Meglio la vaccinazione obbligatoria che i pericolosi equivoci del Green Pass

Se c’è un aspetto sicuramente positivo nel dibattito sul Green Pass, per quanto caotico e a volte persino sguaiato sia, è che finalmente, dopo oltre un anno di pensiero unico “pandemically correct” imposto con ogni mezzo, compresi alcuni più adatti a un regime autoritario che a uno Stato democratico (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo), si comincia a discutere non questo o quel dettaglio delle strategie dei governi occidentali, ma i loro presupposti di fondo. E ciò è un bene di per sé stesso, dato che molti dei suddetti presupposti sono erronei, come qui abbiamo più volte cercato di documentare.

Di ciò va dato merito soprattutto a Massimo Cacciari e Giorgio Agamben, che hanno dato fuoco alle polveri con il loro articolo A proposito del decreto sul “green pass”, pubblicato il 26/07/2021 sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, e al quotidiano La Stampa, che, nonostante la sua posizione ufficiale di sostegno incondizionato al governo, ha aperto le sue pagine a una discussione pubblica sul tema.

Se c’è invece un aspetto sicuramente negativo, è che purtroppo le critiche dei due filosofi, come del resto praticamente tutte le altre che si sono sentite finora, partono dalla premessa che i dubbi di chi non vuole vaccinarsi siano giustificati perché l’efficacia e la sicurezza dei vaccini non sarebbero ancora state dimostrate. Non voglio qui entrare nel merito della questione, anche se dopo miliardi di dosi inoculate è ormai abbastanza evidente che i rischi sono davvero minimi, mentre sull’efficacia si può discutere quanto i vaccini proteggano (il discorso è reso estremamente complesso dal fatto che, come è noto, la letalità del virus varia moltissimo a seconda dell’età), ma non che una protezione ci sia e che sia consistente.

Ma, ripeto, non voglio insistere su questo, perché ciò che vorrei qui sottolineare è che tale premessa è del tutto superflua, dato che le critiche di Cacciari e Agamben restano valide anche a prescindere da essa: infatti le condivido anch’io, che non soltanto mi sono vaccinato, ma sono addirittura favorevole all’obbligo di vaccinazione per tutti (che è tutt’altra cosa dal Green Pass). Sarebbe quindi opportuno concentrarsi solo su di esse, senza offrire a chi non vuole affrontarle un comodo pretesto per accomunarle impropriamente ai deliri negazionisti e complottisti dei No-Vax (come infatti quasi sempre è accaduto).

Perché parliamoci chiaro: contrariamente a ciò che il governo continua a sostenere, il Green Pass non è affatto uno strumento di prevenzione, dato che anche nei luoghi a cui si può accedere soltanto con esso continuano ad essere in vigore le stesse regole in base a cui abbiamo vissuto negli ultimi tempi. Di conseguenza, delle due l’una: o questa strategia era sbagliata, e allora il governo dovrebbe fare un pubblico mea culpa (di cui però non vi è traccia); oppure non lo era (come i dati dell’epidemia sembrano suggerire), e allora non si capisce perché mai dovremmo cambiarla. Non solo: tutto ciò dà l’impressione (errata, ma inevitabile) che il governo non creda realmente all’efficacia dei vaccini, il che fa aumentare la diffidenza verso i vaccini stessi e di conseguenza rende semmai più difficile la prevenzione.

A conferma di ciò, basta scorrere la lista dei luoghi accessibili solo col Green Pass per rendersi subito conto che non sono stati scelti quelli a maggior rischio sanitario (che sono anzitutto il trasporto pubblico locale e i luoghi di lavoro al chiuso, attualmente accessibili anche ai non vaccinati, a parte alcune particolari categorie), bensì quelli a minor rischio di scontro sociale, cioè quelli da cui essere esclusi rende la vita sgradevole, ma non impossibile: bar, ristoranti, cinema, teatri, musei, congressi, lunghi viaggi e – ahimè – lezioni universitarie, evidentemente considerate anch’esse parte del “superfluo”, secondo una mentalità tanto demenziale quanto purtroppo diffusa nel nostro paese.

Appare quindi evidente che il vero (e neanche tanto nascosto) obiettivo del Green Pass, come ha riconosciuto candidamente Andrea Crisanti, «è quello di indurre a vaccinarsi chi è riluttante o indeciso facendo leva su benefici personali che ne deriverebbero in termini di qualità di vita» (Green Pass e Terra piatta, su La Stampa, del 02/08/2021), dato che il loro numero (attualmente oltre 21 milioni di persone, allora quasi 30) è ancora troppo alto perché la campagna vaccinale possa avere pieno successo. Ciò che lascia stupiti è che Crisanti pensi che ciò sia cosa buona e giusta, pur avendo riconosciuto che si tratta di un metodo che viene usato intenzionalmente per forzare la gente a fare qualcosa che la legge non prescrive. Ciò è infatti inaccettabile per almeno due ragioni, una pratica e una di principio.

Anzitutto, dal punto di vista pratico, questa strategia rischia di rivelarsi un vero boomerang per il governo. Se è vero, infatti, che il primo annuncio dell’obbligo del Green Pass ha provocato un’impennata nelle richieste di vaccinazione, guardando agli avvenimenti di questi giorni sembra abbastanza chiaro che ciò abbia influito essenzialmente sui “pigri”, cioè su quelli che, pur non essendo contrari a vaccinarsi, non avevano particolarmente fretta di farlo. Per questo, come ha riconosciuto anche Marcello Sorgi, che pure l’aveva sempre difeso, «è prevedibile che [il Green Pass] non possa dare più risultati di quelli ottenuti» (dopo meno di un mese dalla sua introduzione!) e «ha anche influito negativamente sui contrari, rendendoli più esacerbati» (Ora ci vuole l’obbligo vaccinale, su La Stampa del 31/08/2021), fenomeno che rischia di accentuarsi ancor più nelle prossime settimane, quando con il ritorno a scuola e al lavoro i disagi diventeranno più pesanti.

Inoltre, la stessa legalità di questo strumento è molto dubbia, perché la Costituzione permette sì, come ha notato Zagrebelsky (Quell’obbligo è legittimo, su La Stampa del 06/08/2021), delle limitazioni agli spostamenti dei cittadini per ragioni sanitarie (art. 16), ma quelle imposte dal Green Pass vanno ben al di là di ciò, impedendo a chi non lo ha di usufruire di tutta una serie di servizi e in alcuni casi addirittura di svolgere il proprio lavoro. E come si potrà sanzionare costoro per “assenza ingiustificata” (come è già stato annunciato), quando è lo Stato che gli impedisce di lavorare perché non vaccinati, benché, per altro verso, gli riconosca il diritto di non vaccinarsi? Come si spiega che il Green Pass venga richiesto per svolgere certi lavori, ma non altri? Perché viene richiesto al ristorante, ma non nelle mense aziendali? Perché sui treni a lunga percorrenza e non su quelli regionali, molto più affollati? Perché gli studenti delle scuole potranno assistere alle lezioni anche senza, mentre quelli universitari no? E perché, di conseguenza, i docenti universitari saranno costretti a prolungare ulteriormente la deleteria didattica a distanza, che invece a scuola si vuole (giustamente) evitare a tutti i costi? A nessuna di tali domande sembra possibile dare una risposta sensata: e quando ciò accade, significa che il difetto è nel manico, cioè che è insensato il provvedimento che le provoca.

Per di più, ciò rischia di dar luogo a un’enorme quantità di azioni legali, che, prevedibilmente, avranno esiti diversi a seconda dell’orientamento politico dei magistrati, creando un guazzabuglio giuridico inestricabile che non aiuterà certo la velocizzazione della giustizia perseguita dalla riforma Cartabia. Peggio ancora, si rischia di causare fortissime tensioni sociali e anche episodi di violenza, che purtroppo hanno già iniziato a verificarsi e che nella situazione attuale sono l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. E questo, considerando che stiamo parlando di oltre un terzo della popolazione italiana, è davvero giocare col fuoco.

Ma il problema più grave è quello di principio. Il Green Pass rappresenta infatti un drammatico ritorno allo sciagurato atteggiamento, tipico del governo Conte, di voler “rieducare” i cittadini con minacce, menzogne e furbate di bassa lega, anziché responsabilizzarli attraverso la verità e la trasparenza, cercando al contempo di scaricare su di essi le responsabilità più scomode, che un governo degno di questo nome dovrebbe invece avere il coraggio di assumersi in prima persona.

Prima si trattava del funzionamento delle misure di prevenzione, che hanno disastrosamente fallito, cosa che il governo precedente ha sempre cercato di imputare alle poche migliaia di persone che non le rispettavano, per evitare di doversi chiedere (e soprattutto di doverci spiegare) come mai i milioni e milioni di persone che le rispettavano continuavano lo stesso a morire. Oggi si tratta del funzionamento della campagna vaccinale, che invece, grazie al cielo (e alla cacciata di Conte), sta avendo un successo molto maggiore, ma ancora insufficiente per eliminare definitivamente il virus, del che il governo attuale, attraverso il Green Pass, sta cercando di scaricare la responsabilità sui cittadini che non vogliono vaccinarsi.

La differenza è che questa volta una responsabilità da parte dei cittadini in questione effettivamente esiste, ma ciò che invece resta (purtroppo) uguale è l’assurdo atteggiamento del governo, che prima li autorizza a comportarsi in un certo modo e poi li biasima e addirittura li sanziona perché lo fanno. Tale atteggiamento è stato purtroppo fatto suo perfino dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che in varie occasioni (per esempio durante la cosiddetta “cerimonia del ventaglio” del 28 luglio e nel discorso inaugurale al Meeting di Rimini del 20 agosto), ha dichiarato, in tono di aspro rimprovero verso i renitenti, che «vaccinarsi è un dovere morale e civico». Ora, questo modo di esprimersi può sembrare nobile se ci si ferma all’emotività suscitata dalle parole, senza riflettere sul loro significato (e infatti è stato acriticamente lodato da quasi tutti i mass media), ma in realtà rappresenta un equivoco pericolosissimo, perché uno Stato di diritto non può imporre “doveri morali”, ma solo doveri giuridici o nulla. E dispiace che anche Draghi, che per il resto sta facendo bene e che anche sul virus aveva fin qui tenuto un atteggiamento ben più corretto, si sia alla fine adeguato all’andazzo.

Intendiamoci: anch’io credo che nella situazione attuale non vaccinarsi sia un atto di egoismo (oltre che di autolesionismo) e l’ho pure detto a muso duro a diversi amici. Il punto, però, è che queste considerazioni appartengono a una sfera nella quale la politica non può e non deve intromettersi. Hanno quindi ragione Cacciari e Agamben a denunciare questo atteggiamento come intrinsecamente antidemocratico, mentre sbagliano quelli che ritengono che si tratti di una questione opinabile, dipendente dal «proprio concetto di libertà individuale» (Ma tu e i filosofi avete torto, su La Stampa del 29/07/2021). Neanche per sogno! Si tratta invece di un principio fondamentale e irrinunciabile, altrimenti si cade nello Stato etico e di qui nel totalitarismo.

Come si fa, infatti, a far rispettare un “dovere morale”, che per definizione non è giuridicamente sanzionabile? Ma è chiaro: attraverso la disapprovazione sociale, come accade tipicamente nei regimi autoritari, dove tutti sanno benissimo che chi non si conforma alle esortazioni morali del “caro leader” di turno viene inesorabilmente emarginato, anche se di per sé il suo comportamento non è proibito da nessuna legge. Il Green Pass si pone nella stessa logica, che rappresenta il brodo di coltura ideale per tutte le tendenze autoritarie, presenti purtroppo in abbondanza non solo nel calamitoso Speranza, ma anche in diversi altri componenti dell’attuale maggioranza, così come di quella precedente: perciò il rischio che si produca una deriva illiberale e antidemocratica è assolutamente reale e anzi in parte si sta già verificando.

In uno Stato democratico, invece, se il governo ritiene (come personalmente ritengo anch’io) che tutti dovrebbero vaccinarsi, allora deve prendersi la responsabilità di rendere la vaccinazione giuridicamente obbligatoria, per mezzo di una legge, che, ovviamente, dovrà essere discussa e approvata (o respinta) democraticamente in Parlamento.

Nonostante le apparenze, infatti, l’imposizione di un obbligo giuridico non è solo molto più efficace che l’imposizione di un obbligo morale, ma è anche molto più rispettoso della libertà, della dignità e della privacy delle persone. È più rispettoso della libertà perché un obbligo giuridico richiede solo l’adesione esteriore, mentre un obbligo morale richiede anche un’adesione interiore. È più rispettoso della dignità perché chi dissente da un obbligo giuridico è semplicemente uno che non è d’accordo con l’opinione della attuale maggioranza, che domani potrebbe cambiare, mentre chi dissente da un obbligo morale è per definizione una persona immorale, non solo oggi, ma anche domani e per sempre. Ed è più rispettoso della privacy perché richiede che venga controllato soltanto l’adempimento dell’obbligo in questione e non ogni singolo movimento delle persone.

Inoltre, diversamente dalla limitazione dei diritti dei cittadini prodotta dal Green Pass, l’imposizione di un trattamento sanitario obbligatorio è espressamente previsto dalla Costituzione (art. 32), con l’unico limite del «rispetto della persona umana», che non è certo violato dalla vaccinazione obbligatoria, dato che attualmente in Italia ne sono previste ben dieci (che comprendono, tra l’altro, malattie pericolosissime come la poliomielite, la difterite e il tetano, che proprio grazie all’obbligo vaccinale sono quasi completamente scomparse da tutti i paesi progrediti, senza contare il vaiolo, che da solo ha fatto più morti di tutte le guerre della storia messe insieme, mentre oggi è stato completamente eradicato dalla faccia della Terra).

Se invece il governo ritiene che ciò non sia opportuno, allora lo dica chiaramente e poi spieghi altrettanto chiaramente che il prezzo da pagare per la libertà di scelta è che il Covid resterà con noi ancora a lungo come malattia endemica “di nicchia” tra i non vaccinati, ai quali a questo punto dovrà essere concesso di vivere liberamente come tutti gli altri (perché Green Pass e stato di emergenza non possono certo essere mantenuti in eterno), con il conseguente rischio, basso, ma non trascurabile, che, continuando a circolare, sia pure “a bassa intensità”, a un certo punto il virus possa sviluppare una mutazione capace di eludere i vaccini e dare inizio a una nuova pandemia.

E con ciò giungiamo all’altro pericolosissimo equivoco giustamente segnalato da Cacciari e Agamben: quando e in base a quali criteri l’emergenza Covid verrà dichiarata conclusa? Infatti, l’altra giustificazione “ufficiale” del Green Pass è che si tratterebbe di una misura temporanea e di breve durata. Ma se il numero di persone che alla fine deciderà di vaccinarsi non dovesse essere sufficiente ad eliminare il contagio (almeno non in tempi brevi), ma solo a ridurlo, quando si riterrà che il livello di mortalità del Covid sarà divenuto tollerabile e che sarà dunque possibile conviverci senza più far uso di misure speciali, così come accade per molte altre malattie con cui conviviamo da moltissimo tempo?

Secondo logica, dato che nessuno si è mai sognato di dichiarare lo stato di emergenza a causa dell’influenza, questo momento dovrebbe arrivare quando la mortalità da Covid si sarà stabilizzata all’incirca sullo stesso livello, cioè (probabilmente) fra non molto, dato che praticamente ci siamo già arrivati. Ma purtroppo in questa sciagurata vicenda di logico c’è sempre stato ben poco e al proposito vi sono già state molte prese di posizione assai poco tranquillizzanti da parte di personaggi illustri e meno illustri.

Le più inquietanti, almeno fino ad ora, sono la dichiarazione resa il 7 agosto al TG1 delle 20 dal presidente dell’ISS Silvio Brusaferro e l’intervista rilasciata l’11 agosto a La Stampa dal direttore dell’Istituto Galeazzi, il virologo Fabrizio Pregliasco, che sono agli antipodi sulla mitica “immunità di gregge” (raggiungibile entro fine settembre per il primo, irraggiungibile per il secondo), ma concordano entrambi sulla futura necessità di “abituarsi a convivere col virus”. Tuttavia, mentre Brusaferro non specifica cosa ciò significherebbe, Pregliasco lo fa eccome: secondo lui, infatti, «possiamo raggiungere dei livelli minimi di sicurezza, ma questo ci obbligherà a continuare con il tracciamento e le altre misure» e potremo togliere le mascherine «non prima della fine del prossimo anno», il che evidentemente significa che se fosse per lui si potrebbe continuare anche dopo.

È perciò assolutamente reale e va preso molto sul serio il rischio che, di proroga in proroga, si vada avanti con lo stato di emergenza a tempo indeterminato anche con una mortalità bassissima, in nome della presunta “unicità” del Covid, che in realtà è una pura leggenda urbana, eppure ha orientato in modo tanto determinante quanto drammaticamente errato le nostre politiche di prevenzione (cfr. Paolo Musso, Quando il pandemically correct uccide). E c’è anche di peggio in agguato.

Infatti, una volta che la gente si sia abituata a considerare “inaccettabile” anche solo una decina di morti al giorno, che è meno di quanti ne faccia ogni anno l’influenza, il rischio è che, anziché cominciare a considerare il Covid come l’influenza, si cominci a considerare l’influenza (e magari anche altre malattie a basso rischio) come il Covid, col risultato di vivere in un perenne stato di emergenza, sacrificando così, in nome della “nuda vita”, cioè della pura sopravvivenza biologica (che in ogni caso è destinata prima o poi a finire), tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta, come giustamente denuncia da tempo Giorgio Agamben.

Se qualcuno pensasse che sia un’esagerazione, faccio presente che qualche settimana fa a Superquark un personaggio di cui non ricordo il nome ha detto testualmente che «della mascherina non potremo più fare a meno, perché dovremo usarla per proteggere gli altri ogni volta che avremo l’influenza». E sappiamo tutti perfettamente che Piero Angela, nonostante i suoi 92 anni, è ancora il deus ex machina incontrastato della divulgazione scientifica italiana. Di conseguenza, se una certa parola d’ordine inizia a girare nelle sue trasmissioni c’è una probabilità niente affatto trascurabile che ben presto si trasformi in una campagna mediatica in grande stile.

Vi sembra ancora un’esagerazione? E allora sappiate che nell’intervista prima citata Pregliasco continuava affermando che anche dopo la fine del Covid «sarebbe auspicabile che [le mascherine] si continuassero a tenere nei luoghi di lavoro o in caso di sintomi da malattie respiratorie come l’influenza o il raffreddore». Sì, avete letto bene: mascherine obbligatorie per il raffreddore! Uno scenario da incubo, che però, evidentemente, a lui non sembra affatto tale.

Ora, di fronte ad affermazioni del genere è davvero difficile, anche per un convinto anticomplottista come me, non sentirsi spinto a pensar male. Non sto dicendo, sia chiaro, che ci sia un “piano” costruito a tavolino per prolungare artificialmente l’epidemia (cosa a cui non credo nel modo più assoluto), ma solo che non tutti sembrano così ansiosi di voltar pagina al più presto, come sarebbe logico aspettarsi. E ciò induce a pensare che ci sia davvero qualcuno, non solo tra i politici, ma anche tra gli scienziati, che vede questa situazione non solo come un problema, ma anche come un’opportunità per “rieducare” (ovviamente per il loro bene!) gli “indisciplinati” cittadini italiani.

Non sono quindi Cacciari e Agamben ad avere le allucinazioni quando denunciano il rischio di un progressivo slittamento verso un vero e proprio “regime di controllo” a base sanitaria, certamente ancora democratico nella forma (non è questo che è in discussione), ma sempre più autoritario nella sostanza: ad averle, semmai, sono quelli che non vedono (o non vogliono vedere) i chiarissimi indizi del suo incombere.

Il fatto che provvedimenti analoghi siano stati adottati anche in altri paesi, primo fra tutti la Francia, lungi dal legittimare ciò che sta accadendo da noi, lo rende anzi ancor più preoccupante, perché dimostra che questa tentazione autoritaria rappresenta un problema culturale che investe ormai tutto l’Occidente; e non riguarda soltanto la destra, ma anche e anzi ancor più la sinistra e perfino il centro (cfr. ancora Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo, e Marco del Giudice, Dove va il politicamente corretto? Uno sguardo dagli USA).

Per scongiurare un tale pericolo occorre un cambiamento culturale profondo, perché profonde e antiche sono le sue radici, come cercherò di spiegare in un prossimo articolo. Tuttavia, la cosa in assoluto più importante ed urgente è tornare a dire le cose come stanno, senza più trucchetti, furberie e retropensieri assortiti. Come dice il Vangelo (Mt 5, 37): «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più (Green Pass compreso) viene dal Maligno».




Verso una società parassita di massa?

Da qualche tempo le spinte per l’abolizione o la modifica del reddito di cittadinanza si stanno moltiplicando. Contro il reddito di cittadinanza è da sempre schierata la destra, ma recentemente il reddito è stato attaccato anche dal partito di Renzi, che intende promuovere un referendum per la sua abolizione. Sulla necessità di modificarlo ormai convengono tutti (persino i Cinque Stelle), si tratterà solo di vedere come, quanto e quando.

Le critiche al reddito di cittadinanza sono numerosissime, e tutte vecchiotte: troppe truffe, specie da parte di beneficiari stranieri (che talora nemmeno abitano in Italia); flop dei navigator, incapaci di offrire occasioni di lavoro a un numero adeguato di richiedenti; mancata applicazione delle norme che prevedevano di impiegare i beneficiari in opere di pubblica utilità; ritiro dal mercato del lavoro dei percettori dell’assegno.

Quest’ultima è la critica più frequente, sistematicamente ripresa dai media e non solo. In una recente intervista, l’imprenditore Flavio Briatore è arrivato ad affermare che ormai “non c’è alcun giovane che ha voglia di lavorare durante la stagione estiva’’ e che ‘‘il governo doveva sospendere il reddito da maggio a ottobre” dando “la possibilità ai giovani di fare la stagione”.

E sono innumerevoli le testimonianze di imprenditori, esercenti, datori di lavoro in genere che, da tempo, denunciano la difficoltà di trovare camerieri, bagnini, cuochi, commessi, operai, informatici, meccanici, autisti, e ogni sorta di altri tipi di lavoratori, a causa del reddito di cittadinanza. Il meccanismo è chiaro: se l’assunzione è regolare, si perde automaticamente il reddito di cittadinanza, se è irregolare si rischia di perderlo in caso di controlli. Il risultato è il medesimo: una carenza di manodopera.

Sono sempre stato contrario al reddito di cittadinanza di marca grillina, e non proverò certo a difenderlo in questa sede. Voglio però sollevare un interrogativo: siamo sicuri che il grosso del problema della mancanza di manodopera stia nel reddito di cittadinanza?

Io temo di no. Guardiamo alla società italiana come era prima del reddito di cittadinanza e subito prima del Covid. Ebbene, già allora la società italiana era diventata una “società signorile di massa”, con un numero spropositato di persone – giovani e meno giovani – che si potevano permettere il lusso di consumare senza lavorare. Fra le società avanzate, già allora l’Italia (insieme alla Grecia) deteneva il record per numero di adulti inoccupati e per numero di Neet (sigla che indica i giovani che non lavorano, non studiano, né stanno seguendo un training). Già allora gli imprenditori denunciavano drammatiche carenze di manodopera specializzata e di tecnici. Già allora il tempo di lavoro era diventato, nella vita della maggior parte delle persone, una quota molto ridotta del tempo di vita, a tutto beneficio dello svago, della navigazione su internet, delle vacanze, della cura di sé, e più in generale delle attività del tempo libero. Già allora, grazie alle riforme del mercato del lavoro intervenute dopo la drammatica crisi del 2008-2011, era enormemente cresciuto il numero di percettori di sussidi. Già allora, anche nelle regioni del Nord, si erano affermati modelli di permanenza sul mercato del lavoro fondati su varie miscele di lavoro regolare, lavoro irregolare e sussidi vari. Già allora, in molte situazioni, i salari erano molto bassi, o erogati in nero, e i giovani dotati di più talento, intraprendenza e risorse familiari prendevano la via dell’emigrazione.

Insomma, rispetto a tutto questo, il Covid e il reddito di cittadinanza si sono limitati a esasperare fenomeni ampiamente presenti già prima. Durante il Covid sono stati distrutti 1 milione di posti di lavoro, ma a dispetto di ciò il numero di persone che cercano un lavoro anziché aumentare è diminuito, peraltro proseguendo un trend già in atto prima del Covid. In compenso, il numero di persone che usufruiscono di sussidi di vario tipo (disoccupazione, cassa integrazione, reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, pensione di cittadinanza, eccetera) è letteralmente esploso. Di questa esplosione il reddito di cittadinanza è solo un aspetto, e forse nemmeno il più importante.

Possiamo riassumere dicendo: in Italia è crollato il numero di persone pronte a lavorare, e si sono moltiplicati gli strumenti che, come il reddito di cittadinanza, disincentivano la ricerca di lavoro. L’Italia sta diventando una società parassita di massa, in cui una minoranza iperattiva, e talora supersfruttata, assume su di sé il carico di produrre ricchezza, mentre la maggioranza consuma senza partecipare direttamente alla produzione del reddito, e dipende sempre più dall’assistenza pubblica e dalla benevolenza dei familiari occupati.

E’ un problema, o possiamo perseverare serenamente su questa strada come abbiamo fatto negli ultimi 20 anni?

Sì, è un problema, perché la mancanza di forza lavoro fa sì che l’economia cresca largamente al di sotto del suo potenziale, e questo, con la montagna di debiti che stiamo contraendo, non possiamo più permettercelo. Ma è precisamente questo che è successo quest’anno, e si è accentuato durante l’estate: a una domanda turistica strabordante, indotta dalla crescita del turismo interno e dal desiderio di auto-risarcimento degli italiani dopo il Covid, i datori di lavoro sono riusciti a far fronte solo in parte perché non ci sono abbastanza persone disposte a lavorare alle condizioni offerte dal mercato (non di rado umilianti) e in presenza di una selva di disincentivi al lavoro. Una strozzatura che si è aggiunta ai numerosi problemi storici del mercato del lavoro italiano: la quasi totale assenza delle politiche attive, l’ostilità dei giovani al lavoro manuale e alle professioni tecniche, il ridotto numero di laureati (specie fra i maschi), la diffusione del lavoro nero, il basso livello dei salari e della produttività.

In queste condizioni, anche l’eventuale soppressione o ridimensionamento del reddito di cittadinanza, pur auspicabile come misura elementare di buon senso, rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 settembre 2021




Verso la terza dose?

Nell’estate scorsa, in Italia, il Covid pareva quasi sconfitto. Conte faceva il pavone, il ministro Speranza scriveva il suo libro autocelebrativo (Perché guariremo), Zangrillo assicurava che il virus era “clinicamente morto”. Si è visto poi, appena riaperte le scuole, che quella estiva era stata solo una tregua, e il virus era tutt’altro che morto.

E oggi?

Oggi le cose sono profondamente cambiate, non solo in Italia. La variante delta, 2-3 volte più contagiosa del virus originario, ha reso la lotta alla pandemia molto più difficile. Nello stesso tempo, fortunatamente, la campagna di vaccinazione l’ha resa più facile.

Ma qual è il saldo finale?

Sfortunatamente è negativo: nella maggior parte dei paesi, la variante delta si rivela più forte del vaccino. Non già nel senso che il vaccino non funzioni contro di essa, ma nel senso che non basta. E’ un timore che avevo espresso diversi mesi fa, ma oggi quel timore è purtroppo divenuto una certezza: a dispetto del vaccino, i contagi, le ospedalizzazioni e i decessi di questa estate sono maggiori di quelli dell’estate scorsa non solo in Italia ma nella maggior parte delle società avanzate, con poche eccezioni. In breve: ci apprestiamo ad archiviare le vacanze estive in condizioni peggiori di quelle dell’anno scorso.

Come è stato possibile? Perché la vaccinazione di massa non è stata sufficiente a far arretrare l’epidemia?

Se diamo un’occhiata alla mappa del contagio nelle società avanzate, non è difficile rendersi conto che, in questa estate almeno, un fattore cruciale è stata la vocazione turistica di ogni paese. In questo momento l’epidemia galoppa nei paesi ad alto impatto turistico, come Spagna, Francia, Italia, Grecia, Croazia, mentre è ai minimi, talora addirittura al di sotto dei livelli dell’estate scorsa, nella maggior parte dei paesi (relativamente) meno attrattivi: non solo i paesi ex comunisti come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, ma anche i paesi scandinavi e dell’area germanica. Si conferma così una verità difficile da digerire, specie per un paese come il nostro: il turismo internazionale è un potente moltiplicatore della circolazione del virus.

Se guardiamo più attentamente le cose, però, non possiamo non notare alcune anomalie, talora piccole, altre volte macroscopiche. C’è il caso dell’Islanda, che ha vaccinato quasi tutti e ciononostante è alle prese con un’esplosione del contagio. Anche in questo caso la spiegazione, verosimilmente, è l’apertura al turismo: l’epidemia è esplosa solo quando (fine giugno), per sfruttare la stagione turistica, il paese ha deciso di abolire tutte le misure di distanziamento e di autoprotezione, fidando esclusivamente nella vaccinazione: nel giro di pochissime settimane i casi sono passati da meno di 10 al giorno a più di 300, ossia 1 ogni mille abitanti (è come se noi ne avessimo 60 mila al giorno).

Ma ci sono anche tre anomalie macroscopiche: Israele, Regno Unito, Stati Uniti. Questi tre paesi sono stati i pionieri delle vaccinazioni, ma sono tutti e tre in grave difficoltà. Come mai?

La risposta che si sta facendo strada è: forse sono nei guai proprio perché sono partiti prima con le vaccinazioni. Il sospetto si è consolidato nelle ultime settimane quando diversi studi hanno mostrato che le persone vaccinate più precocemente (diciamo tra dicembre 2020 e febbraio-marzo 2021) presentavano un rischio di infezione sensibilmente più alto delle persone vaccinate più tardi. Questa osservazione, accoppiata con la scoperta di una rapida diminuzione degli anticorpi dopo il quarto mese dalla seconda dose, ha portato alla ribalta l’idea di procedere subito (fin da settembre) alla somministrazione di una terza dose di vaccino non solo ai soggetti più fragili o immunodepressi, ma anche a tutti gli altri, o perlomeno agli anziani.

E’ fondata l’ipotesi che sia opportuna una terza dose? E soprattutto: a partire da quando? E con quale vaccino?

La risposta spetta prevalentemente alle autorità sanitarie, che finora appaiono dubbiose e divise. E, stranamente, non hanno ancora risposto a una domanda fondamentale: come mai è evaporata la promessa di produrre vaccini a mRNA “riprogrammabili”, ossia rapidamente adattabili alle varianti che via via emergono? (a quel che si sa, solo ora Pfizer e Moderna stanno provando a sviluppare vaccini mirati sulla variante delta).

Quel che posso dire, come statistico, è solo che le evidenze empiriche provenienti dagli studi condotti in Israele, Regno Unito e Stati Uniti sono decisamente convincenti sul fatto che la protezione dal rischio di infettarsi diminuisca rapidamente (e non di poco) a partire da 4-5 mesi dalla seconda dose, ma sono ancora incerte per quanto riguarda l’entità precisa di tale diminuzione. Troppi, infatti, sono i fattori che possono distorcere le stime quando si lavora con dati osservativi (anziché sperimentali, come negli studi clinici randomizzati). I soggetti vaccinati per primi, ad esempio, sono diversi da quelli vaccinati successivamente non solo per le loro condizioni di salute e di esposizione al rischio, ma anche per il tipo di variante con cui hanno dovuto fare i conti (a gennaio dominava la alpha, da giugno domina la delta). Se non si vuole incorrere in clamorosi fraintendimenti dei dati (come è capitato di recente all’ingenuo Cacciari), occorre leggere con estrema cautela le stime sul crollo di efficacia dei vaccini dopo il quarto mese, e distinguere accuratamente l’efficacia rispetto all’infezione, il cui deterioramento è più marcato, e l’efficacia rispetto a malattia grave, ospedalizzazione e decesso, il cui deterioramento – fortunatamente – è molto meno ampio.

Quel che è certo, invece, è che la percentuale di copertura vaccinale (vaccinati con seconda dose rispetto alla popolazione vaccinabile), statistica spesso usata per dire quanto un paese è protetto, sta diventando una misura sempre più fuorviante. Un paese può aver vaccinato l’85% della sua popolazione vaccinabile (che sembra un’ottima percentuale), ma può essere gravemente scoperto perché la popolazione non vaccinabile è molto ampia, o perché troppi vaccinati stanno perdendo la protezione del vaccino, o per entrambi i motivi (è il caso di Israele, paese giovane, e che ha iniziato a vaccinare prima di altri). In altre parole: il tasso di protezione di un paese non è dato dalla quota di popolazione vaccinabile raggiunta con la seconda dose, ma dalla quota di popolazione totale (vaccinabile e non) che non solo è stata doppiamente vaccinata, ma non ha ancora gravemente compromesso il proprio grado di protezione.

Da questo punto di vista l’Italia è, per ora, in una posizione di vantaggio rispetto ad altri paesi: abbiamo pochissimi giovani, e abbiamo pochi vaccinati precoci (potremmo, ironicamente, chiamarlo “paradosso Arcuri”). E’ probabilmente questa la ragione per cui, rispetto agli altri paesi ad alto turismo, l’Italia ha oggi una situazione un po’ meno compromessa.

Quindi la domanda diventa: vogliamo metterci rapidamente in condizione di mantenere e accrescere il nostro grado di protezione, o preferiamo cullarci nell’illusione che i vaccini mantengano a lungo la loro efficacia?

Nel primo caso, la strada è inevitabilmente quella di iniziare molto presto a somministrare terze dosi, come già stanno facendo o si apprestano a fare Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia e vari altri paesi. Nel secondo caso la strada è quella su cui si sta orientando in questi giorni il Governo: somministrare le terze dosi solo ad una piccola parte della popolazione e, per gli altri, stabilire per legge che l’efficacia del vaccino dura 12 mesi (anziché 9 come si credeva, o 6 come suggeriscono le analisi più recenti).

Temo che, come quasi sempre abbiamo fatto in passato, anche questa volta troveremo più comodo cambiare le soglie di pericolo, piuttosto che limitare in modo effettivo i pericoli: cambiare la scadenza del Green Pass è più facile, e forse più popolare, che organizzare una campagna di rivaccinazione di massa.

 

Pubblicato su Il Messaggero del 28 agosto 2021




La “sperimentalità” dei vaccini contro il covid-19: un punto di vista giuridico.

L’articolo si propone di fornire un semplice contributo informato al pubblico dibattito senza alcuna pretesa di rappresentare una parere professionale sul tema.

In questi ultimi tempi si sono moltiplicati i dibattiti sul fatto che i vaccini (o, per meglio dire, le terapie) contro il covid siano o meno farmaci sperimentali. Nell’agone dialettico si sono cimentati in tanti e anche un discreto numero di giuristi, in particolare esperti di diritto costituzionale. Il tema della definizione di “sperimentalità” di una terapia – ad esempio quando dalla qualificazione si vogliono trarre conseguenze in tema di legittimità di eventuali obblighi vaccinali (o del green pass) – è infatti questione giuridica prima che politica o medica. Questo significa che – per discuterne – occorre prima di tutto evitare di cadere vittima dell’idea (che spesso il profano del diritto condivide) per cui, se la legge parla di “esperimento” o di farmaco “sperimentale”, il contenuto dei termini in questione potrebbe essere individuato semplicemente utilizzando o il vocabolario comune o (per i profani più attenti) il glossario medico. La realtà è invece che le norme sono strumenti che definiscono degli istituti giuridici che hanno uno scopo, e che – di conseguenza – la loro interpretazione non può che seguire regole che rispettino la funzione dell’istituto che di volta in volta le norme da interpretare concorrono a definire. Funzione che, a sua volta, deve essere desunta da quelle stesse norme, nel rispetto del principio di non contraddizione logica, in forza del quale norme che contengono definizioni di tenore letterale analogo non dovrebbero avere – se non definiscono istituti che hanno scopi radicalmente differenti – un contenuto diverso.

Tutto questo per dire che il tema merita di essere trattato, anche quando viene posto in termini di rispetto del diritto costituzionale e/o internazionale, tenendo conto del diritto regolatorio farmaceutico, ossia della parte (del diritto amministrativo e dell’Unione Europea) che disciplina – appunto – la sperimentazione di farmaci e trattamenti ad uso umano. E dunque – al fine di evitare antinomie, ossia contrasti tra definizioni uguali contenute in norme differenti – l’individuazione di quali farmaci possano considerarsi sperimentali (e di quali studi clinici possono essere considerati attività sperimentali), anche se condotta per verificare la possibilità di applicare principi e norme costituzionali o internazionali, non può prescindere da un esame delle norme (nazionali e di fonte UE) che disciplinano l’attività di sperimentazione dei farmaci al fine di garantire la sicurezza della loro somministrazione al pubblico. Con questo scritto intendo dunque dare un contributo al dibattito, ben conscio del fatto che ogni giurista si limita a indicare interpretazioni sulla base della sua conoscenza delle norme e dei principi ermeneutici, mentre sono altri soggetti – in primo luogo i giudici, ma anche i decisori politici – che hanno il non facile compito di decidere come stanno le cose, traendone le dovute conseguenze a seconda della sede.

Nel rispetto delle premesse indicate, dunque, possiamo porci la domanda: i farmaci autorizzati in via condizionata (e, nello specifico, i cosiddetti vaccini anti-covid) possono essere considerati “farmaci sperimentali” e/o attualmente sottoposti ad attività di studio clinico definibili come “sperimentazione”? Per rispondere a queste domande possiamo affrontare il tema in tre modi diversi.

Il primo – più semplice, ma forse anche un po’ semplicistico (e che dunque trova ampi consensi anche tra i non giuristi e tra i giuristi che hanno meno familiarità con le complicazioni del diritto regolatori farmaceutico) – è quello per cui, se un farmaco viene autorizzato per il commercio dall’ente regolatore, allora avrebbe per definizione cessato la fase di sperimentazione. Si tratta di una posizione che (certamente condivisibile in relazione alle AIC ordinarie) per le autorizzazioni in deroga, come quella concessa per ora ai cosiddetti vaccini anti-covid, richiede di superare almeno uno scolio.

E’ infatti vero che anche i farmaci autorizzati in deroga hanno superato una parte degli stessi test clinici previsti per quelli ordinari (quelli delle fasi uno, due e tre), ma altrettanto vero è – come vedremo quando esamineremo il contenuto di due autorizzazioni condizionate relative a vaccini anti-covid – che alcuni studi clinici sugli effetti del farmaco devono essere comunque condotti in epoca successiva al momento dell’autorizzazione condizionata, al fine di conseguire l’autorizzazione definitiva ordinaria (autorizzazione ordinaria che – si badi bene, perché il punto è importante – ancorché concessa a posteriori resta comunque necessaria per la prosecuzione della legittima vendita del farmaco).

Proprio muovendo da questa ultima considerazione, infatti, si potrebbe sostenere che – essendo come vedremo alcuni di questi test aggiuntivi riconducibili al genus attività di sperimentazione clinica ed essendo questi test in corso fino alla concessione della autorizzazione definitiva – i vaccini autorizzati in deroga, fino al momento della concessione dell’AIC ordinaria, potrebbero essere classificabili come farmaci sperimentali, appunto per il fatto che la verifica della loro sicurezza (quella ordinariamente richiesta per la somministrazione al pubblico) resta subordinata alla svolgimento di ulteriori verifiche e test sperimentali. Questo significa che a ben vedere – anche usando il criterio “semplice” che piace ai medici – resta possibile sostenere che i vaccini, per quanto già autorizzati (ma solo in via condizionata), siano ancora sperimentali.

Per risolvere il dubbio occorre dunque passare al secondo approccio al tema della “sperimentalità” dei vaccini; quello più attento alla coerenza del sistema nel suo complesso e che dunque passa per l’individuazione delle definizioni di “sperimentazione” e di “farmaco sperimentale” contenute nel diritto farmaceutico.

La prima fonte da considerare è rappresentata dal regolamento n. 536/2014 del Parlamento e del Consiglio UE sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano, promulgato il 16 aprile 2014 [il testo è accessibile al seguente link]. La sua importanza deriva dal fatto che si tratta del regolamento che deve sostituire (abrogandola) la direttiva n. 2001/20/CE concernente il ravvicinamento del diritto degli Stati membri in tema di applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione della sperimentazione clinica di medicinali ad uso umano. Si noti che il Regolamento in questione, per quanto adottato nel 2014, sarà in realtà applicabile solo dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’UE dell’avviso con il quale la Commissione europea avrà confermato la piena funzionalità del cosiddetto CTIS (Clinical Trial Information System). Questo significa che – essendo l’operatività del sistema CTIS attualmente prevista per dicembre 2021 – è assai probabile che il Regolamento possa iniziare ad applicarsi a decorrere da quella data, dunque da fine anno. Al di là della data di effettiva entrata in vigore, il regolamento riveste già ora un ruolo importante nel sistema del diritto farmaceutico dell’UE, in quanto destinato a disciplinare organicamente – con norme di applicazione uniforme che prevarranno, abrogandone le parti incompatibili, sulle singole discipline nazionali – la materia di cui stiamo parlando.

Prima di verificare il contenuto del regolamento in questione, può essere il caso di esaminare la direttiva che quel regolamento va a sostituire [accessibile al seguente link], tenendo conto del fatto che – per quanto non direttamente applicabile negli Stati Membri – anche questo testo normativo può fornire indicazioni sull’interpretazione delle rispettive normative nazionali di attuazione, così come anche sul senso dei termini utilizzati nel regolamento.

Ebbene: l’art. 2 della direttiva – intitolato “definizioni” – alla lettera d) definisce come “medicinale in fase di sperimentazione” ogni “principio attivo in forma farmaceutica o placebo sottoposto a sperimentazione oppure utilizzato come riferimento nel corso di una sperimentazione clinica, compresi i prodotti che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione se utilizzati o preparati (secondo formula magistrale o confezionati) in maniera diversa da quella autorizzata, o utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata” (le enfasi sono aggiunte, n.d.r.). Si noti in particolare la frase finale, secondo cui va considerato in fase di sperimentazione anche un farmaco che, per quanto già autorizzato al commercio, viene usato al fine di ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata. Il che – come vedremo meglio infra – accade proprio in relazione ai farmaci autorizzati in deroga, come i cosiddetti vaccini anti-covid.

A sua volta, l’art. 2 lettera a) della direttiva, definisce la “sperimentazione clinica”, come segue: “qualsiasi indagine effettuata su soggetti umani volta a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici e/o gli altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali in fase di sperimentazione e/o a individuare qualsiasi tipo di reazione avversa nei confronti di uno o più medicinali in fase di sperimentazione, e/o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione al fine di accertarne l’innocuità e/o l’efficacia”. Secondo la direttiva, si definisce come sperimentazione qualunque indagine – condotta su esseri umani – che mira a valutare gli effetti o la sicurezza di un “medicinale in fase di sperimentazione”. E deve considerarsi in fase di sperimentazione, come abbiamo visto, ogni medicinale – anche se già autorizzato per la commercializzazione nell’UE – purché usato, tra le altre cose, per raccogliere informazioni sugli effetti dello stesso medicinale. La definizione pecca di una certa circolarità, ma fa ritenere che se un farmaco è ancora soggetto a esami clinici condotti su persone, anche se già autorizzato, deve considerarsi un farmaco sperimentale. Per la direttiva, insomma, parrebbe che a fare la differenza – per poter considerare sperimentale un farmaco – sia il fatto che quel farmaco (anche dopo aver ottenuto una autorizzazione condizionata) è ancora soggetto a “indagini” cliniche relative ai suoi effetti.

Ma procediamo ora con l’esame della normativa nazionale di attuazione della suddetta direttiva, che è rappresentata dal decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 211 [accessibile nel testo ufficiale qui].

All’art. 2 (definizioni) del decreto – come quasi sempre avviene – troviamo delle definizioni assai simili a quelle della direttiva. E dunque: alla lettera d) leggiamo che per “medicinale  sperimentale” si intende “una  forma  farmaceutica  di  un principio   attivo   o   di   un  placebo  saggiato  come  medicinale sperimentale o come controllo in una sperimentazione clinica compresi i prodotti   che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione ma  che  sono  utilizzati  o  preparati (secondo formula  magistrale  o  confezionati) in forme diverse da quella autorizzata, o quando sono utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata”. Alla lettera a) leggiamo invece che – per “sperimentazione   clinica” – dobbiamo intendere “qualsiasi studio  sull’uomo finalizzato   a   scoprire   o   verificare   gli   effetti  clinici, farmacologici  e/o  altri  effetti  farmacodinamici  di  uno  o  più  medicinali sperimentali, e/o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno a più medicinali sperimentali, e/o a studiarne l’assorbimento,  la  distribuzione,  il metabolismo e l’eliminazione, con  l’obiettivo di accertarne la sicurezza e/o l’efficacia”. La legge italiana pare dunque discostarsi dalla direttiva, prevedendo una nozione più ampia di sperimentazione: la norma nazionale parla infatti di ogni “studio” (non di ogni “indagine”, come la direttiva), facendo supporre che – quanto meno nel nostro ordinamento nazionale – possano rientrare nel concetto di attività di sperimentazione anche le procedure di semplice verifica dei dati raccolti senza protocolli aggiuntivi (ad esempio in sede di farmacovigilanza passiva), ancorché si tratti di attività che non implichino la conduzione di esami fisici aggiuntivi sui soggetti che ricevono (o hanno ricevuto) il farmaco. La differenza è importante e merita di essere sottolineata.

Assume tuttavia rilevanza ai fini della nostra indagine anche il decreto legislativo del 6 novembre 2007, n. 200 [accessibile al link che è uno dei decreti attuativi della diversa direttiva 2005/28/CE [il cui testo ufficiale è accessibile al seguente link]. Si tratta di una seconda direttiva che indica principi e linee guida dettagliate per la pratica clinica relativa ai medicinali in fase di sperimentazione a uso umano, nonché dei requisiti per l’autorizzazione alla fabbricazione o importazione di tali medicinali. E’ una direttiva che – di per sé – non ha un contenuto particolarmente interessante, mentre il relativo decreto attuativo (che analizzeremo qui appresso) contiene invece definizioni rilevanti per la nostra indagine.

La prima di esse è quella di “medicinale sperimentale” (art. 1 lettera h), definito come “una forma farmaceutica di un principio attivo o di un placebo saggiato come medicinale sperimentale o come controllo in una sperimentazione clinica, compresi i prodotti che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione, ma che sono utilizzati o preparati (secondo formula magistrale o confezionati) in forme diverse da quella autorizzata, o quando sono utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata o comunque utilizzati come controllo”. Qui per sperimentazione si intende ogni “uso” del farmaco – concetto a ben vedere ancora più ampio rispetto a quello di “studio” che abbiamo visto in precedenza – finalizzato a raccogliere dati sugli effetti del farmaco.

Seguono – in particolare alle lettere o) e p) dell’art. 1 del Decreto – le definizioni di “sperimentazione clinica” e – molto interessante ai nostri fini – quella di “sperimentazione non interventistica”.

Per “sperimentazione clinica” si intende infatti “qualsiasi studio sull’essere umano finalizzato a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici o altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali sperimentali, o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno o più medicinali sperimentali, o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione, con l’obiettivo di accertarne la sicurezza o l’efficacia, nonchè altri elementi di carattere scientifico e non”. Anche qui – dunque – il nostro legislatore include nella stessa categoria di sperimentazione clinica anche il semplice “studio”, dunque confermando quanto risultava già dall’altro decreto legislativo, ossia che per sperimentazione clinica – quanto meno secondo il nostro diritto nazionale – si può intendere anche una semplice verifica di dati senza condurre analisi cliniche (dunque attività fisica) su chi riceve il farmaco.

Che per il nostro legislatore la nozione di “sperimentazione” si estenda anche a semplici “studi” di dati clinici – dunque senza che sia necessario condurre indagini o esami fisici su chi riceve il farmaco – trova conferma nella previsione della sottospecie di sperimentazione – definita “sperimentazione non interventistica” – che viene descritta come “uno studio nel quale i medicinali sono prescritti secondo le indicazioni dell’autorizzazione all’immissione in commercio ove l’assegnazione del paziente ad una determinata strategia terapeutica non è decisa in anticipo da un protocollo di sperimentazione, rientra nella normale pratica clinica e la decisione di prescrivere il medicinale è del tutto indipendente da quella di includere il paziente nello studio, e nella quale ai pazienti non si applica nessuna procedura supplementare di diagnosi o monitoraggio”. Anche questa forma di studio (senza indagine medica e senza definizione di protocolli aggiuntivi) viene infatti definita “sperimentazione” dalla normativa nazionale italiana.

Pare insomma che il nostro diritto regolatorio nazionale adotti una nozione di sperimentazione di tipo formalistico, nel senso che – per aversi sperimentazione – non è necessario lo svolgimento di esami clinici sui soggetti che assumono il farmaco, ma sarebbe sufficiente anche la semplice raccolta e analisi di dati relativi agli effetti dei farmaci, senza la predisposizione di protocolli specifici all’uopo. Questa impostazione si spiega peraltro con il fatto che il legislatore nazionale ha inteso adottare per il settore farmaceutico un concetto di massima precauzione, considerando cioè ancora in fase sperimentale qualunque farmaco che sia ancora soggetto ad una qualunque forma di verifica degli effetti precedente alla sua piena commerciabilità con una autorizzazione ordinaria.

Questa considerazione è importante in quanto, come vedremo meglio infra, la somministrazione al pubblico di vaccini autorizzati in via condizionata resta sottoposta a farmacovigilanza e raccolta dati aggiuntivi anche in vista della formazione del dossier finale per la concessione dell’AIC definitiva: attività che, di conseguenza, potrebbe essere ritenuta una ipotesi di “sperimentazione non interventistica”. E tanto potrebbe essere a sua volta sufficiente per considerare come “medicinale sperimentale” il farmaco oggetto di autorizzazione  condizionata, in quanto di farmaco ancora oggetto a studi volti a ottenere ulteriori informazioni di natura clinica (ad esempio effetti avversi) sulla forma già autorizzata al commercio del farmaco stesso, in vista della sua autorizzazione ordinaria. Come vedremo tra poco, peraltro, i vaccini anti-covid in realtà – prima della concessione della autorizzazione definitiva – sono soggetti ad almeno un test clinico vero e proprio (uno studio randomizzato contro placebo, in cieco per l’osservatore), dunque a procedure che paiono rientrare nel concetto di sperimentazione con esame clinico propriamente detto.

Esaurito l’esame del nostro diritto nazionale – ed esaminata la direttiva che verrà sostituita dal regolamento – passiamo finalmente al contenuto del regolamento che, come si è anticipato, dovrebbe entrare in vigore nel prossimo futuro per disciplinare in modo uniforme ed organico la materia.

L’art. 2.2.3 del regolamento definisce come “sperimentazione clinica a basso livello di intervento” l’attività che segue: “una sperimentazione clinica che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) i medicinali sperimentali, ad esclusione dei placebo, sono autorizzati; b) in base al protocollo della sperimentazione clinica, i) i medicinali sperimentali sono utilizzati in conformità alle condizioni dell’autorizzazione all’immissione in commercio; o ii) l’impiego di medicinali sperimentali è basato su elementi di evidenza scientifica e supportato da pubblicazioni scientifiche sulla sicurezza e l’efficacia di tali medicinali sperimentali in uno qualsiasi degli Stati membri interessati; e c) le procedure diagnostiche o di monitoraggio aggiuntive pongono solo rischi o oneri aggiuntivi minimi per la sicurezza dei soggetti rispetto alla normale pratica clinica in qualsiasi Stato membro interessato”.

Qui il punto cui fare attenzione è la lettera c): come si è già avuto modo di accennare, dopo la concessione dell’autorizzazione condizionata, le case farmaceutiche – insieme al SSN – stanno proseguendo nella raccolta di dati clinici sui vaccini, ad esempio sugli effetti avversi, per completare il fascicolo sugli effetti a medio periodo del farmaco che consentirà la concessione dell’autorizzazione ordinaria. Orbene: se la procedura di raccolta dati implica procedure diverse (e ulteriori) rispetto a quelle di normale farmacovigilanza per i farmaci autorizzati ordinariamente, è legittimo sostenere che vi sia “monitoraggio aggiuntivo” rispetto alla normale pratica clinica dello stato membro. E se vi è un monitoraggio aggiuntivo, ricadremmo allora nell’ambito della definizione di sperimentazione a basso livello di intervento secondo il regolamento e – di conseguenza – i vaccini autorizzati in via condizionata sarebbero annoverabili tra i farmaci sperimentali.

A tale riguardo può essere allora il caso di segnalare che il regolamento N. 507/2006 della Commissione del 29 marzo 2006 sulle autorizzazioni in deroga dei farmaci dispone – all’art. 5 – che “Il titolare di un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata ha l’obbligo specifico di completare gli studi in corso o di condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è positivo e di fornire i dati supplementari di cui all’articolo 4, paragrafo 1. Possono essere imposti obblighi specifici anche in relazione alla raccolta di dati di farmacovigilanza. 2. Gli obblighi specifici di cui al paragrafo 1 e il calendario per soddisfarli sono chiaramente precisati nell’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata. 3. Gli obblighi specifici e il calendario per soddisfarli sono resi pubblici dall’Agenzia”. Questo significa, in sostanza – che per capire se i cosiddetti vaccini covid sono ancora in corso di sperimentazione (a basso livello di intervento) secondo il regolamento UE n. 536/2014 – occorre capire se, nel concedere le autorizzazioni condizionate per questi vaccini, sono stati previsti dall’ente regolatore specifici obblighi di monitoraggio: se la risposta è sì, sono farmaci sperimentali, altrimenti no.

Assume dunque rilevanza in tal senso quello che si legge in questa dichiarazione ufficiale pubblicata dalla Commissione Europea, in particolare nelle frasi che seguono: “Inoltre, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA), in stretta collaborazione con la Commissione, gli Stati membri e i partner europei e internazionali, stanno istituendo attività rafforzate di monitoraggio per l’efficacia, la copertura, la sicurezza e l’impatto dei vaccini, compresi studi specifici per i vaccini anti-covid-19. Questi studi di monitoraggio supplementari e indipendenti vengono proposti per raccogliere e analizzare i dati sulla vaccinazione forniti dalle autorità pubbliche di tutti gli Stati membri sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini. Gli studi contribuiranno a definire la sicurezza e l’efficacia del vaccino durante il suo ciclo di vita. Questi dati supplementari possono essere utilizzati anche per integrare eventuali azioni normative, ad esempio modifiche delle condizioni d’uso, avvertenze e relative modifiche delle informazioni sul prodotto per gli operatori sanitari e i pazienti” (n.d.r. le enfasi sono aggiunte). Insomma, pare proprio che – quanto meno stando a sentire la stessa Commissione UE – per i vaccini di cui stiamo parlano sono state previste procedure di monitoraggio aggiuntive rispetto a quelle per altri farmaci (e, per quanto si legge, anche rispetto a quella per altri vaccini) di guisa che – fino alla concessione dell’AIC ordinaria – i vaccini autorizzati in via condizionata potrebbero ben considerarsi come farmaci sottoposti a sperimentazione clinica a basso livello di intervento, ai sensi del regolamento 536/2014.

L’impressione resta confermata quando scendiamo nel dettaglio dei singoli casi ed esaminiamo le autorizzazioni condizionate concesse sui vaccini. Se prendiamo ad esempio l’AIC di Moderna [in italiano], leggiamo – inter alia – quanto segue: “OBBLIGO SPECIFICO DI COMPLETARE LE ATTIVITÀ POST-AUTORIZZATIVE PER L’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO SUBORDINATA A CONDIZIONI. La presente autorizzazione all’immissione in commercio è subordinata a condizioni; pertanto ai sensi dell’articolo 14 a del Regolamento 726/2004/CE e successive modifiche, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve completare, entro la tempistica stabilita, le seguenti attività: Descrizione Tempistica Al fine di completare la caratterizzazione del principio attivo e dei processi di produzione del prodotto finito, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire dati aggiuntivi. Gennaio 2021 Al fine di confermare la coerenza del principio attivo e del processo di produzione del prodotto finito (scale iniziali e finali), il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire dati aggiuntivi di comparabilità e validazione. Aprile 2021 I rapporti ad interim saranno forniti su base mensile prima di tale data. Al fine di garantire una qualità costante del prodotto, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire informazioni aggiuntive sulla stabilità del principio attivo e del prodotto finito, ed esaminare il principio attivo e le specifiche del prodotto finito a seguito di ulteriori esperienze di produzione. Giugno 2021 Al fine di confermare l’efficacia e la sicurezza di COVID-19 Vaccine Moderna, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve presentare la Relazione finale dello studio clinico per lo studio mRNA- 1273-P301 randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore Dicembre 2022”. Si noti che lo stesso tipo di sperimentazione aggiuntiva (dunque anche quella che consiste in uno studio clinico randomizzato verso placebo in cieco) è prevista per il vaccino Pfizer.

L’esame delle specifiche AIC conferma che una serie di specifiche attività aggiuntive di monitoraggio degli effetti dei vaccini – rispetto a quanto accade con le autorizzazioni ordinarie – sono state previste dall’ente regolatore a carico dei produttori in sede di concessione dell’autorizzazione condizionata. E risulta anche – in particolare – che almeno una di queste attività di verifica aggiuntiva – consistendo in uno “studio clinico randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore” – presenti tutti i crismi per essere considerata una forma di sperimentazione clinica propriamente detta. Le considerazioni che precedono portano dunque a concludere che – sulla base di una interpretazione del concetto di farmaco sperimentale che voglia restare coerente col diritto regolatorio farmaceutico applicabile nel nostro paese (sia quello di fonte nazionale attualmente in vigore, sia quello dell’UE attualmente in vigore e sia infine quello di prossima entrata in vigore) – i cosiddetti vaccini contro il covid, sino all’avvenuta concessione dell’AIC definitiva, sono farmaci soggetti ad attività di sperimentazione sia clinica sia clinica a basso livello di intervento. Il che consentirebbe di classificarli come farmaci sperimentali.

Ma l’esame non può esaurirsi qui, giacché – come si diceva – il diritto si deve interpreta a seconda della funzione delle norme che si applicano. E nel caso dei vaccini anti-covid, in realtà, il dibattito sulla “sperimentalità” sorge essenzialmente per verificare l’applicabilità di alcuni principi e norme – costituzionali e di diritto internazionale – che prevedono dei limiti per i pubblici poteri di imporre obblighi di somministrazione di farmaci sperimentali.

Per completare l’indagine, dunque, occorre capire se la nozione di farmaco sperimentale desumibile dall’esame delle fonti di diritto regolatorio farmaceutico consente di soddisfare la ratio delle norme che prevedono quelle forme di cautela per la somministrazione di farmaci sperimentali. E qui occorre partire dalla considerazione che tanto le norme internazionali anzidette quanto quelle, di diritto farmaceutico, che disciplinano l’attività di sperimentazione  – sono accomunate dal fatto di ispirarsi al principio di piena volontarietà del consenso, in forza del quale – chi assume questa particolare categoria di farmaci – deve aver maturato la propria decisione in piena libertà, ossia – per un verso – dopo aver ottenuto una corretta, veritiera e adeguata informazione sulle possibili conseguenze per la sua salute e – per altro verso – senza aver subito coartazioni o pressioni di alcun genere per indurlo ad assumerlo. Si noti infatti che alcune delle normative di diritto regolatorio UE e nazionale citate in precedenza contengono disposizioni relative alla necessità del consenso informato di chi è coinvolto nell’attività di sperimentazione dei farmaci.

Questo consente di sostenere che tutte queste normative – tanto quelle regolatorie quanto quelle, di natura costituzionale o di fonte internazionale, che pongono limiti alla potestà degli stati di imporre la somministrazione di farmaci sperimentali – sono tutte quante ispirate a un principio di massima precauzione, mirando in ultima analisi a tutelare i cittadini, ma anche la salute pubblica, contro i rischi generati dal fatto che un farmaco ancora in fase di sperimentazione presenta normalmente dei margini di rischio per la salute superiori rispetto a quelli relativi a farmaci già completamente sperimentati, di guisa che nessuno deve essere in qualche modo costretto o indotto a esporsi a quel rischio se non in piena ed assoluta libertà e dopo una corretta informazione sulle possibili conseguenza dell’assunzione. Se però questa è la prospettiva comune che ispira tutte le norme di cui stiamo parlando (sia quelle di fonte internazionale e/o costituzionali, sia quelle contenute in norme di diritto regolatorio) è allora possibile considerare come farmaco sperimentale, ai fini dell’applicazione di tutte queste norme (dunque anche di quelle non regolatorie), ogni sostanza che contiene un principio attivo che – secondo l’ordinamento applicabile nello stato di riferimento – non si può considerare abbastanza sicuro da poter essere messo in commercio su larga scala senza la necessità di condurre ulteriori studi.

Se le cose stanno in questi termini, la “sperimentalità” di un farmaco autorizzato in via condizionata negli stati dell’UE (e in Italia) potrebbe allora essere fatta discendere dalla constatazione che, nonostante la concessione dell’autorizzazione condizionata, questi farmaci devono comunque ottenere – sulla base di studi degli effetti a medio periodo e di sperimentazioni cliniche aggiuntive (che, come si è visto poc’anzi, nel caso di due vaccini contro il covid includono uno “studio clinico randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore”) – una successiva autorizzazione definitiva, che ha lo specifico scopo di confermare la sicurezza del farmaco stesso, certificata dall’AIC definitiva.

E qui il diavolo, come spesso accade con le questioni legali, sta nei dettagli: i vaccini anti-covid hanno infatti superato anche la cosiddetta fase 3 della sperimentazione clinica, dunque – per capire si tratta di farmaci ritenuti dal legislatore sicuri “come” gli altri farmaci, vale a dire quelli autorizzati in via ordinaria – occorrerebbe condurre una analisi differenziale tra gli studi richiesti alle case farmaceutiche per la concessione dell’autorizzazione definitiva e quelli solitamente richiesti per i farmaci a valle della concessione di una autorizzazione ordinaria. Se vi è una significativa differenza, nel senso che per le autorizzazioni condizionate in genere (o per quelle sui vaccini in particolare) vengono (o sono state specificamente) richieste verifiche aggiuntive rispetto a quelle per i farmaci ordinari, questo sarebbe un indizio nel senso della minore sicurezza del farmaco autorizzato in via condizionata rispetto al farmaco autorizzato in via ordinaria (dunque del fatto che il primo sia un farmaco sperimentale ai fini delle norme che vietano obblighi di somministrazione senza il consenso del soggetto che riceve il farmaco). Se invece gli studi post-autorizzazione che sono stati richiesti per i vaccini anti-covid sono sostanzialmente i medesimi rispetto a quelli normalmente richiesti per i farmaci autorizzati in via ordinaria, se ne dovrebbe concludere che la sicurezza di questi farmaci sia analoga rispetto ai farmaci autorizzati in via ordinaria (e che dunque i vaccini contro il covid non sono sperimentali ai fini dell’applicazione delle norme di cui stiamo discutendo).

Nel contesto di un’analisi che voglia tuttavia essere davvero “sostanziale” non possono tuttavia essere trascurati due argomenti. Il primo è che lo stesso fatto che esista una autorizzazione condizionata (anticipata) concessa solo in situazioni particolari, più rapida e diversa rispetto a quella definitiva, potrebbe confermare che – in astratto – si tratta di una autorizzazione che (proprio perché più rapida) garantisce un margine minore di sicurezza rispetto ad un farmaco autorizzato in via ordinaria. In sostanza: un farmaco autorizzato in via condizionata dovrebbe in certa misura “presumersi” meno sicuro rispetto a quelli autorizzati in via ordinaria. Che dunque i farmaci autorizzati in deroga siano in certa misura più rischiosi di quelli autorizzati in via ordinaria è difficile da negare (altrimenti non avrebbe senso concedere autorizzazioni condizionate), restando semmai da capire in quale misura essi siano più pericolosi (e – soprattutto – se questa misura può essere ritenuta a sua volta tale da far scattare i divieti di coercizione alla loro sperimentazione).

A tale ultimo riguardo, potrebbe allora assumere rilevanza il fatto che le case farmaceutiche abbiano preteso dagli Stati un manleva che li mettesse al riparo da pretese relative ai danni da effetti avversi (e che gli Stati l’hanno concessa). Per altro verso, qui da noi in Italia, per lo specifico caso dei vaccini contro il covid è stato previsto anche uno scudo penale (in particolare una specifica causa di non punibilità per lesioni colpose e omicidio colposo), derogando – con una norma eccezionale – alle disposizioni del nostro codice penale. Orbene: nessuna di queste cautelare viene predisposta in relazione ai farmaci autorizzati in via ordinaria, dunque dimostrando che tanto le case farmaceutiche quanto gli stati temono gli effetti collaterali di questi vaccini in misura sensibilmente maggiore di quanto non temano gli effetti collaterali dei farmaci autorizzati in via ordinaria. Ma, si badi bene, pare che li temano anche in misura maggiore rispetto ad altri farmaci autorizzati in deroga, per i quali a chi scrive non consta che, in passato, siano mai stati previsti scudi penali o manleve eccezionali di tale incisività. La prudenza mostrata dalle case farmaceutiche (così come, se possibile ancora più significativa, la ampia disponibilità dello stato a concedere “salvacondotti” in relazione ai danni da effetti avversi dei vaccini) non può dunque essere ignorata, rappresentando un forte argomento “sostanziale” a conferma del fatto che, con i vaccini anti-covid autorizzati in deroga, un rischio maggiore per la salute dei cittadini non solo esiste, ma deve ritenersi tutt’altro che remoto o trascurabile.

Quest’ultima considerazione confermerebbe insomma – per comportamenti concludenti – la tesi, già sostenibile sulla base dell’esame delle norme di diritto regolatorio farmaceutico, per cui i cosiddetti vaccini anti-covid sarebbero non solo farmaci sperimentali, ma anche farmaci che – rispetto a quelli autorizzati in via ordinaria – sono connotati da un grado di rischio aggiuntivo per la salute di entità tale da consentire l’applicazione delle norme in tema di necessità, per la loro somministrazione, di un consenso libero e informato di chi riceve il corrispondente trattamento.

A conclusione di questo lungo e complesso discorso è possibile affermare che esistono degli argomenti – desumibili tanto dal diritto regolatorio farmaceutico UE e nazionale quanto dalla ratio delle norme che pongono limiti alle sperimentazioni farmaceutiche senza il pieno e libero consenso di chi riceve il farmaco – per sostenere che, sino all’avvenuta concessione delle AIC definitive, i vaccini anti-covid rientrino nella categoria dei farmaci sperimentali, così come per sostenere che una parte delle attività di verifica alle quali questi vaccini sono soggetti in vista dell’ottenimento dell’autorizzazione definitiva al commercio rientrino nel concetto di attività sperimentale (sotto il profilo della sperimentazione clinica propriamente detta, o come sperimentazione clinica a basso livello di intervento o come sperimentazione non interventistica). Infine, vi sono argomenti anche per sostenere che questi vaccini presentino apprezzabili margini di rischio per la salute rispetto ai farmaci autorizzati in via ordinaria (ma, forse, anche rispetto ad altri farmaci autorizzati in deroga in passato). Tutto questo induce a supporre che si tratti di farmaci che potrebbero anche rientrare nel concetto di farmaco o trattamento sperimentale rilevante ai fini dell’applicazione delle normative che – a diverso titolo e con diversa fonte – impongono ai pubblici poteri restrizioni e limiti all’imposizione di obblighi di somministrazione. Del resto è verosimile supporre che proprio simili considerazioni abbiano sinora consigliato al Governo estrema prudenza nel porre degli obblighi vaccinali generalizzati, preferendovi l’escamotage della pressione indiretta via green pass.




Rave party, perché le istituzioni stanno a guardare

Il rave party che, nel comune di Valentano, ha devastato un’azienda agricola, provocato un morto, danneggiato le attività turistiche, messo a repentaglio la salute pubblica, ha giustamente sollevato parecchi interrogativi. Perché il Ministero dell’interno non ne sapeva nulla? Perché, una volta occupata illegalmente l’area, le forze dell’ordine hanno atteso ben cinque giorni prima di intervenire? Perché in Francia (il paese a partire dal quale vengono organizzati la maggior parte dei rave) la legge punisce i rave, mentre in Italia la Corte Costituzionale (con sentenza del 21 luglio 2017) ha ribadito che l’articolo 17 della Costituzione li tutela in quanto manifestazioni della libertà di riunione?

Sono domande giuste e naturali, ma possono anche essere fuorvianti. Se ci facciamo solo questo genere di domande, rischiamo di non cogliere l’aspetto più inquietante di questa vicenda. Che non è che le autorità abbiano chiuso un occhio in questa particolare circostanza, ma che lo stiano facendo sistematicamente da almeno 15 mesi, ossia da quando – nel maggio dell’anno scorso – è terminato l’unico vero lockdown, quello di marzo e aprile 2020.

Da allora la linea è sempre stata la medesima: emettere ogni sorta di obbligo e divieto, e farne rispettare solo alcuni.

Quali?

Fondamentalmente quelli che gravano sul settore privato: bar, ristoranti, palestre, parchi, esercizi commerciali, aziende. Quanto agli altri, che competerebbero all’autorità pubblica, nada de nada: nessun intervento incisivo sull’edilizia scolastica, nessun intervento sul trasporto locale, nessuna sorveglianza sugli assembramenti da movida, festeggiamenti calcistici, discoteche abusive, affollamenti vari sui traghetti, nelle isole, nei luoghi di vacanza. In breve: si è scelto di chiudere un occhio.

Di qui alcune conseguenze, tutte prevedibili. La gente ha capito subito che alcune regole erano grida manzoniane, che si potevano tranquillamente ignorare visto che nessuna autorità si prendeva la briga di farle rispettare. Nel nostro paese, come ha notato Carlo Nordio nei giorni scorsi, è montato un sentimento di ingiustizia, una frattura fra quanti sono costretti all’osservanza scrupolosa delle norme e quanti le possono impunemente trasgredire. E infine, conseguenza capitale, l’inerzia delle autorità politico-sanitarie ha confezionato una bomba a orologeria ad alto potenziale, pronta a deflagrare in autunno.

Poiché non a tutti è chiaro come tale bomba sanitaria sia stata predisposta, mi soffermo brevemente sull’aritmetica dell’epidemia. In un anno, ossia fra l’estate scorsa e oggi, il tasso di letalità del Covid si è ridotto di un fattore 4, grazie all’efficacia dei vaccini nel prevenire ospedalizzazione e decesso; ma il numero di contagiati è aumentato di circa 12 volte, grazie alla scelta politica di puntare sul green pass e chiudere un occhio sul rispetto delle regole. Il combinato disposto di questi due input è la triplicazione del tasso di mortalità: se oggi i morti per abitante sono 3 volte quelli di un anno fa è perché il freno dei vaccini (1/4 di letalità) è stato annullato e sovrastato dall’acceleratore del contagio (cresciuti di 12 volte). Né le cose vanno meglio se ragioniamo sul numero dei ricoveri ospedalieri o sulle terapie intensive, che nel giro di un anno sono circa quadruplicati.

Perché dico che quella che ci hanno preparato è una bomba a orologeria?

La ragione è semplice. Nell’autunno scorso, il disastro è stato innescato dal triplice impulso del rientro dalle vacanze, della ripresa del lavoro, del ritorno a scuola (e verosimilmente pure dall’appuntamento elettorale). Oggi siamo più preparati di allora a fronteggiare il disastro perché 1 italiano su 3 è vaccinato, ma in compenso l’onda che ci travolgerà è molto più alta (circa 12 volte più alta!) perché il virus circola molto di più. E’ come se allora fossimo stati sorpresi da una mareggiata, e oggi ci sentissimo più sicuri perché ci hanno dato un salvagente, e non volessimo capire che quel che è in arrivo è uno tsunami, non una mareggiata.

E qui torniamo alla domanda delle domande: perché non lo vogliamo capire? O meglio: perché chi ci governa ha scelto di non dircelo, e di lasciar correre il virus?

Temo che la risposta sia la stessa che si deve dare alla domanda sul rave di Valentano e sulle innumerevoli altre violazioni su cui, specie in questi mesi estivi, si è scientemente preferito lasciar correre. Ed è una risposta di natura sociologica o, se preferite, di natura storico-antropologica.

Nelle nostre società, ricche e arrivate, il divertimento, la vacanza, l’evasione, il rito dell’aperitivo sono assurti – nella coscienza dei cittadini, non meno che in quella dei governanti – a diritti fondamentali e inviolabili della persona. Nel caso dei giovani, categoria che ormai si prolunga ben oltre il traguardo della maggiore età, questo diritto fondamentale si arricchisce dell’ulteriore diritto a consumare il divertimento in massa, in forme più o meno sfrenate, di cui il ballo e i suoi annessi (alcol e sostanze) sono le manifestazioni più tipiche. Può succedere così che, in tv, una ragazzina milanese di 10 anni affermi, seriamente e senza un filo di ironia, che non andare al ristorante per ben due mesi “è stato terribile”, come se avesse subito un’aggressione o uno stupro. E che decine e decine di giovani intervistati sfilino ogni sera in tv a spiegarci che sì, lo sanno perfettamente che ballare è pericoloso e proibito, ma che loro no, proprio non possono farne a meno, dopo mesi di chiusure, limitazioni, sofferenze inenarrabili.

Eppure dovrebbero sapere che, nella storia dell’umanità e delle civiltà, non è mai esistita una generazione di giovani con tanti privilegi come quelli goduti da quella attuale. Buona parte dei loro padri, nonni e bisnonni dovevano andare in guerra, o iniziavano a lavorare a 14 anni,  non avevano alcuna “paghetta”, né le innumerevoli protezioni, esenzioni e facilitazioni che genitori e insegnanti di oggi riservano a ragazzi e ragazze. In un mondo normale, gli adulti glielo ricorderebbero, e la classe dirigente non spenderebbe il suo tempo a compatirli e a descriverne le indicibili sofferenze. Qualcuno troverebbe il coraggio di spiegare che sì, per tutti è stato ed è difficile, ma certi comportamenti, di cui il rave di Valentano è solo l’esempio più eclatante, hanno un costo tragico in termini di vite umane sacrificate. E che è esistito un tempo, neanche poi così remoto, in cui la maggioranza dei giovani era in grado di divertirsi e corteggiare senza sballarsi.

Quel tempo è finito, ma con esso è finito anche il tempo della solidarietà, una parola vuota che ha perso ogni concretezza e riferimento al mondo reale. Se solidarietà e spirito civico avessero ancora un posto nelle nostre vite, il rispetto delle elementari regole di prudenza sarebbe la norma, i nostri governanti e i media la smetterebbero di adularci (“durante il Covid gli italiani si sono comportati molto bene”), le violazioni delle regole sarebbero sanzionate con prontezza e severità. E forse, in questi giorni, anziché assistere a surreali dibattiti sulla crudeltà del Green pass e l’inaccettabile chiusura delle discoteche, vedremmo fiumi di ragazzi e ragazze, legioni di femministe, cortei di militanti LGBT, sfilare uniti a sostegno delle vittime delle violenze islamiche in Afghanistan. Una tragedia troppo lontana e vera per suscitare qualche emozione in una società arrivata.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 agosto 2021