Ma il merito è un ascensore sociale

Poiché l’egemonia incomincia con nuove parole e le parole sono pietre, è con queste che il nuovo governo di Destra/Centro – ma il Centro vi è ormai appeso come una lampadina sull’albero di Natale – sta cercando di lastricare il proprio faticoso cammino. Ecco dunque comparire il MIM, Ministero dell’Istruzione e del Merito, ultima tappa della lunga marcia delle sigle: dal MIP del Regno d’Italia al MEN del Fascismo, al MIP, al MIUR, al MI, al MIM…

E’ bastato dichiarare l’intenzione di appiccicare quella M sul frontone del palazzone di Viale Trastevere 76/A, perché, per riflesso pavloviano, insegnanti, pedagogisti, opinionisti ponessero mano alla pistola ideologica, dalla quale sono usciti proiettili quali “esclusione”, “selezione di classe”, “iniquità”, “diseguaglianza”, “macelleria sociale”, “Don Milani”… “Merito” è risuonata come una bestemmia nel silenzio della chiesa della sinistra.  Si tratta di proiettili a salve, che offrono solo un fuoco fatuo di copertura alla scuola italiana di oggi, che è realmente una “scuola di classe”, una scuola iniqua.

Ci sono due tipi di merito: “il merito del talento” e “il merito della prestazione”.

Quanto al primo: è lo sforzo di investire i talenti che gli individui si trovano nello zaino. Tutti hanno dei talenti, fosse pure solo la capacità di fischiare, come prese atto una volta Don Bosco, parlando con un ragazzo della Torino povera. Vi sono poi quelli che, nel lessico dell’OCSE-Education, sono i “gifted”, cioè  i “plus-dotati” o “iperdotati” o “ad APC” – ad  Alto Potenziale Cognitivo. Costoro hanno dei talenti superiori alla media. In ogni caso, non c’è propriamente merito nell’avere talenti. Esso scatta solo quando compare lo sforzo di farli fruttare, non importa a quale livello sociale la lotteria della vita collochi i talentuosi.

E’ a questo tipo di “merito” che si riferisce l’art. 34, ai commi 3 e 4: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”; “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Appare, dunque, ben strano che oggi alla sinistra, sempre pronta a gridare al tradimento della Costituzione, il lemma “merito” appaia così politically incorrect.

“Il merito” è una conquista delle lotte storiche dei Movimenti operai, fin dalla seconda metà dell’800, così come lo era stata a suo tempo della Borghesia rispetto al sistema feudale dei Ceti. Una volta al potere, la Borghesia aveva tenuto il merito solo per sé. I Movimenti operai socialisti, comunisti, cattolici lo rivendicarono per tutti. Muovendo i primi passi con le Mutue, con le Leghe, con i Fasci, con le Cooperative, con i Sindacati riuscirono a strappare allo Stato liberale i primi provvedimenti relativi all’Istruzione, alla Sanità, all’Assistenza. Diventati partiti politici, rappresentati in Parlamento e entrati nei governi, riuscirono a costruire un sistema di Welfare, che, nel settore dell’Istruzione, dava a tutti, almeno nella proclamazione di diritto, la possibilità di farsi strada fino ai livelli più alti. L’art. 34 ne costituisce, appunto, la piattaforma di diritto più nota e più definitiva.

Facile a scriversi in Costituzione, molto più difficile a realizzarsi nella società. Perché iI sistema scolastico italiano continua a mal/funzionare in modo pre-costituzionale. Non riconosce il merito, lo umilia e lo scoraggia. Non riconosce i livelli diversi, ignora che ciascuno è diverso. Come spiegava don Milani, ipercitato a seconda dei propri comodi, la scuola è di tutti, se è scuola per ciascuno, perché “nulla è più ingiusto che far parti uguali tra disuguali”.

E’ cresciuto il tasso di scolarizzazione, ma sempre troppo basso rispetto al resto d’Europa. La percentuale dei NEET (Not in Education, Employment or Training) è arrivata negli anni al 25,1%, raggiungendo quota 3.047.000. Abbiamo più NEET rispetto a tutti gli altri Stati dell’Unione europea. Il tasso di analfabetismo funzionale sta crescendo, non solo quello di ritorno, ma anche quello in uscita dalla scuola dei quindicenni.

Quanto al “merito della prestazione”. Che succede in Italia? Se sei una donna, piena di talenti e impegnata ad investirli, almeno quanto un maschio talentuoso, non avrai affatto le stesse possibilità né di stipendio né di carriera del suddetto. A scuola no, la donna ha la stessa possibilità di un maschio: cioè zero per tutti! Qui, in effetti, funziona un’altra legge, che parifica maschi e femmine: se sei un insegnante capace e meritevole, non perciò avrai uno stipendio più alto di un insegnante incapace o lavativo. Nell’universo scolastico, dove regna la diseguaglianza reale dei meriti e delle prestazioni, questa viene nascosta sotto il tappeto ipocrita dell’uniformità giuridico-sindacale. Nella vulgata ministeriale-sindacale, tutti gli insegnanti sono bravi allo stesso modo e tutti fanno il mestiere allo stesso modo. Quando Luigi Berlinguer avanzò nel 1999 l’idea di fare uno screening valutativo degli insegnanti, ne fu travolto e licenziato.

Così, in nome della retorica dell’inclusione e dell’eguaglianza, il sistema di istruzione genera dall’interno e sottoproduce esclusione reale, cioè impreparazione, analfabetismo e frustrazione professionale. Ciò accade in misura particolare e massiccia nella scuola meridionale. Nel caso dei ragazzi, tale esclusione rimbalza sulle famiglie. Così quelle abbienti mandano i figli nelle Università del Nord, più hanno soldi e più a Nord li mandano. I ragazzi di quelle povere gironzolano nella piazza del paese con la pensione dei nonni e con il reddito di cittadinanza.

Come si può rimediare alla scuola della diseguaglianza, quella che Luigi Berlinguer ha ancora recentemente denunciato come “scuola di classe”? In due modi.

Il primo richiede riforme istituzionali profonde del quadrilatero del sistema scolastico: Curriculum, Ordinamenti, Politiche del personale (differenziazione di carriere e stipendi, reclutamento diretto da parte delle scuole), Autonomie. Non le ripropongo qui, per l’ennesima volta. Mi limito realisticamente a rilevare che né la destra sociale né quella sovranista, oggi al governo, né la sinistra politica e sindacale né quella populista, oggi all’opposizione, dispongono delle risorse culturali e intellettuali e della volontà politica sufficienti a rovesciare il modello di organizzazione statal-centralistica dell’istruzione, adottato nel 1859. L’assetto centralistico del sistema di istruzione e quello dello Stato amministrativo sono organicamente legati. Non si può voler cambiare l’uno senza voler cambiare l’altro. Finora si intravedono solo delle velleità.

Il secondo modo di contrasto si può praticare qui e ora in ogni istituto scolastico. Ed è decisivo. Gli insegnanti devono valutare e certificare senza indulgenze e senza sconti il livello reale di acquisizione del sapere e della costruzione del carattere dei loro ragazzi. Devono dire la verità ai ragazzi e alle loro onniprotettive e invasive famiglie. Solo la verità meritocratica è inclusiva, perché essa serve a stimolare soprattutto i più poveri socialmente e culturalmente. Sapere e carattere sono i tiranti dell’ascensore sociale. Se gli insegnanti non sono esigenti e rigorosi, quando interrogano o quando sono riuniti in scrutini ed esami, se non applicano severamente il principio meritocratico, finiscono per danneggiare i meritevoli, ma privi di mezzi. Quanto agli immeritevoli, ma ricchi di famiglia, trovano sempre una strada grazie al capitale economico o relazionale di papà. Il lassismo e il facilismo, praticati al fine dichiarato dell’inclusione, si rovesciano in esclusione. Certo, la severità è faticosa e impopolare, gli avvocati di famiglie – abbienti! – sono in agguato, i Presidi sono ormai tutti costretti a dotarsi di avvocati, gli insegnanti sono più tranquilli con il laisser faire, laisser passer.

Perciò, se resta dubbio che il maquillage della M fosse necessario, di certo non è sufficiente. Il Ministro Valditara lo sa.




Se Genova cominciasse a ricordare i suoi geni!

Mi è capitato tra le mani un vecchio libro, il Dizionario degli scrittori liguri  di Federica Pastorino e Marilena Venturini (ed. De Ferrari 2007), che ho sfogliato con crescente, divertita, incredulità. E’ il tipico prodotto di una ‘scuola di pensiero’—quella del coordinatore Francesco De Nicola—diffusa nelle città di provincia, dove le storie si scrivono, soprattutto, per ricordare parenti e amici. <Omis-sioni o ammissioni—spiega De Nicola, allora Presidente del Comitato di Genova della ’Dante Alighieri’—nascono dal giudizio di chi non rinuncia ad esprimere le proprie valutazioni nel compilare un dizionario, opera apparentemente solo informativa>. Già l’informazione non deve essere stata la preoccupazione principale dello staff di italianisti che si sono accinti alla benemerita impresa editoriale. Mancano, ad es., figure come Gianni Baget Bozzo—uno dei più geniali polemisti cattolici del suo tempo-, il critico cinematografico Claudio G. Fava, il regista Pietro Germi—una delle icone del cinema italiano—il filosofo Giuseppe Rensi etc. etc. Due omissioni, però, mi sembrano particolar-mente significative: quella di Giovanni Ansaldo—forse il maggiore giornalista italiano del 900—e di Vilfredo Pareto, l’economista-sociologo, assieme a Max Weber e a Emile Durkheim, fondatore delle moderne scienze sociali.

Come mai la Superba ha dimenticato queste sue glorie e, in particolare, Pareto, che tutto il mondo intellettuale ci invidia? Forse per entrambi hanno giocato   posizioni politiche  che non rientrano nel mainstream ideologico della sinistra, tant’è che nessuna via, piazza, scuola pubblica—come ho fatto rilevare altre volte—è stata dedicata ai due ‘immortels’ genovesi. E’ vero che non possono rivendicare meriti ‘resistenziali’ (Pareto, tra l’altro, morì nel 1923) ma la cultura politica di un popolo che si rispetti rende omaggio a tutti i suoi geni, conservatori o progressisti che siano. In Francia Chateau-briand non è meno celebrato di Victor Hugo. Fu un Presidente della Repubblica ligure  a consegnare, nel 1982, la ‘Penna d’oro’ a Giuseppe Prezzolini e a ringraziarlo per le sue critiche dei costumi politici nazionali. Oggi Sandro Pertini sarebbe censurato dall’Anpi!

Dino Cofrancesco

Presidente dell’Associazione Culturale Isaiah Berlin

dino@dinocofrancesco.it




Follemente corretto (2) – Cieco e nano, la fine dell’ironia

Che, da tempo, il politicamente corretto stia evolvendo in follemente corretto lo sapevo. E’ questo, del resto, il motivo per cui ho cominciato a parlarne qui e altrove.

Di vere e proprie follie ne ho scovate decine, soprattutto nei paesi di lingua inglese, a partire dagli Stati Uniti. Per esempio che non si può vendere uno shampoo per capelli “normali”, perché altrimenti qualcuno potrebbe sentirsi anormale se compra uno shampoo per capelli secchi.

Però qualche giorno fa, girovagando su internet, mi sono imbattuto in un caso che supera tutti quelli che avevo incontrato e catalogato (sì, ho questa perversione, faccio collezione di follie).

Ebbene, si tratta di questo. In un breve editoriale pubblicato sul portale dell’Università di Padova, uno studioso che si occupa di biologia evoluzionistica racconta che sta per pubblicare negli Stati Uniti un testo di argomento scientifico (l’evoluzione), e che la correttrice di bozze della casa editrice gli ha chiesto di cambiare alcune parole. Due in particolare: cieco e nano, in quanto offensive per i non vedenti e le persone di bassa statura.

La solita ipocrisia degli eufemismi, penserete voi. E invece no. Lo studioso nel suo libro usava l’aggettivo cieco per parlare della selezione naturale che è cieca (cioè non segue un piano). E usava la parola nano per parlare di una specie particolare di elefanti, detti elefanti nani, per cui l’essere di dimensioni ridotte può essere vantaggioso, in quanto abitanti di isole piccole.

Finito di leggere il resoconto, ho pensato a uno scherzo. Magari lo studioso in questione non esiste, o è un dottorando burlone che si diverte a prenderci in giro, o vuole denigrare gli Stati Uniti. Quindi ho controllato: in realtà lo studioso in quesitone esiste, si chiama Telmo Pievani, ha studiato in Italia e negli Stati Uniti, attualmente è docente ordinario di Filosofia delle scienze biologiche, ha incarichi nazionali e internazionali prestigiosi, un mare di pubblicazioni, un curriculum accademico splendido.

Quindi la mia ipotesi era sbagliata: non siamo davanti a uno scherzo. Dobbiamo trovare un’altra spiegazione. Se una correttrice di bozze non capisce che “evoluzione cieca” e “elefante nano” sono espressioni che non possono offendere nessuno, una ragione deve esserci.

Ma quale può essere?

E’ a questo punto che mi sono tornati in mente alcuni studi recenti che, come sociologo che per trent’anni ha lavorato con gli psicologi, mi avevano molto incuriosito. Secondo questi studi il quoziente intellettivo (QI) dei cittadini dei paesi sviluppati sarebbe aumentato sistematicamente per più di mezzo secolo (dagli anni ’40 alla fine degli anni ’90 del secolo scorso), ma nel nuovo millennio sarebbe in diminuzione. Il primo effetto (aumento QI) viene chiamato effetto Flynn, il secondo (diminuzione QI) viene chiamato effetto Flynn inverso, o retrogrado.

Ho sempre guardato con scetticismo a questo tipo di studi, pieni di insidie statistico-matematiche. Ma, dopo aver appreso quel che è capitato al prof. Pievani, sono meno scettico. E se fosse proprio così, che stiamo diventando meno intelligenti?

Dopotutto quel che la correttrice di bozze ha manifestato è una totale mancanza di ironia. E la letteratura scientifica su una cosa è concorde: l’ironia è la testimone migliore dell’intelligenza.




Oltre il reddito di cittadinanza

Non sappiamo ancora che tipo di sussidio, esattamente, prenderà il posto del reddito di cittadinanza, ma sappiamo quali sono gli obiettivi del governo. Il primo è ridurre drasticamente il numero di percettori indebiti, il secondo è di minimizzare il numero di percettori che percepiscono il sussidio pur essendo in condizione di lavorare.

Su questi due obiettivi è difficile dissentire, anche se sarebbe il caso di aggiungerne un terzo: portare vicino a zero il numero di famiglie escluse dal sussidio nonostante siano in condizione di povertà assoluta (sappiamo cha il reddito di cittadinanza attuale ha anche questo difetto).

Ebbene, dei tre obiettivi, quello cruciale è il secondo: offrire un lavoro agli occupabili, specie nelle fasce di età giovanili. Proprio per questo, mi pare che sarebbe estremamente importante che, nella manovra, oltre ai provvedimenti di sostegno del reddito delle fasce deboli (bollette, pensioni, carta acquisti, ecc.), fossero presenti interventi volti specificamente ad aumentare l’occupazione.  Non dobbiamo dimenticare che, degli innumerevoli problemi italiani, quello di avere pochi occupati è il più clamoroso: per diventare un normale paese europeo ci mancano 3 milioni di occupati, per diventare un paese europeo virtuoso ce ne mancano ben 7.

Ma come si fa a sostenere l’occupazione in un contesto di risorse scarse?

Una via ragionevole potrebbe essere, per cominciare, quella di ridisegnare il sussidio in modo più simile al vecchio “reddito di inclusione” (REI), per ridurre i barocchismi e le sovrapposizioni di competenze Anpal-Regioni-Comuni connesse all’architettura del reddito di cittadinanza (è questa una delle proposte che Carlo Calenda ha sottoposto a Giorgia Meloni nell’incontro di qualche giorno fa).

La mossa decisiva, però, potrebbe essere un’altra. Giorgia Meloni potrebbe riprendere la vecchia idea del maxi-job, una proposta messa a punto dalla Fondazione Hume nel 2014, e che allora aveva ricevuto – oltre a quello di Giorgia Meloni stessa – il sostengo di Susanna Camusso, leader della Cgil.

Di che cosa si tratta?

In estrema sintesi: azzerare i contributi sociali sui posti di lavoro veri e aggiuntivi. Dove “veri” significa a tempo indeterminato, per almeno 32 ore settimanali. E “aggiuntivi” significa tali da aumentare il numero di occupati dell’impresa.

Il vantaggio di questa misura è che, se i posti di lavoro aumentano di più di quanto sarebbero aumentati in sua assenza, la decontribuzione si autofinanzia. Ogni posto di lavoro creato in virtù della decontribuzione, infatti, oltre a generare Pil aggiuntivo, genera gettito aggiuntivo, sotto forma di introiti statali addizionali sul reddito (Irpef) e sui consumi (Iva). Il costo della decontribuzione, in altre parole, è coperto dalla spinta che la decontribuzione stessa è in grado di imprimere alla dinamica dell’occupazione e del Pil.

Naturalmente si può discutere della efficacia di questa misura, ma il punto resta. Nessuno, ormai, neppure il movimento Cinque Stelle, difende il reddito di cittadinanza così come ha funzionato fin qui. Quindi che lo si debba cambiare è pacifico. Quello che non è chiaro è con quali strumenti, e grazie a quali soggetti (Regioni, Comuni, imprese), offrire opportunità di lavoro alla maggior parte, se non alla totalità, dei percettori occupabili. Che sono tanti (circa 650 mila) ma non tantissimi. Offrire a tutti o quasi un’occupazione, o un corso di formazione, o lavori socialmente utili, non dovrebbe essere un’impresa impossibile. E sarebbe pure un modo per risolvere l’altro problema rimasto sul tappeto, ossia quello dei poveri non raggiunti dal reddito di cittadinanza. Togliere il reddito a chi non ne ha diritto e a chi trova un lavoro genera risparmi significativi: sarebbe un bel segnale che una parte di tali risparmi andasse a correggere l’altra grande stortura del reddito di cittadinanza, ossia la sua incapacità di raggiungere tutti i poveri.

Luca Ricolfi




Follemente corretto (1a puntata) – Atlete sotto schiaffo

Forse ricorderete che, ai tempi della discussione sul Ddl Zan, a prendere nettamente posizione contro di esso furono non solo un manipolo di studiosi di sinistra e molte associazioni cattoliche, ma anche una parte non trascurabile del mondo femminile e di quello LGBT, a partire da Arcilesbica. Tra le ragioni dell’opposizione, in quest’ultimo caso, vi era l’art. 1, che pareva aprire la strada alla cosiddetta autodeterminazione del genere (self-id), ossia al diritto di definirsi maschio o femmina indipendentemente dal genere biologico e da qualsiasi percorso di transizione (cambio di sesso).

Fu la scrittrice e giornalista Marina Terragni, in particolare, a segnalare la pericolosità e la follia di questa specie particolare di politicamente corretto: se può decidere arbitrariamente il proprio genere, il maschio che ama percepirsi come femmina (ma che conserva un corpo maschile), potrà accedere agli spazi riservati alle donne, ad esempio nei reparti femminili delle carceri, o nelle competizioni sportive.

Inutile dire quanto temibile sia la prima possibilità (carceri) e quanto iniqua sia la seconda (gare sportive). Quel che non tutti sanno, però, è che entrambe queste possibilità non sono teoriche, ma si sono già realizzate. In Canada, in California, nello Stato di Washington, da qualche tempo esistono leggi che, di fatto, consentono a carcerati maschi autoidentificati come femmine di accedere ai reparti femminili.

Ma il caso forse più interessante è quello delle competizioni sportive. Nel nuoto, ad esempio, a Lia Thomas, nata maschio ma in transizione a femmina, è stato concesso di gareggiare con le nuotatrici anziché con i nuotatori, così sbaragliando le povere atlete donna.

Pochi giorni fa la Fina (Féderation Internationale de Natation) ha finalmente fatto retromarcia, e pare avviata a non consentire più – in futuro – lo svolgersi di gare così inique. La vera domanda, però, non è perché abbia cambiato posizione. La vera domanda è come abbia potuto, in passato, assumerne una posizione così folle.

Non mi porrei questa domanda se, nei medesimi giorni in cui la Federazione Internazionale Nuoto faceva marcia indietro, non fosse giunta la notizia che, invece, la Federcalcio tedesca faceva marcia avanti: dalla prossima stagione, nel calcio giovanile, le “persone transgender, intersessuali e non binarie” potranno decidere se giocare nei tornei delle donne o in quelli degli uomini (indovinate che cosa sceglieranno…).

E allora proviamo a rispondere, a quella domanda. Come mai, prima del nuoto internazionale, poi nel calcio germanico, le atlete donna non hanno alcuna tutela dall’intrusione di maschi più o meno trasformati? Come mai le federazioni sportive violano con tanta leggerezza un principio cardine dell’etica dello sport, e cioè che le competizioni devono essere eque? Come mai continua ad apparire ovvio – anche in questi tempi di follemente corretto – che non si può far combattere un peso massimo con un peso piuma, ma del medesimo principio improvvisamente ci si scorda quando si tratta di garantire alle donne l’equità delle competizioni in cui sono impegnate?

L’unica riposta che vedo è la seguente: il potere intimidatorio della lobby Trans è molto superiore al potere di pressione delle lobby femminili. Sul perché le cose stiano così, avrei pure qualche idea, ma ne parleremo in un’altra puntata.