I sacrifici nascosti

È sempre stato difficile entusiasmarsi per i contenuti della legge finanziaria, un istituto che cambia spesso nome (adesso si chiama Legge di Bilancio) ma resta più o meno lo stesso da parecchi decenni. La ragione è che, da quando ci siamo accorti che
non possiamo esagerare con la spesa pubblica in deficit, trovare la quadra è diventato maledettamente complicato, per qualsiasi governo. Ogni esecutivo si presenta all’appuntamento con l’obiettivo di esibire alcuni provvedimenti positivi, tipicamente
più spesa sociale e meno tasse, ma si trova di fronte il problema di trovare le “risorse” per finanziarli. E dato che tali risorse sono invariabilmente tagli di spesa più o meno virtuosi e incrementi di entrate più o meno dolorosi, non è facilissimo convincere gli
elettori che il gioco valga la candela.

Quello che non è sempre evidente, però, è che i cambiamenti che la Legge di Bilancio produce sono, quasi sempre, abbastanza modesti. Tanto più quando, come accade quest’anno, il Patto di stabilità europeo torna a pesare sulle scelte delle classi
dirigenti nazionali: il Piano strutturale di bilancio appena approvato dal Parlamento disegna, di qui al 2029, un cammino molto stretto.

In questi giorni è in corso una discussione, talora molto accesa, sulla riduzione delle tasse. Il governo pretende di averle ridotte, e promette di continuare a farlo nei prossimi anni, l’opposizione nega che la pressione fiscale sia in discesa, e minaccia – per quando vincerà le elezioni – nuove tasse per i ricchi. La realtà è che, per ora, mancano i dati per fare affermazioni perentorie. È vero che, dal 23 settembre scorso, disponiamo di dati di contabilità nazionale rivisti e aggiornati dall’Istat, ma in
compenso mancano ancora stime aggiornate sull’economia sommersa e non è stato ancora presentato il Dpb (Documento programmatico di bilancio), che dovrebbe essere trasmesso alla Commissione Europea nei prossimi giorni. Inoltre, i documenti
finora resi pubblici sono assai meno analitici e informativi di quelli presentati in passato con la Nadef (Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza).

Prendendo atto dei pochissimi dati finora comunicati dai vari soggetti che si occupano di conti pubblici, quel che si può dire è che la pressione fiscale nominale, dopo essere leggermente diminuita nel 2023 rispetto al 2022 (-0.2%), è prevista in aumento sia quest’anno (+0.8) sia l’anno prossimo (+0.2). Questi dati, tuttavia, sono del tutto insufficienti a rispondere all’interrogativo che più interessa: come è andata e come andrà la pressione fiscale reale, che tiene conto del peso dell’economia sommersa? Un aumento della pressione fiscale nominale, infatti, può anche essere il risultato di un maggiore recupero di gettito evaso, e può coesistere con una diminuzione della pressione fiscale effettiva, che è quella che si esercita sulle attività regolari. Purtroppo, non essendo ancora stato pubblicato il Documento programmatico di bilancio (Dpb), e mancando dati aggiornati sull’economia
sommersa, non siamo in grado di trarre alcuna conclusione solida.

Quello che però mi sembra di poter dire è che, comunque, gli onerosi impegni presi con le autorità europee di qui al 2029 limitano e continueranno a limitare enormemente gli spazi di manovra di questo governo (che scadrà nel 2027), ma anche di quello successivo: chiunque governerà e vorrà mantenere delle promesse elettorali, non potrà farlo senza chiedere sacrifici più o meno espliciti e più o meno diretti a segmenti dell’elettorato. Quindi la vera domanda, per entrambi, non è che cosa farete, ma è a spese di chi.

Questo è ovviamente vero per l’attuale governo, che dopo aver alleggerito la pressione fiscale sui ceti bassi e medio-bassi, ora si accinge a fare qualcosa per i ceti medi. Sarebbe importante capire se a pagare il conto saranno chiamati gli evasori, le grandi imprese (tassa sugli extraprofitti?), o i bilanci dei ministeri, con inevitabili ricadute sulla spesa sociale.

Ma il principio dovrebbe valere, per certi versi ancora di più, per l’opposizione. Perché l’opposizione ha un privilegio indebito: quello di poter delineare la sua finanziaria senza un vero vincolo di bilancio, dal momento che tutte le sue misure sono “sulla carta”, ovvero non soggette alle severe regole del bilancio pubblico. Oggi il governo in carica si affanna per trovare 10 miliardi (0.5% del Pil) che mancano alla sua manovra, ma anche solo portare la spesa sanitaria al 7.5% del Pil e rifinanziare il comparto scuola (due delle priorità dell’opposizione) avrebbero costi ben maggiori.

Quanto al salario minimo legale, un’altra misura bandiera dell’opposizione, nessuno ha ancora calcolato quanto costerebbe in termini di chiusure di micro-attività e conseguente riduzione dei posti di lavoro.

Insomma, il problema è fare le domande giuste. Tagli di spesa pubblica e aumenti di gettito fiscale sono la norma in qualsiasi finanziaria, comprese quelle passate dei governi di centro-sinistra. In tempi di vincoli europei i margini sono sempre stretti, e i
sacrifici inevitabili. Nasconderli è inutile. Perché la domanda giusta non è se si possano o no chiedere sacrifici agli elettori, ma se ciò per cui vengono richiesti li renda accettabili.

[articolo uscito sul Messaggero il 13 ottobre 2024]




La Ley Trans contro le imprese

Quando si parla di diritti LGBT+, di norma lo si fa in termini sociali, giuridici o culturali. Per quanto riguarda, in particolare, il diritto a cambiare genere a piacimento, divenuto effettivo in Spagna dal marzo dell’anno scorso con la cosiddetta Ley Trans, le questioni di cui si discute sono del tipo: è giusto che i minorenni (over 16) possano cambiare genere senza il consenso dei genitori? è giusto che gli atleti maschi transitati a femmina gareggino nelle competizioni femminili? è accettabile che i carcerati biologicamente maschi accedano ai reparti femminili? è ammissibile cambiare genere per evitare il carcere in un processo per stupro? è giusto che le quote rosa siano occupate da maschi che si percepiscono come femmine?

Molta meno attenzione ha ricevuto il lato economico della faccenda. Che non consiste solo nel fatto che i passaggi da maschio a femmina possono essere sfruttati opportunisticamente per usufruire di benefici riservati alle donne, ma riguarda direttamente i conti delle imprese. È di questi giorni la notizia che a breve entreranno in vigore varie norme che comporteranno nuovi e pesanti obblighi per le imprese sopra i 50 addetti. Ad esempio: istituire iniziative di formazione e sensibilizzazione ai diritti LGBT+, redigere report annuali sulle politiche aziendali in materia, concedere speciali permessi retribuiti, promuovere la “eterogeneità della forza lavoro”, ovvero garantire una adeguata rappresentanza a determinate minoranze sessuali.

Si potrebbe pensare che, in questo, la Spagna sia particolarmente avanti rispetto agli altri paesi occidentali. In realtà è semmai vero il contrario. Linee guida pro-inclusione analoghe a quelle spagnole sono state adottate da moltissime imprese americane
soprattutto dopo il 2020 (anno dell’uccisione di George Floyd, e conseguente decollo del movimento Black Lives Matter), ma sono entrate in crisi nel 2023 e sono ora in precipitosa ritirata. La Spagna, in altre parole, sta facendo con 4 anni di ritardo un
esperimento – quello delle politiche DEI: Diversity, Equity, Inclusion – che è già ampiamente fallito negli Stati Uniti.

Perché è fallito?

È molto semplice: perché danneggia pesantemente la competitività delle imprese. Quando le politiche DEI sono prese sul serio, e non si riducono a qualche banale misura di facciata, il loro impatto sui conti economici aziendali può risultare molto severo.

Tre sono i meccanismi fondamentali che minano la salute e la vitalità delle imprese.

Il primo è l’aumento dei costi fissi, perché le politiche DEI possono essere molto dispendiose: assumere personale dedicato, pagare esperti e consulenti, fare indagini interne, attuare misure di sorveglianza, istituire corsi di sensibilizzazione, comporta
sia cospicui costi diretti, sia non trascurabili costi indiretti, sotto forma di tempo sottratto ad attività aziendali vere e proprie.

Il secondo meccanismo riguarda le politiche di assunzione. Il fatto di avere vincoli o obiettivi di rispetto di quote (tot posti per minoranze di vario tipo), nella misura in cui impedisce all’impresa di assumere i dipendenti valutandoli solo per l’adeguatezza a
ricoprire determinate mansioni, impatta inevitabilmente sulla produttività del lavoro, ovvero sul valore aggiunto per addetto.

Il terzo meccanismo è la comparsa di un disincentivo a superare i 50 addetti se l’impresa è di poco sotto la soglia, e – simmetricamente – la comparsa di un incentivo a ridurre l’occupazione se è appena al di sopra dei 50 addetti.

Non a caso, da tempo le imprese spagnole e i loro rappresentati manifestano dubbi e preoccupazioni in vista dell’entrata in vigore delle norme della Ley Trans che impattano sui bilanci aziendali. I due tempi dell’esperienza americana – prima adesione entusiastica, poi precipitosa retromarcia – suggeriscono che quei dubbi e quelle preoccupazioni non siano campate per aria.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 ottobre 2024]




Crimini d’odio e libertà di manifestazione

La manifestazione anti-Israele che si è svolta sabato a Roma, purtroppo non senza violenze e incidenti, almeno un merito ce l’ha: quello di avere evidenziato l’inadeguatezza, incompletezza o ambiguità del complesso di norme che disciplinano il diritto di manifestare.

Da un lato abbiamo la Costituzione, che tutela sia il diritto di manifestazione del pensiero (articolo 21) sia il diritto di riunirsi in luogo pubblico (art. 17). È vero che la Costituzione prevede alcuni limiti all’esercizio di entrambi i diritti, ma sembra arduo
invocarli per la manifestazione di sabato. Tali limiti, infatti, sono solo l’offesa al “buon costume” o l’esistenza di “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Ed è difficile sostenere che quella manifestazione fosse atta a offendere il buon costume, mentre – per quanto riguarda i motivi di sicurezza o incolumità pubblica – se è vero che alcuni motivi potevano anche sussistere, è altrettanto vero che sarebbe azzardato definirli “comprovati” (questo è un grave limite del dettato costituzionale: quando sussistono, i “motivi” per impedire una manifestazione raramente possono essere detti ex ante e in pubblico senza danneggiare l’attività di prevenzione e repressione delle forze dell’ordine). Dunque, se ci atteniamo alla sola Costituzione, il divieto era difficile da giustificare.

Dall’altro lato, però, esistono anche il codice penale (articoli 604-bis e 604-ter) e le leggi ordinarie (legge Mancino) che regolano i crimini d’odio. E tali norme hanno una impronta fortemente restrittiva della libertà di manifestazione del pensiero e di
associazione.

La legge, infatti, punisce sia “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, sia “chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, sia “chi partecipa a o presta assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

Se ci atteniamo a queste norme, credo sia difficile non rintracciare, in diverse manifestazioni pro-Palestina e anti-Israele degli ultimi tempi (compresa quella di sabato), gli estremi dell’incitazione alla violenza per motivi razziali (essere ebrei) o nazionali (essere israeliani). Da questo punto di vista il divieto di manifestazione appare meno ingiustificato, perché sia i comportamenti sia le dichiarazioni di molti attori coinvolti potrebbero plausibilmente rientrare nella categoria dei crimini d’odio.

Una categoria, si noti bene, che in passato – in nome della lotta a tali crimini – si è più volte tentato di allargare ulteriormente, ad esempio includendo “motivi di sesso, genere, orientamento sessuale o identità di genere”, come in occasione della discussione del Ddl Zan.

Di qui un problema difficilmente risolvibile. Se si vuole dare la massima tutela alla libertà di associazione e di manifestazione del pensiero, è giocoforza mettere la sordina alla legislazione sui crimini d’odio. Se, all’opposto, si vogliono combattere vigorosamente i crimini d’odio, diventano inevitabili alcune restrizioni alla libertà di pensiero e di associazione.

Quel che non si può fare, invece, è usare due pesi e due misure, ossia schierarci per la libertà di manifestazione del pensiero o per la lotta ai crimi d’odio a seconda dei contenuti per i quali si manifesta. Chi non vede nessun problema nei cortei ostili a ebrei e israeliani, dovrebbe chiedersi che cosa penserebbe se, domani, il bersaglio dovessero diventare gli islamici, i neri o gli immigrati.

[articolo uscito sul Messaggero il 7 ottobre 2024]




A proposito delle elezioni austriache – Il fantasma di Hitler

E così, anche in Austria, come poche settimane fa in Sassonia, Turingia e Brandeburgo (3 länder della Germani Est), le elezioni le hanno stravinte due partiti che la maggior parte dei media definiscono neo-nazisti. Nel caso della Germania il partito vincente è Alternative für Deutschland (AfD), nel caso austriaco è il Partito della libertà (FPÖ), una formazione euroscettica che 25 anni fa, quando era guidata da Jörg Haider, ebbe a creare non pochi problemi a Bruxelles.

La vittoria del Partito della libertà (28.9%), quasi 4 punti in più che alle Europee di pochi mesi fa) è particolarmente significativa perché non avviene a scapito del Partito popolare (conservatore e moderato), che anzi guadagna 2 punti rispetto al risultato delle Europee, ma a scapito dei socialdemocratici (-2 punti) e dei Verdi (-3 punti).

Mai, nella storia elettorale dell’Austria, lo scarto fra i consensi alla destra e quelli alla sinistra era stato così forte: giusto per fare un paragone, in Italia le forze di destra superano quelle di sinistra di circa 6 punti, in Austria di 36.

Ciononostante, è probabile che il Partito della libertà e il suo leader Herbert Kickl (a suo tempo ghost writer di Haider) restino fuori del governo, in base alla dottrina del “cordone sanitario” contro l’estrema destra (come in Francia e Germania): Popolari e
Socialdemocratici austriaci, infatti, hanno seggi a sufficienza per formare un governo, anche senza l’aiuto dei partiti minori (Verdi e Neos, di orientamento liberale).

Ma quali sono le idee di fondo del Partito della libertà austriaco?

Direi che sono fondamentalmente quattro: ostilità alle chiusure durante il Covid; opposizione alle politiche green; contrarietà all’invio di armi in Ucraina (anche perché l’Austria dipende fortemente dal gas russo); difesa dei confini e rimpatrio degli stranieri irregolari (“remigration”).

Come è facile immaginare, il punto più importante è quest’ultimo. Secondo diversi osservatori, l’ostilità verso gli immigrati tipica dei partiti di estrema destra sarebbe connessa a pulsioni razziste, con venature nazionaliste e antisemite. E il fatto che
simili pulsioni si manifestino in area germanica, ossia in due paesi con un passato nazista, è fonte di ulteriori e più gravi preoccupazioni. Preoccupazioni che non possono non ricevere ulteriore impulso dalle ripetute (ancorché isolate) esternazioni
nostalgiche e nazisteggianti di alcuni esponenti del Partito della libertà (e pure di quelli di AfD): sul trionfo elettorale del Partito della libertà, insomma, aleggia il fantasma di Hitler.

Sono giustificate quelle preoccupazioni?

Per certi versi sì. Il passato nazista, con i suoi simboli e i suoi richiami, può offrire alla protesta populista un immaginario inquietante e aggressivo, e alimentare tentazioni di farsi giustizia da sé, innanzitutto contro gli immigrati percepiti come una
minaccia alla sicurezza e ai valori comunitari. In questo senso sì, la vittoria del Partito della Libertà è inquietante.

Per altri versi, però, l’accostamento fra FPÖ e nazismo è fuorviante. Se guardiamo all’ideologia e agli obiettivi del partito di Kickl, non possiamo non notare almeno tre differenze significative con il partito hitleriano. Primo, il nazionalismo dell’FPÖ è pacifista, e tutt’altro che aggressivo o guerrafondaio verso gli stati confinanti. Secondo, nel caleidoscopio ideologico dell’FPÖ una componente essenziale è il libertarismo, come testimoniano le sue battaglie contro le restrizioni Covid, e come suggeriscono le sue origini (fino al 1993 ha fatto parte dell’Internazionale liberale). Terzo, il bersaglio principale sono gli immigrati, in particolare gli islamici, non certo gli ebrei.

Insomma, il paragone con il Nazismo non regge: si può essere pericolosi senza essere nazisti.

Il vero problema è che nessun partito, né in Austria, né in Germania, né altrove in Europa, ha una soluzione per il paradosso migratorio: gli immigrati sono troppi (o troppo poco integrati), per assicurare ordine e sicurezza, ma sono troppo pochi per coprire la domanda di lavoro, specie qualificato. Il tutto complicato dai vincoli legislativi, soprattutto di carattere internazionale e umanitario, che rendono estremamente difficoltose anche modeste misure di espulsione degli irregolari, e persino degli autori di gravi reati.

La realtà, temo, è che chiunque governi – Popolari, Conservatori, Socialisti, “estremisti” di destra – non ha gli strumenti per risolvere il problema migratorio, finché le regole sono quelle attuali. Con un’aggravante, nel caso austriaco: gli stranieri in rapporto alla popolazione sono più del doppio che in Italia (20% contro 9%).

In queste condizioni, è normale che chi – come il partito di Kickl – non ha responsabilità di governo intercetti buona parte della protesta anti-immigrati, e riesca a farlo anche nelle realtà urbane tradizionalmente più favorevoli alla sinistra: nel
territorio autonomo di Vienna, dove la percentuale di immigrati è oltre il 30%, la FPÖ è riuscita a sfondare il tetto del 20%, un risultato eccezionale in una roccaforte progressista.

Di qui il dilemma di socialdemocratici e popolari: imbarcare gli estremisti, rinunciando alla logica del cordone sanitario, o tenerli fuori del governo, con il rischio che – alle prossime elezioni – siano ancora più forti di prima.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]




Dai cercapersone di Hezbollah un avvertimento per il nostro futuro

L’attacco di Israele ai cercapersone e ai walkie-talkie di Hezbollah ha suscitato commenti di ogni genere, ma tutti esclusivamente in relazione alla guerra. E questo è comprensibile (a proposito, dove sono finiti quelli che “Israele non deve reagire per il suo stesso bene, perché non è più quello di una volta e non è in grado di combattere contemporaneamente Hamas e Hezbollah”?).

Ciò che è meno comprensibile è che nessuno ne abbia tratto spunto per riflettere sui rischi della internettizzazione globale, che tutti (o almeno tutti quelli che hanno voce sui mass media) considerano auspicabile o quantomeno inevitabile, l’unico problema essendo quello di “gestirla bene”.

Probabilmente ciò è dovuto, almeno in parte, al fatto che gli strumenti di comunicazione usati da Hezbollah non erano connessi ad Internet, proprio per evitare che succedesse qualcosa del genere. Eppure, è successo, anche se non è ancora chiaro come. Ma, quale che sia stato il metodo utilizzato (forse una frequenza radio o un sms: attacco-hacker-a-hezbollah-cosa-sappiamo-dei-cercapersone-fatti-esplodere-da-remoto), si è trattato comunque di un segnale a distanza di qualche tipo che in pochi secondi ha fatto esplodere le batterie, forse (ma non è certo) con l’aiuto di una piccola carica di esplosivo preventivamente introdotta.

Ora, basta riflettere un attimo (sport che però non è più molto di moda…) per rendersi conto che, se questo è successo perfino con strumenti non connessi a Internet, a maggior ragione potrà succedere con quelli connessi. E ciò diventerà sempre più probabile quanti più oggetti metteremo in rete.

Pensate cosa potrebbe accadere se, invece dei piccoli cercapersone, a esplodere o essere lanciate fuori strada o contro le case fossero le automobili (peggio ancora poi se avessero batterie all’idrogeno, che esplode con violenza 20 volte superiore alla benzina) o gli aerei – voglio dire tutte le automobili o tutti gli aerei di una città o addirittura di un’intera nazione: potremmo avere un 11 settembre moltiplicato per mille.

Per gli esperti di informatica l’unica soluzione è migliorare i sistemi di cybersecurity, come ci ripetono come un disco rotto ogni volta che qualcosa va storto, in parte per deformazione professionale e in parte (probabilmente anche maggiore) per interesse personale, dato che sono loro stessi a venderci i sistemi di cui sopra. Ma questa è una risposta del tutto inadeguata, per diversi
motivi.

Anzitutto, la cybersecurity costa cara, anche perché va continuamente aggiornata. E i nostri paesi, che sono già sull’orlo della bancarotta a causa dell’economia asfittica e dell’immenso debito pubblico (che non è un problema soltanto italiano, ma di tutti i paesi ricchi, nessuno escluso: ne parleremo presto), non possono continuare a caricarsi di spese, soprattutto di spese che nel tempo sono destinate a crescere sempre più. Inoltre, va considerato non solo il costo economico di Internet, ma anche il suo costo energetico, che, come tutti gli esperti sanno, anche se nessuno lo dice, nel giro di pochi anni diventerà la prima causa di inquinamento al mondo. Secondo, il pericolo non viene solo dall’esterno, ma anche dall’interno, cioè da possibili e sul lungo periodo inevitabili errori nella costruzione e/o nell’aggiornamento dei sistemi, contro cui la cybersecurity non serve a niente. Un esempio l’abbiamo già avuto il 19 luglio scorso, con il blocco di moltissimi sistemi informatici, dovuto a un banale errore in un file di aggiornamento, che è bastato a mandare in tilt il trasporto aereo e una quantità di altri servizi in tutto il mondo per diversi giorni.

Terzo, la sicurezza assoluta non esiste. Di fatto, tutte le più importanti istituzioni del mondo, comprese quelle governative e militari ai più alti livelli, sono già state hackerate almeno una volta e spesso anche più d’una. L’unica eccezione è il CERN di Ginevra, ma solo perché il suo è un sistema informatico chiuso, che non comunica né con Internet né con alcun altro sistema esterno (naturalmente parlo del sistema che gestisce l’acceleratore, non dei sistemi secondari o dei computer personali dei ricercatori che ci lavorano, che però non comunicano col sistema principale).

Quarto e più importante di tutti, una volta che tutto sia online anche un solo collasso di qualche sistema importante, incidente o hackeraggio che sia, può causare una catastrofe peggiore di un attacco nucleare.

Cosa dovremmo fare, allora?

Certamente non possiamo semplicemente spegnere Internet. Ma dovremmo almeno smetterla di considerare che mettere tutto online sia buono a prescindere e, prendendo esempio dal CERN, farlo solo quando è davvero necessario, cioè quando i rischi sono palesemente inferiori ai benefici. E i benefici in questione devono essere quelli della collettività e non quelli dei giganti dell’informatica (l’ideale sarebbe che le due cose coincidessero, ma purtroppo più passa il tempo, più sembrano entrare in conflitto).

Ne riparleremo più ampiamente appena possibile. Ma intanto cominciate a rifletterci.