Remigration

Le cose che accadono poco per volta rischiano di passare inosservate. Succede nella vita, quando un rapporto si deteriora giorno dopo giorno, e poi improvvisamente si rompe. Succede in natura, quando la parete di una collina si impregna d’acqua per
giorni e giorni e poi di colpo frana. Succede in economia, quando uno Stato accumula debito pubblico per decenni e poi va a gambe all’aria nel giro di una sola seduta di borsa.

E succede pure in politica, dove un movimento o un partito radicale possono arrivare al potere per approssimazioni successive, di vittoria elettorale in vittoria elettorale. È successo in passato con Mussolini e Hitler, potrebbe risuccedere in futuro – e in parte
già sta succedendo – con i partiti di destra radicale che da anni avanzano (e talora governano) in tanti paesi europei: Alternative für Deutschland (Germania), Rassemblement National (Francia), Partito della libertà (Austria), Veri finlandesi (Finlandia), Democratici svedesi (Svezia), Partito per la libertà (Olanda).

Quasi sempre, in questi casi, il carburante del successo elettorale è il problema degli immigrati, o meglio il monopolio politico-ideologico che sul tema immigrazione esercita la destra, in assenza di una sinistra che del problema sia disposta a farsi
carico (uniche importanti eccezioni: Danimarca e Regno Unito). Una cecità che, a livello europeo, è ancora più macroscopica, perché non riguarda solo la sinistra, ma anche i suoi alleati liberali, verdi e popolari.

Dentro questo processo di lungo periodo, che sospinge verso il potere la maggior parte delle forze politiche di estrema destra (compresi alcuni partiti con frange neo-naziste), esiste però anche una discontinuità, cui rischiamo di non dare la dovuta
attenzione: negli ultimi anni alla richiesta di fermare gli immigrati che vogliono entrare in Europa sta subentrando, sempre più frequentemente e rabbiosamente, la richiesta di riportarli indietro.

Tutto cominciò nel 2022, quando il governo Johnson stipulò un accordo con il governo del Ruanda per trasferire in quel paese i migranti illegalmente sbarcati nel Regno Unito dal 1° gennaio 2022 in poi. Anche se quell’accordo, firmato il 13 aprile
del 2022, ha subito molte traversie, e nemmeno il premier conservatore Rishi Sunak è mai riuscito a renderlo operativo, da lì in poi il problema migratorio si è posto sempre più frequentemente in termini di remigration: in varie forme, l’idea di esternalizzare
il problema ha cominciato a prendere piede in diversi paesi europei.

È successo in Danimarca, dove la ex premier socialdemocratica Mette Frederiksen è riuscita a riconquistare il governo su un programma simile a quello di Johnson e Sunak. Ma è successo di recente anche in Germania, in Svezia, in Olanda, dove l’idea
dei rimpatri più o meno forzati, e più o meno di massa, non piace solo ai partiti di estrema destra, ma – talora – comincia ad attirare l’interesse di governi e partiti di sinistra, come il governo (socialdemocratico) di Scholz, messo in crisi dall’attentato
di Solingen, o il partito BSW di Sahra Wagenknecht, strana formazione politica al tempo stesso di sinistra e anti-immigrazione.

La realtà, verosimilmente, è che in diversi paesi europei il peso demografico degli immigrati, specie se la componente islamica è dominante, sta raggiungendo un livello di guardia, ovvero una soglia difficilmente compatibile con la sicurezza e la pace
sociale. È questo che alimenta la domanda di politiche di rimpatrio o remigration, è questo che porta sempre più cittadini a rivolgersi ai partiti che non prendono sotto gamba il problema dell’immigrazione. Forse è venuto il momento che le forze
politiche progressiste ne prendano atto, se non vogliono improvvisamente risvegliarsi in un’Europa in cui nessun governo è possibile senza i voti dell’estrema destra.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 settembre 2024]




A proposto del divieto di smartphone – La stalla e i buoi

Fa una certa impressione constatare la sincronia perfetta fra l’uscita del libro di Jonathan Haidt sui disastri dello smartphone e dei social (La generazione ansiosa, Rizzoli), e la petizione-fotocopia (delle tesi del libro) con cui, qui in Italia, un nutrito numero di celebrità invita perentoriamente il governo italiano a intervenire sul tema.

Fa impressione, innanzitutto, perché il libro, bellissimo e importantissimo, contiene analisi che circolano da diversi anni, non solo in alcuni libri best-seller di Haidt stesso e di Jean Twenge, ma anche nella letteratura scientifica, che da parecchio tempo
segnala i danni cognitivi e psicologici dell’eccesso di presenza in rete.

Ma fa impressione anche perché, fino a non molto tempo fa, a chiunque denunciasse i disastri psico-sociali del web toccavano epiteti come conservatore, retrogrado, reazionario, luddista, nemico della tecnologia e del progresso, insensibile alle istanze
della cultura giovanile.

Ora invece, improvvisamente, sembra che la via del progresso sia limitare la libertà dei minorenni nell’accesso a internet, e che a porre limiti debba essere innanzitutto il governo (che peraltro, con il ministro Valditara, già da tempo si è mosso in quella direzione).

C’è qualcosa che non torna. Anzi ci sono parecchie cose che non tornano in questo improvviso risveglio. Ma questo qualcosa non sono le tesi del libro di Haidt sulla dannosità delle attività dei ragazzi – e soprattutto della ragazze – su internet: le tesi di
Haidt sono sostenute da un’evidenza empirica impressionante, e i rimedi da lui proposti (genitori più attenti a quel che i figli fanno online, meno ossessivi su quello che fanno offline) sono più che sensati. Quel che non va è la tempistica: che senso ha
tutta questa, improvvisa, retorica anti-smartphone dopo anni di silenzio e indifferenza, se non di infatuazione? Che senso ha chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati?

Già, perché il punto è precisamente questo: il danno è già stato fatto. Le statistiche mostrano che il disagio – fatto di ansia, depressione, autolesionismo, disturbi alimentari, ritiro sociale, ideazione suicidaria, suicidi tentati e riusciti – aumentano
man mano che si scende nelle fasce di età più giovani, fino agli adolescenti, e che i rischi maggiori li corrono le ragazze. Recuperare la generazione Z (nati fra il 1997 e il 2012) è in gran parte una mission impossible, perché la loro socializzazione
scolastica fondamentale (scuola dell’obbligo) è avvenuta in gran parte nelle modalità descritte da Haidt, con i ragazzi immersi nei videogiochi e la pornografia, e le ragazze avviluppate nei social e nel sexting. Se si vogliono limitare gli inconvenienti dello smartphone, è agli adolescenti della generazione alpha (nati dal 2012 a oggi) che ha senso rivolgersi, perché per molti di loro l’esposizione ai social è ancora ridotta per ovvie ragioni di età.

Ma c’è qualcosa che si può fare?

Ingenuamente, i firmatari della tardiva petizione lanciata in questi giorni si rivolgono al governo auspicando interventi che impediscano l’uso dello smartphone prima dei 14 anni, e l’accesso ai social prima dei 16. Ma l’appello non tiene conto di due
circostanze. La prima è che – già solo per ragioni tecnologiche e di giurisdizione (le grandi piattaforme non sono basate in Italia) – limitare l’accesso ai social con divieti e sanzioni è praticamente impossibile. La seconda è che – come in questi giorni ha
molto opportunamente sottolineato lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini – il vero problema sono gli adulti: come facciamo a negare credibilmente lo smartphone ai nostri figli o allievi se siamo noi stessi che ne facciamo un uso smodato, spesso
ostentatorio e narcisistico?

Molti adulti si rifugiano dietro la scusa “non posso togliere il telefonino a mio figlio perché, nella sua classe, sarebbe l’unico a non averlo”. Ma la ragione vera è che quasi nessun adulto è disposto a dare l’esempio, anche se e quando capisce che sarebbe la
misura più efficace.

C’è una differenza, tuttavia, fra il problema degli adulti e quello dei loro figli. Una differenza drammatica, tutta a danno delle ultime generazioni. Gli adulti, e a maggior ragione gli anziani, hanno trascorso la porzione più grande della loro vita in un
mondo a basso consumo di internet, e del tutto privo dei social. In questo modo hanno evitato i danni cognitivi e psicologici della rete, e usufruito dei vantaggi di una socializzazione che avviene tutta o quasi tutta nel mondo reale. È grazie a questa socializzazione tradizionale che la loro successiva esposizione alla rete non li ha danneggiati tanto quanto danneggia oggi i loro figli (un punto su cui i dati del libro di Haidt non lasciano dubbi).

È forse anche per questo, perché a loro non fa male come ai loro figli, che tanti adulti sottovalutano la dannosità di internet, e resistono all’idea di ridurne il consumo. Un errore di valutazione che, a differenza degli adulti attuali, i padri delle moderne
tecnologie non hanno commesso con i loro figli: proprio perché ne conoscevano o ne intuivano i rischi, i vari Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg hanno sempre tenuto i propri figli lontani dalle nuove tecnologia.

Forse è venuto il momento di riflettere anche su questa loro assai meno nota lezione.

[articolo uscito sul Messaggero il 15 settembre 2024]




Honey Money

Come sociologo, da anni sono diventato un ammiratore di Catherine Hakim. Nata a Beirut nel 1948, è vissuta in Medio Oriente fino all’età di 16 anni, per poi intraprendere una brillante carriera soprattutto nel Regno Unito. Il suo merito maggiore, per come la vedo io, è di avere studiato a fondo i meccanismi del successo femminile, trattando il tema con spregiudicatezza e lucidità.

Il contributo che l’ha resa famosa è il saggio Erotic capital, pubblicato nel 2010 sulla prestigiosa “European Sociological Review”. Altrettanto importanti sono altri suoi lavori, come il libro Honey Money (parafrasi del titolo di una famosa canzone di Elvis
Presley) che si occupa dei modi di coltivare il capitale erotico, o i suoi lavori sulle scelte di vita delle donne e sul sex deficit degli uomini.

Perché sono importanti i lavori della Hakim?

Beh, in primo luogo perché parlano di argomenti che la sociologia ufficiale teme come la peste. Ad esempio le diseguaglianze che è difficile combattere, perché – come nel caso del “capitale erotico” – sono fondamentalmente innate, anche se possono essere attenuate con la cura di sé. Oppure lo squilibrio fra la domanda di sesso da parte degli uomini e quella da parte delle donne.

In secondo luogo, perché illuminano la vicenda Boccia-Sangiuliano. Osservata con le discutibili ma perspicaci lenti della Hakim, la storia non si presta ad essere classificata né come un caso di banale seduzione, né come un caso di puro arrivismo. Non è seduzione classica, perché con tutta evidenza l’obiettivo della nostra eroina non era di diventare la compagna o la partner del ministro. Ma non è nemmeno puro arrivismo, perché – secondo Hakim – l’uso del capitale erotico per affermare sé stesse è, a suo modo, una declinazione possibile del femminismo. Non a caso, al tempo dell’uscita del libro Honey Money, la giovane e brillante giornalista del Daily Telegraph che lo recensì si ebbe a esprimere così: “il libro dovrebbe esser letto ad alta voce alle ragazze perché afferma che puoi essere una femminista, puoi essere forte, indipendente e intelligente, e nello stesso tempo indossare un bell’abito e portare i tacchi alti”.

In breve, il libro auspica uno sfruttamento intensivo del capitale erotico come legittimo mezzo di autorealizzazione, autoaffermazione, o ‘empowerment’, come è diventato di moda dire.

La cosa interessante è che è proprio in questa chiave, né moralista né celebrativa, che la maggior parte dei commentatori sta parlando dei comportamenti di Maria Rosaria Boccia. Nessuno si sente di trattarla come una astuta sgualdrina, ma nemmeno le più acerrime nemiche di Giorgia Meloni se la sentono di farne una brillante femminista in lotta con il patriarcato ministeriale.

Eppure la realtà è abbastanza semplice: la dott.ssa (o signora?) Boccia è una fedele esecutrice dei principi accuratamente esposti da Catherine Hakim nelle sue disincantate analisi della condizione femminile. Con un elemento in più, che le ricerche della Hakim non menzionano perché allora non c’era, o meglio stava compiendo i suoi primissimi passi: la possibilità di usare sistematicamente internet per gestire e affinare il capitale erotico, ma soprattutto per moltiplicare la propria rete di conoscenze, relazioni, contatti, quello che Pierre Bourdieu definiva il capitale sociale. Che poi, in una carriera, è la sola cosa che conta veramente, perché è da lì – non certo da un incarico ministeriale retribuito – che scaturisce la possibilità di fare soldi.

Money Honey, canterebbe Elvis Presley.

[articolo uscito sulla Ragione il 10 settembre 2024]




Le tre ragazze terribili e il tramonto del cordone sanitario

È un vero peccato che la dott.ssa Boccia abbia scelto proprio questi giorni per attirare su di sé, e sulla sua vicenda con il ministro Sangiuliano, la vigile attenzione del sistema dei media. Avesse scelto un periodo più insignificante, forse oggi non ci sfuggirebbe quel che proprio in questi giorni sta accadendo nel cuore delle nostre democrazie, e segnatamente nei due paesi leader dell’Unione europea, ossia in Francia e Germania.

Volendo riassumere, la metterei così: in questi giorni si sta celebrando, nei due paesi più importanti, il funerale del “cordone sanitario”, ossia dell’idea che verso i partiti estremisti, e in particolare verso l’estremismo di destra erede del fascismo e del
nazismo, le forze politiche “democratiche” dovessero alzare una barriera invalicabile, capace di tenere i barbari lontani dal potere.

È da anni che la barriera scricchiola, ma è proprio in questi giorni che nel muro democratico si sono aperte le due brecce fondamentali. La prima è in Francia, dove il triplo salto mortale di Macron – scioglimento del Parlamento, successo di Marine Le
Pen al primo turno, vittoria del “cordone sanitario” repubblicano ai ballottaggi del secondo turno – sta per dare vita a un governo conservatore, guidato dal gaullista Michel Barnier e tenuto in piedi dai voti del Rassemblement National di Marine Le Pen.

La seconda breccia, assai meno visibile della prima, si è aperta in Germania una settimana fa, quando in Turingia e in Sassonia (due länder della Germania dell’Est) i quattro partiti tradizionali, ossia popolari, socialdemocratici, verdi e liberali, si sono
trovati – anche messi tutti insieme – a raccogliere meno del 50% dei voti. Ora la maggior parte dei voti è in mano ai due partiti estremisti di sinistra (Linke) e di destra (AfD, ossia Alternative für Deutschland), da sempre tenuti fuori dei giochi dal cordone sanitario, nonché a un terzo partito nuovo di zecca (BSW, o Alleanza Sahra Wagenknecht), che aveva già avuto una buona affermazione due mesi fa alle Europee.

In breve: il cordone sanitario è saltato sia in Francia sia in Germania, e a farlo saltare sono state tre ragazze o ex ragazze terribili, le “estremiste” Marine Le Pen, Alice Weidel (presidente AfD), e Sahra Wagenknecht (fondatrice di BSW). Se vorranno restare al potere, alle forze tradizionali potrebbe non bastare unirsi fra loro, e potrebbe risultare necessario aprire alle forze fin qui tenute fuori della cittadella del potere.

Non stupisce che, se questi sono i risultati delle strategie di esclusione, a qualcuno sorga il dubbio: siamo sicuri che siano state strategie lungimiranti? siamo sicuri che non sia stato proprio il cordone sanitario ad alimentare l’estremismo, e a favorire la
replicazione del virus nazi-fascista? Sono domande legittime, anzi doverose. Ma se ne potrebbe formulare una ancora più radicale: siamo sicuri di aver bene interpretato la natura del virus da cui ci volevamo proteggere?

È possibile, in altre parole, che le forze democratiche abbiano mal compreso il significato profondo della “marea nera” di cui, da diversi decenni, si lamenta l’ascesa. Se andiamo a vedere qual è il carburante che sostiene l’avanzata dei partiti estremisti è difficile non accorgersi che, al centro di tutto, c’è la preoccupazione per l’immigrazione irregolare, e in subordine lo scetticismo per le politiche europee in materia di agricoltura, ecologia, e ultimamente pure riguardo alla guerra in Ucraina. Che bollare tutto questo come neo-nazismo, razzismo o estremismo di destra sia riduttivo, e alla fine pericolosamente fuorviante, lo testimonia non solo il radicamento dei partiti estremisti nei ceti popolari, ma il modo in cui i medesimi ceti popolari percepiscono sé stessi. In Germania, ad esempio, le serie storiche dei sondaggi mostrano che nell’ultimo ventennio alla costante ascesa della Afd, ormai prossima a diventare il primo partito tedesco, si accompagna una formidabile diminuzione – sia nel länder dell’ovest che in quelli dell’est – degli elettori che si considerano di estrema destra: erano circa il 10% una ventina di anni fa, sono meno del 3% oggi, e comunque dai sondaggi più recenti risultano più numerosi nelle regioni dell’Ovest (dove la AfD è debole), e meno numerosi in quelle dell’est (dove la AfD è forte).

Ma c’è anche un altro indizio, forse ancora più significativo, che smentisce l’equazione che equipara ostilità agli immigrati e razzismo neo-nazista: la clamorosa affermazione del partito BSW di Sahra Wagenknecht, che si colloca nettamente a sinistra ma non per questo rinuncia a porre con forza il problema dell’immigrazione irregolare, suscitando lo sconcerto degli osservatori più convenzionali, cui pare impossibile che un partito di sinistra possa essere ostile agli immigrati, o che un partito ostile agli immigrati possa non essere neo-nazista.

Il caso tedesco e il caso francese stanno lì a dimostrare che, invece, entrambe le cose sono perfettamente possibili. In Germania, la sinistra sta scoprendo a sue spese che se vuole rimanere al governo non può non fare i conti con la sinistra anti-immigrati di
Sahra Wagenknecht. In Francia, Macron sta prendendo atto che, se vuole dar vita a un nuovo esecutivo, non può continuare a considerare neo-fascisti gli elettori di Marine Le Pen. In entrambi i paesi, i partiti (autoproclamati) democratici si stanno
rendendo conto che – come ha denunciato Alice Weidel – ad essere “profondamente antidemocratico” è il cordone sanitario con cui, in tutti questi anni, hanno escluso forze politiche che rappresentano ormai un elettore su tre.

[articolo uscito sul Messaggero l’8 settembre 2024]




Democrazie e autocrazie

Uno stato non è solo un regime politico—forma di governo, costituzione etc.—: è anche un leviatano che, nell’arena internazionale, persegue propri obiettivi di carattere economico e politico-strategico. Sono due dimensioni che non coincidono, come mostra la storia dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, del Belgio. Quest’ultimo, un modello di democrazia liberale, nell’Ottocento diede il peggior esempio di colonialismo genocida. Le autocrazie oggi diffuse nel pianeta non odiano noi occidentali perché ci siamo dati istituzioni liberali—diritti civili e politici, libertà di ricerca—ma perché le grandi potenze egemoni nell’area euroatlantica hanno cercato di imporre non solo il loro stile di vita ma, altresì, ragioni di scambio economico e sudditanze militari non certo iscritte nei trattati sul governo civile di John Locke.

I retori dell’occidentalismo che vorrebbero farci credere che il mondo non europeo ci detesta per le libertà di cui godiamo, dovrebbero meditare sul fatto che è la politica nordamericana in Medio Oriente—che ha tragicamente destabilizzato l’area causando morti, distruzioni, guerre civili- una delle origini del disordine mondiale. Altro che guerra (santa?) delle democrazie liberali alle autocrazie! In realtà, la politica estera non è l’arena in cui si affrontano i buoni contro i cattivi ma una scacchiera variegata e complessa dove i rapporti tra gli Stati sono regolati dalla pura convenienza. La Francia erede dell’89, nell’Ottocento, intratteneva buoni rapporti con l’autocrate di San Pietroburgo, l’America del secolo scorso aveva ottime relazioni con la Spagna di Francisco Franco. Sono tante le autocrazie nel mondo: gli stati demoliberali, saggiamente, dovrebbero cercare di attrarne quante più è possibile nella loro orbita economica e culturale, rinunciando a considerarle una massa di dannati, da combattere in nome dell’antifascismo—che oggi, come il patriottismo stigmatizzato dal Dr. Johnson, sta diventando sempre più l’ultimo rifugio delle
canaglie. Vogliamo che demo-autocrati come Cyril Ramaphosa, Narendra Modi, Lula da Silva facciano fronte comune contro gli Stati Uniti e i suoi alleati europei o cercheremo–mettendo da parte l’approccio ideologico alle questioni internazionali—di renderceli amici?