardo.

Tab.2 – Quadro riassuntivo dei principali integratori naturali impiegati contro il Covid-19 secondo la letteratura scientifica peer-reviewed. Per alcuni di essi abbiamo già dei primi dati quantitativi sulla loro efficacia nell’evitare aggravamenti o nei pazienti che li assumevano in precedenza (nel caso della vitamina D) o in pazienti sintomatici trattati con essi (nel caso di vitamina D, lattoferrina, estratto di tè verde). Ciò suggerisce un’efficacia elevata anche per chi li assume quotidianamente come forma di prevenzione di forme gravi prima che si manifestino i sintomi (che esordiscono alcuni giorni dopo l’infezione).

L’importanza del medico di base che visita e cura i pazienti a domicilio

Dunque le terapie ci sono e in molte parti del pianeta le stanno applicando con successo. Praticamente, quasi tutti i malati curati subito guariscono. Fanno eccezione i pochissimi casi (6 su oltre 60.000, pari a un tasso di letalità (cioè, al solito, la proporzione di decessi fra i casi confermati di malattia) di appena lo 0,01% [19], che – come ordine di grandezza – è circa 30 volte più basso del tasso di letalità globale per Covid-19 ottenuto nel Regno Unito grazie alla vaccinazione di massa, che attualmente si aggira intorno allo 0,3%) che arrivano a tali medici troppo tardi, dopo l’ottavo giorno dai primi sintomi; oppure quelli che hanno già malattie debilitanti (le famose “comorbidità”), tali che il Covid è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il numero dei medici che applicano con successo queste terapie domiciliari è crescente, forse perché vedono i risultati. Ad oggi, però, in Italia queste cure non sono ancora riconosciute dalle Autorità sanitarie preposte (in pratica, l’AIFA, sebbene anche il Ministero della Salute e il CTS, se volessero, potrebbero fare molto per sollecitarne l’adozione), vittime forse di una incomprensibile “prassi” che sa più di burocratico che di logico e prudente. Pertanto, o il tuo medico di famiglia le adotta oppure hai la scelta fra cambiarlo (oggi ci vogliono pochi minuti), rivolgerti a un medico che ti curi in regime di libera professione (qualcuno lo fa perfino gratuitamente) o rischiare di crepare, come accaduto già per oltre 140.000 nostri connazionali (numero che include anche i morti per Covid nella prima ondata “in più” rispetto ai dati ufficiali dell’ISS perché morti a casa e stimati successivamente dall’Istat).

In effetti, nessun protocollo di cura può salvare la vita dei malati di Covid-19 se un medico di famiglia è inadeguato oppure se non è messo nelle condizioni di fare il proprio mestiere da chi, a livello nazionale e/o locale, dovrebbe: (1) realizzare le migliori linee guida di cura domiciliare tenendo conto anche del parere dei medici stessi che operano sul campo, (2) fornire i dispositivi di protezione individuale, etc. Come spiega McCullough al Senato del Texas, “ho controllato l’operato di molti medici di base e, quando i pazienti li chiamano, rispondono ‘io non curo il Covid’; e quando ho chiesto loro il perché, mi hanno risposto ‘perché non esistono cure’. Gli ho chiesto anche se chiamano i loro pazienti dopo un paio di giorni per sapere come stanno, e mi hanno risposto di no. Questo non è solo non curare il Covid: è non aver cura dei pazienti. Questa è una perdita di compassione. Dunque noi abbiamo una crisi di compassione, nel nostro paese, nel campo della medicina di base. Se tu non chiami il tuo paziente dopo due giorni per sapere come sta e se ha bisogno di ossigeno, questo è un tradimento del giuramento di Ippocrate, perciò dobbiamo dare una regolata al sistema medico”. Ecco, questo è quanto è accaduto negli Stati Uniti d’America.

Anche in Italia i pazienti malati di Covid-19 – specie nella prima ondata – sono stati in molti casi abbandonati a se stessi, perché a loro volta i medici di famiglia non avevano ricevuto dispositivi di protezione individuale idonei e, d’altra parte, già in epoca pre-Covid non erano obbligati a visitare a domicilio. In alcuni casi si trattava di medici anziani che, in tali condizioni, rischiavano la vita, quindi si può anche capire (dobbiamo anzi ringraziare gli oltre 350 medici italiani morti per Covid!); ma in alcuni altri casi si trattava di medici più giovani che avevano semplicemente paura del virus, come rivela in una popolare intervista su YouTube il dr. Fabio Milani, medico di famiglia [17]: “Un medico che ha paura di un virus è ‘come un bagnino che ha paura dell’acqua’, ed allora è meglio che cambi mestiere”. Il risultato è stato, secondo Milani, che “oltre il 90% dei pazienti visitati in questi mesi di pandemia dai pochi medici di base che vanno a casa non sono stati in realtà loro assistiti, bensì pazienti di loro colleghi che non vanno a casa a visitarli”. Questa situazione è, evidentemente, inaccettabile, ma le Autorità sanitarie poco o nulla hanno fatto per modificare davvero le cose, e tale inerzia è costata moltissimo in termini di vite umane.

Come rivela Milani, molti medici di base, oltre a non andare a casa, lasciano i pazienti senza cure con la famosa “vigile attesa e tachipirina” propinata dalle linee guida statali, per cui poi questi si aggravano e, se non vengono curati, spesso finiscono in ospedale. Ma chi li ha curati a casa “in scienza e coscienza” – come ogni medico dovrebbe fare [18] – all’esordio dei primi sintomi praticamente non ha avuto morti od ospedalizzazioni fra i propri assistiti. Alcuni di questi coraggiosi medici, come racconta lo stesso dottor Milani, hanno curato a casa “anche persone con 63 di saturazione, mentre le USCA con 92 ti ricoverano e con 80 ti intubano. Certo, per fare questo tipo di lavoro i medici di medicina generale si devono assumere delle responsabilità, ma loro sono pagati per fare questo. È troppo facile mandare i pazienti direttamente all’ospedale o dallo specialista, questo non è fare il medico. È chiaro che poi ti senti 3 o 4 volte al giorno con il paziente per valutare la progressione della malattia. Ma ho avuto anche un paziente di 85 anni con 4 bypass e 79 di saturazione e curandolo a casa mi è guarito” [17].

Di conseguenza, ciò che in molti casi è successo (e che purtroppo, per quanto incredibile, ancora oggi succede se si leggono le cronache) è che le persone ammalatesi, se abbandonate dal medico di famiglia che non andava a visitarle a casa e non si prendeva sulle proprie spalle la responsabilità di “forzare” le linee guida statali, “si sono dovute recare in ospedale, dove facevano loro la TAC, diagnosticavano loro una polmonite interstiziale e venivano mandati a casa con zero terapie. Ovviamente, poi queste persone riferivano la cosa al proprio medico curante e stavano ancora male, per cui chiedevano una qualche cura” [17]. E molti medici di famiglia rispondevano: “Se non ti hanno dato niente loro, perché devo dartelo io?”. Anche in questa situazione deteriorata, però, se queste persone riuscivano a mettersi in contatto con i pochi medici di base che effettuano le cure domiciliari, nel giro di qualche settimana – in base anche all’età del paziente, poiché per un anziano con comorbidità ci vuole più tempo – si riprendevano. Quindi, conclude il dr. Milani, “diversi medici di famiglia di fatto oggi non rispettano il giuramento di Ippocrate, per il quale il medico deve agire secondo ‘scienza e coscienza’ e fare tutto ciò che è possibile per la salute del paziente”. Per fortuna, però, non tutti i medici sono così e, anzi, molti si stanno spendendo con estrema generosità, coordinandosi fra loro per condividere le esperienze ed i successi delle cure.

Tab.3 – Curare i cittadini con “vigile attesa e tachipirina” e non suggerire ai cittadini una prevenzione con opportuni integratori non è una grande idea delle Autorità sanitarie italiane, per usare un gentilissimo eufemismo. Ecco le azioni esercitate dai principali integratori e principi attivi illustrati nel testo di questo articolo. Si noti che, per gli integratori naturali, le dosi di trattamento sono sempre più alte di quelle di prevenzione, per ragioni peraltro “ovvie” se si tiene conto di quanto illustrato nella Figura 6. Naturalmente, mentre l’assunzione preventiva a basso dosaggio di integratori naturali è sicura, l’uso terapeutico di farmaci e di integratori deve essere sempre consigliato dal proprio medico e fatto sotto il suo stretto controllo. Le informazioni sul dosaggio terapeutico qui riportate sono tratte dalla letteratura peer-reviewed, ma non sono assolutamente fornite per un uso “fai da te” (leggi l’avvertenza in fondo a questo articolo).

Vorrei sottolineare il fatto che la situazione descritta purtroppo perdura ancora oggi, poiché le Autorità hanno sostanzialmente lasciato allo sbando i Medici di Medicina Generale; ed è aggravata dal fatto che in queste settimane i vari quotidiani italiani, invece di evidenziarla, hanno pubblicato vari articoli su casi di cronaca relativi a persone under 50 non vaccinate che sono morte di Covid, lasciando intendere dal titolo degli articoli che chi non si vaccina muore (non so se influenzati subliminalmente da Mario Draghi e dal suo: “L’appello a non vaccinarsi è un invito a morire”). Se però si vanno a leggere le storie raccontate dagli stessi articoli, o da quelli di altri giornali che rivelano i dettagli, si scopre sistematicamente – e qui risparmierò i nomi e l’elenco dei casi che ho approfondito per rispetto delle famiglie delle vittime – che la bella 33-enne morta di Covid era fragile perché reduce da un’operazione, ma quando poi aveva la febbre nessun medico è andata a visitarla, per cui quando i genitori l’hanno portata al Pronto Soccorso era tardi. È chiaro che anche un ragazzo, se non viene curato quando ha i primi sintomi e non viene visitato se ha la febbre, può morire di Covid. Ma questa è “omissione di soccorso”, per usare un eufemismo, ovvero malasanità – oltre che una mistificazione della realtà – non un caso di morte per Covid dovuto alla non vaccinazione!

Perché la pandemia non è controllabile solo con vaccini e lockdown

Come alcuni dei medici “disobbedienti” che forniscono ai pazienti cure domiciliari precoci spiegano al grande pubblico, “non hanno capito che questa pandemia non è controllabile soltanto con i vaccini: possiamo superarla solo impiegando anche le terapie che già esistono. La vera notizia è: il Covid si cura, le persone si curano a casa e guariscono, con farmaci semplici poco costosi e con bassissimi effetti collaterali. Perciò se i governi ammettessero che il Covid – una brutta bestia che può portare alla morte ed a danni permanenti in molti organi e anche al cervello, si può curare – decadrebbe l’inutile e pericoloso obbligo vaccinale (per i sanitari, ndr), peraltro anticostituzionale. Inoltre, in quel caso verrebbe meno la possibilità di somministrare i vaccini sperimentali a soggetti non reclutati come volontari, poiché sia l’autorizzazione della FDA sia quella dell’EMA sono in deroga alle norme. I vaccini anti-Covid attuali sono sperimentali fino al 2023 (in sostanza, sono stati messi in commercio più o meno tre anni prima di quando lo sarebbero stati in una situazione ordinaria [31]) e, in presenza di una terapia efficace, l’utilizzo di vaccini sperimentali non è più possibile”, una tesi a mio parere difficile da smontare e peraltro sostenuta in un eccellente articolo pubblicato alcuni mesi fa su questo stesso sito [13] dall’avvocato Mark Bosshard, che in un pezzo più recente affronta anche l’argomento della “sperimentalità” dei vaccini contro il Covid [117].

In effetti, come sottolineano gli stessi esperti del settore, i vaccini anti-Covid odierni “non sono formalmente approvati, ma vengono invece somministrati sotto Autorizzazione all’Uso di Emergenza (EUA)”, in quanto si trovano ancora nella cosiddetta “fase 3” della sperimentazione. Non a caso, ad esempio, nel sito dell’EMA e in quello dell’AIFA si legge che, entro il dicembre 2023 (cioè entro 2 anni da ora), “per confermare l’efficacia e la sicurezza di Pfizer, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire la relazione finale sullo studio clinico C4591001 randomizzato, controllato verso placebo, in cieco per l’osservatore” [14, 15]. Detto in altre parole, i vaccinati sul campo sono al momento ancora una sorta di “cavie”, in quanto non sono noti gli effetti a medio e soprattutto a lungo termine (perché non c’è stato ancora il tempo per osservarli). Ed il fatto che in questi mesi le aziende produttrici e l’FDA (proprio mentre due suoi funzionari “top” danno le dimissioni [116]) stiano “in gran fretta” mirando a togliergli il “bollino” di “sperimentali” (ostacolo verso l’obbligo vaccinale) dandogli l’autorizzazione definitiva non cambia di una virgola la sostanza delle cose: non ne conosciamo gli effetti a lungo termine. Ciò per due motivi: (1) non è trascorso abbastanza tempo per osservarli (ad es. il cancro è una patologia che si sviluppa dopo anni) e (2) si è scelto di non effettuare una farmacosorveglianza “attiva”.

E anche sui numerosi effetti avversi gravi dei vaccini già osservati per i vaccini anti-Covid attuali- o che si stanno scoprendo ora grazie a ricercatori indipendenti – c’è poca o nessuna informazione del pubblico sia attraverso i media sia prima di sottoporsi alla vaccinazione, quando viene fatto firmare di corsa un lungo documento (che accenna solo in fondo ad alcuni dei rischi) prima ancora di vedere il medico, che fa una rapida anamnesi tramite un questionario, ma come pura formalità. Eppure – sottolineano i medici – “quello all’informazione è un diritto fondamentale avente a che fare con l’etica della ricerca clinica”. Ma l’etica, quando ci sono di mezzo le cure alternative ai vaccini, sembra essere andata “a farsi benedire” da un pezzo. Ne sa qualcosa il dr. Giuseppe De Donno, che aveva applicato con risultati eccellenti la terapia con il plasma iperimmune e che a luglio è stato trovato suicida. L’ematologo del San Matteo di Pavia, Cesare Perotti, ha sperimentato anch’egli con successo questa terapia, e spiega che “Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna non si sono fermati perché il trattamento funziona: hanno allargato la sperimentazione alle RSA. Da noi il Ministero della Salute tace e l’AIFA non si è ancora pronunciata ufficialmente” [112]. In effetti, anche una signora che conosco personalmente è stata ospedalizzata e intubata a marzo al San Matteo e mi ha raccontato come si sia sentita assai meglio appena ha ricevuto il plasma iperimmune. Come se non bastasse, il plasma dei guariti è anche alla base di un nuovo farmaco israeliano che è riuscito a curare in 5 giorni o meno il 93% dei pazienti con esso curati negli ospedali [131].

In Italia, invece, l’attenzione delle Autorità sanitarie e politiche sembra ormai essere rivolta, in pratica, solo a vaccini e green-pass, con una miopia assai preoccupante, tanto che perfino l’OMS ha dichiarato pubblicamente “un vaccino completerà gli altri strumenti che abbiamo, non li sostituirà” [8]. Infatti, come osserva acutamente in un’intervista [16] il prof. Andrea Crisanti, ordinario di microbiologia all’Università di Padova e divenuto famoso per i suoi studi su Vo’ Euganeo: “Bisogna ricordare che gli unici Paesi Covid-free lo sono non grazie al vaccino, ma ai sistemi di controllo e tracciamento”. E Crisanti poi osserva come i tamponi antigenici non siano strumenti efficaci del sistema di sorveglianza italiano sia perché hanno una sensibilità bassa sia perché interrompono il tracciamento, in quanto è difficile che chi risulta positivo al test svolto in farmacia poi si autodenunci. Infine, Crisanti sottolinea che “i vaccini non bastano sia perché non offrono garanzia di sicurezza al 100% sia perché non sappiamo quanto dura la protezione offerta dal vaccino; inoltre non possiamo escludere l’arrivo di nuove varianti che resistano al vaccino”. Tutti problemi che, evidentemente, non affliggono le terapie domiciliari.

E, come illustrato molto bene da Stefano Magni in un suo articolo [20], il caso più clamoroso in Europa è forse la Svezia, che non ha avuto il lockdown e sta meglio di noi, nonostante le fosche previsioni fatte nella primavera del 2020 dal prof. Neil Ferguson dell’Imperial College, che profetizzava fino a 18 morti al giorno ogni 100.000 abitanti nel momento del picco, in caso di assenza di misure di lockdown. Il governo di Stoccolma, invece, ha ignorato le sue parole e non ha chiuso nulla. Ma, osserva Magni, “le profezie dell’Imperial College non si sono avverate mai. In totale, da febbraio 2020 al 4 agosto 2021 le vittime di Covid in Svezia sono state 14.620, circa 4 volte e mezzo in meno rispetto a quelle previste in uno scenario senza lockdown. In termini relativi, la Svezia ha subìto solo 1438 morti per milione di abitanti, collocandosi al 39-esimo posto nel mondo, dietro a quasi tutti i Paesi europei che hanno applicato il lockdown (l’Italia è al 16-esimo con 2122 vittime per milione di abitanti). Tuttavia oggi è così radicata l’idea che il lockdown salvi le vite che, se la realtà contraddice quest’idea, è la realtà che va messa da parte”.

In realtà, il modo migliore per capire che la pandemia non è controllabile solo con i vaccini è quello di fare due conti. Facciamo, infatti, un semplice esperimento mentale. Supponiamo di aver vaccinato con due dosi il 100% della popolazione italiana, che è la situazione sognata da chi non si rende conto che basta concentrarsi sugli over 50 (dato che il 97% dei morti italiani per Covid sono over 50). Ebbene, anche in questa situazione che all’apparenza migliore non potrebbe essere, dato che i vaccini hanno un’efficacia nel prevenire la mortalità che è – secondo gli ultimi dati di Public Health England [21] – di circa il 97% per Pfizer e fra il 75 e il 99% per Astrazeneca, si avrebbe che, della popolazione di 27,3 milioni di over 50 italiani, circa 1-3,5 milioni di persone non sarebbero protette dal vaccino contro l’esito mortale. Pertanto, per queste persone vaccinate che, se contagiate, morirebbero (e che oggi, dai dati israeliani, sappiamo  essere in gran parte ancora anziani con comorbidità [22], come prima dell’avvento dei vaccini), avere un protocollo di cure domiciliari precoci ed efficaci è fondamentale, perché solo così si potrebbero abbattere almeno fino all’80-85% le loro ospedalizzazioni, evitando i temuti lockdown e il relativo impatto sull’economia.

Fig.7 – Grafico di confronto della letalità del Covid-19 con i diversi tipi di interventi di sanità pubblica. La prima colonna mostra la letalità per Covid in Italia prima della campagna vaccinale, che si aggirava intorno al 2%. La seconda colonna mostra la letalità del Covid dopo la campagna vaccinale in un Paese come il Regno Unito, che è partito prima di noi nella vaccinazione di massa: è circa 9 volte inferiore, come ci si aspetta essendo stato vaccinato circa il 90% della popolazione over 60. La terza colonna stima la letalità che si avrebbe aggiungendo alle vaccinazioni delle cure domiciliari precoci con un protocollo “serio”, non certo l’attuale “tachipirina e vigile attesa” (si noti che il tasso di letalità è sempre inferiore al tasso di ospedalizzazione e che le cure domiciliari precoci migliori possono abbattere le ospedalizzazioni dell’85%). La quarta colonna stima invece l’ulteriore abbattimento della letalità con la prevenzione tramite integratori naturali (qui supposti abbattere le ospedalizzazioni dell’80%, un’ipotesi piuttosto ragionevole alla luce dei primi dati degli studi sull’argomento presenti nella letteratura scientifica). Si vede come il problema della letalità del Covid sarebbe riducibile a valori minimi (appena 5 per mille, da confrontarsi con l’1 per mille dell’influenza stagionale in epoca pre-Covid stimato dall’ISS [110]), se si prendesse atto del fatto che le vaccinazioni da sole non possono risolvere il problema, specie in un Paese turistico e quindi ad alta circolazione virale come l’Italia (per giunta l’effetto dei vaccini è temporaneo, decadendo l’efficacia nel tempo, e potrebbe essere aggirato all’improvviso da una nuova variante).

La variante Delta è davvero così pericolosa come viene dipinta?

In questa terzultima parte dell’articolo vorrei affrontare una questione che, pur non avendo all’apparenza a che fare con il discorso delle cure domiciliari, è importante per “leggere” meglio la situazione attuale. Mi riferisco alla pericolosità della variante Delta rispetto alle precedenti, e in particolare a quella originale di Wuhan. Vorrei però prima dire, per onestà intellettuale, che in queste settimane ho avuto modo di ascoltare o leggere, da una parte, molte opinioni di medici che operano sul campo e, dall’altra, di analizzare meglio l’operato dei media, e – conoscendo bene il mondo della comunicazione – la sensazione netta che ho avuto è che vi siano forti azioni di lobbying (attuate con vari metodi, argomento che meriterebbe un articolo a sé), oltre che di protezione dei propri interessi personali (con riferimento ai cosiddetti “esperti” in TV). Ciò non mi meraviglia, perché le avevo incontrate anche in altri campi (ad es. energetico e inquinamento elettromagnetico, 5G, etc.), tuttavia ora è in gioco la vita di molte persone e la portata di tali azioni è senza precedenti. Di questo passo, dato che si stanno introducendo pure controlli a tappeto di chat, mail [10, 11] e device [63], si rischia di avere una situazione che ricorda Paesi che biasimiamo.

Tornando all’argomento Delta, va innanzitutto detto che i sintomi di questa variante – ormai largamente prevalente anche in Italia e molto più contagiosa della Inglese, in quanto la proteina “spike” si attacca meglio alle cellule umane – sono molto diversi da quelli delle varianti precedenti [25]: per le persone completamente vaccinate, i sintomi principali dell’infezione Delta sono mal di testa, naso che cola, starnuti e mal di gola. I sintomi che erano molto più comuni nella versione precedente del virus, invece, sono scesi in fondo alla lista: la perdita dell’olfatto è all’11-esimo posto, la febbre è al 12-esimo e la mancanza di respiro è in fondo alla lista, addirittura al 29-esimo posto. Per le persone non vaccinate, in particolare, i sintomi principali del Covid sono mal di testa, mal di gola, naso che cola, febbre e tosse persistente. La perdita dell’olfatto si colloca al 9° posto e la mancanza di respiro al 30-esimo. Secondo i ricercatori, la spiegazione di questi cambiamenti nella sintomatologia è che le persone che sono vaccinate ma sviluppano comunque il Covid-19 tendono a sviluppare sintomi più lievi, così come i giovani (che ora costituiscono una percentuale maggiore di casi rispetto a prima nella pandemia).

Inoltre, come  spiega il dr. Gabe Kelen, direttore della medicina d’urgenza presso la Johns Hopkins Medicine di Baltimora (USA), “non ci sono prove chiare che la variante Delta sia più letale del virus originale di Wuhan. Se si considera il numero totale di decessi, la Delta potrebbe essere più pericolosa per la vita rispetto ad altre varianti semplicemente perché più persone potrebbero esserne infettate” [23]. Le prime ricerche sulla variante Delta suggeriscono che potrebbe essere collegata a infezioni più gravi. Uno studio su 38.805 casi pubblicato da Public Health England l’11 giugno [24] ha rilevato che, dopo aver aggiustato i dati per età, sesso, etnia e stato di vaccinazione, le persone infette dalla variante Delta avevano un rischio maggiore di 2,61 volte di essere ricoverate entro 14 giorni dall’infezione rispetto alle persone infettate dalla variante Alfa (o Inglese). Ma tale risultato va preso un po’ “con le molle”, poiché confrontare i tassi di ospedalizzazione di due popolazioni così diverse – quali sono quelle dei non vaccinati prima e dopo l’inizio della vaccinazione di massa – è difficile, e la vaccinazione può introdurre forti effetti distorsivi. E per non parlare del fatto che lo stesso Giorgio Palù, stimato virologo e professore emerito all’Università di Padova, prima di diventare presidente dell’AIFA aveva dichiarato, con apprezzabile sincerità, in un’intervista, “c’è più rischio di morire di lockdown, di chiusura, di fame che di Covid-19” [113].

Da Israele Jacob Haviv, direttore di una delle più grandi strutture sanitarie di Gerusalemme, l’Herzog Medical Center, parla dell’impatto della Delta [102]: “Non abbiamo osservato un decorso più grave della malattia rispetto alle ondate precedenti, ad eccezione forse di un peggioramento più rapido durante i primi giorni. Il resto della malattia sembra essere lo stesso di prima e, in ogni caso, certamente non più grave”. Come spiega dagli USA il prof. McCullough, “il coronavirus è mutato molto, diventando mite, più simile a una comune influenza. Ora sappiamo dall’esperienza indiana che la variante Delta è facile da curare – fornendo tempestivamente pochi farmaci – senza che vi siano ospedalizzazioni o che accada il peggio. Perciò non dobbiamo avere paura di questa variante, che sta rapidamente diventando prevalente. Al contrario, la variante originale di Wuhan non era facile da curare. Con la variante indiana i media hanno creato un eccesso di paura, ma ora qui da noi in Texas non vi sono molte ospedalizzazioni e la situazione è completamente sotto controllo. Perciò non abbiamo chiuso nulla, perché noi qui curiamo il problema con le cure appropriate. Se si cura il problema, tutte le altre cose – circolazione del virus, chiusure o aperture, vaccini o non vaccini – non contano. Quando i pazienti vengono trattati con una combinazione di semplici farmaci, si riduce sia la gravità delle infezioni sia – fino all’85% – il tasso di ospedalizzazioni” [8].

Come si conciliano le affermazioni tranquillizzanti di medici come McCullough e Haviv o dei nostri Zangrillo e Bassetti [54] – che hanno in comune di essere dei clinici che operano sul campo – con quelle terrorizzanti che vengono invece dai medici “da poltrona” o da articoli scientifici che, come accennato, si affidano a elaborazioni assai complesse pur di cercare di dare dei numeri? La variabilità del Covid – che varia da una malattia completamente asintomatica a una grave malattia – è così grande che occorrerebbe un numero assai elevato di persone da confrontare per stabilire statisticamente se la Delta sia più mortale o meno. Di certo, parecchie persone contagiate dal Covid oggi non hanno neppure sintomi, e lo stesso prof. Palù (parlando non tanto da presidente dell’AIFA ma da virologo bene informato quale è) spiega che la variante Delta “secondo uno studio cinese, pur essendo 1260 volte più contagiosa del ceppo originario, colpisce maggiormente le vie aeree superiori e sembra avere meno localizzazione polmonare” [26]. Detto in parole povere, colpisce meno i polmoni, il che naturalmente è una buona notizia.

“Il virus”, spiega ancora Palù in un’altra intervista, “cerca di persistere nella popolazione, adattandosi alla specie umana. Il che vuol dire essere sì più contagioso, per la necessità di trasmettersi, ma anche una minore letalità, quindi assomigliare a un’influenza. Il fattore che contribuisce maggiormente a questa endemizzazione è sicuramente l’immunizzazione” [116]. A tal proposito, risulta molto importante la recente scoperta, fatta in Israele, del fatto che l’infezione naturale conferisce alle persone una maggiore immunità rispetto al vaccino Pfizer, nonostante quest’ultimo sia probabilmente il più potente oggi usato per le vaccinazioni anti-Covid. Per l’esattezza, è risultato [118] che l’immunità guadagnata dopo il recupero da un periodo di Covid-19 (variante Delta) è circa 13 volte più forte di quella ottenuta con due dosi del vaccino Pfizer. Ovviamente, questo non significa che bisogna cercare di infettarsi naturalmente, ma ciò fornisce un ennesimo valido argomento contro la vaccinazione di bambini, ragazzi e giovani adulti, che già di per sé era altamente sconsigliabile per il rapporto rischio-beneficio nettamente sfavorevole [2].

Insomma, con la Delta non sembra esserci motivo di troppa preoccupazione, specie implementando finalmente nel nostro Paese un protocollo serio di cure domiciliari, in assenza del quale i decisori avranno la responsabilità dei maggiori morti. Ma gli interessi in gioco sono altissimi (si pensi all’immenso business dei vaccini, dei tamponi, degli anticorpi monoclonali, etc. [45, 47]), ed è sempre più evidente come vi siano forti e ben orchestrate pressioni, da parte di vari attori coinvolti, per creare continuo allarme nei confronti di una malattia che, come visto, oggi sappiamo bene come curare con farmaci poco costosi. Anche i media, come osserva il prof. Zangrillo [27], “si sono innamorati del filone Covid, ma vi è un’enorme responsabilità di chi comunica. Chi spaventa le persone con toni allarmanti andrebbe sanzionato”. Del resto, già si parla della variante Lambda come potenzialmente più resistente ai vaccini [46], e di questo passo per le nuove varianti non basteranno le lettere dell’alfabeto. Dunque gli stakeholder non avranno difficoltà a farci credere che le nuove sono più pericolose delle precedenti per spingerci a fare la terza, la quarta o l’n-esima dose [52] di vaccino, salvo poi apprendere dai valorosi medici che curano a casa che anche queste varianti in realtà – se curate con i semplici protocolli illustrati – pericolose non lo sono affatto.

Le cure domiciliari sono la nostra “assicurazione” contro la resistenza ai vaccini

È evidente, dopo un anno e mezzo, che il Coronavirus non se ne andrà facilmente, e anzi probabilmente resterà endemico – come un raffreddore o una semplice influenza – tendenza del resto confermata dai dati del Regno Unito, che sono i più verificabili [115]; per cui servono strategie sostenibili [55] e una mentalità della prevenzione, uscendo quindi dalla mentalità dell’emergenza, che oltretutto ha ormai travalicato per molti aspetti il recinto costituzionale, come ho illustrato in un precedente articolo [56]. È chiaro anche – eccetto che, evidentemente, ai nostri politici – che è un virus che va prevenuto e combattuto prevalentemente a casa, se vogliamo uscire dalla fase emergenziale ormai continua, che ha prodotto ingenti danni economici attraverso lockdown, green-pass e restrizioni varie; e, al tempo stesso, notevoli danni sanitari, per la mancata erogazione di servizi sanitari relativi a molte patologie cronico-degenerative ben più serie del Covid. Invece, in Italia e altrove, politici, virologi e scienziati stessi hanno fatto spesso a gara con dichiarazioni “sorprendenti”, disconnesse dalle conoscenze scientifiche e dalla realtà dei fatti (si pensi, ad esempio, al “no” iniziale alle mascherine, all’illusione dell’immunità di gregge, etc.), finendo per influire negativamente sia sul comportamento dei cittadini sia sulle iniziative dei decisori.

Tab.4 – Come si può vedere dalla metà alta di questa tabella, attualmente non stiamo agendo su alcuna delle grandi cause note e modificabili di elevata mortalità per Covid-19. Nella parte bassa della tabella, invece, si vede come le attuali strategie utilizzate per abbattere la mortalità da Covid-19 presentino numerosi svantaggi senza risolvere assolutamente il problema, cosa che sarebbe invece possibile adottando parallelamente ai vaccini (che presentano un rapporto rischi / benefici favorevole nella popolazione più anziana) un “piano B” basato su varie misure, con in testa l’adozione di un protocollo “serio” di cure domiciliari precoci, l’informazione tramite i media della verosimile utilità di alcuni integratori naturali (dalla cui assunzione le persone non hanno nulla da perdere ma potenzialmente molto da guadagnare), etc.

Come osservano a riguardo alcuni esperti italiani di igiene e sanità pubblica [57], “occorre una ridefinizione degli obiettivi. Mentre il controllo del tasso di occupazione delle terapie intensive è un indicatore fondamentale nel breve periodo, esso non può diventare il fine ultimo su cui si organizzano le strategie di risposta a medio-lungo termine. L’obiettivo generale deve essere il benessere sanitario ma anche sociale dell’intera popolazione, tramite il controllo dei vari determinanti della salute”. E poi ci spiegano: “Diversi autori suggeriscono che il fenomeno che stiamo osservando non andrebbe considerato come una semplice pandemia ma come una sindemia, ovvero una situazione nella quale due diversi tipi di malattie, il Covid-19 e le malattie cronico-degenerative, sono presenti in una popolazione e tendono a presentarsi negli stessi individui a causa di fattori sociali ed economici [62]. L’interazione tra le due patologie produce effetti negativi sulla salute che sono amplificati e risultano quindi anche superiori, a livello di sistema, rispetto alla semplice somma dei singoli effetti [86]. In questo senso, il controllo della pandemia non può prescindere da una attenta gestione delle malattie croniche e dei loro determinanti sociali”.

Del resto, ormai anche le pietre hanno capito che c’è un enorme “buco nero” nella lotta clinica al Covid, che è l’assistenza domiciliare. Come spiegava in un’intervista [53] che oggi appare quasi comica il pneumologo Luca Richeldi (ma il membro del CTS, l’organismo che poteva e doveva spingere per intervenire in tal senso era lui, non noi!): “Abbiamo creato nuovi posti letto di rianimazione e ospedali dedicati al Covid. Ci siamo dimenticati però delle cure sul territorio: questo significa avere la possibilità di seguire i malati nelle loro abitazioni, senza che arrivino in ospedale e quindi non togliere spazio e risorse ad altre patologie”. Di fatto, le cure domiciliari sono state bellamente ignorate per permettere una sorta di vaccinazione coatta.  Ma le persone, anche se vaccinate, si possono ammalare gravemente e vanno curate. E se poi la variante Lambda o “Vattelapesca” renderà inutile il vaccino, non si potrà più tornare indietro al lockdown, dopo aver tanto insistito sull’efficacia dei vaccini e aver stremato il tessuto economico e sociale [60]. Intanto, i dati rilasciati dal Ministero della Sanità in Israele – dove la vaccinazione è partita prima – mostrano che la protezione del vaccino Pfizer dall’infezione della Delta crolla ad appena il 16% dopo alcuni mesi [59, 90]. E il declino dell’efficacia dei vaccini nel tempo emerge anche altrove, come sottolineato dal prof. Ricolfi [29].

Ecco perché in Israele è ormai chiaro che il vaccino non può essere il “proiettile d’argento” che da solo ci libera da questa moderna peste [61]: occorre puntare sulle cure domiciliari, senza “se” e senza “ma”. Come ci insegna la storia, ampiamente illustrata in un mio precedente articolo [6], dei vaccini “leaky” (cioè che non prevengono l’infezione e neppure la trasmissione a terzi, come i vaccini anti-Covid attuali), prima o poi si sviluppano dei “ceppi mutanti di fuga” sempre più resistenti ai vaccini. Quindi, le terapie domiciliari sono una sorta di “assicurazione” contro un (lento o) improvviso calo di efficacia dei vaccini, e costando assai poco ci eviteranno anche il sottile “ricatto” da parte dei loro produttori, che è sia morale sul comprarli per i paesi più poveri sia diretto, con il costo a fiala sempre più alto, pari fino a 24 volte il costo reale. Secondo il numero uno di Pfizer, “il costo di una fiala di vaccino anti-Covid potrebbe raggiungere i 175 dollari nei prossimi anni” [48]. Solo per l’Italia l’aggravio è di 4 miliardi di euro, con cui si sarebbero potuti allestire oltre 40.000 nuovi posti di terapia intensiva o assumere 49.000 nuovi medici.

Gli ultimi dati a disposizione, poi, mostrano come le persone vaccinate possano trasmettere l’infezione quasi al pari delle persone non vaccinate: almeno un vaccinato su due lo fa [21] e la carica virale di un non vaccinato e di un vaccinato infetto è – per ammissione pubblica dello stesso immunologo di fama mondiale Anthony Fauci – praticamente la stessa [65]. Il che è solo un’ennesima, ulteriore conferma dell’assurdità dal punto di vista rischi-benefici e dell’inutilità pratica – già evidenziate in due miei precedenti articoli [2, 7] – del vaccinare bambini e ragazzi; ma anche dello stesso green-pass, poiché il vaccino non conferisce praticamente alcuno “status” speciale per quanto riguarda la possibilità di infettarsi e di trasmettere a terzi la malattia. Come osserva l’esperto analista Gianandrea Gaiani [64], “il Green Pass consente ai vaccinati, che possono comunque contrarre il virus, di essere ‘liberi’ di contagiare anche senza esserne consapevoli, e in ogni caso senza bisogno di sottoporsi a tamponi. Così si premia con una maggiore libertà il vaccinato (discriminando il non vaccinato), ma si rischia di favorire la diffusione del Covid. Di fatto (abbassandone un po’ il prezzo, ma soltanto fino alla fine di settembre, ndr) si scoraggia l’uso di uno strumento – il tampone – che consentirebbe senza dubbio una riduzione del rischio di circolazione del virus per incoraggiare il ricorso a un altro strumento – il vaccino – che permetterà un più ampio e inconsapevole rischio di contagi e il cui prezzo sta ‘stranamente’ aumentando nonostante la produzione di massa”.

Aspetta e Spera(nza): come non si gestisce una pandemia di Covid-19

Come sottolineava infatti già a marzo il dr. Stramezzi, “va benissimo fare i vaccini, ma intanto bisogna curare chi si ammala con una terapia adeguata. Non solo con antinfiammatori da banco, ma anche con il cortisone (ormone con spiccata attività antinfiammatoria, ndr), che è utile per prevenire la malattia. In una buona parte dei pazienti, la malattia può trasformarsi in quella che io chiamo malattia auto-immune, cioè una tempesta citochinica, una reazione eccessiva e anomala del sistema immunitario specifico. Dunque, quando si formano di colpo gli anticorpi, crolla il quadro clinico in poche ore, e ciò può far precipitare la situazione perché si creano dei microtrombi. Il cortisone, quindi, è fondamentale somministrarlo prima dell’aggravamento, quando il paziente sta bene, non dopo”. In effetti, anche un mio amico medico e sua moglie, entrambi quasi sulla sessantina, si sono curati dal Covid con il Bentelan – noto cortisonico usato dagli asmatici – ed i sintomi (tosse e dolore toracico) sono scomparsi in un paio di giorni, a ennesima conferma dell’utilità di assumere un antinfiammatorio nelle fasi iniziali della malattia.

Con questa figura, che credo si commenti da sola, ho cercato di mostrare graficamente la differenza di letalità del Covid-19 nei contagiati non immunizzati (come ad es. prima della vaccinazione di massa) trattati con il protocollo AIFA della “tachipirina e vigile attesa” illustrato nel testo o, nella colonna di destra, con quello delle cure domiciliari precoci con un protocollo “serio” (ne abbiamo ampiamente discusso nel presente articolo). Si può notare come la differenza sia abissale, pari a una letalità circa 50 volte più grande con il protocollo AIFA avallato dal Ministero della Salute, e come sia i vaccinati che non sono protetti dal vaccino sia i non vaccinati (per scelta o per motivi di salute) si gioverebbero enormemente di questo importante intervento di sanità pubblica che il nostro Paese non ha purtroppo ancora fatto.

Qualcuno – a mio avviso, giustamente – si è pubblicamente lamentato perché AIFA e Ministero della Salute non hanno inserito gli ultimi approcci farmacologici (accennati nel presente articolo) nelle linee guida per il trattamento del Covid. Remuzzi, sull’argomento, getta acqua sul fuoco (probabilmente per ragioni “diplomatiche”, anche se come vedremo tra poco in altri contesti non ha avuto peli sulla lingua): “È troppo presto: i lavori sono pubblicati e qualunque medico può riferirsi alla letteratura medica per trattare il suo paziente, se ne è convinto. Ma perché una terapia diventi oggetto di linee guida o di raccomandazioni da parte delle autorità regolatorie serve molto di più. Servono studi controllati, con grandi numeri di pazienti, prospettici, non ne basta uno solo, devono essere confermati da diversi gruppi di ricerca. Indubbiamente succederà, quel giorno forse qualcosa potrebbe cambiare nel nostro approccio a questi pazienti. Il medico di famiglia sarà di nuovo il protagonista delle cure e molti potranno guarire a casa senza bisogno dell’ospedale e della rianimazione”. Peccato, però, che nel frattempo molti moriranno!

Il fatto che l’AIFA non abbia ancora adottato un protocollo di cura “serio” è perciò, a mio parere, alquanto vergognoso, come sono certo avrebbe detto, con la sua consueta schiettezza, pure la mia amica Margherita Hack. Come scrivono nel loro paper Suter e Remuzzi [34], rivolgendosi a nuora perché suocera intenda, “non aspettarti di basarti sui risultati di studi controllati. Se sei fortunato, ci vorranno 3 anni per trovare una risposta, che poi magari sarà contraddetta al successivo trial (uno scenario a cui in effetti ho assistito più volte, grazie alla potenza delle lobby, ndr). Per allora, o il virus sarà scomparso o il vaccino sarà disponibile (ma con questo non si raggiunge comunque l’immunità di gregge e ha numerosi effetti avversi, ndr). Quindi, che si fa? Puoi solo fare affidamento sulle scarsissime prove che potresti trovare in letteratura e nel tuo sapere per gestire i sintomi dei pazienti e trarre vantaggio dall’esperienza maturata da uno di noi (Suter), studioso di lunga data di malattie infettive e che ha usato la sua esperienza e il buon senso per curare oltre 50 pazienti COVID-19 a casa. Alcuni di loro avevano bisogno ossigeno per distress respiratorio transitorio e solo 3 di loro ne avevano bisogno al punto da dover essere ricoverati in ospedale”.

Invece, che cosa ti combinano le Autorità sanitarie italiane? Il 26 aprile 2021 è uscita la nuova circolare [91] del Ministero della Salute, un documento che aggiorna le linee guida per le cure domiciliari dei pazienti Covid del novembre 2020 (che erano state sospese a marzo dal TAR del Lazio [92] per il ricorso presentato da alcuni medici del Comitato per le Cure Domiciliari, ma poi AIFA e Ministero della Salute avevano avuto pure il coraggio di fare ricorso a tale sospensiva, vincendolo [93]). Anche nelle nuove raccomandazioni, per la gestione farmacologica dei casi lievi di Covid-19 in ben 26 pagine di “chiacchiere varie” non viene indicata alcuna terapia, al di fuori di un eventuale trattamento sintomatico di supporto [94]: infatti, le nuove linee guida, nonostante le pressioni di alcuni Medici di Medicina Generale e di chi le “vere” cure domiciliari le applica con successo da mesi sul campo, continuano a suggerire la formula – per nulla magica e anzi potenzialmente pericolosa – “Tachipirina e vigile attesa”. Ma, come spiega molto bene l’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” [33], “il paracetamololo (cioè la Tachipirina, ndr) non solo ha una bassa attività antinfiammatoria, ma diminuisce le scorte di glutatione, una sostanza che agisce come antiossidante. La carenza di glutatione potrebbe portare ad un ulteriore peggioramento dei danni causati dalla risposta infiammatoria che si verifica durante l’infezione Covid-19″.

Le tre fasi della malattia COVID-19. Come detto, è molto importante agire già sulla prima fase, sia attraverso una prevenzione fai-da-te con opportuni integratori sia con il supporto di terapie domiciliari adeguate somministrate dai medici di base o dalle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). Tutto ciò è ancora più determinante con la comparsa di varianti del SARS-CoV-2 più virulente. Purtroppo, però, attualmente tutto ciò viene di fatto ignorato dalle linee guida ufficiali italiane.

È, insomma, il fallimento della gestione politica e sanitaria di questa pandemia, che ha messo al centro di tutto prima gli ospedali e ora il vaccino, scatenando un’assurda “caccia agli untori” – i non vaccinati, nonostante anche i vaccinati lo possano essere quasi altrettanto – pur di non curare precocemente i malati, di non mettere al centro della strategia nazionale le cure domiciliari. Il perché di questa situazione kafkiana lo ha già anticipato un ottimo articolo della Bussola Quotidiana di alcuni mesi fa [114], che fornisce preziosi indizi:  il prof. Palù (AIFA) dichiarava “Linee guida da cambiare, l’ho detto al Ministero, ma dicono che ci sono altre priorità”. E l’Agenas (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali che supporta le politiche di governo dei servizi sanitari di Stato e Regioni), da parte sua, dichiarava “Speranza non ci ha detto di lavorare sui protocolli domiciliari”. A questo punto non vi resta che unire i puntini, come nel famoso gioco della Settimana Enigmistica. Questa sembra, insomma, una classica e scandalosa vicenda di “scaricabarile” e di reticenze (nella migliore delle ipotesi). Ma qui ci sono dei morti di mezzo e, in tali casi, se le Autorità preposte lasciano che la situazione degeneri infischiandosene delle cure domiciliari, ed i media non fanno da pungolo venendo meno al loro dovere e utilità, allora solo la magistratura può intervenire per riportare i vertici di queste Istituzioni a fare ciò che si deve, e non a lavarsene le mani come Ponzio Pilato.

Conclusione: quanto possono contribuire cure domiciliari e integratori naturali?

Il prossimo passo della strategia per contrastare il Covid, invece, anche secondo i CDC statunitensi è che il governo “riconosca che la guerra è cambiata”: che puntare solo sui vaccini – e non anche su “vere” cure domiciliari precoci e su integratori naturali attraverso campagne di informazione di massa – è una strategia suicida per il Paese. In effetti, vorrei invitare a riflettere su un’importante conclusione che emerge da quanto illustrato nel presente articolo. I vaccini anti-Covid hanno un’efficacia contro la mortalità che, nel migliore dei casi (Pfizer), è in media del 97%; ma questa declina nel tempo (per cui una parte dei vaccinati, che va dal 3% iniziale in su, non sono protetti dalla morte), mentre mi taccio sui loro effetti collaterali (che saranno oggetto di analisi nel mio prossimo articolo). Singole semplici terapie domiciliari, invece, come visto contribuiscono ad abbattere le ospedalizzazioni dei malati Covid dell’85% circa senza particolari effetti collaterali, se fatte sotto il controllo medico. La prevenzione con comuni integratori naturali con proprietà antivirali, immunomodulanti e antinfiammatorie può contribuire probabilmente con un abbattimento similare, poiché – agendo fin da subito – l’azione di un nutraceutico è assai efficace. Ma, se si combinano insieme 2 o 3 di questi approcci, il problema Covid in pratica può venire “miniaturizzato”.

Supponiamo, ad esempio, di aver vaccinato – senza ricorrere a obblighi o green-pass – soltanto il 60% della popolazione over 50 (il 97% delle vittime del Covid fanno parte di questa classe di età) e di usare le cure domiciliari sia per i non vaccinati sia per i vaccinati non più protetti dalla morte dai rispettivi vaccini. Il risultato è che (il 97% dei vaccinati, cioè il) 58,2% della popolazione generale è protetto dal vaccino. Poiché però le cure domiciliari già disponibili abbattono le ospedalizzazioni di circa l’85%, del restante 41,8% della popolazione non protetto ben l’85% (pari al 35,5% della popolazione generale) non verrà ospedalizzato. Quindi, le persone rimanenti che potrebbero necessitare di ospedalizzazione sarebbero al più il (100 – 58,2 – 35,5 =) 6,3%, pari a circa 1,7 milioni di persone, dato che la popolazione over 50 in Italia è composta da 27,4 milioni di persone. Tuttavia, è noto che la percentuale di decessi fra gli ospedalizzati per Covid, grazie alle migliori cure ha raggiunto valori – tranne che durante le grandi “ondate” – dell’ordine del 3,5% [85], che nel nostro caso (basta calcolare il 3,5% di 1,7 milioni) corrisponderebbero a circa 60.000 morti, valore curiosamente identico alla mia stima del limite superiore di morti per Covid in Italia nel prossimo autunno-inverno, fatta nel mio articolo del 28 giugno [7] pubblicato su questo stesso sito.

Ma la mia stima fatta a giugno si basava sull’ipotesi che la percentuale media di over 50 vaccinati fosse di circa l’86% e che, come ancor oggi, non vi fosse un protocollo ufficiale “serio” di terapia domiciliare.  Pertanto, l’implementazione delle terapie domiciliari equivarrebbe a “guadagnare” ben 25 “punti percentuali” nella campagna di vaccinazione della popolazione considerata nei miei scenari, quella degli over 50 (che è quella che contribuisce per il 97% alla mortalità; si noti che il vaccinare gli under 50 non influisce, se non per appena il 3%, sulla stima del limite superiore di morti possibili per Covid, giacché vaccinare gli under 50 influenza più che altro la circolazione virale, ovvero l’Rt). Ma non meno eclatante sarebbe l’impatto, in termini di sanità pubblica, del combinare l’efficacia della prevenzione di massa con più integratori naturali (di cui ipotizzo qui l’efficacia in un più che ragionevole 80%) con quella delle terapie domiciliari precoci (efficacia intorno all’85%): infatti, dati 60 milioni di italiani, l’abbattimento delle ospedalizzazioni prima dell’80% grazie alla prevenzione con integratori, combinato poi con quello dell’85% grazie alle terapie domiciliari, corrisponderebbe a un abbattimento complessivo del 97%, che è pari proprio all’efficacia massima del miglior vaccino disponibile (ma senza i rischi e le incognite connessi!). E il 3,5% di questi (60 x 3/100 =) 1,8 milioni di potenziali ospedalizzati corrisponde a circa 63.000 morti, cioè quanti ne avremmo usando, invece, il vaccino anziché cure domiciliari precoci + prevenzione con integratori naturali. Si noti, inoltre, che ogni anno, in Italia, vi sono circa 93.000 morti per fumo di tabacco [89], ma nessuno si è mai sognato di penalizzare, per evitare questi, tutto il resto del Paese!

Tab.5 – Tre diversi scenari a confronto per contrastare il Covid e per capire l’importanza delle cure domiciliari precoci e della prevenzione con integratori naturali, entrambe oggi del tutto trascurate: (1) Scenario “Solo vaccini a tutti e null’altro” (quello scelto con colpevole miopia – sempre per usare un eufemismo – dalle Autorità sanitarie italiane); (2) Scenario “Vaccini soltanto agli over 50 (vaccinare tutti non cambia granché i numeri!) + Cure domiciliari precoci garantite dai medici di base a tutta la popolazione sulla base di un protocollo di cura “serio”, non certo tachipirina e vigile attesa; (3) Scenario “Solo cure domiciliari precoci + Prevenzione delle forme gravi di Covid tramite l’assunzione di integratori naturali” a dosaggi “normali”, considerati ampiamente sicuri. Si noti come il garantire cure domiciliari precoci con un protocollo “serio” corrisponda ad estendere di un 25% la popolazione italiana protetta dall’ospedalizzazione per Covid, mentre applicare al posto della vaccinazione le cure naturali precoci e la prevenzione con integratori naturali garantirebbe “virtualmente” – incredibile ma vero, numeri alla mano – lo stesso risultato di una campagna vaccinale! Se poi si combinassero addirittura tutti e tre gli approcci – vaccini, integratori naturali e cure domiciliari precoci – l’abbattimento della letalità sarebbe tale che il numero annuo di morti risulterebbe sostanzialmente quasi comparabile a quello per l’influenza nell’epoca pre-Covid.

E come se non bastasse, tanto per mescolare ulteriormente le carte, la Commissione UE – già distintasi a suo tempo per la “dilettantistica” negoziazione dei vaccini anti-Covid e per l’adozione nel 2020 del remdesivir [51], un antivirale poi dimostratosi del tutto inefficace per ammissione della stessa OMS – intende elaborare entro la fine dell’anno un portafoglio di 10 nuove terapie [49]. Peccato, però, che la Commissione UE non abbia di per sé expertise in tale settore, per cui non a caso, fra i 5 strumenti terapeutici che si vorrebbe presentare entro fine ottobre (autorizzazione dell’EMA permettendo), troviamo ben 4 anticorpi monoclonali [50] su cui puntano le Big Pharma in quanto “gallina dalle uova d’oro”. Ma queste sono armi che purtroppo si distinguono: (1) per il costo assai più elevato; (2) per il fatto di non prestarsi a un uso domiciliare (necessitano infatti di infusione endovenosa); (3) per il poter essere usate con una qualche efficacia solo in pazienti non gravi; (4) per i possibili effetti indesiderati (ad es. se i sistemi immunitari di alcune persone li riconoscono come estranei); e, last but not least, (5) per il potenziale rischio di favorire lo sviluppo di “ceppi mutanti di fuga” resistenti i vaccini [6]. Nessun cenno viene fatto dalla Commissione UE a protocolli di cura domiciliari [58]. Ogni ulteriore commento è superfluo…

AVVERTENZA. Il presente articolo vuole solo fornire un contributo informato al pubblico dibattito e all’approfondimento personale del lettore su tematiche male o poco trattate dai media, senza alcuna pretesa di sostituire il parere del proprio medico curante e/o di uno specialista. Non deve quindi in alcun modo sostituire il rapporto diretto con i professionisti della salute, cui occorre rivolgersi prima di assumere qualsiasi farmaco. Il lettore è tenuto a rispettare scrupolosamente questa avvertenza. Pertanto, l’Autore non si assume alcuna responsabilità in caso di un uso inappropriato delle informazioni fornite. Chi violasse questo chiaro avvertimento, di conseguenza, lo farebbe a proprio rischio e pericolo.

RINGRAZIAMENTI. Desidero ringraziare il mio amico Claudio P., medico con 2 specializzazioni e oltre 25 anni di esperienza, per la lettura critica del manoscritto e per le utili discussioni sull’argomento avute in questi mesi di pandemia. Vorrei esprimere la mia gratitudine anche ai vari medici e professionisti che hanno letto l’articolo prima della pubblicazione fornendo preziosi feedback e suggerimenti. Naturalmente, la responsabilità di eventuali inesattezze residue è solo ed esclusivamente dell’Autore. Infine, ho un debito di riconoscenza nei confronti dei vari amici e attenti lettori che mi hanno segnalato molti degli oltre 130 riferimenti bibliografici a supporto del testo: Aldo, Claudio, Giorgio, Guido, Graziano, Jovy, Paolo. Questo articolo è dedicato alla memoria del dr. Giuseppe De Donno e degli oltre 350 medici italiani morti per il Covid, nell’adempimento del proprio dovere, in questo anno e mezzo di pandemia. Un grazie a chi riterrà utile condividere questa mia analisi con amici, parenti e colleghi tramite mail, whatsapp, social, etc.

 

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[11]  Sanna F., “Sorveglianza di massa su mail e messaggi, l’esperto: ‘Regolamento UE sproporzionato. Rischio di falsi positivi e abusi dei diritti’ “, Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2021.

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[16]  “Andrea Crisanti, l’inquietante teoria: ‘Gli unici paesi senza Covid? Non grazie al vaccino’ “, Libero Quotidiano, 4 agosto 2021.

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[72]  Isaia G., D’Avolio A., e (al 14/2/21) altri 153 medici italiani, promosso dall’Accademia di Medicina di Torino, “Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze”, versione del 3/12/20, https://medicoepaziente.it/2020/vitamina-d-e-covid-19-appello-alle-autorita-sanitarie/

[73]  Scharla S.H., “Prevalence of Subclinical Vitamin D Deficiency in Different European Countries”, Osteoporosis International, 1998.

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[125]  Campione E. et al., “Lactoferrin as potential supplementary nutraceutical agent in COVID-19 patients: in vitro and in vivo preliminary evidences”, preprint, bioRxiv, 22 dicembre 2020.

[126]  “I benefici delle proteine del siero di latte nella lotta al cancro”, MediMagazine, 27 marzo 2014.

[127]  Zimecki M. et al., “The potential for Lactoferrin to reduce SARS-CoV-2 induced cytokine storm”, International Immunopharmacology, giugno 2021.

[128]  “Lattoferrina e Covid 19: ulteriori conferme sull’efficacia”, Aqma Italia, aprile 2021.

[129]  Aucoin M. et al., “The effect of quercetin on the prevention or treatment of COVID-19 and other respiratory tract infections in humans: A rapid review”, Adv. Integr. Med., dicembre 2020.

[130]  Pal A. et al., “Zinc and COVID-19: Basis of Current Clinical Trials”, Biol. Trace Elem. Res., agosto 2021.




Studenti allo sbaraglio

Oggi le scuole riaprono in dieci regioni, e 4 milioni di allievi tornano in classe. Nei prossimi giorni riapriranno anche le scuole delle altre regioni. Pure nell’Università i corsi stanno per ripartire. Insomma, la macchina dell’istruzione si sta rimettendo in moto.

Con quali regole?

A quel che si apprende dalle linee guida governative si tratta di regole molto deboli, tendenzialmente ancora più lasche di quelle del passato. Il distanziamento fra gli studenti è solo di 1 metro, e non è obbligatorio. Nell’università nessuna norma impedisce di tenere lezioni in aule occupate al 100%, il che mediamente significa distanziamento inferiore al metro. Gli studenti universitari devono prenotarsi ed essere vaccinati per accedere alle lezioni, ma non sono previsti controlli, se non a campione (il che fa presagire una replica dei controlli fantasma negli aeroporti). Le mascherine sono perlopiù obbligatorie, ma non necessariamente ffp2 (bastano le chirurgiche, che come si sa proteggono assai poco). Per il ricambio dell’aria ci si affida all’apertura di porte finestre, strada chiaramente poco percorribile nei mesi più pericolosi (da dicembre a febbraio). Quanto ai mezzi pubblici, dopo aver ipotizzato l’obbligatorietà del Green Pass e il ritorno in grande stile della figura del “controllore”, si è rapidamente fatto marcia indietro perché “è difficile fare i controlli” (esito ovvio e prevedibile, se ci si occupa del problema ad agosto per settembre, dopo un anno e mezzo dall’inizio dell’epidemia).

Come è possibile? Da almeno un anno sappiamo che il virus si trasmette con estrema facilità negli ambienti chiusi, che 1 metro di distanza non basta, e che il ricambio sistematico dell’aria è cruciale. Nonostante ciò, salvo alcune eccezioni (ad esempio quella della Regione Marche), quasi nulla è stato fatto sui due versanti fondamentali: diminuzione del numero di studenti per classe, attraverso l’aumento del numero di aule; aerazione dei locali, mediante filtri HEPA o impianti di VMC (ventilazione meccanica controllata). Eppure sono quasi due anni che è scoppiata l’epidemia, e di tempo ne abbiamo avuto tantissimo, anche grazie al fatto che per molti mesi le scuole e le università sono rimaste chiuse. Perché non è stato fatto niente?

Una risposta possibile è che i nostri politici semplicemente non ne siano capaci. Quando si tratta di varare misure complesse, anziché agire preferiscono tergiversare e, nel frattempo, scaricare gli oneri dell’aggiustamento sul settore privato (e sugli ospedali). E così si chiede alla gente di stare in casa, o agli operatori economici di controllare il rispetto delle regole, ma ci si guarda bene dall’intervenire nei contesti di diretta competenza della Pubblica Amministrazione: uffici pubblici, scuole, università, mezzi di trasporto. Nell’ambito della sfera pubblica, solo agli ospedali viene richiesto di contribuire direttamente alla lotta al Covid, spesso senza fornire loro tutti i mezzi necessari.

Ma c’è anche un’altra risposta possibile. Forse la ragione per cui scuole e università partono con misure di sicurezza davvero molto minimali è semplicemente che i nostri governanti, confortati dai pareri rassicuranti del Comitato tecnico-scientifico, pensano che tali misure siano sufficienti. Insomma, non è che non sono capaci di organizzare interventi complessi, è che sono convinti che tali interventi non siano necessari. Il grandioso obiettivo di non tornare alla DAD (didattica a distanza) sarebbe raggiungibile semplicemente spingendo l’acceleratore sulle vaccinazioni, e attenendosi alle blande misure previste per scuole e università. Secondo questo modo di ragionare, la situazione odierna sarebbe meno preoccupante di quella di un anno fa perché la maggior parte dei cittadini è vaccinata, gli ospedali non sono troppo sotto pressione, i rischi di ospedalizzazione e di morte si sono drasticamente ridotti.

Ma è ben riposta questa convinzione?

Spero vivamente di sbagliarmi, ma penso che non lo sia. E’ vero che, rispetto all’anno scorso, abbiamo l’arma in più del vaccino, ma è altrettanto vero che la variante delta, che ha ormai preso il sopravvento in Italia, controbilancia e verosimilmente supera l’impatto positivo del vaccino. A suggerire questa amara diagnosi sono i numeri di base dell’epidemia: a dispetto del vaccino e di una campagna di vaccinazione più che soddisfacente (giusto nei giorni scorsi abbiamo superato Israele), oggi gli ospedalizzati sono 3 volte quelli di 12 mesi fa, i contagiati giornalieri sono il quadruplo, i morti quotidiani e i ricoverati in terapia intensiva sono addirittura il quintuplo.

In concreto: il rientro dalle vacanze avviene con una circolazione del virus molto più intensa di quella di un anno fa. Né possiamo illuderci che a salvarci possa intervenire, nel giro di pochi mesi, la raggiunta immunità di gregge. Con vaccini come quelli attuali (che proteggono solo in parte dalla infezione), l’immunità di gregge è semplicemente impossibile, anche riuscissimo a vaccinare il 100% della popolazione. E’ abbastanza incredibile che, per riconoscere questa realtà, ben nota agli studiosi dai primi mesi dell’anno, si sia dovuto attendere fino a pochi giorni fa, quando Gianni Rezza (Direttore generale della Prevenzione al Ministero della Salute) ha finalmente ammesso che “l’immunità di gregge non è un obiettivo realistico”, in patente contrasto con centinaia di dichiarazioni e auspici delle autorità politiche e sanitarie nei mesi scorsi.

Ed eccoci al dubbio finale: come è possibile che, sapendo che il virus circola molto di più che un anno fa, e avendo finalmente preso atto che questi vaccini non potranno regalarci l’immunità di gregge, le misure adottate per riaprire scuole e università siano ancora più blande di quelle dell’anno scorso?

Pubblicato su Il Messaggero del 13 settembre 2021




L’equo compenso degli avvocati tra innovazione e logica dello struzzo

Se c’è un modello di lavoro che, a partire dalla sua organizzazione, non funziona ed è contro la concorrenza e la modernizzazione è quello degli ordini professionali ed in particolare degli studi legali. Il settore è in una crisi drammatica, accentuata dalla pandemia e dalla cronica inefficienza dei tribunali e della macchina della giustizia in genere. E’ ormai un dato di fatto la perdurante difficoltà economica in cui si trova la gran parte degli avvocati nel nostro Paese ed il livellamento verso il basso delle prestazioni fornite ad imprese e privati.

E’ d’altra parte noto come l’Italia abbia il maggior numero assoluto di avvocati di tutta Europa, ed il quarto in rapporto alla popolazione (dopo Lussemburgo, Cipro e la Grecia). Come evidenziato su Il Foglio del 3 agosto scorso, nel nostro Paese ci sono 388 avvocati ogni 100 mila abitanti, in Spagna 300 ed in Francia 100. All’estremo opposto la Svezia ha 60 avvocati ogni 100 mila abitanti. A tale dato corrispondono purtroppo numeri record riguardo alla spropositata mole del contenzioso in giudizio e alla lentezza dei processi. È una realtà che gli organismi di categoria, drammaticamente autoreferenziali, tentano di minimizzare. L’ultimo rapporto Censis sull’avvocatura del 2021 rivela inoltre una distribuzione geografica che non corrisponde al Pil prodotto: il 45% degli avvocati sono al Sud e nelle isole, il 33 al Nord, il 22 al Centro. Il 38% dei legali ha poi tra i 40 e i 50 anni, il reddito medio è 40.000 euro lordi, e benché le donne siano leggermente prevalenti un avvocato uomo guadagna decisamente di più: 54.500 euro, 57.600 al Nord. Il reddito medio delle donne è 25.000 euro. Fra 30 e 34 anni un avvocato guadagna in media 16.500 euro (con i quali non si paga un mutuo né si investe sull’istruzione dei figli), a 44 anni raggiunge i 30.000, per superare i 50.000 deve avere 50 anni e oltre. Diamo pure per scontato che a fronte di questi ricavi così modesti si nasconda una certa quota di evasione (secondo le elaborazioni statistiche del Censis il 52% delle entrate proviene da persone fisiche e in quella tipologia di rapporti il nero è più diffuso). Ma la situazione è drammatica.

Al consistente incremento numerico dei legali registrato negli ultimi decenni non corrisponde un miglioramento in termini di qualità dei servizi resi: mentre secondo il Censis “la maggior parte si occupa di cause civili e molte riguardano controversie stradali e sinistri assicurativi”, gli avvocati esperti in diritto internazionale, comunitario, in materie quali copyright e nuove tecnologie scarseggiano, così come gli investimenti. Secondo l’Osservatorio professioni e innovazione digitale del Politecnico di Milano il 66% degli studi nel 2019 e 2020 ha investito in tecnologie meno di 3.000 euro, il costo di due pc.

A fronte di questa impietosa ricognizione, uno dei presunti rimedi escogitati è quello del ricorso al cd. equo compenso, ovvero la previsione di un compenso minimo per le prestazioni degli avvocati, corrispondente al decoro della professione e alla dignità del lavoro ex art. 36 Cost., svincolata dalle aberranti – così si aggiunge – logiche di mercato.

Di fatto, si tratta in un ripristino delle tariffe professionali, abrogate con il D.l. n. 1 del 2012 sulla scorta di ripetute indicazioni comunitarie. Già con il D.l. n. 148 del 2017 era stato inserito nella Legge professionale forense (L. n. 247/2012) l’art. 13 bis, “equo compenso e clausole vessatorie”. Il così modificato art. 13 bis disciplina i rapporti professionali tra avvocati iscritti all’albo, da un lato, ed enti bancari e assicurativi e “imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese” dall’altro. Di lì a poco (e precisamente con la Legge di Bilancio 2018) tale disciplina è stata estesa “anche alle prestazioni rese dai professionisti di cui all’articolo 1 della legge 22 maggio 2017, n. 81, anche iscritti agli ordini e collegi”, vale a dire a tutti i lavoratori autonomi non imprenditori. Ed è stata aggiunta la generica previsione per cui “la pubblica amministrazione (…) garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti”.

La proposta di legge n. 3179 di cui si discute in queste settimane (nota anche come proposta Meloni) si inserisce in questo solco, avendo come obiettivo quello di ampliare ancora di più l’ambito di applicazione della disciplina di cui si è detto. In particolare, i punti salienti della riforma sono i seguenti: – viene esteso il novero dei soggetti in (presunta) posizione dominante, a cui si applica il regime delle clausole vessatorie (“imprese bancarie e assicurative” nonché “imprese che nel triennio precedente al conferimento dell’incarico hanno occupato alle proprie dipendenze più di sessanta lavoratori o hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro”). Inoltre, per la prima volta, le disposizioni sull’equo compenso si applicherebbero espressamente anche alle prestazioni rese alle pubbliche amministrazioni (ma anche alle società controllate?) ed agli agenti della riscossione; – la disciplina sarebbe simbolicamente inserita nell’art. 2233 del codice civile; – viene valorizzato il meccanismo della cd. “taratura della parcella” da parte degli ordini professionali al fine di procedere esecutivamente nei confronti dei clienti che non pagano i compensi richiesti.

Vista la portata applicativa, estremamente ampia, che hanno queste previsioni, viene da chiedersi in che misura siano compatibili con la normativa comunitaria. Di fatto, l’introduzione generalizzata nell’ambito del codice civile dell’istituto dell’”equo compenso” – in base al quale qualsiasi professionista può chiedere in giudizio che sia dichiarata la nullità di un corrispettivo inferiore ai minimi tariffari ed il suo ricalcolo in misura coerente con i parametri professionali – significa la re-introduzione nel nostro ordinamento delle tariffe obbligatorie. Tradizionalmente, le misure normative nazionali che introducono limiti minimi e/o massimi tariffari sono considerate dalla Corte di Giustizia europea come incisive della libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE e, in quanto tali, giustificabili soltanto in presenza di determinate e residuali condizioni.

Ma è la motivazione che sta alla base del disegno di legge che appare estremamente pericolosa: l’idea che la professione legale (così come quella delle altre professioni intellettuali e del lavoro autonomo) possa essere svolta al di fuori delle – normali – logiche di concorrenza ed efficienza, in nome di una supposta ontologica diversità (quando nel mondo c’è una sola parola che ricomprende le attività economiche, siano esse aziende o studi professionali: businesses).

Così come è sbagliata la diagnosi riguardo alla perdurante crisi degli studi legali in Italia. Il problema vero è che nel nostro Paese gli studi legali sono per lo più organizzati su base individuale e/o familiare e l’innovazione in termini di formazione e di organizzazione è drammaticamente bassa. Basti citare un esempio: nel mondo, le aziende provvedono a pagare i propri fornitori, inclusi consulenti e i legali, tramite piattaforme online: ebbene, in genere su detti portali non è previsto il dimensionamento di una law firm, di uno studio legale, inferiore a 15 unità. Nella mia città, Genova, si fa fatica a trovare un solo studio che annoveri più di 15 professionisti.

In realtà le due sfide principali per le professioni liberali sono – come osservato anche da Alessandro De Nicola su Repubblica del 30 agosto scorso – l’organizzazione e la tecnologia. L’incessante evoluzione tecnologica rischia di rendere superflue molte funzioni fino a ieri svolte dagli avvocati: montagne di documentazione nei contenziosi, contratti, ricerche di giurisprudenza e dottrina, adempimenti formali, rapporti con i clienti, tutto può essere in gran parte velocizzato. I responsabili dei dipartimenti legali delle più grandi aziende sono uniti, sondaggio dopo sondaggio, dalla comune convinzione che la tecnologia abbatterà i costi e migliorerà la performance. E attenzione, anche per chi ha persone fisiche o piccole aziende come clienti, sono già attivi siti che forniscono servizi legali standardizzati, di qualità e a costi ridotti. Non è detto che tutti gli studi cd. boutique o “artigianali” debbano sparire: vero è che la mancanza di dimensione impedisce la specializzazione, il dotarsi di nuove tecnologie, l’ottimizzazione dei costi, la formazione dei più giovani. L’intervento del legislatore, insomma, non salverà i partecipanti al mercato che non sapranno vincere le sfide dell’innovazione.

Semmai, potrebbero essere introdotti strumenti normativi e contrattuali nuovi per favorire le aggregazioni (si pensi ad un nuovo inquadramento per la figura del collaboratore di studio, che superi la risalente finzione per cui tutti i legali devono essere autonomi ed indipendenti anche quando di fatto prestano la loro attività – in assenza di tutele adeguate – a favore di un unico dominus). Nella stessa direzione, si potrebbe verificare con maggiore serenità la possibilità di introdurre soci di capitale nell’ambito degli studi, per favorire la propensione agli investimenti. Da un punto di vista più generale, l’introduzione di regimi fiscali privilegiati a forfait per i professionisti che rimangono sotto una certa soglia reddituale va nella direzione opposta a quella auspicabile, di incentivare le fusioni e le aggregazioni che sono funzionali allo svolgimento dell’attività professionale con maggiore qualità ed efficienza.

Insomma, bisogna raccogliere la sfida dell’innovazione: la logica dello struzzo non può funzionare.