Il dilemma del Partito Democratico

Come ogni anno dal 1948 in poi, il partito della “sinistra”, si chiami PCI o PDS o PD, si trova davanti ad una scelta importante, se non decisiva: correre in solitaria o quanto meno con le sole forze a lui affini, con il forte rischio di perdere, oppure fare alleanze, con il forte rischio di snaturare la propria proposta politica e con l’ulteriore rischio di perdere comunque.

La storia elettorale, da quel primo appuntamento in poi, ci dice che la prima scelta – la corsa più o meno solitaria – non è mai risultata vincente, né con le leggi più o meno maggioritarie degli ultimi trent’anni né, tantomeno, con quelle proporzionali della Prima Repubblica.

Il massimo storico del PCI è giunto nel 1976, con oltre il 34% dei voti, distanziato comunque di oltre 4 punti alla Camera e di 5 al Senato dalla Democrazia Cristiana e impossibilitato a formare una coalizione di governo maggioritaria, nemmeno con l’appoggio di tutte le altre formazioni di area social-comunista (dal Psdi a Democrazia Proletaria). Nell’epoca maggioritaria, Veltroni tentò la strada (quasi) solitaria nel 2008, raggiungendo una quota molto simile di consensi, che risultò comunque una debacle molto simile – anche se meno “cocente” dal punto di vista numerico – a quella antica del 1948.

Quello fu infatti l’anno della prima corsa solitaria, con la fusione elettorale con il Partito Socialista, che si trasformò appunto in una netta disfatta, con una quota di consensi di quasi venti punti percentuali inferiori alla Dc. Un primo evidente monito di quale potesse essere la scelta migliore, dal momento che solo due anni prima Pci e Psi, che correvano separati, ottennero sommandoli una percentuale di seggi e di voti nettamente superiore al loro principale avversario politico.

L’unica altra occasione in cui la “sinistra” risultò superiore alla “destra” unita (come noto, nel 1996 la Lega correva da sola) nella storia elettorale italiana avvenne nel 2006, quando Romano Prodi riuscì per pochi voti a battere Berlusconi ed il centro-destra grazie ad una coalizione dove vennero imbarcati tutti, ma proprio tutti, gli oppositori ai governi di Forza Italia. Una coalizione, è bene sottolinearlo, che ebbe comunque vita molto breve, di nemmeno due anni.

La storia ci racconta dunque che per vincere, sia pur di poco, la sinistra non può non allearsi con qualche altra forza politica. L’attuale Partito Democratico non era competitivo nemmeno quando, con Veltroni, viveva un momento di “euforia” da stato nascente. Oggi, ridotto al massimo al 25% dei consensi per essere ottimisti, certamente non può pensare di essere competitivo correndo in maniera solitaria.

D’altra parte, tra i suoi partner ideali al momento sembra esserci soltanto l’alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana (AVS), che può garantirgli un altro 5-6% che lo porterebbe intorno ad un terzo dell’elettorato votante attuale. Certo non sufficiente. Ha bisogno dell’appoggio di un’altra importante forza politica, che attualmente è rappresentata dal solo Movimento 5 stelle che, se fosse in salute, potrebbe garantire al Pd quell’ulteriore percentuale di voti da permettergli di diventare maggioranza.

Ma il problema è duplice: da una parte il M5s è chiaramente in crisi elettorale e, dall’altra, la possibile alleanza è piena di “buchi programmatici” di difficile risoluzione. Che fare dunque?

Una strada alternativa, ventilata da più esponenti in questi giorni, da Orvieto a Milano, potrebbe essere quella di far nascere una nuova formazione politica in grado di raccogliere il voto (il ritorno al voto) di tutti coloro che non si riconoscono pienamente nell’attuale Pd: cattolici di sinistra, lib-dem, centristi contrari al governo Meloni, astensionisti stufi di questa alleanza di destra.

I numeri parlano chiaro: è questa la sola ipotesi che può permettere alla sinistra di diventare competitivi con la destra, anche se è un’ipotesi che non piace a coloro che credono nelle capacità del Partito Democratico di incarnare – anche in solitudine – la vera alternativa all’attuale esecutivo. Ma se il Pd non è sufficientemente attrattivo, da solo non può farcela.

Università degli Studi di Milano




Manovre al centro – Una nuova Margherita?

Nei giorni scorsi, a proposito delle manovre in corso a sinistra, su Repubblica è uscito un articolo di Massimo Giannini con il titolo “Quale centro può servire alla sinistra”.

Il nucleo dell’articolo si può riassumere così: va benissimo aprire una discussione che allarghi al mondo dei cattolici e dei centristi il perimetro della sinistra ma, per carità, guardiamoci bene dal fondare un nuovo partito, perché il luogo in cui fare quella
discussione esiste già ed è il Pd.

Leggendo – il giorno dopo – le pagine della Stampa (altra testata del gruppo Gedi) dedicate ai due raduni dei riformisti a Milano (con Romano Prodi e Ernesto Maria Ruffini) e Orvieto (con Paolo Gentiloni e Enrico Morando), il messaggio che il lettore ricava è analogo. Un titoletto sottolinea il “no a nuovi partiti” di Romano Prodi, una intervista a Gianni Cuperlo avverte fin dal titolo che “vanno bene anche idee diverse, ma la casa comune dev’essere il Pd”. Esattamente il preoccupato ammonimento di Giannini.

Non so se – sul tema della nuova casa dei riformisti – la stampa progressista che conta abbia una sua linea politica, ma mi pare evidente che, dentro il Pd, l’eventualità di una rinascita di qualcosa di simile alla Margherita di rutelliana memoria suscita molte preoccupazioni. Certo, adesso un po’ tutti negano, ma la tentazione di mettere in scena qualcosa di nuovo, a destra del Pd, si scorge ad occhio nudo. E quindi ben si comprende che chi al Pd è affezionato, o crede nella sua insostituibilità come guida
della sinistra, non veda di buon occhio le manovre al centro.

La mia impressione è che entrambe le posizioni, di chi vuole affiancare il Pd e chi vuole arricchirlo dall’interno, abbiano ottime ragioni dalla propria parte. Chi in cuor suo è tentato di resuscitare la Margherita (ossia cattolici e liberal-socialisti) ha perfettamente ragione a prendere atto che la “fusione a freddo” fra Ds e Margherita è fallita, o meglio ha avuto successo solo nella stagione renziana (2014-018), l’unico breve periodo nel quale i riformisti non sono stati sopraffatti dai post-comunisti.

Dopo Renzi, e più che mai dall’avvento di Schlein, il Pd è tornato a essere quel che erano i Ds, ossia un partito di sinistra-sinistra, ostile al mercato e perenne ostaggio di tentazioni giustizialiste. Quindi ben si comprende che chi è stato sconfitto ed emarginato (cattolici e liberal-socialisti), ora provi a rialzare la testa.

Ma anche quanti, come Cuperlo e Giannini, vedono come fumo negli occhi la nascita di un partito di sinistra moderata hanno le loro buone ragioni. Fusione e scissione non sono operazioni simmetriche e reversibili. Quel che ieri si tentò fondendo Ds e
Margherita, non può essere disfatto oggi scindendo il Pd per estrarne miracolosamente la Margherita. È vero che le grandi manovre per occupare il centro pretendono di rivolgersi soprattutto a delusi e indecisi, ma è difficile pensare che non
finiscano anche per sottrarre voti al Pd, così riattizzando l’incendio che l’era renziana aveva fatto divampare, e che si è spento solo con la riconquista della “ditta” da parte della vecchia guardia ex comunista dei Bersani e D’Alema.

Né pare una soluzione convincente quella – suggerita da Ruffini – di costituire anche in Italia una “maggioranza Ursula”, visto che Forza Italia, l’unico partito di destra candidato a farne parte, non raccoglie neppure il 10% dei voti (8.3% secondo l’ultimo
sondaggio) e rischierebbe di rimpicciolirsi ulteriormente ove un eventuale nuovo partito moderato di sinistra dovesse vedere la luce di qui alla fine della legislatura.

A quanto pare la strada dei riformisti è impervia e costellata di rischi, qualsiasi cosa facciano. Sempre che, di qui al 2027, qualche catastrofico errore di Giorgia Meloni o dei suoi non spiani alla sinistra la strada per tornare al governo. Senza colpo ferire.

[articolo uscito sulla Ragione il 21 gennaio 2025]




Riforma della giustizia – La flebile voce dei liberali

Non succede spesso, in Parlamento, che 3 forze di opposizione su 6 votino con la maggioranza. Ma è successo pochi giorni fa alla Camera con la legge sulla separazione delle carriere dei magistrati, approvata con i voti dei tre partiti di maggioranza, ma anche grazie al voto favorevole di Azione (Carlo Calenda) e di +Europa, nonché all’astensione di Italia Viva, il partito di Renzi. Contro la legge, invece, hanno votato i partiti del “monoblocco” Pd+Cinquestelle+Avs che, a dispetto di alcune divergenze interne, quasi sempre vota compattamente contro tutto ciò che viene proposto dalla maggioranza.

Se guardiamo alla storia dei tre partitini di opposizione che hanno votato a favore della separazione delle carriere, nessuno può sorprendersi del loro comportamento. Renzi e Calenda sono sempre stati garantisti. Quanto a +Europa, è una formazione politica con ascendenze radicali: chi è sufficientemente vecchio ricorderà che più volte in passato (in particolare nel 1994 e nel 1996) i radicali sono stati alleati del centro-destra e di Silvio Berlusconi. Nessuno stupore, quindi, che – su una questione che ha a che fare con la libertà e i diritti dei cittadini – si siano trovati in sintonia con la maggioranza.

Si potrebbe pensare, dunque, che quella sulla giustizia sia una scappatella minore che – a tempo debito – non impedirà al campo
largo di ricompattarsi su tutto il resto.

Ma è così?

Nessuno può escludere l’ipotesi della semplice scappatella: la retorica antifascista e il racconto di imminenti gravissimi pericoli per la democrazia possono fare miracoli, sdoganando alleanze contro natura e la formazione (o meglio ricostituzione) di “fronti popolari” contro le destre-destre.

Ma se ragioniamo a mente fredda, e ci interroghiamo sul DNA di quei tre partitini non solo in ambito giudiziario ma anche e soprattutto sul versante della politica economico-sociale, non possiamo ignorare alcune circostanze fondamentali. Primo, tradizionalmente le proposte di politica economica dei Radicali hanno puntato sulla riduzione delle tasse e sul risanamento dei conti pubblici, non certo sull’ulteriore espansione della spesa corrente. Secondo, Renzi e Calenda hanno sempre avuto un occhio di riguardo per le istanze del mondo imprenditoriale e le esigenze della crescita. Terzo, il periodo renziano è stato l’unico, nella seconda Repubblica, che ha visto una apprezzabile riduzione della pressione fiscale.

Di qui la domanda: che succederà quando, in vista delle prossime elezioni politiche, i partiti del monoblocco dovranno spiegare dove troveranno le risorse per rafforzare sanità e scuola, e soprattutto chi (stato o imprese?) dovrà sopportare i costi del salario minimo legale.

È facile immaginare che Pd-Avs-Cinquestelle, anche senza rispolverare la vecchia campagna “anche i ricchi piangano”, non potranno esimersi dallo spiegare da dove andranno prese le risorse del loro costoso programma, e inevitabilmente si tornerà a parlare di patrimoniale (“chi più ha, più deve contribuire”), anzi di patrimoniale permanente, visto che tutti gli aumenti di spesa strutturali (ad esempio quelli per gli stipendi di insegnanti, infermieri e medici) non possono essere coperti con imposte una tantum. A quel punto, che faranno i tre partitini di matrice liberale?

Non credo che riusciranno a convincere i partiti del monoblocco a cercare le risorse con una severa spending review, e ancor meno credo che si lasceranno convincere a lasciar correre il debito pubblico, in plateale contrasto con le raccomandazioni dell’Unione Europea. In breve, i tre partitini che oggi dissentono dai maggiori partiti di opposizione solo sulla riforma della Giustizia, potrebbero domani trovarsi a dover dissentire anche sulla politica economico-sociale. E avrebbero pure tutte le ragioni per farlo. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, ma mentre si continuano (giustamente!) a denunciare le lunghe liste d’attesa negli ospedali, le aule fatiscenti nelle scuole, il permanente rischio idrogeologico, i bassi stipendi dei dipendenti pubblici, si dimentica che tutto ciò coesiste con una pressione fiscale record non solo in Europa ma rispetto a tutti i paesi avanzati, appartenenti all’Oecd (solo Francia e Danimarca fanno peggio di noi).

Basterà promettere che la lotta all’evasione fiscale risolverà tutto?

Forse sì, perché – fra le innumerevoli illusioni della politica – questa è l’illusione più dura a morire. Ma potrebbe anche succedere che i tre partitini non si scordino di un piccolo, cruciale, principio della politica economica: se non vuole innescare una drammatica implosione dell’economia, la lotta senza quartiere all’evasione fiscale deve servire ad abbassare le aliquote dell’economia legale, non certo ad alimentare una spesa pubblica corrente già largamente fuori controllo.

Insomma, la partita è incerta. Può essere che i partitini di ispirazione liberale, magari con il comprensibile obiettivo di non sparire, si lascino assorbire dalla “gioiosa macchina da guerra” del campo largo. Ma è anche possibile, e per alcuni auspicabile, che prevalga il desiderio di non sperperare un’eredità politica, e che la voce dei liberali non si estingua per sempre.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 gennaio 2025]




Sulla svolta di Zuckerberg – Requiem per il fact checking

La marcia indietro di Zuckerberg sul fact checking e sulle politiche di assunzione pro-minoranze sessuali ha verosimilmente origine nella pavidità, o meglio nella sete di potere. Il padrone di META fa indubbiamente parte dell’establishment, e non ha laminima intenzione – ora che a comandare sono Trump & Musk – di rinunciare alla propria centralità, con i vantaggi che ne conseguono in termini di denaro, potere, prestigio. La tesi che la svolta sia maturata da una riflessione sulla libertà nella Rete, messa a repentaglio dal gigantesco apparato di algoritmi-sentinella e cacciatori di fake news, è a sua volta un tipico esempio di fake news. La libertà della Rete non c’entra nulla, e non c’è nulla di realistico nell’idea che – lasciando miliardi di utenti liberi di scorazzare e insultarsi in Rete – la verità emerga, grazie alla “mano invisibile” del web. Quel che avremo, in realtà, sarà solo un po’ più di Far West.

Detto tutto questo, però, non sono in alcun modo fra quanti rimpiangono l’era del fact checking. E non lo sono per esperienza diretta, come cittadino e come studioso.

Come cittadino, non ho apprezzato il modo in cui, durante la pandemia e la guerra in Ucraina, la macchina del fact checking – per lo più in sintonia con la grande stampa e le grandi reti tv – ha impedito ogni discussione libera, documentata e intellettualmente onesta sul vaccino e sul conflitto Russia-Ucraina. Ricordate come veniva trattato chiunque dicesse che i vaccini erano sperimentali? o chi segnalava gli effetti avversi? o chi dubitava dell’eticità delle restrizioni alla libertà di circolazione?
o chi sosteneva che i vaccinati potessero trasmettere il virus?

Non solo. Ricordate come veniva redarguito chi, a proposito di guerra in Ucraina, non iniziasse il suo intervento premettendo che c’era un aggredito e c’era un aggressore? Ricordate l’etichetta di “putinismo” appioppata a chiunque dicesse qualcosa che potesse suonare come giustificazione, o attenuazione di responsabilità, della Russia? Ricordate quante voci un tempo autorevoli sono state cancellate dal dibattito pubblico perché non sufficientemente e non abbastanza convintamente schierate con la parte giusta?

E i cosiddetti fatti? Quante ipotesi su fatti non accertati sono state bollate come bufale complottiste, salvo poi ammettere – mesi o anni dopo – che erano vere, o non del tutto destituite di fondamento?

Ma veniamo al me studioso (sociologo e analista dei dati). Per mestiere sono stato per anni un frequentatore di siti di fact checking. Ebbene, la mia esperienza è stata la seguente: quasi sempre, dopo poche righe, capivo quale era l’intenzione del fact checker, ossia qual era l’obiettivo politico del suo lavoro di smontaggio, o debunking, come ora si preferisce chiamarlo. E altrettanto quasi sempre mi rendevo conto che lo scopo del fact checking era difendere, affermare, imporre qualche variante dell’ortodossia progressista.

Non è tutto però. Qualche volta, se il fact checking era firmato, andavo a vedere quali erano le credenziali scientifiche del fact checker. E invariabilmente dovevo constatare che non avevano nulla a che fare con l’argomento affrontato. Generiche competenze
in materia di comunicazione, lauree in discipline deboli, esperienze nei campi più svariati erano alla base di analisi che, fra gli studiosi, hanno sempre richiesto competenze approfondite e specialistiche.

Dunque, il fact checking è stato, in questi anni, fondamentalmente privo dei due requisiti che, soli, lo legittimerebbero: l’imparzialità e la competenza. Più che fact checking, è stato fake checking. Un disastro frutto di due grandi processi storici: da un lato, il “tradimento dei chierici”, che negli anni ’20 del secolo scorso – come spiegò a suo tempo Julien Benda – condusse gli intellettuali a schierarsi acriticamente con i fascismi e i nazionalismi, e negli anni ’20 del nostro secolo li vede compattamente schierati con il pensiero unico progressista; dall’altro, lo sdoganamento – in nome della democrazia – di tutte le opinioni e di tutte le fonti, un processo culminato con l’ascesa dei movimenti populisti e qualunquisti.

E ora?

Ora il quadro è in rapido cambiamento: stiamo passando da un Far West in cui gli sceriffi sono quasi tutti corrotti, a un Far West senza sceriffi.

Voi che cosa preferireste?

[articolo uscito sulla Ragione il 14 gennaio 2025]




Molestie di Capodanno – Dire la verità senza incitare all’odio

Fino a pochi giorni fa quasi nessuno, in Italia ma anche in Europa, aveva mai sentito espressioni come Taharrush Gamea (o Taharrush Jama’i) e Taharrush Jinsi, che si possono tradurre – rispettivamente – come molestie di gruppo e molestie sessuali. Da
qualche giorno se ne parla perché, secondo diversi osservatori, gli episodi che nella notte di Capodanno a Milano hanno investito quattro turiste del Belgio (e forse anche un’italiana e un’inglese) andrebbero ricondotti a pratiche collettive di origine egiziana, che in quel paese vengono indicate con quei termini. Tali pratiche, messe in atto in occasione di raduni di piazza con grandi folle, consistono nel circondare gruppi di donne mediante anelli concentrici di maschi, in modo che non possano fuggire, per poi aggredirle sessualmente con molestie, palpeggiamenti, e talora veri e propri stupri. Episodi simili, sempre a Milano, erano già avvenuti nel Capodanno 2021-2022, ed erano stati portati anche all’attenzione delle autorità europee per iniziativa della parlamentare europea Silvia Sardone. Ma i primi casi risalgono al 2005 in Egitto (per opera delle forze dell’ordine) e al 2011-2013, sempre in Egitto durante le cosiddette primavere arabe.

Vedremo nei giorni prossimi che cosa esattamente sia successo a Milano, e se i colpevoli, o almeno alcuni di essi, saranno identificati, rintracciati, denunciati (e magari puniti). Quello su cui qui vorrei soffermarmi, però, non è il caso italiano, ma il più vasto problema europeo delle violenze sessuali organizzate. Se l’opinione pubblica italiana non ha quasi mai sentito parlare di Taharrush Gamea (d’ora in poi TJ, per brevità) e di altre pratiche organizzate di sottomissione delle donne, lo stesso non si può dire di altre opinioni pubbliche, in particolare di quella tedesca e di quella inglese. Grazie al lavoro di un manipolo di giornalisti e studiosi (in Italia il sociologo Alberto Baldissera) le opinioni pubbliche europee sono sempre più informate (e preoccupate) per gli episodi di violenza collettiva, quasi sempre organizzata, subiti da donne per opera di gruppi di stranieri.

Ma è bene non confondere. Quel che è accaduto in alcuni paesi europei e nel Regno Unito è molto peggio (e in parte diverso) rispetto a quel che – finora – pare essere capitato in Italia. Due sono i fenomeni più macroscopici a livello europeo. Il primo possiamo definirlo “modello Colonia”, ed è comparso nel Capodanno 2015-2016 non solo nella città tedesca di Colonia, ma in numerose altre città europee come Amburgo, Salisburgo, Zurigo, Helsinky, Stoccolma. In sostanza si è trattato di una TJ rafforzata, per la quantità di donne coinvolte (molte migliaia) e per la gravità degli episodi denunciati.

Il secondo fenomeno, nettamente distinto, è quello delle “grooming gangs” (bande di adescatori, d’ora in poi GG), che da diversi decenni operano in tutto il Regno Unito adescando, insidiando, trasformando in schiave sessuali o costringendo alla prostituzione ragazze minorenni, per lo più bianche, spesso fragili o di umile condizione. Possiamo chiamarlo “modello Rotherham” dal nome della città dello Yorkshire dove lo scandalo è venuto alla luce per la prima volta nel 2011, salvo poi rivelare il suo radicamento in decine di città inglesi, comprese Oxford, Bristol, Newcastle, Halifax, Brighton.

Ciò che i modelli, tra loro piuttosto diversi, di Colonia (TJ) e Rotherham (GG), hanno in comune è quella che potremmo chiamare la “doppia tipicità” delle vittime e degli autori dei crimini sessuali. Le prime sono, tipicamente, donne europee bianche, non di rado minorenni. I secondi, altrettanto tipicamente, sono maschi non europei, spesso giovani, quasi sempre appartenenti a gruppi etnici o religiosi specifici (pakistani, islamici, nord-africani). Di qui l’esplosività della questione per l’opinione pubblica, e l’imbarazzo delle autorità politiche. Perché – non possiamo nascondercelo – il tratto comune di questa lunga storia è stato, in tutti questi anni, il disperato e spesso maldestro tentativo delle autorità (soprattutto tedesche e inglesi) di occultare il contenuto etnico delle migliaia di episodi venuti alla luce. In tanti casi, per evitare l’accusa di razzismo, funzionari pubblici e autorità di polizia hanno preferito nascondere, minimizzare, travisare il corso effettivo delle cose.

Si può ben comprendere la ragione ultima di tanti silenzi, tante reticenze, tanti depistaggi: impedire che l’ira dell’opinione pubblica si indirizzasse su interi gruppi etnici anziché sui singoli autori di reati. E, sul piano politico, evitare che risentimento e odio verso gli stranieri portassero consensi ai partiti di estrema destra, per lo più vissuti come reincarnazioni del fascismo e del nazismo.

E tuttavia, come non vedere l’ingenuità e la supponenza di questa linea di condotta?

Ingenuità, perché non ci si è resi conto che se l’estrema destra avanza un po’ dappertutto in Europa è anche perché, per troppi anni, su vicende di questo genere si è sorvolato, i colpevoli non sono stati individuati, né condannati, né messi in condizione di non nuocere. Supponenza perché addomesticare i fatti, o oscurare la nazionalità e la religione degli autori di crimini sessuali, non è solo un’offesa nei confronti delle donne assalite o sfruttate, ma è un segnale di sfiducia – di profonda sfiducia – nelle capacità di giudizio dei cittadini, trattati come persone incapaci di ragionare, distinguere, capire i nessi fra le cose.

Ai quali cittadini, certo, è sempre bene ricordare che la responsabilità è individuale, e che ogni generalizzazione a partire da casi particolari è arbitraria. Purché, al contempo, non si rinunci al primo dovere di ogni onesto politico, funzionario, studioso o cronista: cercare la verità, non nascondere i fatti.

[articolo uscito sul Messaggero il 12 gennaio 2025]