“Ricordiamo interamente!” Il refrain ipocrita.

Storici come Alessandro Barbero, scrittori come Boris Pahor, pasdaran dell’antifascismo come il Presidente dell’Anpi  Gianfranco Pagliarulo, parlando del Giorno del ricordo e delle foibe intonano il ritornello: ”ricordiamo interamente”, stigmatizzando “il silenzio verso l’aggressione dell’Italia fascista nei confronti della Jugoslavia (parte della Slovenia, della Croazia, compresa la Dalmazia, e della Bosnia ed il Montenegro), gli innumerevoli efferati massacri che ne seguirono, le impunite responsabilità dei criminali di guerra italiani”. Insomma saremmo tenuti a considerare ogni tragedia storica effetto di una causa da chiarire ogni volta. Sembra ragionevole ma non è così. Le giornate della memoria, infatti, intendono ricordare le vittime della violenza, tener vivo il patrimonio di ricordi che, nel bene e nel male, fanno l’identità spirituale di una nazione e di una civiltà. Appartengono alla dimensione del ‘mito politico, inteso come cemento ideale di una comunità politica: inserire la vicenda storica rievocata in un continuum di cause/effetto significa confondere etica pubblica e scienza, la ricerca che si svolge nei laboratori del sapere e i riti civici che non  intendono arricchire la conoscenza ma testimoniare una  appartenenza. I critici della Giornata del ricordo   invitano a riflettere sul ‘prima’, su ciò che precede le foibe ma, come capita ai settari, sono loro a fissare il termine a quo. E’ come se nella commemorazione ufficiale dei caduti antifascisti, si fosse obbligati a leggere le pagine di Federico Chabod, di Mimmo Franzinelli, di Zeffiro Ciuffoletti sulla guerra civile che insanguinò l’Italia suscitando la reazione delle camicie nere. E’ l’ennesima riprova della lontananza della nostra civic culture dall’universo liberale. Si esige che l’impegno etico-politico non abbandoni mai il dibattito pubblico, che  si debba continuamente ribadire quale era la parte giusta della storia.. L’immagine della bambina con la valigia più grande di lei, che reca la scritta ‘profuga giuliana’, dovrebbe essere sempre affiancata da quella di Giacomo Matteotti pestato a morte dai suoi sequestratori.




Disagio giovanile? – Un mito diventato realtà

Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato perplesso, nella mia carriera di sociologo, è l’uso ossessivo, insistito e iterato dell’espressione “disagio giovanile” per descrivere la condizione dei giovani dagli anni della contestazione in poi. Con il passare del tempo la mia perplessità si è progressivamente tramutata in stupore, e alla fine in un sentimento di incredulità. Questo perché, se prendiamo in considerazione il cinquantennio che va dal 1969 (anno dell’esame di maturità facilitato e della liberalizzazione degli accessi all’università) fino al 2019, ossia all’ultimo anno prima del Covid, quello che ci è dato osservare è, semmai, il processo inverso: la instaurazione progressiva di condizioni materiali e immateriali sempre più agiate.

Vogliamo ricordare qualcuno degli spettacolari cambiamenti che, nel cinquantennio 1969-2019, hanno investito la condizione giovanile?

Libertà sessuale: è incomparabilmente maggiore oggi. Uso del tempo: nessun padre di allora avrebbe messo la sveglia alle 2 di mattina per prelevare alle 2.30 la figlia quindicenne in uscita dalla discoteca. Autorità genitoriale: l’ubbidienza è stata sostituita dal negoziato permanente, e fin dalla più tenera età, su tutti gli aspetti della vita quotidiana. Lavoro: si è allungato di circa 5 anni il periodo della vita in cui se ne può fare a meno. Servizio militare: non esiste più, abolito giusto vent’anni fa da un governo di destra. Scuola e università: alleggerimento dei programmi e abbassamento dell’asticella della promozione. Rapporti scuola-famiglia: il patto genitori-insegnanti si è rotto, molti genitori di sono trasformati in sindacalisti dei figli.

Insomma, almeno a prima vista, nei decenni in cui illustri colleghi rilasciavano pensose riflessioni sul “disagio giovanile”, la società spensieratamente evolveva per mettere sempre più suo agio la maggioranza dei giovani. Dico “a prima vista” perché maggioranza dei giovani (ovviamente) non vuol dire tutti i giovani (le sacche di marginalità ci sono anche oggi), ma anche perché non è detto che quel che, oggettivamente, si presenta come uno spettacolare aumento di benessere e di libertà si traduca poi, soggettivamente, in maggiore appagamento, felicità, autorealizzazione.

In effetti, se leggiamo attentamente le sia pur frammentarie statistiche degli ultimi 4-5 anni, è difficile non essere colti da un certo sgomento. Quello cui si assiste, infatti, è una vera e propria esplosione di comportamenti che manifestano – oggi sì – una condizione di disagio: a quel che ricordo, mai in passato si era osservata una crescita tanto rapida e improvvisa di segnali di malessere. Nel breve lasso di tempo che va dall’ultimo anno pre-covid (2019) agli anni più recenti per cui si dispone di statistiche (2022 e 2023) si sono improvvisamente impennati sia i comportamenti autolesionistici o di ritiro sociale, come disturbi alimentari, suicidi, tentati suicidi, richieste di aiuto, auto-isolamento, sia i comportamenti aggressivi come omicidi, rapine, risse, minacce, lesioni dolose, violenza sessuale e, a scuola, bullismo e attacchi agli insegnanti (alcune stime nel grafico accanto).

È curioso. Quando l’evoluzione sociale, come una cornucopia, regalava alla condizione giovanile ogni sorta di agio, i convegni dei sociologi leggevano tutto nel registro del “disagio giovanile”, ora che quel disagio c’è davvero, i sociologi latitano, quasi avessero passato la palla a psichiatri, psicologi e pedagogisti. Resta però una domanda, anzi forse la domanda: c’è un nesso fra il disagio di oggi e gli agi dei 50 anni precedenti?

Sì, io penso che ci sia. La cifra del cinquantennio felice 1969-2019 è stata la rimozione sistematica e progressiva di ogni possibile ostacolo, nella famiglia, nella scuola e nella società, e la piena affermazione della cultura dei diritti, ovvero dell’attitudine a pretendere piuttosto che a conquistare. Questo ha reso i giovani non solo più fragili e impreparati ad affrontare difficoltà, sconfitte, sfide difficili, ma anche più insicuri, più suscettibili, più in competizione reciproca (anche grazie ai social), e in definitiva meno capaci di perseguire la felicità esistenziale: “non si diventa felici per assenza di difficoltà” aveva avvertito, esattamente vent’anni fa, Hara Estroff Marano, psicologa sociale statunitense, già allora preoccupata per la deriva mentale della gioventù americana, devastata dalla vita facilitata e dalla iper-protezione dei genitori (invasive parenting).

Tutto questo, fino allo scoppio del Covid è rimasto allo stato latente. Poi non più. Gli anni del Covid sono stati, non solo per i giovani, anni di ristrutturazione mentale, che hanno indotto a riflettere sulla propria esistenza, le proprie scelte, le proprie priorità. E spesso a concludere, più o meno vittimisticamente, che si meritava di più, o si aveva diritto a un risarcimento. Stranamente, di questa riconversione dei desideri (posso chiamarla così?) si è parlato quasi esclusivamente riguardo agli adulti e al mercato del lavoro, dove si è osservato un innalzamento generalizzato del livello di aspirazione, con l’abbandono di posti di lavoro insoddisfacenti per posti migliori o più remunerativi.

Ma la riconversione ha riguardato anche, se non soprattutto, i giovani, e non solo sul mercato del lavoro. Per loro, il fossato fra quel che si desidera e quel che si ha si è fatto più ampio, molto più ampio. Non tutti sono stati in grado di reggere lo scarto. I dati indicano che alcuni hanno reagito in modo auto-distruttivo, altri in modo aggressivo, come testimonia l’esplosione dei reati predatori, degli omicidi, delle violenze sessuali.

Forse, per il mondo degli adulti, è venuto il momento di farsi qualche domanda.

[sintesi dell’intervento di oggi al Convegno sul cinquantenario dei Decreti delegati, Firenze, Palazzo Vecchio]




Europa al bivio?

Mancano meno di 4 mesi al voto europeo, ma quasi nessuno pare interessarsene più di tanto. Eppure, forse per la prima volta, si incrociano tre circostanze cruciali. La prima è che, sul tavolo, c’è una posta di enorme impatto macro-economico e sociale: il futuro del Green deal. Secondo, si tratta di una questione su cui l’opinione pubblica è profondamente divisa, anche se in questo momento – a fronte della protesta degli agricoltori – pare emotivamente schierata da una parte, quella dei frenatori della transizione verde. Terzo, mai come oggi l’esito finale del voto è stato incerto.

Parlo di esito finale perché, come sempre in un regime parlamentare proporzionale, l’esito del voto è un “missile a due stadi”, dove il primo stadio è l’esito del voto in termini di composizione del parlamento, mentre il secondo è il tipo di maggioranza cui le forze in campo decideranno di dar luogo.

Storicamente, questo secondo stadio è sempre stato poco problematico, perché – alla fine – si è sempre trovata una quadra puntando su una sorta di Grosse Koalition, ossia sulla santa alleanza fra i tre gruppi più numerosi e più europeisti (socialisti, liberali, popolari/conservatori), talora puntellati da forze euroscettiche più o meno decisive. Quel che poteva cambiare, era solo che l’equilibrio pendesse leggermente più a destra o leggermente più a sinistra, ma la sostanza era sempre quella.

Ebbene, non è detto che lo schema si ripeta. A suggerire cautela sono i sondaggi degli ultimi mesi condotti nei paesi più popolosi, ovvero Germania, Francia e Italia. In Germania, il vento soffia nelle vele della Afd (Alternative für Deutschland), partito di destra anti-immigrati, che alle ultime politiche aveva ottenuto il 10% ma oggi è dato in prossimità del 24%. In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen è in crescita ed è dato intorno al 28%. In Italia il partito di Giorgia Meloni, che aveva pochi seggi in Europa, si avvia a rimpiazzare quello di Salvini, che – con il 34% dei consensi – ne aveva conquistati tantissimi. Complessivamente, i due gruppi di destra del Parlamento Europeo – ECR e ID – dovrebbero guadagnare un numero considerevole di seggi.

Contemporaneamente, i partiti della coalizione che governa l’Europa appaiono in difficoltà. In Francia, perde colpi Macron, in Germania i Popolari, in Italia Forza Italia. I Verdi sono in crisi quasi ovunque in Europa, e i sondaggi prevedono una drastica riduzione dei loro seggi al Parlamento Europeo. Quanto ai socialisti, molto dipenderà dalle alleanze, scissioni e ricomposizioni in atto in Francia e Germania, soprattutto quanto alla capacità di attirare o mantenere il voto degli elettori progressisti ma anti-immigrati. In Francia questo tipo di voto è intercettato soprattutto da La France Insoumise di Jean Luc Mélanchon, che non è chiaro se afferirà ai socialisti o all’estrema sinistra. In Germania, proprio per trattenere il voto anti-immigrati è nato poche settimane fa un partito di estrema sinistra – la BSW di Sahra Wagenknecht – che potrebbe sottrarre voti ai socialisti del premier Olaf Scholtz.

In breve, nel prossimo parlamento europeo dovremmo assistere a un significativo ridimensionamento della attuale maggioranza popolari-liberali-socialisti, a un crollo dei Verdi, e a una avanzata dei due gruppi di destra, uno dei quali potrebbe diventare il terzo raggruppamento, dopo i Popolari e i Socialisti.

L’ipotesi tuttora più verosimile è che si ricostituisca la vecchia maggioranza, eventualmente puntellata dai Cinque Stelle, come l’attuale “maggioranza Ursula”. Ma, ove tale maggioranza non ci fosse, o fosse troppo risicata, non si possono escludere due scenari alternativi, divisi essenzialmente dall’atteggiamento verso la transizione ecologica.

Nel primo, la maggioranza potrebbe allargarsi al gruppo ECR, guidato da Giorgia Meloni, e (quasi sicuramente) rimpolpato dall’ingresso di due partiti decisamente controversi, Fidesz dell’ungherese Orban e Reconquête del francese Éric Zemmour. Nel secondo scenario, l’allargamento avverrebbe invece verso i Verdi, a dispetto del loro quasi certo declassamento da terza a quinta forza del Palamento europeo (in quanto scavalcati da ECR e ID).

Difficile immaginare due scenari più antitetici. Nel primo, assisteremmo a un ridimensionamento e a una decelerazione della transizione verde, in sintonia con le richieste del mondo agricolo. Nel secondo, a un rilancio in grande stile del Green Deal, in barba alle rassicurazioni della attuale Commissione. E checché ne pensi la mucca Ercolina seconda.




Minori e violenza sessuale – Quel che dicono i dati

Dopo lo stupro di gruppo di Catania, in cui una bambina (italiana) di 13 anni è stata stuprata da un gruppo di ragazzi (egiziani), di cui alcuni minorenni, infuriano le polemiche. C’è chi solleva dubbi sulla legge Zampa sui “minori non accompagnati”, che riserva loro speciali diritti; e c’è chi – come alcuni operatori delle comunità che avevano in carico i ragazzi – trae spunto dal caso di Catania per chiedere “più risorse e più mezzi per fare integrare davvero questi ragazzi”. C’è chi ricorda che in un altro caso di stupro di gruppo, quello di Caivano, gli autori erano ragazzi “italianissimi”; e c’è chi nota che è proprio grazie al criticatissimo (da sinistra) decreto Caivano che, nel nuovo caso di Catania, è stato possibile arrestare anche i minorenni.

Poi, fortunatamente, ci sono anche coloro che invitano a non strumentalizzare politicamente queste tragedie, e a non generalizzare. Guai se, sulla base di singoli episodi di cronaca, si dovesse instaurare la credenza che “tutti i ragazzi egiziani sono stupratori”.

Bene, allora. Raccogliamo l’invito a non generalizzare, e proviamo a vedere che cosa possiamo dire in base ai dati.

La prima cosa è che le denunce per violenza sessuale in cui l’autore è un minorenne sono circa 300 all’anno, a fronte di un po’ meno di 1 milione e mezzo di maschi minorenni di almeno 13 anni. Se teniamo conto del fatto che, in base a varie indagini, i casi denunciati sono dell’ordine di 1 su 10, possiamo stimare che le violenze sessuali siano circa 3000 l’anno. Fatti i dovuti calcoli: per 1 ragazzo che compie violenza sessuale, ve ne sono 499 che non lo fanno. Magra consolazione, per chi (come me) pensa che anche 1 solo caso all’anno sia troppo. Ma doverosa precisazione davanti all’impulso a generalizzare a “tutti i ragazzi”, o a “tutti i ragazzi stranieri”.

La seconda cosa che possiamo osservare è che i minorenni stranieri denunciati per violenza sessuale sono più numerosi di quelli italiani (159 contro 132 nel 2022, ultimo anno per cui si hanno dati consolidati). E questo nonostante i minorenni stranieri siano molto meno numerosi, circa 1 ogni 7 minorenni italiani. In concreto, questo vuol dire che – statisticamente – la pericolosità apparente (dirò poi perché “apparente”) di un ragazzo straniero è circa 8 volte quella di un ragazzo italiano.

A questa amara constatazione alcuni ribattono, non senza qualche ragione, che il tasso di denuncia per le violenze sessuali commesse da minori stranieri potrebbe essere più alto di quello per le violenze commesse da minori italiani. Di qui l’apparente maggiore pericolosità dei minori stranieri.

C’è sicuramente del vero in questa osservazione, che tenta di equiparare ragazzi italiani e ragazzi stranieri. E tuttavia, a un’attenta analisi dei dati, essa rivela non poche pecche. Non tutti i reati, infatti, sono esposti all’obiezione del diverso tasso di denuncia, perché esistono anche reati in cui il “numero oscuro” (reati non denunciati) è prossimo a zero, o verosimilmente non molto diverso fra autori italiani e stranieri. Per un reato come l’omicidio, ad esempio, è arduo sostenere che venga denunciato molto di più se commesso da stranieri ; così per reati come le rapine, le lesioni dolose, le risse, i danneggiamenti mediante incendio. Eppure, anche per questi reati, come per le violenze sessuali, i minori stranieri risultano avere degli indici di criminalità molto più alti di quelli degli italiani. Qualche mese fa la Polizia Criminale ha fornito, per il 2022, dati estremamente accurati e disaggregati sulle segnalazioni (denunce e arresti) di minori. Ebbene, su 15 reati considerati, non ve n’è nemmeno uno in cui l’indice di criminalità dei minori stranieri non sia molto più elevato di quello degli italiani. Si va dall’omicidio e tentato omicidio, per cui gli stranieri sono “solo” 3 volte più pericolosi degli italiani, alle risse e ai furti (per cui lo sono 9 volte), passando per le violenze sessuali (8 volte), le rapine (7 volte), le percosse (6 volte), le estorsioni (5 volte), solo per fare alcuni esempi.

Questo però non è l’unico motivo per cui l’alibi dei diversi tassi di denuncia è molto debole. C’è anche l’andamento delle denunce fra il 2019 (era pre-covid) e il 2022, che  mostra una impressionante divaricazione fra italiani e stranieri: mentre il numero di reati dei minori italiani è diminuito del 2.8%, quello dei minor stranieri è aumentato del 41.5%. Una variazione enorme, se si considera la brevità del periodo, e la lentezza con cui si muovono nel tempo gli indici di criminalità.

Conclusione?

Nessuna, perché i dati non dettano le politiche, ma si limitano a descrivere lo sfondo su cui qualsiasi politica è costretta a operare. Lo sfondo è che, allo stato attuale, la pericolosità dei minorenni stranieri è molto maggiore di quella dei minorenni italiani, e il divario sta aumentando. Qualsiasi politica si preferisca adottare – meno sbarchi, o più accoglienza – sarebbe meglio non ignorare il dato di fatto.




Che cos’è un’emergenza?

Sono molti a pensare che la stampa, e più in generale gli organi di informazione, denunciando ingiustizie di ogni tipo e sollecitando la politica ad intervenire, svolgano una attività meritoria.

Spesso è così. Ci sono drammi, iniquità, angherie che mai verrebbero alla luce se non vi fosse un organo di informazione che le porta all’attenzione dell’opinione pubblica. Nello stesso tempo, però, può accadere che il ruolo dei media sia fortemente distorsivo, o quantomeno arbitrario. Per capire perché, dobbiamo partire da una premessa: non solo il budget del governo, ma anche lo stock di attenzione dei governanti, è una grandezza finita. Nemmeno il più sensibile capo dello stato, presidente del consiglio, ministro, è in grado di stare dietro a tutte le innumerevoli questioni di cui, in linea di principio, dovrebbe occuparsi attivamente, a maggior ragione in un paese come l’Italia, in cui quasi nulla funziona come dovrebbe. Di qui una conseguenza cruciale: non potendo occuparsi di tutto, la politica cerca sì – come è naturale – di attuare le misure programmatiche che considera prioritarie, ma sul resto, sulla porzione altamente discrezionale dei suoi interventi, è in balia delle campagne di stampa. Le quali, proprio per questo, hanno un enorme potere di selezione dei temi su cui – alla ricerca del consenso – finirà per attivarsi l’azione dei governanti.

E’ ben usato questo potere?

Impossibile dirlo in generale, ma è facile notarne l’aleatorietà, l’arbitrarietà, e la volatilità. Prendiamo il caso della piccola Kata, la bambina peruviana di 5 anni scomparsa il giugno scorso. Il suo caso ha suscitato un enorme interesse nei primi tempi, e ora è quasi completamente dimenticato. Ma perché tanta attenzione e tante risorse investigative proprio su Kata? Pochi lo sanno, ma i minori scomparsi sono circa 50 al giorno, di cui la metà non vengono mai rintracciati. Chi si occupa degli altri 10 mila minori scomparsi da allora? Perché Kata ha goduto del (per ora inutile) privilegio di essere cercata assiduamente, e gli altri 9999 bambini e bambine no?

Un discorso analogo, con risvolti paradossali, si potrebbe fare sul caso di Ilaria Salis. Gli italiani detenuti all’estero sono più di 2000, non di rado in condizioni critiche. Ma, anche qui, la possibilità di ricevere la dovuta attenzione è altamente soggetta al caso. Se non avesse avuto la “fortuna” di essere ripresa in catene in un’aula giudiziaria, Ilaria Salis non beneficerebbe dell’attenzione che i media le stanno riservando. E possiamo pure star certi che, dopo che due o tre casi analoghi saranno stati portati all’attenzione, degli altri 2000 italiani all’estero non parlerà più nessun giornale nazionale e non si occuperà nessun politico in vista.

Ho fatto questi esempi per illustrare l’enorme potere dei media nel selezionare le questioni di cui, volente o nolente, il potere politico sarà costretto ad occuparsi, sottraendo attenzione ed energie ad altre questioni, magari ancora più rilevanti o drammatiche. Ecco perché ha senso chiedersi come i media usano la loro discrezionalità.

La mia impressione è che la esercitino più secondo le leggi dello spettacolo che secondo quelle della ragione. Spesso i temi portati all’attenzione sono semplicemente quelli capaci di suscitare le emozioni più forti, dall’odio alla compassione alla paura, con poco riguardo alla rilevanza sociale, o alla effettiva possibilità di intervento da parte della politica. Soprattutto, sono temi volatili, fondati sulla definizione di “emergenze” immancabilmente destinate a scomparire dalla scena nel giro di pochi giorni.

Eppure non dovrebbe essere difficile riconoscere una vera emergenza, e distinguerla dalle emergenze puramente mediatiche. Per far questo, dovremmo almeno imparare a individuare e distinguere gli ingredienti essenziali di una vera emergenza. Che sono almeno tre: la presenza di un interesse pubblico, un improvviso peggioramento della situazione, la possibilità di intervenire per modificare il corso delle cose.

Per fare un esempio provocatorio: i morti sul lavoro sono una cosa bruttissima, sarebbe opportuno intervenire per ridurli, ma tecnicamente non sono un’emergenza, perché sono stazionari (anzi in lieve diminuzione, secondo gli ultimi dati). I suicidi in carcere, al contrario, sono una vera emergenza, perché stanno aumentando a un ritmo mai visto in passato, e sono ben note le misure che potrebbero frenare il fenomeno. Eppure, se contate gli articoli di stampa o i moniti dei capi dello stato degli ultimi anni, vi sembrerà che la vera emergenza sia la prima e non la seconda.