“Ansia e registro elettronico” di Lorenzo Morri, Alberto Gualandi e Francesco Genovesi (insegnanti di scuola superiore)

A partire dal primo anno scolastico vissuto per intero in regime di pandemia (2020/21), la stampa quotidiana ha cominciato a dedicare uno spazio non trascurabile al tema del disagio giovanile, correlandolo in base ai dati via via emergenti, da un lato, agli effetti su benessere e salute mentale prodotti dalle chiusure, dall’altro alla sempre più massiccia e precoce esposizione al virtuale e alle nuove forme di relazione intessute sui social media. Il progressivo esaurirsi dell’emergenza sanitaria e la cessazione dei confinamenti, a lungo affrontati da bambini e adolesecenti nei propri ambiti centrali d’esperienza (scuola, sport, tempo libero, volontariato ecc.), non ha fatto venir meno questa attenzione pubblicistica, che si è consolidata quasi in nuovo settore della cronaca, a cavallo tra costume e abbozzo di analisi sociale (si veda G. Pierpaoli, «Fuori dai radar». Lo studente dell’era pandemica nel racconto dei media, in L’onda lunga. Gli effetti psicologici e sociali della pandemia, Erickson, Trento, 2023).

A titolo di esempio, l’inchiesta di “Repubblica Bologna” del 19 dicembre 2022 riaccendeva, in coda agli anni delle restrizioni, i fari intorno a un disagio sempre più allarmante, soprattutto all’interno della scuola secondaria superiore. Demotivazione, ansia, attacchi di panico, stati depressivi, rabbie, che sfociano nella discontinuità della frequenza, nei ritiri e nelle bocciature per troppe assenze (circa 67.000 nelle sole superiori, a giugno 2022). A Tutta la città ne parla(Rai Radio3), pochi giorni prima, a partire da alcuni tragici fatti estremi, psicologi e pedagogisti ne avevano già discusso, portando sul banco degli imputati la nostra “società iper-competitiva”, nella quale successo, bellezza e popolarità divengono mete imperative fin da bambini, nello sport, nello studio e nelle cerchie sociali virtuali.

Questi fenomeni chiamano in causa inevitabilmente anche la voce di insegnanti e dirigenti scolastici.

Chi oggi entra in aula sa bene che gli studenti oramai guardano alla scuola non più come a un luogo di scoperte conoscitive e incontro con i coetanei, ma come a un’agenda, fitta di compiti, interrogazioni e verifiche scritte, da affrontare e via via depennare in attesa della conclusione del quadrimestre. Molte sono le ragioni di questa deriva percettiva. Qui richiamiamo l’attenzione sulla funzione di rinforzo giocata dal cosiddetto “registro elettronico” e dal suo perfezionamento come app per smartphone.

Questo strumento era nato con due finalità: 1) dematerializzare il tradizionale registro, nel suo valore di atto pubblico in cui il lavoratore firma la sua presenza e documenta quella degli studenti, il programma svolto e i voti assegnati; 2) creare un’interfaccia tra insegnanti studenti e famiglie, che fornisse servizi didattici e informativi. Tuttavia il “registro elettronico” è diventato molto di più. Per gli studenti è una delle principali app, forse seconda solo a Instagram e Tik Tok, da consultare compulsivamente alla ricerca di aggiornamenti. Aggiornamenti su cosa? Sulla “uscita” dei propri voti. I docenti, infatti, nel caso in cui non enuncino verbalmente gli esiti, possono sempre inserirli on-line successivamente. All’interessato non resterà che monitorare il registro, nell’attesa incerta e spasmodica di apprendere che cosa apparirà sulla ruota del suo destino scolastico.

Ci chiediamo se questo non abbia qualcosa a che fare con l’ansia.

Ma c’è di più. Nelle sue più evolute versioni, elaborate da aziende di software fuori dai binari di qualsivoglia riflessione psico-pedagogica, il registro elettronico tenta, al pari di ogni social media, di anticipare i desideri (le ansie?) dei suoi utenti, contribuendo a forgiarli. Reca in home page, accanto agli appuntamenti della giornata (compiti, interrogazioni, verifiche), l’elenco dei voti “usciti” di recente (bollini rossi per quelli negativi, bollini verdi per i positivi) e, addirittura, un enorme richiamo grafico circolare, al centro del quale campeggia a caratteri cubitali un numero: è il numero della media aritmetica di tutti voti ottenuti dallo studente nel periodo di valutazione in corso (non una media dei voti nelle singole materie, ma una media generale tra tutti i voti!).

Capito? Lo studente di oggi non incontra più una volta ogni tanto il feedback valutativo attraverso la voce dei suoi insegnanti, per poi riceverlo scritto in pagella a fine anno. Oggi, in tutte le circostanze in cui apra il registro elettronico, anche solo per cercare gli esercizi di matematica da svolgere o le pagine di italiano da studiare, egli si imbatterà nella chiara e spietata definizione di identità che la scuola gli rimanda: 8,7, o 6,3, o magari 5,2 o 4,7. A ogni ragazzo un numero. E che gli rimanga ben impresso in mente, in modo che desideri più di ogni altra cosa modificarlo verso l’alto, anche solo di pochi decimali, per stare al passo nella lotta emulativa della vita!

Questo ha forse qualcosa a che fare con l’ansia?

Nella convinzione erronea che il registro elettronico fosse soltanto uno strumento neutro di facilitazione, la scelta in merito alla sua adozione non ha mai coinvolto i collegi dei docenti, organi competenti in materia didattica. Ciò, accanto al problema psico-sociale da noi segnalato, pone anche un problema democratico. Insegnanti e dirigenti hanno ancora la facoltà di proteggere ed emancipare la relazione educativa dalle distorsioni più macroscopiche indotte dalla rivoluzione digitale, oppure sono tenuti a cantare sempre e comunque “le magnifiche sorti e progressive” del mondo del web, levandosi il cappello e ringraziando per i prodotti che le software house rilasciano?

*Questo testo, in forma leggermente ridotta, è stato pubblicato con il titolo Il registro on-line consultato come Tik Tok su “Repubblica Bologna” del 4 gennaio 2023




Perché gli insegnanti non sono più autorevoli?

Gli insegnanti devono tornare a essere autorevoli: come non condividere l’auspicio del ministro Valditara?

Forse però sarebbe utile riflettere anche sulle ragioni per cui la maggior parte degli insegnanti, a tutti i livelli, hanno perso autorevolezza rispetto a quella che potevano avere negli anni ’50 e ’60. È un discorso urticante, ma va fatto. A costo di scatenare l’ira di tutti: docenti, studenti, genitori.

Partiamo dai docenti. Un motivo, banalissimo, per cui un docente di oggi è meno autorevole di uno di 50 anni fa, è che è meno preparato. Spesso molto meno preparato.

E questo per elementari ragioni demografiche. I docenti sono un’élite intellettuale, ma se ne devi reclutare 1000 anziché 100 è inevitabile che il livello di preparazione e di talento dei reclutati sia significativamente più basso. Dagli anni del dopoguerra  a oggi il numero di docenti delle scuole secondarie superiori e dell’università è quasi decuplicato, mentre la popolazione italiana è cresciuta relativamente poco (un po’ meno del 30%). A ciò si aggiunge il fatto che gli standard di preparazione richiesti dalla scuola si sono progressivamente abbassati. Gli insegnati di oggi hanno frequentato scuole meno esigenti di quelli di ieri. Possiamo stupirci che a una minore preparazione media corrisponda una minore autorevolezza? Gli studenti di una classe capiscono al volo se un docente è ferrato nella sua materia o ha solo un’infarinatura. E si comportano di conseguenza.

Passiamo agli studenti. Oggi i poveri infelici docenti si trovano davanti ragazzi che, tipicamente, non sono stati allenati dai loro genitori a differire la gratificazione, né a obbedire agli adulti, né a rispettare il prossimo. Tendenzialmente, lo studente medio di mezzo secolo fa era “pre-lavorato” dalla famiglia, lo studente di oggi è semmai “dis-educato” dalla famiglia. Eppure dovrebbero saperlo, le famiglie, che insegnare l’autocontrollo, la disciplina e la costanza è cruciale per la crescita dei figli. Diversi studi ed esperimenti suggeriscono che è necessario farlo (perché prima dei 25 anni la corteccia prefrontale è ancora poco sviluppata), e che – se non lo si fa – si rischia di ridurre le chance future dei figli nella vita e sul mercato del lavoro. Di nuovo: possiamo stupirci che, con una massa di scavezzacolli iper-cinetici attaccati 4 o 5 ore al giorno a internet (sto esagerando, ma serve a rendere l’idea), i docenti abbiano qualche problema a farsi, non dico rispettare, ma anche solo ascoltare mentre fanno lezione?

Infine, i genitori. Ho lasciato per ultima la minaccia più grande all’autorevolezza dei docenti. Fino a 20-30 anni la scuola si reggeva su un patto di alleanza non scritto fra genitori e insegnanti. Se un insegnante dava un brutto voto, una nota, una punizione a un ragazzo, di norma i genitori stavano dalla parte dell’insegnante. Solo in circostanze particolarissime e gravissime poteva accadere che un padre e una madre andassero, non dico a picchiare il docente, ma nemmeno a protestare. Il docente  sapeva che, una volta che il ragazzo fosse arrivato a casa, sarebbe stata la famiglia a completare il suo lavoro educativo.

Oggi non è così. I genitori, da alleati degli insegnati, si sono trasformati in sindacalisti dei figli. Il docente sa che, per ogni brutto voto o punizione che dà, incombe la possibile sfuriata dei genitori. Come sa che, se non altro per non perdere l’utente, il preside si sentirà in dovere di essere molto comprensivo con i genitori che si lamentano. E magari, anziché convocare il ragazzo che ha preso una nota, convocherà il docente che ha osato dargliela.

E non è tutto. Il docente sa pure che, al momento degli scrutini e degli esami, le pressioni dall’alto per promuovere tutti o quasi tutti si faranno fortissime. E che dietro quelle pressione c’è una cosa sola, lo spettro, incubo o spada di Damocle di tutti i commissari di esame in tutti gli ordini di scuola e in tutti i concorsi: il RICORSO al Tar.

Questa metamorfosi, la trasformazione dei genitori in sindcalisti dei loro pargoli, è avvenuta circa 20-30 anni fa, ossia ben dopo il ’68 e le relative gesta. Credo che sottovalutiamo l’importanza di questo passaggio. Perché l’alleanza genitori-docenti non è un optional, ma è il prerequisito minimo perché le istituzioni educative funzionino.




Il pasticcio degli esami di maturità in Emilia-Romagna

L’8 giugno scorso il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha emanato un’ordinanza, la n. 106, con cui sono stati disposti per le aree alluvionate dell’Emilia-Romagna esami di stato conclusivi del primo e secondo ciclo di istruzione in forma agevolata. La valutazione per gli studenti residenti nelle zone interessate è stata così affidata a un solo colloquio, che, nel caso della “maturità”, integra momenti di accertamento relativi all’italiano e alla materia di indirizzo su cui si sarebbero dovute effettuare le prove scritte, ora eliminate.

Pare che la misura sia stata sollecitata da studenti, sindaci e dal presidente dell’UPI (Unione delle Province d’Italia), Michele De Pascale. Di fronte al manifestarsi nel mondo della scuola delle prime reazioni di dissenso, il ministro ha poi spiegato come non avrebbe agito da solo, ma sulla base di una scelta condivisa, all’interno di una “cabina di regia” tenutasi il 7 giugno, con l’Ufficio scolastico regionale e lo stesso Presidente della Regione, Stefano Bonaccini. La circostanza, mai smentita dai diretti interessati, è divenuta tuttavia piuttosto opaca in seguito alle dichiarazioni rese dall’assessore regionale alla scuola, Paola Salomoni, che fin dal 13 giugno, consapevole delle criticità e delle proteste via via emerse, ha più volte sottolineato che «i contenuti della modalità di svolgimento della Maturità sono di competenze esclusiva del ministero e Valditara le ha utilizzate senza mai coinvolgere la Regione» (“Repubblica Bologna”, 21 giugno). Come dire: se qualcosa del genere il territorio aveva chiesto, non era però certo quello che il ministro si è risolto a dare.

Quale sia stato il processo deliberativo alla base della scelta ministeriale è questione non secondaria, dal momento che è divenuto chiaro fin dai primi istanti come una vasta platea, forse la maggioranza, dei suoi destinatari non avesse desiderato tale agevolazione, né avesse intenzione di ricorrervi una volta decretata. Già il 9 giugno, infatti, la studentessa romagnola Maria Elena Merlo lanciava su change.org una petizione (Scritti anche in Romagna) che in poche ore raggiungeva oltre 1000 firme. Nel testo si evidenziavano dati di fatto inoppugnabili: il fenomeno alluvionale del 17 maggio è giunto a due settimane dalle fine delle lezioni e, quindi, non ha potuto compromettere in alcun modo la preparazione dei maturandi (la legge prevede, del resto, che i programmi d’esame siano conclusi e resi pubblici, con documento del consiglio di classe, entro il 15 maggio); gli scritti sono un banco di prova essenziale per competenze altrimenti difficilmente accertabili; la seconda prova negli indirizzi tecnici e professionali ha spesso carattere pratico e non può essere surrogata all’interno di un prova solo orale. La petizione, che vale di per sé un’attestazione di “maturità” per la studentessa che l’ha concepita, si concludeva ricordando come «dopo l’emergenza del Covid, che per più di due anni ci ha privato del contatto, della scuola intesa anche come “comunità”, di ogni aspetto relazionale dell’essere studenti, quest’anno finalmente abbiamo potuto vivere un ritorno pieno alla normalità, di cui l’Esame di Stato era uno dei simboli più evidenti. Questo provvedimento, per quanto pensato per agevolarci, ci ripiomba in qualche modo a quei giorni di privazioni e di anormalità e, in questo caso, senza una reale emergenza».

C’è da chiedersi, dunque: si è forse ecceduto nell’assegnare all’alluvione effetti così catastrofici da farne discendere una riduzione dell’esame di stato, come nei precedenti citati dei terremoti dell’Emilia e de L’Aquila? Il ministro, l’amministrazione scolastica territoriale e le altre autorità coinvolte hanno peccato per eccesso di zelo? Si è trattato di un atto di “buonismo” non richiesto, o addirittura di un caso di deprecabile demagogia politica?

Astenendosi dai giudizi e restando ai fatti, si deve constatare che l’impatto della calamità naturale sulla vita di insegnanti e studenti è stato in realtà assai differenziato, spesso anche all’interno dei confini di un medesimo comune, a seconda dei quartieri e persino delle strade. L’ordinanza tuttavia ha fatto di tutta l’erba un fascio, utilizzando la ricognizione topografica effettuata dalla Regione per censire danni a colture, attività produttive, case e viabilità quale strumento idoneo a constatare un universale e identico stato di bisogno per il sistema dell’istruzione e dunque la necessità dell’esonero per tutti – circa 7000 persone, pari al 20 per cento dei maturandi emiliano-romagnoli – dagli esami nella loro forma ordinaria. Il Ministero, in altre parole, si è rifiutato di affidare all’autonomia degli istituti scolastici la facoltà di individuare, sulla base dell’autocertificazione della loro residenza, gli studenti che intendessero avvalersi della facilitazione (soluzione di buon senso proposta, per esempio, da molti dirigenti scolastici del bolognese, con circolari emanate il 9 giugno). Al contrario, ha centralisticamente preteso di affermare la tassativa obbligatorietà del regime agevolato, sulla base di un’asserita, ma mai dimostrata, impossibilità tecnica di garantire ai singoli residenti delle aree alluvionate una facoltà di opzione tra la forma ordinaria d’esame e quella semplificata.

È qui che si è aperto un grave vulnus. Il ministro, per alleviare la situazione di chi dopo il 17 maggio non aveva potuto più dedicarsi alla scuola e allo studio, ha di fatto sottratto a chiunque – anche a quanti avevano perduto pochi giorni di frequenza, o magari nessuno, e non si consideravano danneggiati dalla calamità quanto al loro percorso scolastico – la possibilità di cimentarsi nell’esame secondo le forme alle quali si era lungamente preparato durante l’anno (le stesse “simulazioni” delle prove scritte si erano già tenute negli istituti, come previsto, generalmente tra aprile e la prima decade di maggio).

Il vulnus si è rivelato poi particolarmente doloroso nei casi in cui, come nel territorio bolognese, molte scuole site in zone non alluvionate sono frequentate da studenti di aree pedecollinari, montane o di pianura colpite dall’alluvione. Questi studenti, così, in virtù dell’ordinanza sono stati separati dai loro compagni di classe, che risiedendo in area non alluvionata hanno svolto, come il resto d’Italia, le prove scritte nei giorni 21 e 22 giugno. Proprio in quei giorni, come si suol dire, rituali, in cui la carriera scolastica si conclude e ci si avvia all’età adulta, intere classi sono state spezzate: gruppi significativi di 4-5 (talvolta 10) studenti per classe sono stati tenuti fuori dagli edifici pubblici, resi oggetto di divieto, a prescindere dalla propria volontà, di entrare in aula e sedersi a fianco dei loro compagni di cinque anni. Dopo il danno dell’alluvione, dunque, la beffa di un’ordinanza ministeriale!

Gli insegnanti delle scuole del bolognese hanno denunciato a più riprese, inascoltati, la forzatura e i guasti, le difformità amministrative e il rischio di contenzioso a cui il Ministero stava spianando la strada. Anche alla luce del fatto, davvero abnorme sotto il profilo giuridico, che l’ordinanza è intervenuta a modificare le modalità d’esame il giorno 8 giugno, a scuole chiuse e a scrutini d’ammissione già avvenuti. Come dire: i maturandi, benché “alluvionati” sono stati valutati il 7 e l’8 giugno dai loro consigli di classe e giudicati idonei a svolgere un esame secondo modalità ordinarie (ex OM n. 45 del 9 marzo 2023), ma hanno appreso dopo poche ore, il 9 giugno, che quelle modalità, solo per loro e indipendentemente dalla loro volontà, non esistevano più.

L’eco di queste denunce ha faticato a uscire dalla dimensione locale, raggiungendo risonanza nazionale solo grazie a “Il Messaggero” del 18 giugno (Romagna, prof e studenti contro la mini-maturità), ad una lettera di una studentessa diffusa da “Il Sole 24 Ore” del 19 giugno (La pretesa di farci rimanere bambini) e ad un commento di Nadia Urbinati sul “Domani” del 21 giugno (Il disastro delle buone intenzioni). Questi titoli riassumono bene i nodi cruciali di una vicenda in cui il ministro ha preso le sue determinazioni senza consultare chi – prof, studenti e presidi – vive tutti i giorni quel complicato mondo sociale che è la scuola pubblica, manifestando per giunta una desueta attitudine paternalistica e un’ostinazione capace di trasformare una lodevole esigenza di soccorso in una stolida imposizione autoritaria.

Resta infine da chiedersi che spazio sia stato riservato questa volta al “merito”, che Giuseppe Valditara ha voluto incidere a chiare lettere nella nuova denominazione del Ministero. Gli studenti che sono stati defraudati delle loro legittime aspettative a sostenere un esame normale, in cui mostrare il proprio valore in ambiti fondamentali come quelli dell’analisi e produzione testuale o delle discipline caratterizzanti il loro specifico corso di studi, hanno subito un’ingiustificabile discriminazione, in contrasto con quell’articolo 34 della Costituzione in cui il diritto fondamentale alla progressione fino ai “gradi più alti degli studi” è riconosciuto precisamente ai “capaci e meritevoli”.




La battaglia per il salario minimo legale

Sembra sia stato soprattutto Carlo Calenda, nei giorni scorsi, a infervorarsi per l’idea di proporre una legge sul salario minimo legale che abbia il sostegno di tutti i partiti di opposizione. E si capisce bene perché: quella del salario minimo legale è, finora, l’unica proposta che potrebbe coalizzare non solo Pd e Cinque Stelle, ma anche i partiti del Terzo Polo (Azione e Italia viva).

È una buona idea?

Per certi versi è un’idea sacrosanta. Secondo una mia stima di pochi anni fa, in Italia esiste un’infrastruttura para-schiavistica di circa 3 milioni e mezzo di persone che lavorano in condizioni di precarietà, insicurezza e bassi salari non degne di un paese civile (il caso limite sono gli immigrati addetti alla raccolta di frutta e ortaggi). Altre stime suggeriscono che, a seconda del livello a cui verrebbe fissato il minimo legale, i beneficiari di aumenti salariali potrebbero oscillare fra 1 e 3 milioni di lavoratori.

C’è un problema, tuttavia. In Italia i salari effettivi variano enormemente in funzione del settore produttivo, del costo della vita, della produttività. Inoltre, una parte delle micro-attività che impiegano manodopera male o malissimo pagata hanno margini estremamente ridotti, e non sarebbero in grado di sostenere gli aumenti salariali richiesti. In concreto, significa che la fissazione di un salario minimo legale a 9 o 10 euro lordi, uniforme su tutto il territorio nazionale, avrebbe effetti a loro volta tutt’altro che uniformi. Nei contesti ad alta produttività porterebbe a miglioramenti retributivi sostanziali, in quelli a bassa produttività condurrebbe alla chiusura di attività che operano al limite della redditività (sempre, beninteso, che governo e sindacati si impegnino a far rispettare la legge, anziché continuare a chiudere ipocritamente un occhio come si è sempre fatto in passato). In concreto, vorrebbe dire: salari più alti in molte realtà del centro-nord, più disoccupati in molte aree del sud.

Se i meccanismi fondamentali sono questi, forse sarebbe il caso di considerare l’ipotesi di un salario minimo legale differenziato per settore e zona del paese, in modo da non penalizzare troppo le attività con la produttività più bassa.

Saprà l’opposizione di sinistra muoversi in questa direzione?

È improbabile, vista la tendenza di Pd e Cinque Stelle ad affrontare tutte le questioni in termini etici e di principio, anziché in termini pragmatici e realistici. E non è questione di Schlein o non-Schlein, perché quella tendenza era già in atto in epoca pre-Schlein, e non su temi secondari. Pensiamo all’approccio ideologico in materia di immigrazione e accoglienza, o alla disastrosa gestione del Ddl Zan sull’omotransfobia, quando per preservare la purezza politica venne rifiutata l’offerta della destra di approvare il disegno di legge Scalfarotto (un’ottima legge, priva dei difetti del Ddl Zan).

È verosimile che tutta la discussione che partirà sui contenuti esatti della proposta di salario minimo legale verterà sul suo livello, con i riformisti a tirare per un livello ragionevole, e i massimalisti per un livello irragionevole ma auto-gratificante. Il risultato sarà che il governo avrà gioco facile a ignorare le proposte dell’opposizione, mostrandone l’irrealismo e gli effetti perversi.

Eppure dovrebbe essere chiaro che è il modo peggiore per provare a costruire un campo largo. Per riconquistare la fiducia degli italiani, ai progressisti serve mostrarsi in grado di fare proposte così sensate che risulti difficile rifiutarle. E incalzare il governo a farle rispettare.

Proporre un salario minimo elevato, uguale in tutta Italia, e quindi impossibile da rispettare per molte imprese, può scaldare il cuore dei militanti più ideologizzati o moralisti. Ma difficilmente può convincere la maggioranza degli italiani.




Libertario e liberale non è la stessa cosa

Come tutti i garantisti libertari Piero Sansonetti—peraltro un giornalista non poco benemerito per le critiche rivolte alla  magistratura militante—non ha capito ancora cosa sia la democrazia liberale  e questo per non aver preso sul serio il pluralismo. Quest’ultimo significa che  i valori sono tanti e tutti iscritti nell’umano e che, a decidere quale debba prevalere, quando entrano in competizione, è il giudizio degli elettori. Intervenendo su  Rete 4,  con una foga inconsueta, Sansonetti ha assimilato Eugenia M. Roccella a un ministro di Francisco Franco o di altri dittatori contemporanei. Per lui i valori ai quali si ispira il nostro Ministro delle Pari Opportunità e la Famiglia non sono valori ma rigurgiti inquisitoriali, attentati alle libertà dei cittadini che dovrebbero avere la precedenza su ogni altra considerazione e, soprattutto su quelle politiche. Chi non la pensa come noi, in questa logica, è fascista essendo fuori questione che certi diritti sono sacri e inviolabili. In tal modo, però, viene azzerata l’autonomia della politica e ai governi si chiede solo di realizzare quello che è Giusto. Ma giusto per chi? E se non si fosse d’accordo, per es., che il mancato riconoscimento del  matrimonio gay con adozione sia un attentato alle libertà dei cittadini? Se già il giusnaturalismo classico era sommamente discutibile con la sua pretesa che esistono diritti che debbono solo essere portati alla luce e codificati nelle leggi, quello libertario diventa un’ rompete le file’, che consente a ogni individuo di perseguire la felicità come,  quando e quanto vuole: la fine di ogni legame sociale.

 Intendiamoci, non sto difendendo la Roccella (che neppure a me è simpatica a causa del suo tradizionalismo), sto solo dicendo che criminalizzarla perché la sua etica politica è diversa da quella di Sansonetti significa porsi al di fuori della civiltà liberale. Se un disegno di legge viola  diritti  fondamentali dev’essere la Corte Costituzionale a bocciarlo; se è in contrasto con le nuove sensibilità maturate all’interno della società civile, saranno gli elettori a punirne l’autore. Indire una crociata  laica ogni volta che una misura governativa non ci piace, significa solo il trionfo del manicheismo, cavallo di Troia della mentalità totalitaria..