Sinistra e doppia verità – Era meglio il PCI?

Qualche giorno fa ad Amsterdam, all’incontro dei socialisti europei, la segretaria del Pd Elly Schlein, dopo aver espresso la solidarietà a Sigfrido Ranucci, appena scampato a un attentato, non ha trovato di meglio che aggiungere: «Così la democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio quando l’estrema destra è al governo».

Notate quel così, che suggerisce una connessione causale: l’attentato a Ranucci è figlio del clima che si è instaurato da quando Giorgia Meloni ha preso le redini del governo. Si capisce quindi l’indignazione che le parole di Schlein hanno suscitato a destra, con conseguente durissima risposta della premier.

Io però penso che, almeno su un piano politico, Giorgia Meloni avrebbe dovuto rallegrarsene. Quelle parole, come la maggior parte delle analisi che gli esponenti del Pd ripropongono quotidianamente, sono straordinariamente utili alla destra, e hanno effetti catastrofici sulla sinistra.

Perché siano utili alla destra è evidente: poiché contengono diagnosi sballate e previsioni di eventi che non si avverano, non fanno che rafforzare il consenso alla destra. Se dici che Meloni cancellerà la legge 194 sull’aborto e poi la legge resta in piedi, se dici che con la destra al governo la stampa non sarà più libera e poi la stampa continua imperturbata a denigrare la destra, se dici che le paure verso gli immigrati irregolari sono ingiustificate e poi le cronache (e le statistiche) suggeriscono il contrario, se fai tutto questo la gente crede sempre di meno a te, e si rassicura sempre di più nei confronti dell’avversario che hai dipinto come un demonio. Insomma: gridare al lupo al lupo troppe volte non funziona se poi il lupo non arriva.

Meno evidente è perché le diagnosi errate abbiano effetti catastrofici sulla sinistra, al di là dell’aiuto che finiscono per dare alla destra sul piano elettorale. Ebbene, la ragione  è che non c’è più il vecchio Partito Comunista, con i comitati centrali a porte chiuse e la pratica della doppia verità. I comunisti non credevano a tutto quello che raccontavano alle masse. Quindi potevano benissimo proporre analisi sbagliate (per catturare voti) ma al tempo stesso sapere, o meglio cercare di sapere, come stavano le cose davvero. E sapere come le cose stavano davvero era essenziale per non mettere in atto politiche sbagliate, irrealistiche o controproducenti.

Oggi non è più così. Nella maggior parte dei casi i dirigenti della sinistra, gli intellettuali progressisti, i giornalisti di area credono veramente a quello che dicono e scrivono. Davvero temevano “rigurgiti” fascisti e autoritari se Meloni avesse vinto le elezioni. Davvero erano persuasi che fosse in atto una drammatica crisi economica quando Berlusconi obiettava “però i ristoranti sono pieni”. Persino un grande intellettuale come Umberto Eco ebbe a cascarci quando, nel 2001, profetizzò la scomparsa della libera stampa nel caso avesse vinto Berlusconi.

A nessuno piacerebbe svegliarsi un mattino e scoprire che tutti i giornali, il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Messaggero, Il Giornale, e via via dall’Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall’Espresso a Novella Duemila, sino alla rivista on line Golem, appartengono tutti allo stesso proprietario e finalmente ne riflettono le opinioni. Ci sentiremmo meno liberi. Ma è quello che accadrebbe con una vittoria del Polo che si dice delle Libertà.

Sappiamo come sono andate le cose. I giornali hanno continuato ognuno per la sua strada, e i pochi – peraltro fallimentari – tentativi di accentrare il comando delle maggiori testate sono venuti, alcuni decenni dopo, da sinistra e non da destra. Dunque la teoria di Eco, come tante teorie e analisi che allignano in campo progressista, era sociologicamente errata.

Quel che voglio dire è che la sinistra italiana, e massimamente quella guidata da Schlein, ha disimparato una lezione fondamentale della politica: ingannare gli altri può funzionare, ma ingannare sé stessi è sempre catastrofico. Perché se vuoi cambiare la realtà è meglio – molto meglio – che tu sappia come funziona: altrimenti sarà la realtà a giocarti un brutto tiro.

[articolo uscito sulla Ragione il 21 ottobre 2025]




Intervista a Luca Ricolfi

Oggi il governo Meloni diventa il terzo più longevo della storia della Repubblica. Soprese? Conferme? Come mai ha un consenso in crescita, cosa più unica che rara dopo un così lungo periodo?

In realtà la popolarità della Presidente del consiglio è molto minore di quella del 2022-2023, come del resto è fisiologico (la “luna di miele” dura poco). Quello che è in crescita, specie dopo le Elezioni Europee dell’anno scorso, è il consenso a Fratelli d’Italia, che traina il consenso complessivo al centro-destra. La ragione di fondo mi sembra la pochezza dell’opposizione, sia prima sia dopo l’avvento di Schlein. Ma c’è anche una seconda ragione…

Quale?

La debolezza delle alternative partitiche a destra: dopo tre anni di governo, i due alleati principali di Fratelli d’Italia – Lega e Forza Italia – non sono stati capaci di espandere i loro consensi, anche se per motivi diversi (Tajani per mancanza di carisma, Salvini per dissipazione del carisma passato).

Il cavallo di battaglia dell’opposizione, tre anni fa, era che la destra al governo sarebbe stata bocciata dai mercati e sarebbe rimasta isolata a livello internazionale. Le agenzie di rating ci hanno rimesso in serie A ed Europa e Usa hanno detto chiaramente di gradire il modello Meloni. Come mai?

Una ragione è semplicemente che, grazie alla faziosità anti-meloniana di gran parte dei media italiani, le istituzioni internazionali e la stampa estera si erano fatte un’immagine del tutto errata di Meloni e del suo partito. Il mero constatare che, andata al governo, Giorgia Meloni non ha fatto nulla di tutto ciò che i suoi nemici si attendevano (o fingevano di attendersi), ha determinato prima stupore e poi un crescente rispetto nei confronti della premier. Se profetizzi che arriva il fascismo e poi non se ne vede neppure la più pallida traccia, non puoi che rivedere le tue credenze. E così è stato.

Poi naturalmente ci sono anche questi anni di governo, in cui l’attivismo di Giorgia Meloni a livello internazionale (dal sostegno all’Ucraina al piano Mattei) ne ha fortemente rafforzato il prestigio.

Lo spartito delle accuse a Meloni da parte dell’opposizione è inevitabilmente cambiato. Oggi Landini le dà della cortigiana di Trump, Renzi dell’influencer che comunica bene ma combina poco e Schlein sostiene che la destra mette a rischio la democrazia. Secondo lei l’atteggiamento del governo tenuto con Trump è corretto?

Più che corretto, profetico: Meloni ha scommesso sulla volontà pacificatrice di Trump e ha vinto la scommessa. In questo è stata molto aiutata dalla cecità dell’opposizione, che ha commesso l’errore di giudicare Trump in termini morali anziché politici.

Cosa ha sbagliato il governo e cosa ha fatto giusto in politica estera, nel rapporto con gli Usa e l’Europa?

In politica estera mi sembra che l’unico vero errore sia stato la gestione del caso Almasri. L’atteggiamento verso l’Europa è stato giustamente critico, visto il disastro green di cui cominciamo solo ora ad avvertire le conseguenze, specie verso l’industria dell’auto e il suo indotto.

La Francia sciovinista, in crisi politica, istituzionale, sociale, e conseguentemente economica, inizia a parlare di un modello Meloni: cos’è, è esportabile e può ambire a guidare l’Europa?

Molte idee di Meloni sono già condivise da altri governi europei, come quello tedesco e quello danese, ad esempio. Sul fatto che il modello Meloni sia esportabile ho due dubbi. Primo, non vedo leader europei di destra dotati del medesimo carisma: un modello Meloni senza Giorgia Meloni potrebbe non funzionare. Secondo, in molti paesi europei (Germania, Regno Unito, Francia) il modello non è esportabile semplicemente perché i loro partiti di destra sono troppo aggressivi, al limite dell’eversione. Quello che in Italia non si è ancora capito è che, fin dalle sue origini, il partito di Meloni si è collocato in un’area di destra ragionevole, sul modello dei gollisti in Francia e dei conservatori nel Regno Unito. Sembra incredibile, ma la realtà è che la nostra stampa e la nostra sinistra hanno scambiato la schiettezza, e una certa vena istrionico-populista della comunicazione della premier, per estremismo politico. Un errore fatale: in Italia l’estremismo di destra è del tutto marginale (anche perché il precedente storico del fascismo lo delegittimerebbe), mentre il non parlare in politichese è enormemente apprezzato.

La manovra è stata apprezzata dagli industriali, da buona parte del sindacato, tant’è che ha isolato la Cgil, e dall’Europa. L’opposizione quindi si è ridotta a essere quasi esclusivamente ideologica: mancanza di proposte, incapacità di uscire dai vecchi schemi?

In realtà l’opposizione ha ottime proposte (più risorse alla sanità e alla scuola, salario minimo), il problema è che non dice con quali risorse pensa di poterle mettere in atto. E la gente sa benissimo che le promesse senza coperture preludono a maggiori tasse.

Ha recentemente scritto sul Messaggero che Giuseppe Conte sarebbe più apprezzato di Elly Schlein come candidato premier e che i dem sono in calo: il campo largo ammazza il Pd?

Il campo largo erode il consenso al Pd e tarpa le ali al Movimento Cinque Stelle, che senza la zavorra-Schlein potrebbe crescere più velocemente di quanto già sta facendo (dalle Europee a oggi i sondaggi gli dànno circa 3 punti in più).

Però giusto ieri è scoppiato M5S…

Si riferisce alle bizze di Chiara Appendino? Non so se siano dettate dalla volontà di sostituire Conte, completando la femminilizzazione della politica italiana (un tridente Meloni-Schlein-Appendino farebbe dell’Italia l’unico paese europeo che ha espunto i leader maschi dalla politica). Però nel merito mi pare abbia pienamente ragione: il Movimento Cinque Stelle volava quando aveva il coraggio di definirsi “né di destra né di sinistra”, mentre ha cominciato a perdere colpi quando ha scelto di diventare “ora di destra, ora di sinistra”. E dire che avrebbe tutte le possibilità di ritagliarsi uno spazio politico non banale, ad esempio puntando tutte le sue carte sulla domanda di protezione sociale, nella duplice accezione di sostegno ai deboli e di contrasto all’immigrazione irregolare.

Cosa ci fanno i centristi nel campo largo a guida sempre più a sinistra?

Calenda mi pare ormai fuori dal campo largo, il suo ruolo è quello di solitario ed eroico difensore della serietà in politica. Quanto a Renzi (Italia Viva) e Magi (+Europa) mi pare che accodarsi alla sinistra ideologica capeggiata da Elly Schlein sia l’unica carta che hanno in mano per sopravvivere, eleggendo ancora qualche deputato e senatore.

Ma è serio proporre una neofita della politica da sei mesi sindaco di Genova come leader di un campo che unisce otto-dieci anime contro una che fa politica da che aveva quindici anni e ha nell’unità del suo partito e della coalizione uno dei suoi asset?

Non conosco Silvia Salis abbastanza per dire se è all’altezza oppure no. Però il mero fatto che qualcuno pensi di poterla promuovere dall’oggi al domani a leader del campo progressista la dice lunga sulla modestia della classe dirigente di sinistra.

Azzardo: non è che, avanti così, Meloni tra qualche anno rappresenterà sia l’Italia di destra sia quella di sinistra moderata, con una quota importante ma marginale confinata all’estrema sinistra di Conte-Schlein-Fratoianni?

Sì, in effetti la sinistra moderata, che pure esiste, potrebbe un giorno sentirsi meglio rappresentata da Meloni che da Schlein-Conte-Bonelli-Fratoianni. Però manca un passaggio cruciale.

Quale?

L’estinzione della Lega o, più verosimilmente, la rimozione di Salvini e Vannacci come suoi leader. Finché l’immagine della Lega è associata a loro due, è impensabile catturare il consenso degli elettori di sinistra moderati (ma io preferisco chiamarli riformisti: il riformismo vero è radicale, non moderato). Una Lega guidata da Zaia-Fedriga-Giorgetti renderebbe il centro-destra votabile anche da una parte degli elettori di centro-sinistra, tanto più se i partitini che li rappresentano dovessero far parte della coalizione.

Dopo il flop dell’antifascismo, quello su Gaza. Non è che il predominio degli intellettuali d’area confonde le idee ai dem, li priva di punti di riferimento e li fa sbagliare?

Gli intellettuali (e i giornalisti) di sinistra sono la maggiore sciagura cognitiva che si sia mai abbattuta su uno schieramento politico: anziché aiutare a comprendere la realtà, fanno l’impossibile per celarne i lati sgradevoli.

Un libro che consiglia a Elly?

Hillbilly Elegy, del vicepresidente Usa J.D. Vance. La aiuterebbe a capire la vita di chi nasce in basso.

E uno per Giorgia?

Giorgia non ha tempo, e quel poco che riesce a ricavare fa benissimo a dedicarlo alla figlia Ginevra.

[intervista uscita su Libero il 19 ottobre 2025]




Dopo le Regionali – Chi deve comandare a sinistra?

La vittoria dell’alleanza progressista in Toscana ha riacceso qualche speranza a sinistra, dopo le sconfitte nelle Marche e in Calabria. Le speranze di un’inversione di tendenza, tuttavia, sono mitigate dalle preoccupazioni per l’astensionismo, cresciuto di ben 15 punti in Toscana, e per la crisi del Movimento Cinque Stelle, ossia di quello che – sulla carta – è il principale alleato del Pd in vista delle elezioni politiche del 2027. Alcuni analisti e sondaggisti fanno notare che l’astensionismo è un pericolo soprattutto per la sinistra: a differenza che in passato, sarebbero proprio i suoi elettori a disertare le urne quando non apprezzano le proposte dei leader progressisti. I due grandi mali dell’alleanza di sinistra, dunque, sarebbero l’astensionismo e la “evaporazione” del Movimento Cinque Stelle.

Questa analisi, a prima vista, ha una sua plausibilità. La crisi del Movimento Cinque Stelle è conclamata, e l’ascesa del “partito dell’astensione” è da decenni il leitmotiv dei media all’indomani di ogni consultazione elettorale. A ben vedere, però, le cose sono molto più complicate di come appaiono.

Intanto, non è vero che nelle ultime tre consultazioni regionali abbiamo assistito a un’impennata dell’astensionismo. L’impressione di un aumento è dovuta a un banale errore tecnico-metodologico: la partecipazione elettorale viene confrontata con quella del 2020, in cui il dato di Toscana e Marche era inflazionato dall’abbinamento delle Regionali alla consultazione referendaria (molto sentita) sulla riduzione del numero di parlamentari. Se il confronto viene fatto con il 2015, in cui non c’erano altre elezioni, si osserva una perfetta stabilità della partecipazione al voto in tutte e tre le regioni (48% in Toscana, 50% nelle Marche, 44% in Calabria). E nell’unico caso in cui si può fare un confronto con le ultime elezioni regionali (quello della Calabria, che andò al voto nel 2021, in data diversa da quella del referendum) il dato del 2025 è praticamente identico a quello del 2020 (44.4% contro 44.3%). Dunque cominciamo con lo sgombrare il campo dalla prima mina: la crisi della sinistra non è colpa dell’astensionismo.

Ma anche l’altra parte delle preoccupazioni che travagliano la sinistra, ovvero la crisi dei Cinque Stelle, andrebbe riconsiderata alla luce dei dati. È vero che nelle elezioni regionali i Cinque Stelle raccolgono pochi consensi, ed è verissimo che il loro peso elettorale è oggi molto minore di 10 anni fa, e tuttavia se guardiamo ai movimenti più recenti dell’opinione pubblica non sono i Cinque Stelle il vero tallone di Achille della sinistra. La supermedia dei sondaggi calcolata da Youtrend mostra che dopo le elezioni europee del 2024, ovvero nell’ultimo anno e mezzo, il consenso verso i Cinque Stelle è in costante aumento, mentre quello al Partito Democratico è in calo. Il differenziale fra i due partiti era di circa 14 punti (a favore del Pd), ora è sceso a circa 9. L’evaporazione dei Cinque stelle è un fenomeno che riguarda le elezioni locali, ma sul piano nazionale (almeno a stare ai sondaggi) è semmai il Pd a perdere colpi (dal 24 al 22%), mentre i Cinque Stelle sono in lenta ma costante crescita (dal 10 al 13%).

Non solo. Una recentissima indagine di Renato Mannheimer ha scoperto una cosa assolutamente sorprendente. Nonostante il Pd abbia quasi il doppio dei consensi dei Cinque Stelle, l’elettorato progressista preferisce nettamente Giuseppe Conte a Elly Schlein come candidato alla Presidenza del Consiglio per le elezioni del 2027: il leader Cinque Stelle viene scelto dal 34% degli elettori di sinistra, mentre la segretaria del Pd deve accontentarsi del 22% delle indicazioni. E lo scarto fra i due leader è ancora più grande se si considera l’intero elettorato, non solo gli elettori di sinistra: 27% contro 14%.

Come mai?

La spiegazione, probabilmente, sta in una precedente indagine di Mannheimer, condotta poche settimane fa. Da essa emergeva la profonda insoddisfazione dell’elettorato di sinistra per l’operato (o il mancato operato) dell’opposizione, ben maggiore della speculare insoddisfazione dell’elettorato di destra per l’operato del governo. A sinistra gli insoddisfatti sfioravano il 50%, a destra erano meno del 13%. E anche fra gli indecisi coloro che bocciano l’opposizione risultavano più numerosi di coloro che bocciano il governo (79% contro 67%).

Fra i due risultati – preferenza per Conte e insoddisfazione per l’opposizione – un nesso c’è: l’elettorato progressista, proprio perché Schlein è il leader che dà le carte a sinistra, tende a attribuire a lei e non a Conte litigiosità e mancanza di idee del campo largo, e al tempo stesso apprezza la vena populista e soprattutto iper-pacifista del leader Cinque Stelle.

A quanto pare, la questione di chi debba guidare il centro-sinistra è più che mai all’ordine del giorno.

 

 

[articolo uscito sul Messaggero il 17 ottobre 2025]

 




Il fantasma del pluralismo

Anni fa a un imam, residente nel nostro paese, venne fatta la domanda: “Perché volete la moschea a Roma, sede del Vicario di Cristo, e non consentite che si edifichi una Chiesa a La Mecca o a Medina?”. La risposta fu perentoria:” Noi islamici adoriamo il vero Dio, non possiamo quindi ammettere che si veneri un idolo!”. Si può sorridere dell’ingenuità dell’imam solo a patto di dimen-ticare che anche de nobis fabula narratur. La nostra cultura politica, infatti, è stata segnata da un universalismo (cattolico e illuministico) che ripugna a quel sano scetticismo, antico e moderno, che da Pirrone porta a Montaigne a David Hume, a Isaiah Berlin.. Per questo stile di pensiero, la verità è unica e sta da una sola parte: la Chiesa è il porto della salvezza del genere umano o, al contrario, è la costruzione di uno dei tre impostori (Mosè, Cristo, Maometto) di cui parlava il barone d’Holbach: tertium non datur. Oggi, in Italia, è lecito, e per alcuni doveroso, manifestare contro il ‘genocidio’ israe-liano sventolando la stessa bandiera della copertina del libro di Filippo Kalomenidis, La rivoluzione palestinese del 7 ottobre, ma a sventolare quella israeliana – in una manifestazione che ricordi il più atroce massacro di ebrei, dopo quello nazista – si corre il rischio di essere malmenati o aggrediti (prudentemente, le questure invitano gli ebrei italiani ad astenersi dal fare pubblicità alle loro iniziative). E’ il caso di dire che nel nostro paese la pianta del pluralismo è rinsecchita: siamo tutti pluralisti a parole ma siamo tutti convinti, del pari, che le nostre idee siano dettate dalla coscienza morale mentre quelle dei nostri nemici siano farina del demonio. Frutto di questa ‘barbarie della mente’ è l’ostracismo dato, sui grandi giornali e canali televisivi (pubblico e non), al principio delle due campane, che impone di sentire sempre le ragioni dell’altro. Siamo “un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”, diceva quel tale. Avrebbe dovuto aggiungere “..e di inquisitori!”. Con l’aggravante che a decidere chi debba essere inquisito e messo a tacere non sono le istituzioni dello Stato di diritto, ma i ‘movimenti’ che nascono dal basso e si fanno portavoce degli ideali di giustizia dei popoli.

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[articolo uscito il 14 ottobre su IL GIORNALE DEL PIEMONTE E DELLA LIGURIA]




A proposito di un intervento di Baricco – Meglio il XXI secolo?

Il secolo che stiamo vivendo è migliore di quello che ci siamo lascati alle spalle?

Sembra incredibile, ma è proprio questa la pensosa domanda che, nei giorni della pace di Trump, ha sollevato un articolo di Alessandro Baricco uscito sulla piattaforma Substack. Lui tende a rispondere: sì, almeno nelle intenzioni, perché i ragazzi che agitano la bandiera della Palestina hanno voluto prendere congedo dagli orrori del Novecento, un secolo morente ma pericoloso proprio perché morente.

Altri, come Michele Serra, esitano invece a liquidare il Novecento, un secolo che ci ha inflitto due guerre mondiali ma ci ha anche regalato – nella sua seconda metà – cose bellissime come: multilateralismo, collaborazione internazionale, Unione Europea,  femminismo, pacifismo, liberazione sessuale, il “piglio antigerarchico delle nuove generazioni”, e “volendo anche la conquista dello spazio per mano di americani e russi”. Ovviamente è stato facilissimo ricordare a Serra gli orrori e i crimini della seconda metà del Novecento, a partire dalle decine di milioni di morti dei regimi comunisti in Unione Sovietica, Cina, Cambogia.

In realtà la questione è irrisolvibile non solo perché ognuno può scegliere a proprio piacimento il menù con cui preferisce descrivere un determinato secolo, ma perché – alla fine – la diagnosi dipende soprattutto dai fantasmi di chi ne discute. C’è chi, come Serra, non sa rinunciare all’idea che i progressisti siano stati capaci di migliorare il mondo, e c’è chi, come Baricco almeno dal tempo de I barbari (un libro del 2006), sembra ossessionato dal timore di apparire poco al passo con i tempi o, peggio, di finire nella schiera dei nostalgici, che rimpiangono il bel tempo antico. Di qui il sapore di panglossismo, di benevola fiducia nel presente e nelle virtù nascoste delle nuove generazioni, che emana da tanti suoi scritti.

Il fatto che, così posta, la questione del confronto fra i due secoli non sia dirimibile, non significa però che ogni confronto sia impossibile. Tutto sta a scegliere un terreno non troppo friabile e, soprattutto, non troppo condizionato dai giudizi di valore. Ma esiste un simile terreno?

Sì, un terreno che dovrebbe mettere d’accordo tutti è quello dell’evoluzione della violenza, sia collettiva (guerra) sia individuale (omicidi). Si può dire che la violenza, pur tuttora presente nel mondo, è in diminuzione nel nuovo secolo?

Purtroppo i dati al riguardo sono controversi e raramente raccolti in modo sistematico. Tuttavia almeno due tendenze sembrano abbastanza chiare. Per quanto riguarda le guerre (fra stati e interne), la tendenza alla diminuzione del numero delle vittime (civili e militari) che si osservava negli ultimi decenni del Novecento pare essersi invertita da tempo, e non solo in concomitanza o a causa dei conflitti armati più recenti (Ucraina Gaza, Sudan, Myanmar). E pensando a quanti e quanto sanguinosi eccidi si verificano da anni in ogni angolo del pianeta, fa riflettere quanta poca attenzione vi abbiano riservato le generazioni ultra-sensibili al dramma di Gaza. Chi vede un salto di sensibilità etica nelle nuove generazioni, forse dovrebbe domandarsi quanto tale salto sia dovuto a una nuova coscienza civile e quanto sia invece il risultato di una completa dipendenza dai media e dalla rete, letteralmente intasati dal dramma palestinese ma sostanzialmente insensibili alla maggior parte degli altri.

Per quanto riguarda la violenza individuale forse dovremmo rivedere l’entusiastica diagnosi di Steven Pinker, che nel suo libro Il declino della violenza (del 2011) annunciava che la nostra è l’epoca più pacifica delle storia, e che l’umanità non è mai stata così sicura come oggi. Sul fatto che oggi si uccida fra 50 e 100 volte di meno che nel tardo Medioevo sussistono pochi dubbi, ma i dati più recenti mostrano che nel nuovo secolo il trend di diminuzione degli omicidi si è interrotto, specie nelle società avanzate. Fra queste ultime sono molto più numerose quelle in cui il numero di vittime di omicidio aumenta che quelle in cui diminuisce: un segnale preoccupante, che va contro il senso comune progressista.

[articolo uscito sulla Ragione il 14 ottobre 2025]