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Follemente corretto (2) – Cieco e nano, la fine dell’ironia

8 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Che, da tempo, il politicamente corretto stia evolvendo in follemente corretto lo sapevo. E’ questo, del resto, il motivo per cui ho cominciato a parlarne qui e altrove.

Di vere e proprie follie ne ho scovate decine, soprattutto nei paesi di lingua inglese, a partire dagli Stati Uniti. Per esempio che non si può vendere uno shampoo per capelli “normali”, perché altrimenti qualcuno potrebbe sentirsi anormale se compra uno shampoo per capelli secchi.

Però qualche giorno fa, girovagando su internet, mi sono imbattuto in un caso che supera tutti quelli che avevo incontrato e catalogato (sì, ho questa perversione, faccio collezione di follie).

Ebbene, si tratta di questo. In un breve editoriale pubblicato sul portale dell’Università di Padova, uno studioso che si occupa di biologia evoluzionistica racconta che sta per pubblicare negli Stati Uniti un testo di argomento scientifico (l’evoluzione), e che la correttrice di bozze della casa editrice gli ha chiesto di cambiare alcune parole. Due in particolare: cieco e nano, in quanto offensive per i non vedenti e le persone di bassa statura.

La solita ipocrisia degli eufemismi, penserete voi. E invece no. Lo studioso nel suo libro usava l’aggettivo cieco per parlare della selezione naturale che è cieca (cioè non segue un piano). E usava la parola nano per parlare di una specie particolare di elefanti, detti elefanti nani, per cui l’essere di dimensioni ridotte può essere vantaggioso, in quanto abitanti di isole piccole.

Finito di leggere il resoconto, ho pensato a uno scherzo. Magari lo studioso in questione non esiste, o è un dottorando burlone che si diverte a prenderci in giro, o vuole denigrare gli Stati Uniti. Quindi ho controllato: in realtà lo studioso in quesitone esiste, si chiama Telmo Pievani, ha studiato in Italia e negli Stati Uniti, attualmente è docente ordinario di Filosofia delle scienze biologiche, ha incarichi nazionali e internazionali prestigiosi, un mare di pubblicazioni, un curriculum accademico splendido.

Quindi la mia ipotesi era sbagliata: non siamo davanti a uno scherzo. Dobbiamo trovare un’altra spiegazione. Se una correttrice di bozze non capisce che “evoluzione cieca” e “elefante nano” sono espressioni che non possono offendere nessuno, una ragione deve esserci.

Ma quale può essere?

E’ a questo punto che mi sono tornati in mente alcuni studi recenti che, come sociologo che per trent’anni ha lavorato con gli psicologi, mi avevano molto incuriosito. Secondo questi studi il quoziente intellettivo (QI) dei cittadini dei paesi sviluppati sarebbe aumentato sistematicamente per più di mezzo secolo (dagli anni ’40 alla fine degli anni ’90 del secolo scorso), ma nel nuovo millennio sarebbe in diminuzione. Il primo effetto (aumento QI) viene chiamato effetto Flynn, il secondo (diminuzione QI) viene chiamato effetto Flynn inverso, o retrogrado.

Ho sempre guardato con scetticismo a questo tipo di studi, pieni di insidie statistico-matematiche. Ma, dopo aver appreso quel che è capitato al prof. Pievani, sono meno scettico. E se fosse proprio così, che stiamo diventando meno intelligenti?

Dopotutto quel che la correttrice di bozze ha manifestato è una totale mancanza di ironia. E la letteratura scientifica su una cosa è concorde: l’ironia è la testimone migliore dell’intelligenza.

Oltre il reddito di cittadinanza

7 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Non sappiamo ancora che tipo di sussidio, esattamente, prenderà il posto del reddito di cittadinanza, ma sappiamo quali sono gli obiettivi del governo. Il primo è ridurre drasticamente il numero di percettori indebiti, il secondo è di minimizzare il numero di percettori che percepiscono il sussidio pur essendo in condizione di lavorare.

Su questi due obiettivi è difficile dissentire, anche se sarebbe il caso di aggiungerne un terzo: portare vicino a zero il numero di famiglie escluse dal sussidio nonostante siano in condizione di povertà assoluta (sappiamo cha il reddito di cittadinanza attuale ha anche questo difetto).

Ebbene, dei tre obiettivi, quello cruciale è il secondo: offrire un lavoro agli occupabili, specie nelle fasce di età giovanili. Proprio per questo, mi pare che sarebbe estremamente importante che, nella manovra, oltre ai provvedimenti di sostegno del reddito delle fasce deboli (bollette, pensioni, carta acquisti, ecc.), fossero presenti interventi volti specificamente ad aumentare l’occupazione.  Non dobbiamo dimenticare che, degli innumerevoli problemi italiani, quello di avere pochi occupati è il più clamoroso: per diventare un normale paese europeo ci mancano 3 milioni di occupati, per diventare un paese europeo virtuoso ce ne mancano ben 7.

Ma come si fa a sostenere l’occupazione in un contesto di risorse scarse?

Una via ragionevole potrebbe essere, per cominciare, quella di ridisegnare il sussidio in modo più simile al vecchio “reddito di inclusione” (REI), per ridurre i barocchismi e le sovrapposizioni di competenze Anpal-Regioni-Comuni connesse all’architettura del reddito di cittadinanza (è questa una delle proposte che Carlo Calenda ha sottoposto a Giorgia Meloni nell’incontro di qualche giorno fa).

La mossa decisiva, però, potrebbe essere un’altra. Giorgia Meloni potrebbe riprendere la vecchia idea del maxi-job, una proposta messa a punto dalla Fondazione Hume nel 2014, e che allora aveva ricevuto – oltre a quello di Giorgia Meloni stessa – il sostengo di Susanna Camusso, leader della Cgil.

Di che cosa si tratta?

In estrema sintesi: azzerare i contributi sociali sui posti di lavoro veri e aggiuntivi. Dove “veri” significa a tempo indeterminato, per almeno 32 ore settimanali. E “aggiuntivi” significa tali da aumentare il numero di occupati dell’impresa.

Il vantaggio di questa misura è che, se i posti di lavoro aumentano di più di quanto sarebbero aumentati in sua assenza, la decontribuzione si autofinanzia. Ogni posto di lavoro creato in virtù della decontribuzione, infatti, oltre a generare Pil aggiuntivo, genera gettito aggiuntivo, sotto forma di introiti statali addizionali sul reddito (Irpef) e sui consumi (Iva). Il costo della decontribuzione, in altre parole, è coperto dalla spinta che la decontribuzione stessa è in grado di imprimere alla dinamica dell’occupazione e del Pil.

Naturalmente si può discutere della efficacia di questa misura, ma il punto resta. Nessuno, ormai, neppure il movimento Cinque Stelle, difende il reddito di cittadinanza così come ha funzionato fin qui. Quindi che lo si debba cambiare è pacifico. Quello che non è chiaro è con quali strumenti, e grazie a quali soggetti (Regioni, Comuni, imprese), offrire opportunità di lavoro alla maggior parte, se non alla totalità, dei percettori occupabili. Che sono tanti (circa 650 mila) ma non tantissimi. Offrire a tutti o quasi un’occupazione, o un corso di formazione, o lavori socialmente utili, non dovrebbe essere un’impresa impossibile. E sarebbe pure un modo per risolvere l’altro problema rimasto sul tappeto, ossia quello dei poveri non raggiunti dal reddito di cittadinanza. Togliere il reddito a chi non ne ha diritto e a chi trova un lavoro genera risparmi significativi: sarebbe un bel segnale che una parte di tali risparmi andasse a correggere l’altra grande stortura del reddito di cittadinanza, ossia la sua incapacità di raggiungere tutti i poveri.

Luca Ricolfi

Follemente corretto (1a puntata) – Atlete sotto schiaffo

6 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Forse ricorderete che, ai tempi della discussione sul Ddl Zan, a prendere nettamente posizione contro di esso furono non solo un manipolo di studiosi di sinistra e molte associazioni cattoliche, ma anche una parte non trascurabile del mondo femminile e di quello LGBT, a partire da Arcilesbica. Tra le ragioni dell’opposizione, in quest’ultimo caso, vi era l’art. 1, che pareva aprire la strada alla cosiddetta autodeterminazione del genere (self-id), ossia al diritto di definirsi maschio o femmina indipendentemente dal genere biologico e da qualsiasi percorso di transizione (cambio di sesso).

Fu la scrittrice e giornalista Marina Terragni, in particolare, a segnalare la pericolosità e la follia di questa specie particolare di politicamente corretto: se può decidere arbitrariamente il proprio genere, il maschio che ama percepirsi come femmina (ma che conserva un corpo maschile), potrà accedere agli spazi riservati alle donne, ad esempio nei reparti femminili delle carceri, o nelle competizioni sportive.

Inutile dire quanto temibile sia la prima possibilità (carceri) e quanto iniqua sia la seconda (gare sportive). Quel che non tutti sanno, però, è che entrambe queste possibilità non sono teoriche, ma si sono già realizzate. In Canada, in California, nello Stato di Washington, da qualche tempo esistono leggi che, di fatto, consentono a carcerati maschi autoidentificati come femmine di accedere ai reparti femminili.

Ma il caso forse più interessante è quello delle competizioni sportive. Nel nuoto, ad esempio, a Lia Thomas, nata maschio ma in transizione a femmina, è stato concesso di gareggiare con le nuotatrici anziché con i nuotatori, così sbaragliando le povere atlete donna.

Pochi giorni fa la Fina (Féderation Internationale de Natation) ha finalmente fatto retromarcia, e pare avviata a non consentire più – in futuro – lo svolgersi di gare così inique. La vera domanda, però, non è perché abbia cambiato posizione. La vera domanda è come abbia potuto, in passato, assumerne una posizione così folle.

Non mi porrei questa domanda se, nei medesimi giorni in cui la Federazione Internazionale Nuoto faceva marcia indietro, non fosse giunta la notizia che, invece, la Federcalcio tedesca faceva marcia avanti: dalla prossima stagione, nel calcio giovanile, le “persone transgender, intersessuali e non binarie” potranno decidere se giocare nei tornei delle donne o in quelli degli uomini (indovinate che cosa sceglieranno…).

E allora proviamo a rispondere, a quella domanda. Come mai, prima del nuoto internazionale, poi nel calcio germanico, le atlete donna non hanno alcuna tutela dall’intrusione di maschi più o meno trasformati? Come mai le federazioni sportive violano con tanta leggerezza un principio cardine dell’etica dello sport, e cioè che le competizioni devono essere eque? Come mai continua ad apparire ovvio – anche in questi tempi di follemente corretto – che non si può far combattere un peso massimo con un peso piuma, ma del medesimo principio improvvisamente ci si scorda quando si tratta di garantire alle donne l’equità delle competizioni in cui sono impegnate?

L’unica riposta che vedo è la seguente: il potere intimidatorio della lobby Trans è molto superiore al potere di pressione delle lobby femminili. Sul perché le cose stiano così, avrei pure qualche idea, ma ne parleremo in un’altra puntata.

La sinistra blu

5 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Man mano che ci si avvicina al congresso del Pd, i giochi si fanno più chiari. Al momento, solo due candidati – Stefano Bonaccini e Elly Schlein – paiono avere buone chances di vittoria. Sfortunatamente, però, la consapevolezza di essere a una svolta storica, che potrebbe determinare il destino della sinistra in Italia, non si accompagna a un adeguato sforzo di approfondimento teorico e programmatico.

Per chi ricorda la ricchezza di analisi che accompagnarono la nascita del primo centro-sinistra, o la messa a punto della strategia del compromesso storico, le scarne e generiche dichiarazioni di Bonaccini e Schlein suonano deludenti, perché ben poco informative. A quel che è dato capire fin qui, il Pd di Schlein si differenzierebbe da quello attuale per una maggiore attenzione alla questione sociale (e forse pure all’ambiente), mentre quello di Bonaccini segnerebbe un parziale ritorno ai principi della Terza via e al riformismo della stagione renziana. Il primo dialogherebbe con i Cinque Stelle, e non disdegnerebbe incisivi interventi redistributivi, mentre il secondo dialogherebbe con il Terzo polo, e avrebbe un occhio di riguardo per il mondo delle imprese e le esigenze della crescita.

Ma è tutto qui lo spazio dei posizionamenti possibili? Siamo sicuri che, alla fine, si tratti solo di spostare il Pd un po’ più a sinistra (via socialdemocratica) o un po’ più a destra (via liberaldemocratica)?

Se guardiamo a quel che è successo e succede al di fuori dell’Italia la risposta è: no, dentro la sinistra, specie nel mondo anglosassone, da oltre un decennio esistono anche posizioni non riducibili all’alternativa fra massimalisti e riformisti.

Negli stati Uniti, ad esempio, fin dal 2008 esiste una componente dei Democratici che combina idee progressiste in materia economica (più welfare) con idee conservatrici e neotradizionaliste sul piano culturale e sociale, innanzitutto sul cruciale terreno della sicurezza. Denominati in vario  modo, ora Blue dogs ora “cowboy democratici”, sono stati essenziali nella vittoria di Obama nel 2008 (a suo tempo ne fornì una ricostruzione dettagliata Maurizio Molinari in Cowboy democratici).

Nel Regno Unito fin dal 2009 è molto attiva una componente del Labour Party, il cosiddetto Blue Labour, che si propone di recuperare il consenso dei “colletti blu” sposando idee spesso considerate conservatrici, come famiglia, fede, vita di comunità e, soprattutto, limiti all’immigrazione irregolare. A questa componente del partito laburista hanno dato contributi teorici essenziali pensatori come Marc Stears, Maurice Glasman, David Goodhart (autore di The Road to Somewhere, uscito nel 2017).

Una delle idee chiave di questo filone di pensiero è che gli strati popolari siano culturalmente conservatori e, anche per le loro condizioni di esistenza, siano portati ad assegnare una importanza decisiva al valore della sicurezza, quale che sia la fonte della minaccia (terrorismo, criminalità, immigrazione irregolare). Di qui l’assoluta necessità, se si desidera non perdere il contatto con gli strati popolari, di prenderne sul serio il tradizionalismo e la domanda di protezione, anche quando farlo implica abbandonare le politiche tradizionali di apertura verso i flussi migratori.

Si potrebbe pensare che la “sinistra blu”, ossia una sinistra non sorda ai valori tradizionali e alla domanda di sicurezza, sia un fenomeno esclusivamente anglosassone. Ma non è esattamente così. La recente vittoria della socialdemocratica Mette Frederiksen in Danimarca è avvenuta su un programma anti-immigrati di incredibile spietatezza (trasferimento dei detenuti stranieri in Kossovo). Ed è giusto di pochi giorni fa la presa di posizione critica di Ségolène Royal (a suo tempo candidata socialista alla presidenza della Repubblica francese) nei confronti delle Ong che trasportano migranti dall’Africa in Europa.

E da noi?

Da noi una vera e propria “sinistra blu” non esiste, tutt’al più sono esistiti politici progressisti che, in tempi diversi, hanno provato a prendere sul serio il problema della sicurezza. E in qualche caso, anche ad avviare una riflessione teorica (penso al libro Sicurezza è libertà, di Marco Minniti).

Forse è giusto così, dopotutto una sinistra che adotta valori conservatori che sinistra è?

Ma forse la domanda andrebbe capovolta: che sinistra è, una sinistra che rinuncia al sostegno dei ceti popolari?

 

Luca Ricolfi

Quegli anni bui del centrismo…

30 Novembre 2022 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

Gli anni che vanno dai primi governi Alcide De Gasperi allo sdoganamento delle forze di sinistra—i socialisti prima, i comunisti dopo—vengono descritti come una  sofferta fase di transizione tra la dittatura e la democrazia. Una chiesa che influenzava le scelte politiche, una radio che cestinava ogni prodotto artistico non in linea con i valori tradizionali (Dio, patria, famiglia), un’industria cinematografica soggetta alle più ottuse censure. Per chi ha vissuto quel periodo sembra di leggere una storia svolta a sua insaputa. Ero un liceale nei tardi anni cinquanta –l’unico studente della mia classe ad avere la tessera del PSI: invece della ‘Gazzetta dello Sport’, compravo ‘Il Mondo’ e non mi piaceva affatto vivere nella più bianca (allora) provincia italiana. Però ricordo anche altri aspetti di quell’Italia  dimenticati e rimossi: una televisione che, oltre a esercitare la censura, si preoccupava di elevare il livello culturale degli italiani (con sceneggiati di classici della letteratura e la mandata in onda del grande teatro europeo); una scuola selettiva non solo per gli studenti ma anche per i professori che, per diventare di ruolo, dovevano sudare sette camicie; un’amministrazione pubblica (stato e parastato) nella quale si entrava grazie a concorsi – tenuti nella mitica sede romana di Via Gerolamo Induno! – che non guadavano in faccia a nessuno; la diffusione del benessere in ampi strati sociali. La domenica nel mio paese ciociaro, prima della guerra, i contadini arrivavano in chiesa con i piedi dipinti di marrone per simulare le scarpe, nella mia adolescenza, li vedevo arrivare in macchina con grande sconcerto dei maggiorenti locali (‘di questo passo dove andremo a finire?’). Nel suo bel blog La nostra storia (‘Corriere della Sera’) Dino Messina ha recensito il libro di Pier Luigi Ballini ed Emanuele Bernardi, Il governo di centro: libertà e riforme. Alcide De Gasperi e Antonio Segni (Ed Studium). “I risultati della riforma che arrivò nel 1950 con una legge stralcio riguardante il delta del Po, la Maremma tosco-laziale, la Basilicata e la Puglia, la Sila e altre aree della Calabria, la Sicilia e la Sardegna sono racchiuse in un numero: 750 mila ettari distribuiti”. La vera rivoluzione sociale la fece la DC, a quella dei costumi avrebbero provveduto le sinistre.

 

Dino Cofrancesco

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