Follemente corretto (5a puntata) – Né Dame né Herr

Sopponete di prendere un aereo, e di sedervi tranquillamente al vostro posto. Allacciate la cintura di sicurezza, guardate dal finestrino, aprite il giornale. A un certo punto, siete raggiunti dalla voce del comandante, che vi saluta con il consueto “gentili signore e signori, benvenuti a bordo”, seguito dall’inglese “ladies and gentlemen, welcome on board”.

Tutto normale, direi. L’intenzione della compagnia è di dare il benvenuto a tutti, con semplicità e cortesia. E’ sempre andata così, da quando esistono gli aerei. E nessuno ha mai avuto nulla da ridire, perché – ovviamente –non c’è nulla da ridire.

Ora non più. Dipende da che compagnia scegliete. Se scegliete Lufthansa, ad esempio, non ascolterete più il classico “Sehr geehrte Damen und Herren, herzlich willkommen an Bord” , un saluto particolarmente gentile che – letteralmente – significa “stimatissime signore e signori, un sentito benvenuto a bordo”. Ora sarete accolti da un più secco “guten Tag”, ossia “buongiorno”.

Che cos’è successo?

E’ successo che il nuovo politicamente corretto è arrivato al punto di convincere Lufthansa ad eliminare questo tipo di saluto, per non offendere chi, eventualmente, non fosse certo di essere Dame o Herr. E il bello è che Lufthansa, come tutte le compagnie terrorizzate di finire in qualche polemica e di essere accusate di sessismo, razzismo, discriminazione, è stata al gioco ipocrita. D’ora in poi il pilota non saluterà con l’escludente “cari signori e signore”, ma con l’inclusivo “buongiorno”.

Anja Stenger, portavoce della compagnia, fa sapere:

Per noi è importante tenere in considerazione tutti al momento del saluto la diversità non è una frase vuota, da ora vogliamo esprimere la nostra attenzione al linguaggio.

L’importante non è migliorare il servizio, magari fornendo sedili più comodi, cibo di qualità, spazi per le valigie, code meno lunghe all’imbarco. L’importante è segnalare la virtù della compagnia aerea, proteggendola così da ogni accusa degli attivisti.

Pensate che il caso sia isolato, e rifletta la proverbiale rigidità teutonica?

Niente di tutto ciò. La decisione di Lufthansa, presa nel luglio del 2021, è stata imitata anche da Easy Jet, Air Canada e British Airways. Il portavoce di quest’ultima ha commentato così:

Celebriamo la diversità e l’inclusione e ci impegniamo a garantire che tutti i nostri clienti si sentano i benvenuti quando viaggiano con noi.

Soluzione: il neutro plurale passengers sostituirà il discriminatorio ladies and gentlemen.

Si ripete così, in forma grottesca, quel che già era accaduto con il politicamente corretto delle origini, quando parole un tempo innocenti (cieco, bidello…)  cominciarono a essere considerate offensive. Il fatto che un manipolo di compagnie segnali la propria virtù abolendo il “signore e signori”, rischia di imporre uno stigma del tutto ingiustificato a chiunque, istituzione o individuo, non faccia la medesima cosa. Una trasmissione tv che esordisca con “care spettatrici e cari spettatori”, un ufficio che invii una comunicazione iniziando con “gentili signore e signori”, un preside che si rivolga ai suoi insegnanti con “care colleghe e cari colleghi”, potrebbero essere accusati di insensibilità, offensività, non inclusività, discriminazione.

Ho detto “potrebbero”, perché resta la (flebile) speranza che una risata liberatoria metta fine a tutto ciò.




A proposito del caso Liliane Murekatete – Lettera a Concita De Gregorio

Gentile Sig.ra De Gregorio,

leggo con grande stupore il suo ultimo intervento sul caso di Liliane Murekatete. Lei afferma che non condivide, ma comunque difende, le aspettative delle ragazze che per diventare famose e magari far soldi velocemente espongono il loro corpo. Sembra dalle sue affermazioni che la fama e i soldi siano l’unico orizzonte concesso a noi comuni mortali nel percorso a ostacoli che è la vita.

Le spiego il mio stupore. Quando insegnavo nel triennio delle scuole medie superiori, nella mia amata e civile Toscana, mi battevo con tutte le forze per convincere le mie allieve a studiare, convinta com’ero allora, ma ancora di più oggi, che senza studio e senza cultura non si va da nessuna parte e soprattutto non si è libere…Correvano gli anni ’70 e lottavamo come tigri perché le donne non fossero considerate oggetti sessuali, corpi-merce da esporre, da far gareggiare nei ridicoli concorsi di bellezza dove si misuravano col metro i centimetri di fianchi, i seni, le cosce…..Tagli di carne offerti al pubblico di maschi bavosi.

Sempre in quegli anni c’erano mamme che dicevano alle loro figlie ‘‘Ma che studi a fare? Tu il tuo tesoro ce l’hai tra le gambe, ci sei seduta sopra, sfruttalo bene e non avrai bisogno di lavorare’’. Sono passati quasi 50 anni e ancora si devono sentire questi discorsi? Addirittura devo sentire una qualche compiacenza da parte sua verso simili ragionamenti?

Che la nostra battaglia di allora sia stata persa non è una novità. Oggi non solo viene riproposta in tutte le salse la donna-oggetto, ma per lo strano meccanismo dell’eterogenesi dei fini, anche l’uomo è diventato oggetto da esposizione: depilato, levigato, sopracciglia scolpite, unghie laccate.

E’ questo il modello che non si deve mettere in discussione perché ormai milioni di ragazze e ragazzi l’hanno fatto proprio? Ma soprattutto come si fa ad affermare che siamo per la libertà femminile, che ci battiamo perché le bambine e le ragazze si pensino come soggetto-persona e contemporaneamente dire che fanno bene le ragazze ad adeguarsi al modello consumistico più sfrenato. Io so che un’altra società è possibile purché non ci si rassegni a vedere questo sistema  come unico modello possibile di produzione economica, di rapporti sociali, di senso dell’esistenza.

Rivendico fino in fondo il concetto di in-funzionalità dell’essere umano e del suo corpo-mente che non può essere concepito solo come risorsa da cui trarre profitto.

Luciana Piddiu 

16 Dicembre 2022




Follemente corretto (4a puntata) – Anche le cose si offendono?

Supponete di essere un tecnico del suono, e di stare armeggiando con un amplificatore, perché dovete collegarlo a una cassa acustica. Vi rivolgete al vostro aiutante, e gli dite: “passami il cavo con il jack maschio”. Oppure: “non trovo il jack femmina, l’hai preso tu?”.

Qualcuno può offendersi? Può accusarvi di sessismo? O di usare un linguaggio irrispettoso, o poco inclusivo?

Ovviamente no. Operai e tecnici del suono sono persone concrete, da almeno 70 anni maneggiano jack (spinotti) maschi e femmina, e nessuno si è mai turbato sentendo parlare di jack maschio e jack femmina. Almeno in Italia.

Ma supponete di essere negli Stati Uniti. L’associazione americana dei produttori di materiali audio (PAMA) ha pensato che, al giorno d’oggi, non si poteva continuare a parlare di jack “maschio” e jack “femmina”. E ha dato le sue direttive: d’ora in poi, in uno “spirito di inclusività e coerenza”, il jack maschio sarà chiamato plug (spina), quello femmina socket (presa). E chi dovesse ancora parlare di jack maschio e jack femmina sarà guardato di brutto.

Anziché affrontare i problemi concreti del settore, dai salari alle condizioni di lavoro, l’associazione dei produttori di materiali audio preferisce occuparsi di come operai e tecnici parlano dei cavi che maneggiano.  E non esita a pavoneggiarsi della propria virtù.

Karrie Keyes, direttrice esecutiva delle “ragazze del suono” (SoundGirls), non riesce a nascondere la sua soddisfazione per le nuove regole promosse dall’associazione dei produttori audio. Ma deve ammettere che la strada è ancora lunga:

Un plauso per PAMA che cerca di introdurre un linguaggio neutro nell’industria audio. E’ un’impresa enorme, ma bisogna continuare a lavorare per portare cambiamenti significativi in questo settore.

La cosa interessante di questo caso è che non riguarda la tutela della sensibilità delle persone, di cui si occupava il politicamente corretto delle origini. Il nuovo politicamente corretto vede sessismo-razzismo-discriminazione anche nel modo in cui parliamo di oggetti inanimati. Per i suoi miliziani la sorveglianza sulla correttezza del linguaggio deve essere totale, la punizione e rieducazione dei reprobi devono essere puntuali, sistematiche.

E infatti la scure si abbatte non solo sugli innocenti jack, ma anche sui dispositivi elettronici e sui computer, dove da sempre si è parlato di architettura master-slave per caratterizzare un sistema con un dispositivo principale e uno ausiliario. D’ora in poi, per evitare di evocare il colonialismo, la schiavitù, l’oppressione dei neri, gli ingegneri e i tecnici dovranno ingegnarsi a trovare dicotomie alternative, più democratiche e inclusive: primary / secondary; main / subordinate; director / performer; leader / follower, e così via.

Osservazione finale: se soldi, energie, personale, sforzi di comunicazione vengono spesi per togliere dalla circolazione espressioni come jack maschio, jack femmina, architettura master-salve, non stupisce che buona parte dei marxisti e tante femministe considerino le ossessioni linguistiche del politicamente corretto come un’arma di distrazione di massa, che permette all’establishment capitalista di distogliere l’attenzione della gente dalle vere diseguaglianze e dalle reali discriminazioni che ancora affliggono il nostro mondo.




Tribunale internazionale per i crimini di guerra? No grazie

Qualche sera fa, su Rai5 Storia, ho visto un documentario sulla guerra degli USA e dell’ONU contro l’Iraq che mi ha sconvolto. Città e villaggi distrutti, estremo cinismo nei confronti degli alleati (quando Bush cambiò idea sul destino di Saddam Hussein, lasciò che i curdi venissero massacrati tutti..), 500 mila bambini morti negli ospedali per colpa dell’acqua non disinfettata col cloro (l’Onu ne aveva decretato l’embargo totale). Tempo addietro, in un polemico scambio di idee alcuni amici storici, poco convinti dalla mie obiezioni al riguardo, sostennero che la distruzione atomica di  Nagasaki e Hiroshima era giustificata dalla necessità di terminare subito una guerra che, altrimenti, si sarebbe protratta per anni. Forse anche per i massacri di Bagdad e di altri centri potevano addursi  analoghe motivazioni ma l’immagine di quei bambini  agonizzanti negli ospedali mi ha fatto  pensare piuttosto al geniale reazionario Joseph de Maistre e alla sua potente immagine della storia umana come un enorme scannatoio. A Bush sr avevano mostrato un documento del Pentagono sulle possibili conseguenze delle sanzioni sulla popolazione civile irachena. Il Presidente non aveva battuto ciglio, anzi aveva reagito con una sconcertante fake news. Una ragazza, sedicente ex infermiera in un ospedale del Kuwait, raccontava in tv di aver visto i soldati di Hussein spegnere le sigarette negli occhi dei degenti. Quella ragazza, figlia dell’ambasciatore del Kuwait negli S.U., non era mai stata in un ospedale, viveva e studiava tranquillamente in America. Quando leggo che si vuole istituire un tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità commessi da Putin, mi vengono in mente le pagine di Croce sul processo di Norimberga: chi sottopone materie come la guerra “a criteri giuridici, o non sa quel che si dica, o lo sa troppo bene, e cela l’utile, ancorché egoistico, del proprio popolo o Stato sotto la maschera del giudice imparziale”. I criminali di guerra (si chiamino Hitler, Saddam Hussein, Putin etc.) vanno eliminati fisicamente senza pietà ma a scagliare su di loro i fulmini del tribunale può essere solo chi è senza peccato.

Dino Cofrancesco




Follemente corretto (3a puntata) – L’etica dello shampoo

Le parole ‘normale’ e ‘normalità’ sono da sempre sotto accusa. L’idea che una persona possa essere normale e altre no crea disagio. Ad alcuni fa venire in mente Hitler, l’eugenetica e la selezione dei migliori. Ad altri non piace essere etichettati come anormali. Ad altri, invece, è la normalità che non piace. Preferiscono essere “diversi da loro” (cioè dai normali, suppongo):

E’ il caso dei Maneskin:

Sono fuori di testa ma diverso da loro

E tu sei fuori di testa ma diversa da loro

Siamo fuori di testa ma diversi da loro

Dove la faccenda si fa seria è quando si parla di handicap, fisici e mentali. Anche lì dire ‘normale’ è proibito, e dire ‘anormale’ è proibitissimo. Ma su come vadano chiamati coloro che hanno qualche disabilità non c’è accordo. Anzi, è in corso una disfida fra i molestatori della lingua. C’è chi si ostina a chiamare ‘non vedenti’ i ciechi, e c’è chi ci ha ripensato, e ora vorrebbe che i ciechi tornassero a essere chiamati ciechi, perché quel ‘non’ di ‘non vedenti’ è negativo, mentre la parola ‘cieco’ indicherebbe una caratteristica come un’altra. E lo stesso accade per la parola disabile: c’è chi suggerisce di dire ‘disabile’, e c’è chi pensa che dire ‘persona con una disabilità’ sia più rispettoso.

Fin qui tutto bene. Siamo, è vero, nel regno del politicamente corretto. Ma le sue ragioni, in fondo, sono comprensibili. L’ipersensibilità su parole come ‘normale’ e ‘normalità’ ha una sua logica. Possiamo trovarla eccessiva, pedante, bigotta, ipocrita, ma riusciamo a scorgerne l’origine e le motivazioni. Che stanno nel fatto che stiamo parlando di persone, e di aspetti delicati del loro corpo o della loro mente.

Ma quando si parla di cose? O di caratteristiche banali delle persone, come la pressione sanguigna, la misura dei piedi, il tipo di capelli?

Dire “oggi ho passato una giornata normale” può offendere le altre giornate? C’è un signor ieri che può sentirsi escluso? O un signor dopodomani che può sentirsi discriminato?

Dire che Giuseppe ha la pressione normale può offendere Giuseppina che invece ce l’ha alta?

Verrebbe di rispondere no.

E invece sì. Chiunque vada in farmacia a comprarsi uno shampoo sa che, sul bancone, troverà shampoo per capelli di ogni tipo: grassi, secchi, con forfora, ricci, crespi, colorati, eccetera. E naturalmente pure una confezione per “capelli normali”.

Ora non più. Un’indagine di mercato di Unilever ha rivelato che sette intervistati su dieci riterrebbero che l’uso della parola ‘normale’ sulle confezioni abbia un impatto negativo. Il 56% delle persone che hanno espresso tale parere pensa che l’industria della bellezza faccia sentire tanta gente esclusa, mentre il 52% ammette di valutare la posizione dell’azienda sulle questioni sociali prima di fare acquisti. In breve, lo shampoo per una capigliatura normale, nella misura in cui implica logicamente l’esistenza di capigliature non normali, comporterebbe una discriminazione, un deficit di inclusività.

Di qui una decisione drastica: in nome del cosiddetto “inclusive advertising”, d’ora in poi Unilever toglierà dal bancone lo shampoo per capelli normali.

L’etica dello shampoo ha vinto. Ora che i capelli normali non esistono più, nessuno potrà più sentirsi escluso o discriminato. Oppure, finalmente, ci sentiremo tutti anormali.