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Le radici della vittoria di Meloni e la sfida di Calenda al PD

28 Settembre 2022 - di Paolo Natale

In primo pianoPolitica

Acquisito il grande exploit di Giorgia Meloni, capace di guadagnare ben 20 punti percentuali in soli 3 anni, èforse il momento di domandarsi quali siano stati i motivi del repentino incremento di Fratelli d’Italia (Fdi) in questo breve periodo di tempo. Le risposte che giungono in prevalenza da commentatori e analisti fanno specifico riferimento alla sua posizione contraria, unico partito all’opposizione in Italia assieme a Sinistra Italiana, al governo di larghe intese presieduto da Mario Draghi.

Basta questo per comprenderne la rapida ascesa? Forse in parte sì, ma certo non del tutto, altrimenti per prima cosa non si capirebbe perché il suo partner all’opposizione, Fratoianni, non abbia beneficiato di alcun significativo successo elettorale domenica scorsa. Ma c’è un altro elemento da considerare, che smentisce in parte questa sola spiegazione, elemento che si riesce a derivare chiaramente osservando il trend dellacrescita di Fdi e del contemporaneo tramonto di Salvini e del suo partito, che ha avuto inizio proprio all’indomani delle Europee del 2019 (si veda il grafico). Mese dopo mese, Fdi incrementa di qualche punto percentuale, contestualmente alle perdite della Lega. Una correlazione tra le due serie di dati quasi perfetta, con un coefficiente pari a 0,974.

La cosa interessante da notare è che questa relazione appare del tutto indipendente dalla assenza o dalla presenza del governo Draghi (in carica dal febbraio del 2021). Anzi, dal settembre 2019 fino alla caduta del Conte II (con la Lega all’opposizione, al pari di Fdi) e l’insediamento del nuovo esecutivo di larghe intese (con la Lega al governo), la correlazione è semmai ancora più elevata, con un coefficiente superiore a 0,98.

Dunque, le fortune del partito di Meloni appaiono del tutto indipendenti dal suo ruolo di opposizione all’esecutivo dell’ex-capo della BCE, e si nutrono in maniera evidente dal costante passaggio di voti provenienti dalla Lega, che ha avuto inizio immediatamente dopo la formazione del governo Pd-Movimento 5 stelle, quando cioè entrambe le forze politiche si trovavano all’opposizione.

L’analisi dei flussi di voto tra le Europee del 2019 e le recenti Politiche evidenzia in maniera chiara questa situazione: passa dalla Lega a Fdi oltre il 40% degli elettori leghisti, svuotando in maniera significativa il serbatoio di voti di Salvini, ma già era chiara questa tendenza durante lo stesso governo di Conte, durante la cosiddetta alleanza giallo-rossa.

Contestualmente, l’ulteriore fonte di consensi per Fdi giunge dall’altro alleato, Forza Italia, che gli cede un quinto circa del suo precedente elettorato, poco più del 20%. Appare dunque evidente come la vittoria di Fdiassuma contorni un pochino diversi dal mero ruolo di opposizione. Dopo essersi “infatuato” di Salvini, e in precedenza di Berlusconi, l’elettorato di centro-destra si è poco alla volta convinto, nel giro di tre anni, dal 2019 al 2022, che potesse essere il partito di Giorgia Meloni quello che coerentemente e con una decisa forza programmatica riuscisse a rappresentare una efficace proposta politica di quell’area, in maniera molto più efficiente degli altri partner di coalizione e, fra poco, di governo.

Ma oltre il successo di Giorgia Meloni, inaspettato fino ad un paio d’anni fa, un’altra sorpresa è uscita dalleurne della scorsa domenica, che ha a che vedere con la sfida che la coppia Azione- ItaliaViva sta ponendo al Partito Democratico. Le speranze di Calenda e di Renzi di “fare il botto”, di raggiungere cioè un risultato almeno in doppia cifra non si sono realizzate, fermandosi un paio di punti sotto quella soglia.

Eppure, già questo risultato non sarebbe certo insoddisfacente, se non ci fossero state aspettative così elevate e difficilmente raggiungibili e, inoltre, forse per la prima volta in occasioni elettorali, l’unione di due forze politiche in un unico soggetto ha visto crescere (anziché diminuire come accade quasi sempre) i consensi, andando oltre la somma dei due partiti presi singolarmente.

Era comunque un compito piuttosto difficoltoso raggiungere il 10-12%, soprattutto perché la proposta di Calenda andava a sollecitare un elettorato abbastanza simile a quello del Pd (e solo marginalmente a quello di Forza Italia); effettivamente, i flussi di voto ci indicano come una parte significativa degli elettori di Azione-ItaliaViva provengano proprio dal Partito Democratico, tanto che la composizione attuale del nuovo partito è fatta per oltre un terzo di ex-votanti Pd, unitamente a ex-pentastellati che si definiscono di centro-sinistra. La sfida continuerà evidentemente nei prossimi mesi, ma c’è un dato che forse dovrebbe già fin d’ora preoccupare il partito del dimissionario Letta, un dato proveniente da Milano, una delle poche roccaforti rimaste al Pd.

Ho scritto ieri della “deriva” della sinistra italiana, simile peraltro a quella di molti paesi occidentali, capace di avere maggior presa su un elettorato scolarizzato, più benestante e secolarizzato, il cosiddetto elettorato definito spiritosamente “delle ZTL”, i residenti cioè nel centro delle grandi metropoli, nazionali e internazionali, come New York, Londra, Parigi, Roma, Berlino, Milano.

Ebbene, proprio a Milano, nel centralissimo Municipio 1, dove il Pd sia nelle precedenti politiche, nelle europee e nelle comunali prese oltre il 40% dei voti, risultando di gran lunga il primo partito, domenica scorsa è retrocesso in seconda posizione, con una quota di voti intorno al 23%, superato nettamente da Azione-ItaliaViva, che ha ottenuto oltre il 30% dei consensi provenienti in larga misura dallo stesso Partito Democratico votato. Se a Milano le cose accadono prima, come vuole la vulgata, e poi gli altri luoghi si adeguano, è questo un segnale piuttosto significativo di come la sfida di Calenda possa avere in futuro riscontri positivi.

Paolo Natale

Perché la sinistra è in costante declino?

27 Settembre 2022 - di Paolo Natale

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È dunque successo quel che doveva succedere: per una volta i tanto vituperati sondaggi ci avevano visto giusto, con stime che non si distaccavano più di tanto dai risultati finali delle consultazioni di domenica 25, se non per una leggera sopravvalutazione demoscopica del consenso leghista. E la vittoria del centro-destra (anzi, del destra-centro) è giunta in maniera dirompente come era da mesi chiaramente annunciato. E, soprattutto, è arrivato quell’elevato consenso per Giorgia Meloni e il suo Fratelli d’Italia che pare rasentare l’incredibile, visti i suoi numeri di partenza di soli un paio d’anni fa.

Dal ridotto 4% del 2018, soltanto di poco aumentato alle Europee dell’anno successivo (6%), il partito ha visto un incremento di ben 20 punti nel giro di pochissimo tempo, quel tempo coincidente giusto con il periodo in cui stata, in solitaria, all’opposizione del governo Draghi. È dunque questo il motivo di quell’incremento, la sua opposizione al governo di larghe intese?

C’è qualcosa di strano, forse inspiegabile, in quanto è accaduto. Il governo Draghi, e ancor più lo stesso premier, godeva di una fiducia mai così elevata da quando le rilevazioni certificano il livello di gradimento degli esecutivi: perfino nell’ultima settimana prima del voto, i dati parlavano di oltre il 60% degli italiani che dava una valutazione positiva del governo e di quasi il 70% del Presidente del Consiglio.

Pochi giorni dopo, gli elettori che si sono recati alle urne hanno decretato il chiaro successo dei partiti che o lo hanno contrastato fin dall’inizio (come appunto Fratelli d’Italia) oppure hanno decretato la sua prematura scomparsa (Forza Italia, Lega e Movimento 5 stelle). Queste 4 forze politiche sono state infatti votate da oltre il 60% degli elettori, contro un misero 30% di chi ha sostenuto Draghi fino alla fine, sperando in un suo ritorno alla cabina di comando.

Una sorta di schizofrenia che alberga nella mente del cittadino-elettore o, forse, la prova più evidente di quanto sosteneva il sociologo Goffman: il comportamento, l’opinione di un attore sociale dipende dal palcoscenico, dal frame in cui si sente inserito. Quando mi sento un cittadino, mi fido del tecnico che bene governa il futuro del mio paese; quando mi sento elettore, voto la coalizione che più rappresenta i miei bisogni politici. Senza contraddizioni, soltanto risposte diverse a diversi scenari di riferimento.

E la destra in Italia, come nel resto del mondo occidentale (buon’ultima la Svezia, patria della socialdemocrazia), è destinata ad avere sempre più successo, poiché ha l’appoggio prevalente (sebbene non esclusivo) di quella parte sempre più crescente di elettorato che il politologo Kriesi chiama “i perdenti della globalizzazione”, coloro cioè che non hanno sufficienti strumenti per far fronte agli odierni problemi sociali, occupazionali ed economici. I ceti bassi o medio-bassi, dove le crisi sono più sentite, gli operai nelle piccole aziende, i non-garantiti, che temono quindi le conseguenze della globalizzazione, della immigrazione, del depauperamento progressivo della propria esistenza. Le parole della destra, che cerca di porre un freno ai grandi rivolgimenti mondiali, paiono a questa parte di elettorato le più efficaci per dare maggiore sicurezzacontro il “disordine” provocato da questi cambiamenti epocali; un po’ ciò che è accaduto con Trump, Bolzonaroe Orban.

Al contrario, e con un solo paio di eccezioni, i collegi vinti dal centro-sinistra corrispondono, sia alla camera che al senato, con le città medio-grandi: Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Modena e Reggio Emilia. Èormai noto da almeno un decennio, se non di più, come queste siano le aree territoriali dove la sinistra riesce ad intercettare meglio gli umori e le attitudini degli elettori, che hanno una maggiore capacità di fronteggiare le paure e le minacce che le società avanzate pone loro dinanzi. Sono i giovani istruiti, i cittadini più benestanti, con un lavoro relativamente più stabile. È il profilo del Partito Democratico, quello che Luca Ricolfi definisce il “partito radicale di massa”, la forza politica che vincerebbe in Italia se votassero solo i laureati.

Domani vedremo meglio quali e quanti spostamenti di voto sono avvenuti nell’elettorato italiano negli ultimiquattro anni, fino a giungere alla situazione odierna, e scopriremo un paio di cose sorprendenti. Cercherò poi di rispondere ad una domanda cruciale: quanto tempo riuscirà a durare il futuro governo Meloni?

Paolo Natale

La (prevedibile) Caporetto di Putin e quella (inquietante) degli esperti

26 Settembre 2022 - di Paolo Musso

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Con questo articolo vorrei provare a rispondere a due importanti questioni sollevate tempo fa da Luca Ricolfi sulla guerra in Ucraina (https://www.fondazionehume.it/politica/punire-o-fermare-putin/), che oggi sono, se possibile, ancor più attuali ed urgenti, visto ciò che sta succedendo sul campo e fuori.

Le domande poste da Ricolfi erano le seguenti:

1) se anche a questo proposito, come già era accaduto con il Covid, si sta verificando un fenomeno di intolleranza verso chi esprime posizioni non allineate con quelle del governo;

2) se bisogna «punire o fermare Putin».

Anticipo subito che la mia risposta alla prima domanda è “nì”, mentre la risposta alla seconda è “sì”, nel senso che Putin va punito, cioè sconfitto e non solo fermato. Per rispondere correttamente, però, bisogna prima porsi altre tre domande preliminari, che sono le seguenti:

1a) rispetto al primo problema, bisogna chiedersi se le due situazioni (virus e guerra) possono essere considerate equivalenti;

2a) rispetto al secondo problema, bisogna anzitutto chiedersi se l’Ucraina può conseguire una vittoria sulla Russia, altrimenti è chiaro che il problema non si pone;

2b) in secondo luogo, bisogna chiedersi se Putin può essere “solo fermato”, altrimenti, di nuovo, il problema non si pone.

Cominciamo dalla prima questione. E qui bisogna dire innanzitutto che le stesse ragioni per cui ho ripetutamente biasimato con parole durissime l’uso improprio di un “linguaggio di guerra” nella lotta al Covid impongono di riconoscere che le due situazioni non sono affatto equivalenti.

Infatti, debellare un virus è un problema scientifico, dove l’unità di intenti non serve a niente, se è fatta intorno a una strategia sbagliata. Di conseguenza, zittire chi dissente è non solo eticamente sbagliato, ma anche controproducente. In una guerra vera, invece (e noi siamo in guerra con la Russia, anche se “per procura”), la compattezza e la determinazione contano moltissimo.

Inoltre, con il Covid sono stati sicuramente commessi errori molto gravi e a volte imperdonabili (sia da parte del governo che di chi dissentiva), che hanno causato molte morti che si potevano e si dovevano evitare. Però questo non è mai stato intenzionale: nessuno voleva che gli italiani morissero di Covid, mentre Putin vuole che gli ucraini muoiano, se non si sottomettono (e forse anche se lo fanno).

Per questi motivi, diversamente dal caso del Covid, non trovo scandaloso che ci sia un limite alle opinioni a cui è giusto dare spazio a livello di dibattito pubblico. Dopotutto, l’apologia del fascismo in Italia è proibita, per cui non capisco perché non dovrebbe essere proibita anche l’apologia del putinismo. Certo, questa materia è estremamente delicata e per un paese democratico è sempre meglio rischiare di sbagliare per eccesso che per difetto di liberalità.

Ricordiamoci però che la libertà di parola garantita dalla Costituzione implica solo che chiunque possa esprimere le proprie opinioni senza essere perseguito per esse, ma non che uno abbia anche il diritto di esprimerle in televisione. Quindi, mentre devono senz’altro avere spazio nel dibattito pubblico quelle critiche all’azione del governo che riguardano l’efficacia delle sue azioni, non trovo scandaloso che ne vengano invece escluse quelle che si traducono di fatto in una quantomeno parziale giustificazione delle azioni criminali di Putin.

Giusto per fare un esempio, sarebbe sbagliato che il professor Alessandro Orsini venisse licenziato dalla sua Università per le sue folli teorie anti-occidentali, ma non trovo scandaloso che il suo Osservatorio Internazionale sia stato chiuso, così come non troverei scandaloso che non venisse più invitato ai dibattiti televisivi e trovo assolutamente corretto che, se invitato, almeno non venga più pagato dalla televisione pubblica, cioè da tutti noi.

Inoltre, non mi sembra che sulla guerra ci sia lo stesso clima che c’era sul Covid: a nessuno è stato richiesto di esibire un Green Pass di fedeltà euroatlantica per poter lavorare o circolare; nessuno è stato pestato dalla polizia per aver manifestato contro la guerra; nessuno è stato pubblicamente insultato dal Presidente della Repubblica per aver esercitato il suo diritto costituzionale di dissentire; i social media non hanno messo in atto le stesse pericolosissime strategie di censura della fake news o presunte tali; e, in generale, l’argomento non è motivo di liti violente tra le persone comuni nella vita quotidiana.

Né col Covid sarebbe stato possibile (anzi, non sarebbe stato neppure concepibile) un caso come quello di Marc Innaro, che, soprattutto all’inizio del conflitto (ora sembra essersi un po’ calmato), invitava sempre a «considerare anche le ragioni della Russia», perfino quando erano palesemente balle cosmiche. E ciò non in qualità di opinionista in un talk show, ma mentre svolgeva il suo lavoro di cronista della RAI, cioè della televisione di uno Stato che (repetita juvant) con la Russia è di fatto in guerra ed è da essa considerato, non solo di fatto, ma anche ufficialmente, «paese ostile».

Addirittura, Innaro era arrivato al punto di mostrare le cartine con l’allargamento della NATO verso Est sostenendo che queste venivano nascoste dalla RAI, mentre era lui che teneva accuratamente nascosto il fatto che tale allargamento si è verificato tra il 1999 (quando Putin non era nemmeno Presidente) e il 2004, cioè 18 anni fa, a seguito di un preciso trattato (tuttora in vigore) tra la NATO stessa e la Russia, il che significa che il suddetto allargamento non ha nulla a che vedere con ciò che sta accadendo oggi.

Ora, se un cronista di un telegiornale della RAI si fosse azzardato, anche solo qualche mese fa, a dire che le strategie anti-Covid del governo hanno contribuito a causare la pandemia sarebbe stato immediatamente rimosso e forse anche denunciato, nonostante che ciò fosse la pura verità. Innaro invece, pur avendo detto (ripetutamente) che la politica della NATO (e quindi anche del nostro governo) ha contribuito a causare la guerra, è ancora al suo posto nonostante che ciò sia completamente falso. E quando per questo è stato (giustamente) criticato, diversi intellettuali lo hanno difeso gridando addirittura alla censura.

Infine, mentre sul Covid l’opposizione era quasi tutta di destra, sulla guerra c’è anche a sinistra, anche se non all’interno dell’establishment del suo principale partito di riferimento, il PD. È però molto significativo che il PD stesso giustifichi la sua ostilità a Putin definendolo “fascista”, affermazione semplicemente grottesca che ricorda i mitici servizi del TG3 che, quando ci fu la caduta del comunismo in Romania, parlava degli eroici insorti che combattevano «contro i fascisti di Ceausescu» (su questo punto, però, andrebbe fatto un discorso più ampio, che mi riservo per un prossimo articolo).

È vero che questa maggiore dialettica dipende, paradossalmente, più da ragioni ideologiche che da una ritrovata apertura mentale (sul Covid la base della sinistra era più compatta perché è tendenzialmente scientista, mentre sulla guerra lo è meno perché il pacifismo è ancora molto forte), però c’è.

Non per nulla, da quando ha rotto col PD Conte ha cominciato un po’ alla volta a correggere il tiro, prima cautamente, poi in modo sempre più deciso (sì all’invio delle armi, no all’aumento delle spese militari; le sanzioni alla Russia restano, ma non devono comportare sacrifici per gli italiani; l’appoggio all’Ucraina non si discute, ma il governo deve impegnarsi per favorire un negoziato con la Russia; Putin è ingiustificabile, ma la colpa è anche di Zelensky…), cercando, a quanto pare con discreto successo, di rubargli questa parte di elettorato.

Dove invece c’è davvero un clima di forte intolleranza è sulla grande stampa, su cui si leggono spesso e volentieri attacchi violenti e sguaiati contro chi esprime posizioni critiche, che viene automaticamente bollato come filo-Putin anche se si limita ad esprimere dubbi sull’efficacia della linea scelta dal nostro governo e, in particolare, delle sanzioni. Peraltro, bisogna riconoscere che pure la stampa di opposizione quanto a faziosità non scherza e se si nota meno è solo perché è largamente minoritaria. In altre parole, si sta qui ripetendo lo stesso schema del Covid, con la “maggioranza Ursula” contro i “populisti” o, se si preferisce, le “persone civili” contro gli “impresentabili”.

Quindi, come avevo anticipato, la mia risposta alla prima questione sollevata da Ricolfi è “nì”, nel senso che vedo sicuramente un eccesso di intolleranza verso gli avversari abbastanza preoccupante (da entrambe le parti, anche se certamente assai di più da quella che difende l’establishment), ma non vedo invece, come sul Covid, un muro compatto di “pensiero unico” che non lascia nessuno spazio a chi la pensa diversamente.

In compenso, quello che non è cambiato per nulla rispetto al Covid è il comportamento degli esperti, non solo quelli presunti, ma anche quelli veri, che ancora una volta sembrano gravemente disconnessi dalla realtà. E ciò è tanto più preoccupante se si considera che si tratta di persone completamente diverse, che però si sono comportate più o meno allo stesso modo: sbagliando quasi tutte le previsioni e, quel che è più grave, senza mai riconoscere i propri errori.

A questa autentica ed estremamente preoccupante “Caporetto degli esperti”, che si verifica ormai regolarmente in relazione a pressoché qualsiasi problema, mi riprometto di dedicare una riflessione a parte appena possibile, anche perché ci sono già molti segni che sull’ecologia rischia di andare ancor peggio, con conseguenze ancor più gravi. Ora, però, concentriamoci sulla seconda domanda preliminare che ho posto: l’Ucraina può sconfiggere la Russia?

La mia risposta è: assolutamente sì (a patto, ovviamente, che l’Occidente continui ad aiutarla). E, se mi è permessa l’immodestia, pur senza essere un esperto di cose militari questo l’avevo già scritto in un mio articolo (https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/) apparso su questo sito il 15 marzo, cioè appena tre settimane dopo l’inizio della guerra, quando tutti (ma proprio tutti), pur sorpresi dalla “inattesa” (in realtà prevedibilissima) resistenza ucraina, discutevano solo su quanto ciò avrebbe ritardato la “inevitabile” vittoria russa.

Nell’articolo in questione, invece, io sostenevo che con la creazione di una no fly zone, come richiesto da Zelensky, l’Ucraina avrebbe potuto vincere e avevo anche spiegato per filo e per segno il perché. E i fatti mi stanno dando ragione, anche se alla fine la no fly zone, non è stata istituita formalmente, ma è stata ugualmente creata di fatto.

Come avevo scritto, infatti, «la no fly zone potrebbe essere istituita senza bisogno di entrare fisicamente in Ucraina, giacché la NATO ha la capacità tecnologica di abbattere gli aerei russi con missili a guida elettronica posizionati all’esterno del territorio ucraino (nella seconda guerra contro Saddam i bombardamenti preliminari sono stati effettuati in gran parte con missili di questo tipo, lanciati da navi posizionate a centinaia di chilometri di distanza, e, a dispetto delle facili ironie sui missili “intelligenti”, hanno quasi sempre fatto centro)».

L’unica differenza rispetto allo scenario che avevo delineato è che anziché lanciare noi questo tipo di missili li abbiamo passati agli ucraini perché lo facessero loro. E l’unico motivo per cui avevo suggerito di prendere in seria considerazione di farlo noi era che in quel momento sembrava difficile riuscire a recapitare in tempo questo tipo di armi. Ma per fortuna gli ucraini sono riusciti a resistere fino al loro arrivo e ciò ha rovesciato le sorti della guerra.

La questione, infatti, è estremamente semplice: le guerre moderne si vincono con la tecnologia, mentre la Russia è rimasta ancora agli anni Settanta, sia per la qualità degli armamenti che per la dottrina militare, che è tuttora basata sulla forza del numero (soprattutto dei carri armati) e sull’attacco in massa. E ciò non per caso, ma perché la Russia non è guidata da un “fascista”, come sostengono ipocritamente gli ex comunisti (neanche tanto ex) di casa nostra per giustificare il loro voltafaccia nei confronti del loro alleato storico (e intanto, già che ci sono, dare una bottarella ai loro avversari politici), ma da un ex ufficiale del KGB, che si è formato (cioè ha subito il lavaggio del cervello: perché questo è ciò che succedeva) negli anni Settanta ed è rimasto mentalmente “bloccato” in quegli schemi di comportamento.

Ora, l’attacco in massa è efficace a parità di mezzi. Ma se l’altra parte ha mezzi tecnologicamente superiori, capaci di colpire a grande distanza con estrema precisione, le enormi masse di uomini, di mezzi e, soprattutto, di depositi per i rifornimenti si trasformano di colpo in enormi bersagli, facilissimi da colpire. E questo è esattamente ciò che è successo da quando agli ucraini sono arrivati i micidiali missili americani Himars, più o meno all’inizio di luglio.

In quel momento la Russia ha perso la guerra. Eppure, nessuno è sembrato accorgersene. E, a quanto pare, quasi nessuno continua ad accorgersene neanche adesso. Infatti, in questi mesi i vari esperti hanno continuato a esprimere dubbi o addirittura a ironizzare sul contrattacco annunciato da Zelensky, che sembrava non partire mai, senza rendersi conto che gli ucraini stavano semplicemente facendo all’esercito russo quello che gli americani avevano fatto all’esercito di Saddam Hussein (che tra l’altro utilizzava armamenti sovietici, molto simili a quelli usati dai russi in Ucraina): hanno distrutto sistematicamente per settimane la logistica russa alle spalle delle loro linee con attacchi missilistici ad alta precisione fino a quando le truppe al fronte sono rimaste senza viveri e senza munizioni; e quando ciò è accaduto sono avanzate rapidamente, senza neanche bisogno di combattere, semplicemente perché il nemico non era più in grado di farlo.

Il crollo improvviso e rapidissimo del fronte russo dopo una fase di apparente stallo di quasi due mesi, che tanto ha sorpreso i nostri esperti nonostante fosse un film già visto e rivisto (le due Guerre del Golfo e l’intervento in Serbia), non è quindi per nulla affatto sorprendente, ma è semplicemente la logica conseguenza delle strategie di guerra scelte dalle due parti. Eppure, tutti hanno continuato a discettare come se niente fosse, avanzando le ipotesi più fantasiose sul perché e il percome i russi siano scappati da un giorno all’altro, senza combattere e abbandonando perfino le armi. Forse i nostri esperti militari hanno bisogno che qualcuno gli spieghi che senza munizioni le armi non servono a molto…

Eppure, non era tanto difficile capirlo, tanto più che tutto era stato spiegato per filo e per segno già il 18 luglio da Yulia Latynina in un articolo di un’intera pagina pubblicato su La Stampa, in cui tra l’altro aveva scritto esplicitamente che «l’esercito ucraino non avanzerà prima di aver distrutto tutti i magazzini». Addirittura, non era difficile neppure stimare quando sarebbe successo. Dopo aver letto l’articolo e facendo un calcolo a spanne sul ritmo a cui procedeva la distruzione della logistica russa, basandomi semplicemente sulle notizie dei telegiornali, ne avevo dedotto che l’attacco di terra ucraino sarebbe partito entro settembre e in poche settimane avrebbe ricacciato i russi da tutti i territori occupati dall’inizio della guerra. Sul primo punto ci ho azzeccato in pieno, sul secondo vedremo, ma, almeno per ora, mi sembra che le cose vadano in quella direzione.

Una volta di più, come già ho fatto ripetutamente con il Covid, vorrei sottolineare che non mi sto attribuendo per questo particolari meriti o una particolare intelligenza, perché si tratta di stime davvero molto facili, che chiunque abbia un minimo di capacità di ragionamento e una appena decente cultura generale dovrebbe essere in grado di fare. La vera questione, perciò, non è come è possibile che ci sia riuscito io, bensì come è possibile che non ci siano riusciti gli esperti. Ed è una questione così seria che, come ho già detto, ci tornerò in un articolo a parte.

Qui, invece, vorrei notare come la valutazione errata di questo punto fondamentale se ne porti dietro a cascata molti altri, il più importante dei quali è la valutazione dell’operato di Zelensky, che troppi ancora accusano, più o meno esplicitamente, di essere almeno in parte corresponsabile di ciò che sta accadendo per via della sua determinazione a cercare una vittoria ritenuta (erroneamente) impossibile.

Anche su questo sito Cofrancesco sostiene da tempo che quando opporre resistenza comporta devastazioni troppo gravi è meglio non farlo, accettando temporaneamente l’occupazione nemica e confidando che, come tutte le cose umane, prima o poi avrà termine. E di per sé è un ragionamento sensato, tanto che questa scelta è stata fatta diverse volte nella storia: per restare ai paesi dell’area sovietica, non solo dalla Cecoslovacchia di fronte all’invasione sovietica, come da lui ricordato, ma anche dalla Polonia di fronte al golpe di Jaruzelsky. Tuttavia, qui la situazione è ben diversa, giacché a rischiare la distruzione totale non è l’Ucraina, bensì l’esercito russo.

Inoltre, non va mai dimenticato che la decisione su come reagire a un’aggressione spetta solo e soltanto all’aggredito. Consigliare agli ucraini di non combattere è lecito, se si è convinti che sia la cosa migliore per loro (un po’ meno se lo si fa perché convinti che sia la cosa migliore per noi…). Pretendere che lo facciano e biasimarli se, come è accaduto, decidono diversamente, scegliendo di resistere anche a costo di morire, sarebbe invece inaccettabile.

Ancor più sbagliata è l’idea per cui sarebbe Zelensky a imporre una linea estremista al suo popolo, che ultimamente nasce dal pregiudizio, di derivazione marxista, per cui sono sempre sono le élites a volere le guerre e non i popoli (quanto profondamente il marxismo abbia influenzato il pensiero occidentale, compreso quello degli anticomunisti dichiarati, è un altro tema a cui prima o poi dedicherò un articolo a sé). È vero invece esattamente il contrario: è il popolo che ha scelto di combattere, come ci hanno dimostrato i molti ucraini che vivevano al sicuro in Italia, spesso con tutta la famiglia, eppure hanno scelto di tornare in patria a combattere, pur non essendo obbligati a farlo e non essendo certo stati plagiati dalla propaganda del governo, dato che qui avevano modo di ascoltare tutte le campane.

Così stando le cose, Zelensky non avrebbe comunque potuto scegliere di arrendersi, neanche se fosse stato convinto che era la cosa giusta, perché se l’avesse fatto sarebbe stato immediatamente destituito e allora sì che molto probabilmente sarebbe arrivato al suo posto qualche estremista. Perciò dovremmo essergli grati per avere invece scelto (giustamente e coraggiosamente) di restare a guidare la lotta contro l’invasore, come il popolo che aveva giurato di servire gli chiedeva, e per averlo fatto non solo con grande abilità, ma anche con grande equilibrio (a meno che non si consideri sintomo di estremismo il semplice fatto di voler vincere la guerra, come pensa per esempio Giuseppe Conte).

E così siamo finalmente arrivati alla seconda questione sollevata da Ricolfi: posto che, come spero di aver dimostrato (e come comunque i fatti si stanno incaricando di dimostrare molto meglio di me), la vittoria dell’Ucraina è possibile, essa è anche auspicabile oppure i costi e i rischi che comporta rendono preferibile fermarsi a un certo punto, almeno per noi europei?

Ricolfi propende chiaramente per la seconda risposta, ma ciò, come lui stesso dice, dipende in gran parte dal fatto che è convinto che la guerra rischia di durare per anni, con conseguenze economiche pesantissime per l’Europa. A me invece questo è sempre sembrato altamente improbabile e più ancora adesso, visto come si stanno mettendo le cose sul campo.

Inoltre, se i russi verranno cacciati rapidamente dai territori occupati, anche l’altro aspetto che preoccupa Ricolfi, cioè il rischio di un incidente nucleare, è destinato a scomparire, perché le centrali non si troveranno più in zona di guerra. Senza contare, poi, che in realtà nessun incidente nucleare potrebbe avere conseguenze fuori dall’Ucraina, così come non ne ha avute la fantomatica nube radioattiva di Cernobyl, checché ne dicano gli antinuclearisti militanti, che sono i primi colpevoli della nostra disastrosa dipendenza dal gas russo (ma anche su questo dovrò tornare in un articolo a parte, perché il nucleare, sia militare che civile, è uno degli argomenti su cui la disconnessione tra ragione e realtà è massima).

Certo, andare a riprendersi anche la Crimea, come Zelensky ha detto chiaramente di voler fare («Tutto questo è cominciato in Crimea e finirà in Crimea»), potrebbe essere una faccenda più seria. Ma forse anche no. Forse è arrivato il momento di prendere atto che Zelensky non è affatto un demagogo che fa proclami campati in aria e che tutte (ma proprio tutte) le cose che ha detto finora erano una fedele descrizione della realtà e tutte (ma proprio tutte) le previsioni che ha fatto finora si sono realizzate (certo, anche perché ben supportato dall’intelligence americana). Ciò non significa, ovviamente, che sia infallibile, però bisognerebbe almeno cominciare a considerare seriamente l’eventualità che se dice che riprendersi la Crimea è possibile, forse è possibile davvero.

In ogni caso, la valutazione sul da farsi dipende in modo cruciale dalla terza e ultima questione preliminare che ho posto, ovvero: Putin può essere “solo” fermato?

La mia riposta è no. Come ho già detto nel mio precedente articolo, mi sembra abbastanza evidente che Putin è pazzo, se non del tutto, almeno all’87% o giù di lì. Ma anche chi non condivida questo giudizio ha comunque l’onere di spiegare perché ci si dovrebbe fidare di uno che in tutta la sua vita non ha mai accettato di fare compromessi con nessuno e le poche volte che ha stretto qualche accordo l’ha fatto solo per prendere tempo e l’ha violato non appena ha potuto.

Anche nell’improbabile eventualità che Putin accettasse di negoziare, quindi, non si avrebbe una vera pace, ma solo una tregua, che sarebbe ancor più pericolosa della guerra, perché gli darebbe modo di riorganizzarsi per poi ricominciare tutto come prima, anzi, peggio di prima. E che questa non sia solo una mia opinione lo dimostra il fatto che Putin ha già annunziato un enorme aumento delle spese militari, fino al 40% del bilancio dello Stato russo.

Che poi questo sarà quasi certamente impraticabile, perché devasterebbe il paese e non basterebbe in ogni caso a ricuperare il ritardo tecnologico rispetto all’Occidente, che non è solo una questione di soldi, è vero, ma è un altro discorso. Per quanto irragionevole e velleitaria, la direzione di marcia scelta dal leader russo (o neo-sovietico, come sarebbe più esatto dire) è chiarissima e dimostra una volta di più la psicopatologia paranoide di cui è vittima.

La verità è che questa guerra si può concludere in un solo modo: con la caduta di Putin, che di fatto vuol dire con la sua morte, perché lui non accetterà mai di lasciare il potere spontaneamente, né i suoi, una volta deciso di sbarazzarsene, glielo chiederebbero con le buone.

Naturalmente può darsi che ciò si riveli impossibile (anche se, come spiegherò fra poco, vi sono diverse buone ragioni per crederci) e che alla fine ci vediamo costretti ad accettare una soluzione meno soddisfacente. Ma sarebbe, appunto, una soluzione meno soddisfacente.

Quindi, se la domanda è, per usare le parole di Ricolfi nell’articolo citato, «che cosa significhi vincere», cioè qual è la soluzione più soddisfacente, la caduta di Putin mi sembra l’unica risposta possibile, sia per noi che per gli Stati Uniti (e, ovviamene, l’Ucraina). Anzi, per noi ancor più che per gli Stati Uniti: perché se è vero che l’Europa subisce più degli USA le conseguenze negative della guerra, è altrettanto vero che subirebbe ancor di più le conseguenze negative della “falsa pace” con una Russia ancora putiniana, che costituirebbe un fattore di instabilità permanente a tutti i livelli a poche centinaia di chilometri dai nostri confini.

E quindi sì: Putin deve essere “punito” e non “solo fermato”, cioè deve essere militarmente umiliato e non “semplicemente” sconfitto, anzitutto perché, come ho appena cercato di spiegare, la seconda opzione non è realistica e poi perché solo così si può sperare di provocarne la caduta.

Su questo punto, però, grava un ultimo equivoco, che va dissipato. Quando si fa questo genere di discorsi, infatti, salta regolarmente fuori lo spettro della Repubblica di Weimar, che favorì l’ascesa al potere di Hitler, per cui si conclude che non bisogna mai umiliare il nemico sconfitto, ma bisogna sempre lasciargli una via di uscita onorevole. Ma, a parte il fatto che ciò funziona solo con chi è disposto ad approfittare di tale via di uscita (e Putin non lo è), in tal modo si confondono due questioni profondamente diverse fra loro.

Una cosa, infatti, è dire che non si deve umiliare un popolo sconfitto: questo è senz’altro giusto e, se e quando la Russia sarà stata sconfitta e “deputinizzata”, bisognerà stare attenti a tenderle subito la mano per riportarla nell’orbita europea, a cui naturalmente appartiene, sia per cultura che per geografia (perché, anche se la maggior parte del territorio russo si trova in Asia, le città in cui vive la sua classe dirigente sono tutte in Europa e all’Europa, e non all’Asia, hanno sempre guardato).

Altra cosa, completamente diversa (e completamente sbagliata), è invece dire che non si deve umiliare un regime. La storia dimostra infatti che le sconfitte militari, specie se umilianti, sono quasi sempre fatali alle dittature: è stato così nella Seconda Guerra Mondiale, con il nazismo in Germania, il fascismo in Italia e la casta teocratico-militarista che governava il Giappone in nome dell’Imperatore-Dio; è stato così con il regime dei colonnelli in Grecia, caduto dopo l’invasione di Cipro da parte della Turchia; è stato così con la dittatura di Videla in Argentina, crollata dopo la disfatta nella guerra con l’Inghilterra per le Malvinas; e la disastrosa quanto inattesa sconfitta in Afghanistan ha certamente favorito la caduta del regime comunista sovietico. Oltre a questi esempi, va poi menzionata l’umiliante disfatta subita nella Guerra dei Sei giorni contro Israele, che non fece cadere i regimi di Egitto e Giordania, ma ne favorì la trasformazione in senso più moderato.

Anche l’altra tesi, molto popolare e strettamente collegata alla precedente, secondo cui così si finirebbe per spingere la Russia tra le braccia della Cina, se analizzata attentamente non sta in piedi.

Anzitutto, una tale alleanza ha dei limiti precisi e invalicabili, stabiliti dagli interessi economici e geopolitici cinesi, per cui non potrà mai andare oltre un certo punto, che verosimilmente è già stato raggiunto da tempo.

Come avevo scritto nel mio articolo precedente, infatti, la Cina, più che a sostenere la Russia, «semmai avrebbe interesse a lasciarci scannare tra di noi (ma neanche tanto, altrimenti poi a chi venderebbe le sue merci?)». E questo è esattamente ciò che è accaduto: la Cina ha dato a Putin un sostegno moderato (più a parole che a fatti, per la verità) finché c’è stata una ragionevole probabilità che potesse vincere in tempi brevi, perché ciò avrebbe indebolito l’Occidente senza compromettere troppo gli assetti globali. Non appena, però, è diventato evidente che ciò non era più possibile, Xi l’ha scaricato e ha cominciato a premere per l’immediata cessazione delle ostilità, così come l’India, che ragiona più o meno allo stesso modo perché ha più o meno gli stessi interessi.

Ma la Cina ha pure un altro problema, perché da tempo ha basato la sua politica estera sulla crescita del suo “soft power” nei paesi del Terzo Mondo, che la guerra, bloccando le esportazioni di grano dall’Ucraina, sta mettendo seriamente in crisi. Questo poteva essere ritenuto un prezzo accettabile da pagare per un breve periodo in cambio di un significativo indebolimento dell’Occidente, ma ciò che la Cina non può invece assolutamente permettersi è di apparire corresponsabile di un prolungamento della guerra a tempo indeterminato, che ridurrebbe alla fame molti paesi poveri che ha attirato o sta cercando di attirare nella sua orbita.

Inoltre, per poter aumentare gli scambi commerciali con chicchessia c’è un’indispensabile condizione preliminare – cioè produrre qualcosa di vendibile – che la Russia (materie prime a parte) da molto tempo non è in grado di soddisfare. E meno ancora dopo le sanzioni, che faranno male anche a noi (anche se il vero problema, quello del gas, ha ben poco a che fare con esse), ma alla Russia di più: infatti, hanno già causato una caduta del suo PIL superiore al 12% (giacché al -6% rilevato va sommato il mancato aumento di oltre il 6% atteso come “effetto rimbalzo” post-Covid).

Anche le esportazioni dalla Russia verso la Cina, ben lungi dall’aumentare, sono invece scese più o meno della stessa quantità. E teniamo presente che le entrate russe in questo periodo sono gonfiate artificialmente dall’assurda crescita del prezzo di gas e petrolio, che però è un fenomeno essenzialmente speculativo e quindi destinato prima o poi a finire, per cui in prospettiva il vero “rosso” del bilancio russo è ancor più grave, anche nei confronti della Cina.

D’altra parte, nei limiti appena descritti, entro i quali soltanto tale alleanza è possibile e oltre i quali non potrà in ogni caso andare, essa si è già verificata da tempo, addirittura prima dell’invasione dell’Ucraina, perché Putin sapeva perfettamente che ciò avrebbe segnato una rottura insanabile con l’Occidente. E non solo lo sapeva, ma lo voleva, giacché l’Occidente è sempre stato il suo primo e vero bersaglio, come si evince chiaramente dai suoi discorsi, in cui ha sempre messo al primo posto come motivazione dell’attacco che la Russia era stufa di essere considerata una potenza di serie B.

Di conseguenza, quello di cui dovremmo realmente preoccuparci non è come evitare che si crei un’alleanza tra Russia e Cina, ma piuttosto come spezzare quella, pur limitata, che già esiste: e l’unico modo è togliere di mezzo Putin, perché fino a quando ci sarà lui al potere, comunque vadano le cose, un riavvicinamento all’Occidente è impensabile.

Ora, se tutto quel che abbiamo detto fin qui è giusto, ne segue che la vera domanda non è tanto fino a dove deve arrivare la controffensiva ucraina, ma fino a quando. E la risposta non può essere che una: fino a quando Putin verrà abbattuto.

E questo momento potrebbe essere più vicino di quel che si crede. Negli ultimi giorni, infatti, Putin si è molto indebolito: ci sono chiari segni di disgregazione nell’esercito, composto in maggioranza da soldati di leva poco preparati e ancor meno motivati; la parola proibita “guerra” è stata pronunciata alla televisione, che pure è sotto il ferreo controllo del regime; diversi personaggi hanno richiesto pubblicamente le dimissioni di Putin; la “mobilitazione parziale” sta provocando rivolte e fughe di massa; il leader ceceno Kadyrov (praticamente una sua marionetta) ha criticato pubblicamente il modo in cui sono state gestite le operazioni militari e la mobilitazione; lo scellerato Patriarca Kirill ha pubblicamente pregato perché l’esercito russo non commetta più errori; e, soprattutto, il regime non riesce più a nascondere la verità alla popolazione.

Tutte queste cose erano inimmaginabili solo due settimane fa e l’esperienza insegna che in genere quando questi processi cominciano diventano rapidamente inarrestabili e finiscono con la caduta del regime. Ovviamente non possiamo averne la certezza, perché la storia non è un teorema di matematica, ma ci sono almeno ragionevoli speranze che lo stesso stia per accadere in Russia.

Anche la “mobilitazione parziale” proclamata da Putin non è una mossa strategica, ma solo il frutto dall’ostinazione di un uomo ormai completamente disconnesso dalla realtà. Non sono infatti i soldati che mancano al suo esercito, bensì i mezzi, che erano obsoleti già in partenza (anche se i nostri esperti militari per almeno due mesi sembravano non esserne consapevoli) e sono destinati a diventarlo sempre più, man mano che gli ucraini continueranno a ricevere armi tecnologicamente all’avanguardia e i russi a perdere le poche di cui disponevano. Richiamare i riservisti non cambierà quindi di una virgola i rapporti di forze al fronte, mentre rischia di cambiarli parecchio a Mosca.

E in fondo anche Putin lo sa. I grotteschi “referendum” per l’annessione delle pseudo-repubbliche del Donbass hanno infatti un’unica funzione, peraltro esplicitamente dichiarata: quella di rendere credibile la minaccia di usare le armi nucleari, che cominciava ad essere un po’ usurata dopo tanti proclami al vento, dichiarando le località che ancora restano in mano alla Russia parte integrante del suo territorio. E ciò significa che Putin è consapevole (anche se non lo ammetterà mai, nemmeno con sé stesso) che ormai non è più in grado di difenderle con le armi convenzionali.

Questo spiega anche perché non abbia neppure tentato di simulare una consultazione regolare, come anche le più sgangherate dittature del Terzo Mondo hanno sempre fatto, mostrando anzi sfacciatamente la gente che votava di fronte alle telecamere della televisione russa anziché in cabina elettorale, con i funzionari russi che indicavano dove mettere la croce sulla scheda. È come se Putin ci stesse dicendo: «Vedete? Io faccio quello che voglio. Posso tranquillamente sbattervi in faccia che i referendum nel Donbass sono una farsa e ciononostante annettermelo lo stesso. Quindi prendetemi sul serio anche quando dico che sono pronto a usare l’atomica».

E questo ci porta all’ultima questione, la più grave di tutte: fino a che punto dobbiamo prenderlo sul serio e, di conseguenza, fino a che punto possiamo sfidarlo?

Certo, il rischio esiste e non va sottovalutato. Ma neanche sopravvalutato. Perché non è che Putin giri con i missili nucleari infilati nel taschino della giacca. Quella del “bottone dell’apocalisse” è solo una metafora, che confonde le idee anziché chiarirle. Nessuno, neanche Putin, ha il potere di scatenare da solo una guerra nucleare. Perché ciò accada è necessaria l’attivazione di una complessa catena di comando che richiede la collaborazione di diverse persone all’interno del governo e dell’esercito.

Ora, Putin è probabilmente abbastanza pazzo per farlo davvero, ma è difficile credere che lo siano anche tutti quelli che dovrebbero collaborare con lui, pur sapendo che ciò comporterebbe l’annientamento totale del loro paese, compresi loro stessi e le loro famiglie. E ciò vale a maggior ragione dopo aver visto con i loro occhi dove Putin li ha portati con la sua ottusa ostinazione e la sua totale inettitudine: forse qualcuno potrebbe essere disposto a sacrificare tutto per un capo che ammira, ma chi lo farebbe per uno che disprezza?

Più realistica è invece la possibilità di un uso limitato di armi nucleari tattiche, di minor potenza e gittata, destinate al solo campo di battaglia, tanto più che la dottrina militare sovietica, che fin qui Putin ha seguito pedissequamente in ogni dettaglio, l’ha sempre contemplata, e non solo in funzione difensiva, ma anche offensiva (benché, ancora una volta, molti esperti militari nostrani sembrino ignorarlo). Tuttavia, anche questa opzione, esaminata attentamente, appare difficilmente praticabile.

Anzitutto, infatti, la linea del fronte è ormai così vicina al confine che solo ordigni di potenza molto limitata (e quindi anche di limitata efficacia) potrebbero essere usati senza rischiare di causare un fall-out radioattivo sulle zone contese del Donbass o addirittura sullo stesso territorio russo. Se poi gli ucraini dovessero entrare in questi territori, le armi nucleari dovrebbero essere usate addirittura al loro interno, sterminando quelle stesse popolazioni russofone che si vorrebbero proteggere.

Inoltre, intorno alle armi nucleari c’è un tale clima di terrore, in parte giustificato e in parte irrazionale (ma mai come in questo caso sia benvenuta l’irrazionalità), che contro il loro uso si è creato un “tabù” quasi sacrale. Se la Russia dovesse infrangerlo, susciterebbe un tale orrore in tutto il mondo che praticamente nessun paese (tranne, forse, la Corea del Nord e la Siria) sarebbe più disposto ad averci a che fare. Putin pagherebbe quindi un prezzo altissimo in cambio di un vantaggio militare molto limitato e ciò rende anche questa opzione piuttosto improbabile.

Certo, avendo a che fare con uno psicopatico un minimo di rischio inevitabilmente rimane, ma ci sono due considerazioni finali che, come suol dirsi, tagliano la testa al toro.

In primo luogo, per quanto pericoloso possa essere tentare di abbattere Putin, lasciarlo al potere in questa situazione lo sarebbe ancor di più perché, come ho già detto prima, si tratterebbe solo di una tregua, che lui sfrutterebbe per riorganizzarsi e preparare un’altra guerra ancor peggiore. Qualsiasi altra opzione, infatti, equivarrebbe ad ammettere la sconfitta, cosa che Putin non può fare, anzitutto perché la cosa è per lui semplicemente inconcepibile e poi perché non gli verrebbe mai perdonata e porterebbe ben presto alla sua fine.

In secondo luogo, se l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin si dovesse concludere con la sua caduta, ciò rappresenterebbe un potente deterrente anche per le mire cinesi su Taiwan. Ma se invece riuscisse a ricavarne un qualsiasi vantaggio, anche minore di quello sperato, questo per la Cina si tradurrebbe in un incoraggiamento a seguire la sua stessa strada, con conseguenze che sarebbero ben più gravi per il mondo intero.

Non è certo un caso, del resto, che l’Operazione Speciale di Putin sia scattata appena sei mesi dopo la vergognosa fuga dell’Occidente dall’Afghanistan. Sia la storia dell’umanità che quella personale di ciascuno di noi insegnano infatti univocamente che dimostrare di aver paura dei prepotenti ha sempre e soltanto un unico effetto: quello di farli diventare ancor più prepotenti.

P.S. Da ultimo, mi si consenta una parola sulla morte di Darya Dugina, che in tanti hanno condannato, compreso il Papa e, su questo sito, Cofrancesco, due persone che stimo moltissimo, ma che stavolta non riesco davvero a capire.

Certo, è normale che istintivamente l’uccisione di una donna inerme nella sua automobile ci colpisca più di quella di un soldato armato di tutto punto al fronte. Ma se superiamo la reazione emotiva e proviamo a usare la ragione, allora vorrei proprio che qualcuno mi spiegasse perché sarebbe lecito uccidere i sodati russi, perlopiù poveri ragazzi di leva che fanno quel che fanno solo perché costretti, mentre non sarebbe lecito uccidere una delle persone che più si è spesa perché fossero mandati a forza in Ucraina ad ammazzare e a farsi ammazzare.

Ancor meno capisco come Cofrancesco possa parlare al proposito di «atto terroristico». Terrorismo sarebbe stato se la bomba avesse ucciso dei civili russi innocenti: e qui sono d’accordo con lui che un atto del genere non sarebbe giustificabile, anche se è quello che i russi fanno regolarmente tutti i giorni in Ucraina, perché non si può combattere il Male con il Male.

Ma Darya Dugina non era affatto innocente. Collaborava attivamente col padre, Alexander Dugin, uno dei più fanatici intellettuali ultranazionalisti, teorico della guerra totale tra Russia e Occidente, nel sostenere l’invasione dell’Ucraina, Inoltre, dirigeva in prima persona un sito che sfornava fake news a getto continuo per giustificarla, sia in patria che nei paesi occidentali. Le sue parole hanno causato più morti di qualsiasi fucile, cannone o missile russo.

Ciò che faceva, anche se su scala più ridotta, era in buona sostanza ciò che Goebbels faceva per Hitler. E non credo proprio che né Cofrancesco né Papa Francesco avrebbero avuto nulla da ridire se qualcuno avesse messo una bomba sulla macchina di Goebbels (sempre poi che siano stati davvero gli ucraini, perché la versione russa fa acqua da tutte le parti; ma non è questo il punto).

Non si può mai essere contenti quando muore un essere umano. Ma, tra le tante morti assurde causate dalla sporca guerra di Putin, se ce n’è una che meno delle altre merita le nostre lacrime, ebbene, questa è proprio la morte di Darya Dugina.

 

Paolo Musso

Le tre sinistre

23 Settembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Quando, ormai più di un mese fa, sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica (e all’economia pianificata), come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda e i riformisti del Terzo polo rispondono: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, nel maggiore partito della sinistra italiana. Il Partito democratico tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate” un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

Molto dipenderà, credo, dal risultato elettorale o, più precisamente, dai rapporti di forza che potranno emergere fra i tre tronconi in cui la sinistra è oggi divisa. Per il Pd, il vero pericolo non è un’affermazione di Renzi e Calenda, che dopotutto rappresentano solo quel che il Pd avrebbe potuto diventare se avesse imboccato risolutamente la “terza via” tracciata da Blair, Clinton e Schroeder. Il vero pericolo è un’affermazione clamorosa dei Cinque Stelle guidati da Conte, un’eventualità che pochi prendevano in considerazione fino a poche settimane fa, ma di cui in questo finale di campagna elettorale si comincia a parlare come una possibilità reale. La base logica di questa congettura è che la fiammata elettorale che aveva sostenuto Salvini nel Mezzogiorno ai tempi della sua massima popolarità (2018-2019) si spenga, e che – grazie al tema cruciale del reddito di cittadinanza – a beneficiarne sia soprattutto il partito di Giuseppe Conte. Se il Pd dovesse scendere sotto il 20% e il Movimento Cinque Stelle dovesse superare il 15%, saremmo di fronte a uno scenario del tutto inedito: per la prima volta nella loro storia gli eredi del partito comunista si troverebbero con un vero concorrente a sinistra.

Un concorrente che potrebbero accusare di ogni male possibile – qualunquismo, assistenzialismo, inaffidabilità, impreparazione – ma che, per una parte degli elettori delusi dalla sinistra ufficiale, rappresenta “la vera sinistra”.

Luca Ricolfi

La zuppa di Porro

12 Settembre 2022 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPoliticaSocietà

Sulla guerra in Ucraina esiste una sola verità (e non è un bene)

Ormai sui giornali neppure il principio di far sentire ‘le due campane’ viene rispettato

di Dino Cofrancesco

Un vecchio amico—forse uno dei migliori storici contemporaneisti della sua generazione—mi dice: “C’è un solo modo per porre fine alla guerra russo-ucrai-na, fare pressioni su Mosca e su Kiev, perché accettino l’annessione della Crimea (un errore di Kruscev, come riconosciuto da Gorbachev) e un referendum nelle regioni contese del Donbass, sotto il vigile controllo dell’Onu, per chiedere alle popolazioni se intendono far parte dell’Ucraina o della Federazione russa”.

“L’alternativa è la prosecuzione di una guerra che sprofonderà l’Europa—e soprattutto l’Italia—nella peggiore crisi economica della sua storia, cementerà l’alleanza tra Mosca e Pechino, alla quale si aggiungerà Nuova Delhi, farà dell’Asia un dominion cinese (tranne il Giappone e Taiwan, difficile da difendere da un’invasione decisa da Xi) e ridurrà l’Europa, de facto, a una colonia degli Stati Uniti, che sono quelli che—con buona pace di Federico Rampini, divenuto Texas Ranger—hanno meno da perdere dal conflitto in corso. Gli intellettuali con l’elmet-to—quelli che oggi sono con l’America, malata, di Biden e di Trump e che ieri erano avversari irriducibili dell’America, sana, di Eisenhower e di Kennedy—e i politici, moderati o di sinistra, arruolati tutti nei marine non si rendono conto che l’Ucraina potrebbe essere la nuova Serbia e, come l’antica, portare a una guerra mondiale che oggi, con l’arma atomica, rischierebbe di distruggere non solo la civiltà occidentale ma ogni forma di vita sulla terra”.

“Saggiamente Washington non intervenne nel 1956 quando l’Armata rossa (che ancora si chiama così) invase Budapest: quello sovietico era l’esercito più potente del mondo e gli ungheresi vennero lasciati al loro destino per non precipitare l’Europa e il mondo nel caos. Oggi quasi sessant’anni dopo, non solo si è deciso l’intervento—questa volta per interposta persona—dinanzi a una Russia militarmente indebolita (secondo la massima: colpire il nemico quando è più debole) ma, contravvenendo a tutti gli impegni e le garanzie date a Mosca alla vigilia della caduta del Muro di Berlino, la Nato si è estesa in Europa orientale fino a lambire i confini russi. Se qualcosa di analogo fosse capitato a Stati Uniti e Canada—ad es. missili con testate nucleari in un’America centrale e meridionale colonizzate da russi e cinesi—la reazione sarebbe non meno dura di quella mostrata da Kennedy all’epoca dei missili a Cuba. Si sarebbe detto che un conto sono i missili che minacciano una democrazia, un altro conto sono quelli che minacciano un regime dittatoriale”.

“Tra l’altro va rilevato per inciso che la pace, anche quella imposta dal vincitore, nella società moderna post-totalitaria, non è sempre quella dei romani (“desertum fecerunt et pacem appellaverunt”): sia pure in condizioni difficili, è possibile salva-guardare qualcosa, come dimostrò l’accorto Janos Kadar, l’uomo imposto da Mosca alla guida del governo ungherese, che mise mano a riforme di qualche peso.

 Insomma finché c’è vita, c’è speranza e un’Ucraina dai confini più ridotti può continuare il suo processo di occidentalizzazione. Peraltro se i miliardi di dollari e di euro, destinati agli armamenti, venissero distribuiti alla popolazione civile di un paese, senza più Crimea e (forse) Donbass, gli ucraini avrebbero un tenore di vita superiore a quello svedese e finlandese”.

Confesso che non sono stato in grado di replicare alle considerazioni del mio amico. Le mie frequentazioni giornalistiche (da ’Atlantico’, l’organo del fondamentalismo occidentalista, al ‘Giornale’) sono tutte su una lunghezza d’onde diversa, se non op-posta e questo mi porta per lo meno a pormi la domanda scettica: “Dopo aver ascol-tato le argomentazioni degli uni e degli altri, que sais je veramente?”. Debbo anche dire che non pochi conoscenti e colleghi, in camera caritatis, esprimono opinioni ancora più radicali di quelle su riportate ma se ne guardano bene dal metterle per iscritto: rischierebbero di passare per amici di quell’autentico scoundrel di Putin e qualche volta—com’è capitato a me per aver consigliato a un’amica slavista il libro di Eugenio Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale, Rubbettino 2015—di perdere un’amicizia ventennale.

Sospendo, comunque, il mio giudizio sulla contesa politica e ideologica che sta dividendo l’Italia in campi avversi. Sarà la storia a decidere i torti e le ragioni. Le opinioni sono opinioni e tutte da prendere in considerazione ma una cosa, tuttavia, è certa e inconfutabile come un ‘giudizio di fatto’: quanti sono contrari alle sanzioni contro la Russia non hanno, per così dire, ’buona stampa’. Nel migliore dei casi ven-gono accusati di ignoranza (colpevole) di quanto sta avvenendo in Ucraina; nel peg-giore, passano per incalliti cinici, indifferenti ai valori alti dell’Occidente e preoccupati solo del rincaro del gas e della vita quotidiana in genere. Che migliaia di aziende chiudano i battenti, che si vada incontro a uno dei peggiori inverni della nostra storia, che in Ucraina continuino a morire ammazzati migliaia di militari russi e di militari e civili ucraini, sono preoccupazioni da panciafichisti, da “sciaurati che mai non fur vivi’. Nessun sospetto che, come capita sempre nel nostro malinconico mondo sublunare, possano esserci ‘valori’ da una parte e dall’altra, che l’etica dei principi (per cui la sovranità di uno Stato deve essere salvaguardata a costo di andare incontro a distruzioni irreparabili di vite e di beni) sia etica al pari dell’etica della responsabilità e che al ‘propter vitam, vivendi perdere causas’ si può sempre contrapporre l’osservazione che sotto terra non ci sono più buoni e cattivi, giusti o ingiusti.

Se si guardano i notiziari televisivi e si leggono i grandi giornali (i ’giornaloni’), a parte forse ‘Limes’, ci si rende conto che neppure il principio di far sentire ‘le due campane’ viene rispettato e che le rare volte che si citano fonti russe lo si fa per confermare la loro spudorata inattendibilità. Paradossalmente è nei periodici nordamericani che si possono trovare informazioni alternative (e certo non per questo veritiere). Gli articoli di grandi scienziati politici come John J. Mearsheimer , però, non vengono tradotti in italiano ed è una rivista catacombale come ‘Nuovo Arengario’ a segnalare il saggio di Ramon Marks No Matter Who Wins Ukrai-ne, America Has Already LostThere are multiple tough strategic realities for the United States to absorb. (‘The National Interest’ 21 August 2022).

Questa squalifica di chi non la pensa come noi è, forse, la peggiore eredità delle due culture totalitarie che tanto hanno inciso sul nostro sentire collettivo, il fascismo e il comunismo. Siamo il paese del ‘pensiero unico’: la verità sta solo da una parte—ieri il fascismo, il comunismo, oggi l’oltranzismo atlantista, il liberalismo mercatista, la santificazione (o per lo meno la giustificazione) degli Stati Uniti, qualsiasi cosa facciano. Forse aveva ragione, ahimè, il mio non amato Gobetti quando diceva che gli italiani non hanno spina dorsale morale.

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