Il “ricalcolo” dei morti in Perù certifica la disfatta dell’Occidente

Quando ero bambino, tra i più famosi cartoni animati dell’epoca c’era quello dei Barbapapà, una famiglia di simpatici esseri gommosi che erano in grado di cambiare forma e dimensioni a piacimento, cosa che in genere facevano allo scopo di aiutare il prossimo e prevenire disastri. Ogni trasformazione era accompagnata dalla mitica frase, entrata anche nell’uso comune fra i bambini di allora, “Resta di stucco, è un barbatrucco!”

Ecco, proprio questa frase, che ormai non usavo da anni, è stata la prima che mi è venuta in mente di fronte all’ultima trovata della OMS, che qualche settimana fa ha improvvisamente deciso di “riscrivere” i numeri della pandemia in base ad alcuni criteri elaborati a tavolino, tra i quali quello fondamentale è l’eccesso di mortalità rispetto agli anni precedenti. Il primo (e finora unico) paese che abbia accettato di fare questo ricalcolo è stato il Perù, che il 1° giugno scorso ha annunciato che i morti erano improvvisamente passati da 69.342 a 180.764, come per magia o, appunto, un “barbatrucco”,

C’è davvero da restare di stucco, infatti, di fronte a un’operazione del genere, che in un solo giorno ha “gonfiato” di ben 2,6 volte il numero dei morti in base ad una stima puramente teorica. Intendiamoci: non è che di per sé l’idea di cercare di valutare più esattamente i numeri dell’epidemia sia sbagliata, ma è il modo in cui ciò è stato fatto che lascia a dir poco perplessi.

Anzitutto, è incredibile che ci sia ancora chi prende sul serio le indicazioni di un’istituzione così palesemente screditata come la OMS, che, per come è ridotta oggi, andrebbe semplicemente rasa al suolo e ricostruita dalle fondamenta. Non è certo un caso che ad andarle dietro per primo sia stato il Perù, paese che conosco molto bene e che da tempo dimostra una sudditanza particolarmente accentuata nei confronti delle organizzazioni internazionali, dovuta da un lato alla cultura illuminista delle sue élites, che vi vedono la possibilità di “modernizzare” il paese (ovviamente secondo il loro concetto di modernità, che non è condiviso dalla maggioranza della popolazione) e dall’altra alla forte crescita economica, che spinge molti a cercare in esse (perlopiù invano) un punto di riferimento più affidabile delle sue fragilissime istituzioni.

Inoltre, è evidente che la OMS, dopo l’iniziale minimizzazione fatta per favorire il tentativo di insabbiamento degli “amici” cinesi, ha sempre cercato di “gonfiare” il più possibile l’allarme Covid e quindi, innanzitutto, le sue cifre, allo scopo di giustificare la propria inutile esistenza. Si noti, fra l’altro, che la OMS ha proposto di ricalcolare solo i morti e non anche i contagi, benché sia evidente che questi ultimi sono di sicuro molto più sottostimati, essendo molto più difficili da identificare, soprattutto gli asintomatici. Il risultato è quello di innalzare artificiosamente il tasso di letalità del virus (che è dato dal rapporto tra il numero dei contagiati e quello dei morti), il che equivale a innalzare artificiosamente il livello di allarme e, di conseguenza, il potere della OMS stessa, che per ovvie ragioni è tanto maggiore quanto più grave è l’emergenza.

Del resto, ciò non deve stupire, perché non è affatto una novità. Già con l’influenza suina (2009-2010), di fronte al numero fortunatamente bassissimo dei contagi e dei morti e a quello invece altissimo delle accuse di incompetenza, nonché di corruzione e di conflitto di interessi per aver fatto comprare a vari governi centinaia di milioni di dosi di vaccini poi rivelatesi inutili, la OMS nel 2012 aveva commissionato uno studio che aveva “ricalcolato” il numero dei morti facendolo passare dai 18.449 accertati a 284.000 stimati.

Che tutta l’operazione sia altamente sospetta è dimostrato dal fatto che, quandanche ciò fosse vero, non giustificherebbe comunque il titolo di pandemia, che invece la OMS continua pervicacemente ad attribuirle, visto e considerato che la suina ha colpito quasi esclusivamente USA, Messico e alcuni paesi sudamericani e asiatici e che 284.000 decessi in due anni equivalgono a 142.000 all’anno, che sono meno di quanti se ne verifichino normalmente nel mondo in un solo giorno.

Più in generale, sono almeno vent’anni che di fronte ad ogni nuovo virus che appare all’orizzonte la OMS, puntuale come la morte e le tasse, annuncia l’imminente arrivo di una pandemia, che poi, altrettanto puntualmente, non si verifica: e anche questo continuo gridare “al lupo, al lupo” ha contribuito a far sì che, per una volta che il suo allarme era giustificato, venisse preso sottogamba.

Ma c’è una considerazione più sostanziale. Infatti, l’eccesso di mortalità può al massimo essere un criterio euristico, cioè un “segnale d’allarme” indicante che in un certo luogo potrebbe esserci un certo numero di morti da Covid che non sono stati riconosciuti come tali. Tale criterio, per esempio, era stato usato da Ricolfi l’anno scorso a proposito di certe zone del Sud che, pur essendo ufficialmente Covid-free o quasi, presentavano un notevole e inspiegato eccesso di mortalità. Tuttavia, che tale eccesso sia realmente dovuto al Covid deve essere dimostrato in base a dati oggettivi e non solo presunto su base puramente statistica, perché nella scienza la sola coerenza logica non basta a convalidare una teoria: occorre sempre la verifica sperimentale.

Inoltre, l’eccesso di mortalità è un dato di per sé molto variabile. Per esempio, questi sono i dati ISTAT relativi all’Italia negli ultimi 9 anni pre-Covid (il valore minimo è evidenziato in azzurro, il valore massimo in giallo):

Come si vede, la minima differenza, che corrisponde anche alla minima variazione tra due anni consecutivi (2018-2019), è di appena 1.284 morti, mentre la massima differenza (2017-2011) è di 55.634 e la massima variazione tra due anni consecutivi (2014-2015) è solo di poco inferiore: 49.207. In altre parole, la mortalità dovuta alle cause usuali (non Covid) è variata spontaneamente da un anno all’altro di quasi il 9%, il che influenza pesantemente anche le stime sui morti da Covid: per esempio, i 746.146 morti totali del 2020 rappresentano un eccesso di 111.729 unità rispetto al 2019, ma di solo 97.085 rispetto al massimo del 2017 e di ben 152.719 rispetto al minimo del 2011.

Ciò significa che l’eccesso di mortalità del 2020 rispetto al 2019 è stato superiore di 37.582 unità ai 74.147 morti da Covid ufficialmente accertati nello stesso 2020, il che suggerisce che il numero reale potrebbe essere di circa il 50% superiore. Ma se la mortalità del 2019 fosse stata pari a quella del 2017 (cosa perfettamente concepibile, dipendendo da cause che nulla hanno a che vedere con il Covid) il gap tra morti da Covid accertati e possibili si ridurrebbe moltissimo, suggerendo che il valore ufficiale sia molto vicino a quello reale; mentre se la mortalità del 2019 fosse stata pari a quella del 2011 tale gap crescerebbe al punto da suggerire che il valore reale potrebbe essere addirittura il doppio di quello ufficiale.

Con le medie le cose vanno (ovviamente) meglio, ma le variazioni restano significative. Questa è la tabella delle medie relative ad alcuni diversi periodi pre-Covid in Italia:

Come si vede, qui la variabilità è minore, ma comunque la differenza tra la media più alta e quella più bassa è pur sempre di 18.330 unità in più o in meno, il che può fare aumentare o diminuire il totale dei morti da Covid stimati per il 2020 della stessa quantità. Ciò rappresenta una variazione di ben il 25% rispetto al numero dei morti accertati ufficialmente, dovuta interamente al mero fatto di scegliere (in modo fondamentalmente arbitrario) un dato periodo di riferimento. E si badi che stiamo parlando di un paese come l’Italia attuale, molto stabile sia dal punto di vista sanitario che demografico: figuriamoci quindi cosa può succedere in paesi come il Perù, in cui la mortalità può essere influenzata significativamente anche da eventi per noi non particolarmente drammatici, come ondate di caldo o di freddo, siccità, alluvioni, crisi economiche o altre malattie (spesso più letali del Covid, ma di cui non parla nessuno solo perché restano confinate nel Terzo Mondo).

Inoltre, fin qui abbiamo ragionato come se tutte le altre cause di morte avessero seguito il loro andamento naturale, cioè come se il Covid non le avesse in alcun modo influenzate. Ma è chiaro che non è così. Infatti, come molti hanno drammaticamente sperimentato sulla propria pelle, l’affollamento degli ospedali ha spesso impedito di curare adeguatamente (e a volte addirittura completamente) persone affette da altre patologie, anche gravi, causando quindi altre morti che, pur essendo state indirettamente provocate dal Covid, tuttavia non sono dovute ad esso e quindi non possono essere classificate come “morti da Covid”.

Il loro numero è però difficile da quantificare perfino in un paese come l’Italia, che pure dispone di uno dei migliori sistemi sanitari al mondo: figuriamoci quindi se è possibile farne una stima affidabile in un paese come il Perù, che ha invece un sistema sanitario molto fragile, che in questo periodo è davvero collassato (mentre il nostro, checché se ne dica, ha sofferto molto, ma nell’insieme ha retto).

Se si considerano tutti questi fattori, dunque, è facile capire come un’operazione del genere non possa che essere molto imprecisa già per sua natura e più ancora se la si vuol fare in paesi poveri e con istituzioni inefficienti, tanto da far dubitare seriamente che abbia senso. In ogni caso, se la si vuole comunque fare, bisognerebbe almeno tenere accuratamente distinti i morti accertati da quelli semplicemente stimati, altrimenti si mescolano fra loro dati del tutto eterogenei, con l’unico risultato di generare una confusione tale da rendere praticamente impossibile ogni confronto statistico.

Ma non sembra essere questa l’intenzione della OMS. Infatti, gli pseudo-dati del “ricalcolo” peruviano sono immediatamente finiti in un calderone unico insieme a quelli reali, “premiando” la sua masochistica docilità al pandemically correct con l’attribuzione della poco invidiabile (e peraltro, per quanto appena detto, altrettanto poco giustificata) “maglia nera” di peggiore paese al mondo nella gestione del Covid.

Tuttavia, c’è almeno una lezione che possiamo davvero trarre da questa pasticciatissima vicenda, il cui significato è però l’esatto opposto di ciò che sembra a prima vista. Infatti, sia negli articoli pubblicati su questo sito che anche altrove, io ho sottolineato ripetutamente che vedere i paesi più ricchi e progrediti del mondo, cioè gli USA e l’Europa Occidentale, con un tasso di mortalità superiore a quello dei paesi sudamericani rappresenta un’abnormità di tale portata che non può essere spiegata se non come il frutto di una sequela di macroscopici e gravissimi errori da parte nostra.

Ogni volta, però, mi veniva regolarmente obiettato che verosimilmente il numero dei morti in Sudamerica era di molto sottostimato, al che io contro-obiettavo che ciò era sicuramente vero, ma non bastava a cambiare i termini della questione. Infatti, da loro i morti potevano essere sottostimati al massimo di due o tre volte, ma non certo di venti o trenta: e se anche noi avessimo avuto solo la metà o perfino solo un terzo dei morti dei paesi sudamericani, la cosa sarebbe stata ugualmente inaccettabile, vista l’enorme sproporzione di mezzi esistente tra noi e loro.

Ebbene, il ricalcolo peruviano conferma in pieno la mia tesi. Infatti, anche accettando per buona la stima fatta dal governo (che, per le ragioni anzidette, è invece quasi certamente esagerata), al 1° giugno 2021 il numero di morti per abitante del Perù risultava essere 5.408 contro i 2.090 dell’Italia, cioè circa 2,5 volte maggiore del nostro e, in generale, della media dell’Occidente progredito.

Ma non basta: dobbiamo ancora considerare due fattori che incidono pesantemente, distorcendo i dati a nostro favore. In primo luogo, infatti, un analogo ricalcolo applicato ai nostri paesi farebbe verosimilmente crescere di parecchio anche il numero dei nostri morti, come si desume facilmente dalle tabelle precedenti. In secondo luogo, all’epoca in Europa e negli USA stava arrivando l’estate e la campagna vaccinale era già abbastanza avanzata, mentre in Perù (che si trova nell’emisfero Sud) stava arrivando l’inverno e la campagna vaccinale era appena agli inizi.

Possiamo quindi senz’altro affermare che il rapporto reale tra il numero di morti per abitante del Perù e quello dei paesi più progrediti è non solo certamente inferiore a 3, ma verosimilmente addirittura inferiore a 2, esattamente come ho sempre sostenuto.

E per l’Occidente avere la metà dei morti del Perù è una disfatta su tutta la linea.




Cultura e salute, interessano solo all’opposizione?

Circa un anno fa, era la fine di giugno, mi presi la briga di scrivere che, per salvare il turismo, stavamo facendo ripartire l’epidemia. Il timore che questo sarebbe potuto accadere mi aveva accompagnato fin dai primi di maggio, ossia da quando il governo Conte aveva dato il via alla stagione delle riaperture. Ma per azzardare quella previsione, poi rivelatasi purtroppo esatta, aspettai che i dati indicassero in modo inequivocabile che la curva epidemica stava svoltando.

Oggi la storia si ripete. Come altri studiosi sono stato perplesso di fronte alle riaperture di aprile, ma fino a non molto tempo fa ho continuato a sperare che avessero torto i profeti di sventura, e che il “rischio ragionato” di Draghi, alla fine, si sarebbe rivelato una scelta lungimirante, o quantomeno una scelta non troppo costosa in termini di salute. Arrivati a questo punto, invece, devo purtroppo gettare la spugna, e ripetere il discorso di un anno fa: per salvare il turismo stiamo riaccendendo l’epidemia.

Che cosa mi ha convinto che le cose si stiano mettendo per il verso storto?

Innanzitutto i dati degli altri paesi. Per molti mesi siamo stati rassicurati sull’efficacia dei vaccini, sulla loro capacità di proteggere dalle varianti e di frenare la trasmissione. Ma ormai l’evidenza che mostra che la campagna di vaccinazione non ferma la diffusione del virus è schiacciante: Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Spagna, Portogallo, Danimarca sono tutti più avanti di noi nella campagna vaccinale, ma cionondimeno stanno tutti subendo un’impennata dei casi, con il valore di Rt che supera 1 (e in 5 casi su 6 è già su valori catastrofici). La ragione di questa inversione di tendenza è presto spiegata: tutti questi paesi sono sì ad alta vaccinazione, ma sono anche sopraffatti dalla variante indiana (o delta), che in tutti ha una penetrazione superiore al 40%, e in due casi (presso i primi della classe delle vaccinazioni: Israele e Regno Unito) sfiora il 100%.

Questi dati indicano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che anche la vaccinazione di massa – pur necessarissima e più che mai auspicabile – non è sufficiente a fermare l’epidemia se si permette alla variante indiana di diffondersi oltre una certa soglia, verosimilmente intorno al 30-35%. L’Italia a quella soglia è piuttosto vicina (secondo l’ultima stima siamo al 28.4%), e infatti accusa i primi segni di cedimento.  Da alcuni giorni il quoziente di positività tende a  salire, mentre il valore di Rt è in crescita da un paio di settimane, e si sta avvicinando pericolosamente al valore soglia 1, che separa la regione di sicurezza (Rt<1) da quella di pericolo (Rt>1).

E non è tutto. Nella prima settimana di luglio gli indicatori di diffusione dell’epidemia (numero di positivi, quoziente di positività) suggeriscono che il numero di persone contagiate sia circa il triplo di un anno fa. Detto altrimenti: non solo l’epidemia è in ripresa, ma la base su cui il contagio si espande è sensibilmente più ampia di quella del luglio scorso.

Difficile sfuggire alla conclusione che se, finora, le cose sono andate abbastanza bene non è solo grazie alla campagna di vaccinazione, che sicuramente ha dato una mano, ma è soprattutto a causa della stagione (vita all’aperto e caldo) e a causa del ritardo con cui la variante delta è penetrata in Italia. Quest’ultimo fattore sta già venendo meno, come mostrano le statistiche sulla penetrazione della variante delta. Quanto alla bella stagione, la situazione resterà stazionaria fino ad agosto, ma invertirà il suo corso a partire da settembre. Pensare che la prosecuzione della campagna di vaccinazione basti ad arginare questi processi è un tantino azzardato. Fatta 100 la popolazione vaccinabile (over 15) Israele è all’85% di persone pienamente vaccinate (e già si vede che non basta), noi siamo appena al 40%, con l’aggravante che nella popolazione vaccinabile il peso degli anziani è in Italia molto maggiore che in Israele.

Rispetto a tutto questo, come si stanno muovendo le nostre autorità politiche e sanitarie? Spiace doverlo dire, ma – vaccini a parte – io vedo un solo elemento di reale discontinuità rispetto alla sciagurata gestione dell’epidemia nell’estate scorsa: Draghi ammette che l’epidemia è tutt’altro che vinta, e il ministro Speranza – per quel che è dato sapere – non sta scrivendo un nuovo libro per lodare il proprio operato.

Per il resto non si può non osservare che stiamo ripetendo esattamente gli errori dell’anno scorso sia nella gestione dell’estate, sia nella preparazione dell’autunno.

Sulla gestione dell’estate impera la leggerezza: porte spalancate al turismo internazionale, forze dell’ordine latitanti, riduzione del numero di test (quasi dimezzato rispetto a marzo), imminente riapertura delle discoteche.

Quanto alla preparazione per l’autunno, dall’agenda del governo paiono sparite, ammesso che vi avessero mai trovato posto, le tre mosse fondamentali che potrebbero rallentare e mitigare la corsa del virus nella stagione fredda: rafforzamento del trasporto locale, messa in sicurezza delle aule scolastiche e universitarie, riorganizzazione della medicina territoriale. E fa una certa impressione constatare che il “governo dei competenti” di tutto questo poco si curi, e che a richiamarlo sui pericoli di una ripresa dell’epidemia in autunno debba essere la “estremista” Giorgia Meloni, a quanto pare – su questo – equipaggiata di maggiore senso di responsabilità, o forse semplicemente di maggiore concretezza.

Perché siamo di nuovo a questo punto? Perché la lezione dell’anno scorso non è stata imparata? Perché le autorità si cullano nell’illusione che i vaccini basteranno a fermare l’epidemia, o a renderne sopportabili le conseguenze?

La risposta credo stia, innanzitutto, in ciò che come italiani (e, in buona parte, come europei) abbiamo dimostrato in questo anno e mezzo di Covid: per noi il turismo, le vacanze, il divertimento, la possibilità di spostarci liberamente e senza controlli sono vitali, irrinunciabili. Per queste cose siamo disposti a pagare un prezzo molto alto in termini di salute, di cultura, di istruzione. Diversamente da altri popoli che – come i giapponesi, i coreani, gli australiani, i neozelandesi –  hanno accettato pesanti limitazioni e sacrifici per combattere la pandemia, noi non siamo disposti a rinunciare alle cose che per noi contano. Certo speriamo che in autunno pochi anziani perdano la vita, e che i nostri ragazzi tornino a scuola in presenza, senza la stramaledetta Dad. Ma se questo risultato, che tutti auspichiamo, ha un costo troppo elevato, allora pazienza: ogni lasciato è perso, quindi cominciamo a prenderci le vacanze (dopotutto ce le meritiamo), poi quando arriverà l’autunno si vedrà. Non possiamo certo fare vacanze di serie B per salvare qualche migliaio di vite umane e per restaurare la scuola di ieri.

Io tutto questo l’anno scorso non l’avevo capito, per questo ingenuamente auspicavo che imitassimo i paesi che l’epidemia l’hanno vinta e, accettando sacrifici tempestivi e temporanei, hanno reso meno drammatico sia il bilancio finale dei morti sia quello delle perdite economiche. Per questo ragionavo come se della salute, della cultura e della scuola importasse davvero molto a tutti, politici e cittadini. Per questo ero incredulo di fronte alla nostra incauta estate, e non mi davo pace di fronte all’inerzia delle autorità politiche e sanitarie.

Invece quest’anno mi è chiaro: salute e scuola sono priorità solo a parole, se ci tenessimo davvero ce ne preoccuperemmo adesso, e gestiremmo l’estate in tutt’altro altro modo. E, poiché questa è la realtà, nessun politico, oggi, può chiedere agli italiani di sopportare dei sacrifici, come ebbe il coraggio di fare Berlinguer nel 1977 per salvare il paese dalla bancarotta economica. Oggi è il tempo del debito (debito “buono”, naturalmente), oggi è il tempo della spesa, oggi è il tempo della ripartenza dell’economia, oggi è il tempo del pass vaccinale, oggi è il tempo del campionato europeo di calcio. Per questo è inutile chiedere che per viaggiare si debba essere pienamente vaccinati, per questo è inutile chiedere di fare controlli veri agli aeroporti, per questo è inutile chiedere di contenere gli assembramenti in strada, allo stadio, in discoteca. E’ inutile perché non siamo pronti, non siamo disposti, abbiamo troppo sofferto, sentiamo di aver diritto a un risarcimento.

E allora?

Allora capisco che i governanti non si suicidino, e non ci chiedano di fare ciò che toglierebbe loro popolarità e consenso. Però una cosa penso che potrebbero farla motu proprio, o sotto la spinta di un’opposizione curiosamente più responsabile dell’esecutivo: porci in condizione di limitare i danni quando l’epidemia riprenderà a correre, e nuove varianti metteranno a dura prova i vaccini.

Perché se, ancora una volta, non si faranno le cose che studiosi e opposizione chiedono di fare sui trasporti, sulla scuola, sui tamponi, sul sequenziamento, sulla medicina di base, l’autunno sarà molto duro. Molto più duro di quel che sarebbe se ci preparassimo in tempo.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 luglio 2021




L’autunno dipende dalla partita varianti-vaccini. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, l’anno scorso di questi tempi ci chiedevamo se il mondo dopo il Covid sarebbe stato lo stesso. Lei che risposta si è dato?
Come molti altri, mi ero augurato che il mondo, ferito dalla pandemia, avrebbe saputo riflettere e imparare qualcosa da una esperienza così drammatica. Nel caso dell’Italia, in particolare, mi ero chiesto se, dopo la pandemia, saremmo rimasti una “società signorile di massa” (il mio libro era uscito pochi mesi prima dello scoppio della pandemia).
A un anno e mezzo dall’inizio della crisi constato invece che questo tipo di riflessione, almeno in Occidente, non ha avuto minimamente luogo, e che anzi siamo impegnatissimi a riportare le lancette dell’orologio esattamente al punto in cui – 18 mesi fa – la festa è improvvisamente finita. Prima del Covid eravamo diventati una società signorile di massa, un anno e mezzo dopo lo siamo ancora di più. Come l’estate scorsa, su tutto domina la volontà di rilanciare il modello di vita precedente, basato sul turismo, le vacanze, i divertimenti di massa, il consumo di tempo libero ovunque divenuto sovrabbondante. Vogliamo essere come prima. Anzi più di prima. Le attività legate alla ristorazione si sono moltiplicate, come possiamo vedere a occhio nudo nelle nostre città con la proliferazione di tavolini e dehor che offrono colazioni, aperitivi, pasti, merende, pizze, focacce, panini, kebab. Nei luoghi di vacanza non si trova più posto, e gli operatori turistici non riescono più a fronteggiare la domanda, anche perché non si trovano abbastanza persone disposte a lavorare.
La ripartenza è diventato il nostro mantra collettivo, che ci ripetiamo e ci sentiamo ripetere.

Questa frenesia da ripartenza non potrebbe essere un fenomeno temporaneo? Un rimbalzo, come direbbero gli economisti. Oppure è qualcosa di strutturale?
Secondo me è strutturale, almeno in Italia e in buona parte dell’Occidente. Nel pre-covid mi chiedevo quali altre società avanzate si sarebbero, poco per volta, trasformate in società signorili di massa. Pensavo alla Francia, alla Spagna, alla Grecia, forse anche al Belgio. Oggi vedo il problema in modo completamente diverso: quasi tutto l’Occidente pare avviato a diventare un immenso lunapark, più o meno contornato da importanti arcipelaghi di duro lavoro, spesso affidato agli immigrati.

Tutte società signorili di massa, dunque?
Io intravedo solo due tipi di eccezioni, fra le società avanzate. Una prima eccezione è costituita dai paesi del Pacifico, sia nell’emisfero settentrionale (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong), sia in quello meridionale (Australia e Nuova Zelanda). Lì la lezione del Covid ha lasciato tracce importanti, in parte durature: chiusura delle frontiere, riduzione della mobilità interna, limitazioni della privacy. Sono società capaci di imparare dall’esperienza, non completamente abbarbicate al proprio modello di sviluppo e ai propri stili di vita.

E la seconda eccezione?
Di questa sono meno sicuro, è solo una congettura. A giudicare però dal modo in cui hanno gestito la pandemia, e da come le cose stanno andando anche adesso, non escludo che i paesi scandinavi, fra i quali includo anche l’Islanda e la Danimarca, possano non evolvere verso il modello iper-consumistico e turismo-centrico dell’Europa e del Nord America. Forse anche aiutate, in questo, dalla tradizione luterana e da una cultura del lavoro ancora forte.

Il lato oscuro di questo iperconsumismo è che si basa sulla leva del debito, privato ma in larga parte pubblico. Ergo sull’assistenzialismo. S’avvera quindi la sua previsione sulla società parassita di massa. Non è preoccupante?
E’ estremamente preoccupante, anche perché nemmeno Draghi ha avuto il coraggio di dire agli italiani la verità: noi il lusso di “seppellire la civiltà del lavoro” (secondo l’efficace formula di Dahrendorf) non possiamo permettercelo. Quando i mercati finanziari rialzeranno la testa, nemmeno super-Mario basterà a evitarci una nuova crisi. Io temo che, alla fine, il ruolo di Draghi non sarà quello di riformare radicalmente il paese, ma semplicemente di assicurare che i soldi che l’Europa ci presta siano spesi in modo dignitoso, e il loro flusso non si interrompa per le nostre negligenze e sciatterie.

Passiamo al lato sanitario dell’epidemia. Continuiamo con l’analogia rispetto all’anno scorso. Il professore Tremonti sostiene che se andiamo a guardare i dati di morti e ospedalizzati, siamo più o meno ai livelli dello scorso anno. Lei che monitora i dati ogni giorno da 16 mesi a questa parte conferma?
Anche se Tremonti ne conclude – pessimisticamente – che stiamo messi come l’anno scorso, e quindi come l’anno scorso avremo delle sorprese in autunno, io penso che Tremonti resti, tutto sommato, ancor troppo ottimista. E’ vero che, se guardiamo i contagi e i decessi, non sembra esservi alcuna differenza apprezzabile fra la situazione di oggi e quella dell’anno scorso.
Ma è ingenuo guardare i contagi, perché il numero di casi diagnosticati è fortemente influenzato dal numero di persone testate, e il numero di persone testate, anziché aumentare (come sarebbe auspicabile), è in costante diminuzione dalla metà di marzo: in 3 mesi e mezzo si è quasi dimezzato.
Ed è ancora più ingenuo guardare il numero di decessi, che sono drasticamente diminuiti essenzialmente grazie alla campagna di vaccinazione, non certo perché il virus circoli di meno che un anno fa. Se vogliamo avere un’idea più realistica della situazione dobbiamo guardare tutti gli indicatori, compresi i ricoverati in terapia intensiva e il quoziente di positività (nuovi casi diagnosticati su 100 persone testate). Ebbene i ricoverati in terapia intensiva del mese di giugno 2021 sono stati il doppio di quelli di giugno 2020. E il quoziente di positività, oggi, è il quadruplo di quello di un anno fa.

Cosa sta facendo il ministero della Salute e il governo per contrastare questa situazione?
Poco, direi, campagna vaccinale a parte. L’unica novità significativa mi pare il tentativo, lodevole ma tardivo, di aumentare i sequenziamenti del virus, ma i risultati per ora sono imbarazzanti. Da un paio di settimane si parla di variante indiana (o variante delta), ma per accorgersi che la variante stava penetrando rapidamente in Italia c’è voluta un’analisi del Financial Times, di cui le nostre autorità sanitarie (e i nostri giornali) si sono accorti con imperdonabile ritardo: negli stessi giorni in cui il FT avvertiva che la variante indiana era ormai sopra il 20% i virologi italiani continuavano a ripetere stancamente le rassicurazioni dell’Istituito Superiore di Sanità, secondo cui la variante era sotto l’1%.

Quali differenze e similitudini fra Draghi e Conte?
Sul piano dell’economia non c’è partita: il governo Conte ha guidato con destrezza e coerenza la trasformazione dell’Italia in una società parassita di massa, con pochi lavoratori veri e un esercito di sussidiati; il governo Draghi sta tentando, timidamente e quando è ormai troppo tardi, di rimuovere alcuni dei tasselli dell’edificio assistenziale eretto del suo predecessore (su tutti: reddito di cittadinanza e blocco dei licenziamenti).
Sul piano sanitario, la differenza fondamentale è che il messaggio estivo di Conte era “stiamo vincendo la guerra contro il virus, siamo i migliori al mondo”, mentre il messaggio di Draghi è “l’epidemia non è finita, ci diamo da fare come gli altri paesi europei”. Ma, al di là di questo, vedo tantissima continuità: discoteche aperte, vacanze a tutto spiano, porti e aeroporti spalancati al turismo internazionale, forze dell’ordine in sordina. E in più: il campionato europeo di calcio.
Ma quel che mi preoccupa di più non è il fatto che Draghi stia facendo le stesse cose di Conte, ma il fatto che, esattamente come Conte, non stia facendo nulla, o quasi nulla, di ciò che andrebbe fatto se vogliamo evitare che la stagione fredda ci trovi ancora una volta impreparati.

Che cosa andrebbe fatto?
Tante cose, su cui la maggior parte della stampa tace, e solo l’opposizione prova a dire qualcosa. Indico solo le più importanti: triplicare il numero di soggetti testati con i tamponi molecolari; impianti di purificazione dell’aria in tutte le aule (a scuola e all’università); sostanziale rafforzamento del sistema dei trasporti urbani; riorganizzazione della medicina territoriale, anche in vista della campagna di rivaccinazione.

Insomma, Draghi immobile come Conte?
Sul piano sanitario sì, vaccini a parte. Quel che è diverso è soltanto che Conte stava fermo perché credeva che l’epidemia fosse in ritirata, mentre Draghi sta fermo perché crede che i vaccini gli toglieranno le castagne dal fuoco.

La vaccinazione non è uno scudo che ci protegge adeguatamente? L’Ema sostiene che tutti e 4 i vaccini, dopo la seconda dose, ci proteggono dalla variante Delta.
Supponiamo per un attimo che sia vero, e che chi si vaccina in modo completo non contragga il virus, non si ammali e non muoia (in realtà è falso, uno studio inglese recente ha dimostrato che, fra i morti con la variante delta, circa il 30% avevano ricevuto la seconda dose da almeno 14 giorni). Resta il fatto che difficilmente la percentuale di persone vaccinate supererà il 70% (in Israele, campione di vaccinazioni, è ferma in prossimità del 60% da ben due mesi). E nel gruppo dei non vaccinati, o dei vaccinati con una sola dose, non vi sono solo bambini, ragazzi, giovani adulti, ma anche anziani che non vogliono o non possono vaccinarsi.
Senza contare il problema delle rivaccinazioni: nel suo ultimo libro (Caccia al virus, Donzelli Editore) Andrea Crisanti solleva dubbi sulla capacità del sistema sanitario nazionale di assicurare, senza ridurre drasticamente la sua operatività, 50 milioni di vaccinazioni all’anno.

Sono tanti i virologi che sostengono che con i vaccini anche la più contagiosa variante Delta alla fine provocherà sintomi simili al raffreddore o all’influenza. Questa tesi non la convince?
Non sono un medico, né un virologo, né un microbiologo, né un infettivologo, quindi non ho gli strumenti per sostenere una tesi diversa. Però so distinguere fra una speranza e un risultato scientifico, basato su un un’evidenza empirica: e quella della riduzione a mero raffreddore o influenza è solo una speranza, nessuno sa quanto realistica.

Quindi le ragioni dell’economia e del turismo faranno ripartire il virus, come lei ha purtroppo previsto l’anno scorso a giugno proprio in un’intervista all’HuffPost?
L’anno scorso ero piuttosto sicuro della mia previsione, perché c’erano dati sufficienti per effettuare calcoli attendibili. Oggi fare una previsione robusta è impossibile…

Come mai ieri si poteva e oggi no?
L’estate scorsa non erano ancora comparse le due incognite fondamentali che rendono incerta qualsiasi profezia oggi: la nascita di nuove varianti, molto più contagiose e/o virulente, e il successo della campagna vaccinale. Se non vi fossero queste due incognite, e stante l’inerzia del governo sulla preparazione alla stagione fredda, mi sentirei di ripetere la profezia dell’anno scorso: per salvare il turismo, stiamo rilanciando l’epidemia.
Ma le due incognite ci sono, e giocano a braccio di ferro tra loro. La campagna vaccinale frena la circolazione del virus, la nascita di nuove varianti la accelera. Chi possa risultare vincitore in questo braccio di ferro nessuno può saperlo. Quel che sappiamo, però, è che se la sfida fra vaccini e varianti dovesse finire in un pareggio, ovvero se le due forze si dovessero elidere a vicenda, allora saremmo fritti.

Perché mai?
E’ molto semplice. Oggi, superficialmente, la situazione è simile a quella di un anno fa, salvo i vaccini e le varianti. Stesso numero di casi, stesso numero di morti. Dunque, se vaccini e varianti si elidono, e nulla si fa per preparare il rientro dalle vacanze, quel che ci potrebbe aspettare è uno scenario non troppo dissimile da quello dell’anno scorso, anche se – verosimilmente – con un mix diverso: più infetti, a causa delle varianti, meno morti, grazie ai vaccini (secondo Mario Menichella, che ha provato a fare i conti: non più di 60 mila morti).
Questo significa che la scommessa del governo è un po’ azzardata: l’autunno e l’inverno potranno essere sensibilmente migliori di quelli scorsi solo se il braccio di ferro fra vaccini e varianti fosse vinto dai vaccini. Il che è possibile, ma tutt’altro che certo.

Ma non si può proprio capire chi è più forte fra la variante delta e i vaccini?
No, non si può capire con i dati che abbiamo al momento. Però una cosa possiamo farla, e certamente la faremo nei prossimi mesi come Fondazione Hume: studiare come evolve l’epidemia nei paesi in cui la variante delta è divenuta dominate, come il Regno Unito, il Portogallo, Israele, gli Stati Uniti. Quel che possiamo dire fin d’ora è che in tali paesi il contagio ha preso a galoppare, con valori di Rt sempre maggiori di 1, ma il numero dei decessi giornalieri – fortunatamente – non presenta ancora una dinamica preoccupante. In breve: la variante delta pare in grado di accelerare la circolazione del virus, anche a dispetto dei vaccini (in tutti e 4 i paesi considerati la campagna di vaccinazione è più avanti che in Italia), ma per ora non sembra produrre effetti apprezzabili sulla mortalità.

La politica è condannata a essere impotente? O qualcosa ancora si può fare? Ci si può mettere contro la spinta della società signorile di massa?
Diciamolo chiaramente: la società italiana è diventata una società signorile di massa e, dopo un anno di Covid, ha mostrato nel modo più chiaro possibile che intende restarlo, a costo di trasformarsi – più o meno lentamente – in una società parassita di massa, meno ricca e spensierata di quello che oggi riesce ancora ad essere.
Rispetto a tutto questo la politica, qualunque politica, e chiunque ci governi, non può nulla. Non perché non si possa gestire diversamente un’epidemia – altrove è stato fatto – ma perché, nelle democrazie, la politica fa ciò che la società le consente di fare. Può fare più o meno bene, massimizzare i danni o minimizzarli, ma sempre entro i limiti che la cultura e la mentalità di un determinato popolo le consentono.
E, anche questo converrà ammetterlo, i limiti che la cultura e la mentalità degli italiani pongono all’azione della politica sono piuttosto stretti. Draghi o non Draghi.

Intervista rilasciata a Gianni Del Vecchio, HuffPost, il 3 luglio 2021




Legge Mancino e competizione vittimaria

Sul disegno di legge Zan contro l’omofobia stanno emergendo tre posizioni. La più infantile è quella del segretario del Pd, che pretende di approvare la legge così com’è, quasi fosse un testo perfetto e non migliorabile. Una seconda posizione suggerisce di eliminare o modificare gli articoli più discutibili (1, 4, 5, 7). Una terza posizione punta sulla sostituzione con altro disegno di legge, come quelli di Zan stesso e Annibali, Scalfarotto-Zan, o Ronzulli-Salvini, tutti testi su cui sarebbe facile coinvolgere anche buona parte dei parlamentari di centro-destra.

Al di là di queste differenze, l’impianto logico comune di tutte le proposte di legge è quello di estendere il campo di applicazione della legge Mancino del 1993, che conteneva “misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica o religiosa”. L’idea è di limitare la libertà di espressione non solo nei casi in cui idee violente e discriminatorie siano basate su motivi “razziali, etnici, nazionali o religiosi”, ma anche nei casi in cui siano riconducibili a motivi fondati su “sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità”. In breve: la tutela contro le idee discriminatorie viene assicurata allungando la lista delle categorie protette.

Ebbene, forse è giunto il momento di porci una domanda: non sarà che il difetto stia nel manico?

Detto altrimenti: è ragionevole una strategia che affida la lotta contro la violenza e le discriminazioni alla individuazione di categorie dotate di speciali protezioni?

Secondo me no, per almeno due motivi.

Tanto per cominciare la lista delle categorie meritevoli di una speciale protezione è arbitraria e potenzialmente illimitata. Aggiungere alle appartenenze nazionali, etniche, religiose, il fatto di essere donna, gay, lesbica, bisessuale, transessuale, disabile, non esaurisce certo lo spettro delle categorie che, sulla base di qualche visione del mondo più o meno accreditata, potrebbero aspirare a una speciale protezione. Perché i disabili sì e i barboni no? Forse perché vivere sotto i ponti è una scelta, e dunque se ti pestano a sangue è perché “te la sei cercata”?

Pensiamo al bullismo nelle scuole. Gli estensori del ddl Zan credono che il bullismo prenda di mira solo ragazzini o ragazzine LGBTQ+ (la demenziale sigla, degna delle più ottuse burocrazie, che designa le nuove categorie da proteggere)? Non sanno che, nelle scuole, ad essere presi di mira sono da sempre anche i grassi, i secchioni, i timidi, e ora grazie a internet anche quegli infelici che hanno pochi like e pochi follower?

Ma c’è anche un’altra ragione per cui la strada di moltiplicare le categorie degne di una speciale protezione è pericolosa. Ed è che essa innesca, innanzitutto nell’opinione pubblica, una grottesca “competizione vittimaria”, nella quale non conta nulla il fatto che la vittima sia semplicemente una persona, un essere umano che riceve un’offesa, e diventano cruciali le categorie di appartenenza degli aggressori e delle vittime.

Vogliamo fare degli esempi?

Ve ne sono due recentissimi. La stampa progressista, sempre molto circospetta nel criticare l’Islam, dopo aver snobbato per giorni la (quasi certa) uccisione di Saman da parte dei suoi familiari pakistani, è stata costretta a tornare sui propri passi solo allorché alcune femministe, a partire da Ritanna Armeni, sono insorte facendo notare che la vittima era una donna. La carta “essere donna” è stata giocata contro la carta “essere immigrati” o “essere islamici”, come se uccidere una persona perché non accetta un matrimonio imposto dalla famiglia non fosse un comportamento esecrabile in sé, a prescindere dalle categorie di appartenenza dei soggetti coinvolti.

Secondo esempio: le polemiche (con o senza inginocchiamento dei calciatori) sulla solidarietà a George Floyd, il nero soffocato e ucciso da un poliziotto americano. Gli ostili al movimento BLM (black lives matter: le vite dei neri hanno importanza) non si sono accontentati di ricordare che Floyd aveva parecchi precedenti penali, ed era stato condannato per una rapina a mano armata, ma hanno ritenuto di dover sottolineare che la vittima era una donna, qualche volta aggiungendo persino il particolare (falso) che fosse incinta. Di nuovo: la carta della categoria protetta “donne” contro la carta della categoria protetta “neri”, come se il male commesso nei due casi (l’uccisone e la rapina a mano armata) avesse bisogno di una categorizzazione dei protagonisti per essere pienamente riconosciuto nella sua negatività.

Ma c’è anche un altro elemento, nella discussione del ddl Zan, che forse meriterebbe più attenzione, soprattutto in campo progressista. Le parti più discutibili del disegno di legge sono quelle nelle quali la visione del mondo elaborata da una parte del mondo LGBTQ+ (dico “una parte” perché molte femministe contestano il ddl Zan) viene istituzionalizzata e imposta nelle scuole (articolo 7). Il nucleo di tale visione del mondo altro non è che una versione, particolarmente estrema e settaria, dei dogmi del politicamente corretto in materia sessuale e di genere.  Ebbene, può darsi che il mondo progressista non se ne sia ancora accorto, ma giova ricordare che il politicamente corretto è quanto di più lontano si possa immaginare dalla sensibilità popolare, e che l’adesione acritica dei democratici americani al politicamente corretto è stata, quattro anni fa, una delle determinanti della sconfitta di Hillary Clinton e della vittoria di Donald Trump.

Detto altrimenti: il fondamentalismo con cui il partito di Letta ha abbracciato le ragioni del ddl Zan “così com’è”, difficilmente aiuterà il Pd a recuperare consenso fra i ceti popolari. E, temo io, ancora più difficilmente aiuterà la giusta battaglia contro ogni discriminazione. Una battaglia che si vince sul piano culturale, non imponendo a tutti la visione del mondo di una minoranza che si sente depositaria del bene.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 luglio 2021




Indice DQP: per la pseudo-immunità di gregge (70% di vaccinati) dobbiamo aspettare metà agosto 2021

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

13 marzo 2021: “È stata considerata una progressione della capacità vaccinale dalle 170 mila somministrazioni medie giornaliere (registrate dal 1 al 10 marzo) fino ad almeno 500 mila entro il mese di aprile” (Piano vaccinale del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19). In base al nuovo Piano vaccinale si dovrebbe arrivare a raggiungere il 70% di copertura vaccinale a fine agosto.

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia. Per calcolare la percentuale di vaccinati necessaria (Vc) per avviare il processo di estinzione dell’epidemia occorre conoscere il valore di R0 (velocità di trasmissione in condizioni di normalità) e il valore di E (efficienza media dei vaccini, intesa come capacità di bloccare la trasmissione):

Vc = (1-1/R0)/E

Poiché R0 ed E dipendono dal tipo di varianti presenti in un determinato paese in un dato momento, nonché dalle caratteristiche dei vaccini, nessuno è attualmente in grado di indicare la soglia per l’immunità di gregge. Se E è troppo basso, il valore di Vc supera 1, il che significa che nemmeno vaccinando tutti si ottiene l’immunità di gregge.

Ecco perché la soglia del 70% da noi utilizzata NON è quella che garantisce l’immunità di gregge (e che è sconosciuta), ma è semplicemente la quota realisticamente raggiungibile in un paese come l’Italia, in cui non si possono vaccinare i più giovani (perché manca il vaccino), e una parte degli adulti non intende vaccinarsi.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere una copertura del 70%?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

A metà della ventiseiesima settimana del 2021 (mercoledì mattina, 30 giugno) il valore di DQP è pari a 6 settimane, il che corrisponde al raggiungimento della pseudo-immunità di gregge verso metà agosto del 2021.

Anche questa settimana, il valore del DQP è rimasto sostanzialmente stabile.

Negli ultimi sette giorni, sono state somministrate poco più di 3.8 milioni di dosi, circa 543 mila somministrazioni giornaliere (si è scesi sotto quota 500 mila soltanto nella giornata di domenica 27 giugno), in linea con gli obiettivi del piano vaccinale.

Nel caso in cui si decidesse di utilizzare soltanto vaccini che prevedono una seconda somministrazione, occorrerebbero 3 settimane in più. “Di questo passo” la pseudo-immunità di gregge verrebbe raggiunta in 9 settimane, non prima di fine agosto del 2021.


Nota tecnica

Le stime fornite ogni settimana si riferiscono ai 7 giorni precedenti e si basano sui dati ufficiali disponibili la mattina del giorno in cui viene calcolato il DQP (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione completa procedendo “Di Questo Passo”.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni settimana, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “Di Questo Passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 3 parametri:

  1. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana considerata;
  2. quante vaccinazioni erano già state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  3. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa su due ipotesi ottimistiche, e precisamente:

  • l’obiettivo è solo di vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano in modo completo una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.