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La pesca della discordia – A proposito dello spot di Esselunga

30 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Antefatto. Lunedì 25 settembre va in onda uno spot della Esselunga in cui Emma, una bambina figlia di genitori che non vivono più insieme, ruba una pesca al supermercato per poi donarla al padre, facendogli credere che il dono provenga dalla madre. Il messaggio è limpido e semplice: la bambina è triste perché i genitori sono divisi, e ricorre a un piccolo sotterfugio nella speranza di farli tornare uniti.

Passano poche ore, e fioccano le critiche, ma anche gli elogi. C’è chi dice che lo spot strumentalizza il dolore dei bambini per fini commerciali (Bersani). C’è chi invita a riflettere sul carrello degli italiani, per molti dei quali “anche una pesca rischia di diventare un lusso” (Fratoianni). C’è chi legge lo spot come un attacco alla legge sul divorzio e chi, viceversa, vi vede un omaggio alla famiglia tradizionale. C’è chi, insorge a difesa dei genitori che divorziano, e ci spiega che non tutti i figli di genitori divorziati sono infelici, così come non tutti i figli di genitori sposati sono felici.

In generale, gli esponenti della destra apprezzano lo spot, a partire da Giorgia Meloni che lo trova “bello e toccante”. Mentre quelli della sinistra lo criticano, anche se non tutti (con la consueta franchezza, Antonio Padellaro confessa di pensarla come Giorgia Meloni).

Quanto ai social non è affatto vero che la gente sia divisa. La stragrande maggioranza dei commenti è favorevole, spesso addirittura entusiasta.

Ma perché lo spot della Esselunga ha suscitato tanto interesse e tanto consenso?

Una ragione, probabilmente, è che è uno dei pochissimi spot che non trasmette un’idea stereotipata, banale e sostanzialmente falsa della realtà. Con lo spot di Esselunga, la realtà irrompe mostrando la normalità del dolore. Perché, forse non tutti lo sanno, ma la normalità, oggi in Italia, non è la famiglia Mulino Bianco, bucolica e felice, ma la famiglia che si è spezzata o si sta spezzando. La durata media delle unioni è crollata rispetto a quella del passato. Ci si sposa più tardi, e ci si divide più presto (già a 40-45 anni). Il numero di separazioni e divorzi ha ormai raggiunto il numero di matrimoni e, nelle cause di separazione o divorzio, la norma è che bambine e bambini siano affidati a entrambi i coniugi, come pare essere nel caso dello spot. Ed è curioso che, nel vortice dei temi quotidianamente affrontati sui giornali, sui siti, nei talkshow, trovino quotidianamente spazio una miriade di argomenti marginali, di fatti contingenti, di problematiche di nicchia, ma che del dolore delle famiglie in disgregazione si preferisca parlare pochissimo. Da un certo punto di vista, il massiccio consenso allo spot è parallelo e affine a quello che ha accompagnato il libro-bestseller del generale Vannacci: la normalità e la sua rappresentazione suscitano scandalo nelle élite intellettuali e politiche, ma riscuotono l’approvazione, non di rado entusiastica, di tanti cittadini comuni, che riconoscono più verità e umanità nello spot della pesca che in tante contese mediatiche, spesso lontane mille miglia dalle sofferenze quotidiane di tanti.

C’è però, forse, anche una seconda ragione alla base del successo dello spot. Una ragione che, stranamente, non mi pare di aver sentito evocare da nessuno. Questa ragione è il completo cambiamento del formato dello spot, che è diventato molto più lungo e, soprattutto, racconta una storia. Non più messaggi brevi e pretenziosi, non più situazioni improbabili o demenziali, non più lusinghe del consumatore e poco credibili gratificazioni dell’ego, bensì una storia semplice, comprensibilissima, e capace di andare dritta al cuore. Senza sottintesi ideologici, senza ipocriti messaggi umanitari, senza pretese di educare nessuno o di salvare il mondo. In breve: un racconto, non una predica.

Insomma: forse Esselunga, a 46 anni di distanza, ha riscoperto e rilanciato la formula di “Carosello”, quel quarto d’ora di messaggi pubblicitari che, intorno alle 21, segnalavano in modo irrevocabile che, per i bambini, era l’ora di “andare a nanna”. In quegli spot l’elemento essenziale, quello che affezionava l’ascoltatore, era il brio e l’originalità delle storie, delle scenette, spesso cartoni animati, sempre quelle ma ogni volta diverse. Il messaggio pubblicitario era secondario, quasi marginale. Allora, come nello spot Esselunga, l’elemento cruciale era la capacità dei pubblicitari di inventare  storie efficaci, una capacità che – a dispetto della proliferazione dei “creativi” – non appare oggi copiosa come allora.

La reazione del pubblico alla storia di Emma e della pesca fa pensare che, forse, fra la pubblicità-messaggi e la pubblicità-storie, la gente preferisca la pubblicità-storie. E questo non solo perché le storie hanno una loro grazia e una loro semplicità, ma perché la pubblicità-messaggi è martellante, fintamente benevola, e in definitiva rozza e semplicistica. Che la mossa di Esselunga preluda a un ritorno all’antico?

[uscito sul Messaggero, 29 settembre 2023]

Maggioranza di governo – Incompetenza comunicativa e consenso

29 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Gli ultimi sondaggi non portano buone notizie per Giorgia Meloni e il suo governo. Un sondaggio di Demos, commentato su Repubblica da Ilvo Diamanti, mostra che per la prima volta da quando è al governo, il consenso per Giorgia Meloni è sceso sotto il 50%, in netto calo rispetto a tre mesi fa. Il medesimo sondaggio rivela che, sulla maggior parte delle materie, e in particolare sui problemi della sicurezza e dell’immigrazione, i giudizi positivi sono al di sotto del 50% (e crollano al 31% in materia di sbarchi). Contemporaneamente, la maggior parte dei sondaggi segnalano la tenuta di Fratelli d’Italia e una sostanziale immobilità degli orientamenti di voto degli elettori (a parte una leggera crescita della Lega).

Se dai sondaggi passiamo al mondo dell’informazione, è ancora più evidente che le cose non si stanno mettendo bene per Giorgia Meloni e il suo governo. Sia pure lentamente, la stampa progressista pare stia imparando ad attaccare il governo in modo efficace (ancorché, talora, non molto professionale). Sempre meno accuse di fascismo, sempre meno accuse contro il generale Vannacci, che si sono rivelati formidabili boomerang. In compenso: sempre più “vigile attesa” sui passi falsi del governo in materie capaci di suscitare moti di indignazione.

Esemplari, da questo punto di vista, due campagne di stampa degli ultimi giorni. La prima a difesa del direttore del Museo Egizio di Torino (Christian Greco), sgangheratamente attaccato da esponenti locali e nazionali di centro destra. La seconda contro il “pizzo di Stato”, ovvero la norma che richiede a una specifica categoria di richiedenti asilo una cauzione di quasi 5000 euro (sotto forma di fidejussione bancaria, o di polizza assicurativa) per non essere trattenuti in particolari nuove strutture per le “procedure accelerate di frontiera”.

Ebbene, in entrambi i casi quello cui abbiamo assistito è una medesima dinamica comunicativa. Da un lato, un chiaro passo falso della maggioranza. Qualsiasi cosa si pensi nel merito, non credo possano sussistere dubbi sul fatto che sia gli attacchi a un eccellente professionista come Christian Greco, sia l’idea che un richiedente asilo debba ricorrere a una fidejussione bancaria per evitare la detenzione, hanno qualcosa di grottesco. Nello stesso tempo, però, non si può non notare con sconcerto l’impreparazione del governo a fronteggiare le campagne di stampa scatenate dalle sue azioni. Ci sono voluti diversi giorni perché il ministro della Cultura Sangiuliano si decidesse a smentire ogni ipotesi di destituzione di Greco dal suo incarico. E ci sono voluti diversi giorni per apprendere dal ministro dell’Interno Piantedosi il contenuto esatto e le vere ragioni della norma sulla cauzione di 5000 euro.

Certo, una stampa più posata non avrebbe dato l’importanza che ha dato a un paio di dichiarazioni contro il direttore del Museo Egizio, e avrebbe fornito una descrizione più accurata della norma sui migranti, dei suoi limiti di applicazione, della sua matrice (una direttiva europea). Ma questo non è il punto: la partigianeria di buona parte della stampa italiana (di destra e di sinistra) è un dato della situazione, non un’eventualità che può presentarsi oppure no. Quello che non è scontato, e sorprende quando lo tocchiamo con mano, è la incompetenza comunicativa del governo. Il suo non rendersi conto che le azioni, comprese le dichiarazioni dei politici, hanno conseguenze. E che quando si sbaglia, nella forma e/o nella sostanza, la correzione deve essere a stretto giro.

L’incompetenza comunicativa di questa classe di governo non è una novità, come tanti casi recenti e meno recenti testimoniano. La novità è che, da qualche tempo, il vento è cambiato, perché l’opinione pubblica comincia a presentare il conto. E, con il vento contrario, certi errori si pagano più cari.

 

[per La Ragione, uscito il 26 settembre 2023]

Aiutarli a casa loro? – Perché non basta un piano Mattei

25 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Chi sono i migranti che sbarcano sulle nostre coste?

Nessuno lo sa con ragionevole precisione, perché su tutto si fanno sondaggi “scientifici” tranne che su chi arriva in Italia dal mare. Certo, di norma sappiamo il paese di provenienza, il sesso, l’età (o meglio l’età dichiarata), ma su tutto il resto siamo costretti a barcamenarci con frammenti di informazione, o a lavorare di fantasia.

È così che si è formata, in parte dell’opinione pubblica, nei media, nel mondo della Chiesa, fra gli scrittori, gli studiosi, gli artisti, un’immagine stereotipata dei migranti, dipinti come disperati, poveri, perseguitati, “costretti a lasciare la propria terra a causa di conflitti armati, di attacchi terroristici, di carestie, di regimi oppressivi” (parole di Papa Francesco).

Va subito detto che una parte dei migranti sono proprio così. Ed è per questo che esiste il diritto d’asilo, e una frazione dei migranti, dopo aver fatto domanda, ottiene lo status di rifugiato, o altre forme di protezione (come quella sussidiaria e quella umanitaria). Ma la domanda è: quanti sono i migranti che corrispondono allo stereotipo?

I dati frammentari di cui disponiamo suggeriscono che siano una minoranza. Vediamo perché. Innanzitutto, le domande di asilo accettate: il loro numero varia considerevolmente nel tempo, ma non ha mai raggiunto il 20%, e in molti anni è stato inferiore al 10%. Anche includendo le forme di protezione più deboli, come quella sussidiaria e quella umanitaria, si resta abbondantemente sotto il 50%. Oggi oltre il 60% dei migranti non ha diritto ad alcuna forma di protezione, e cade quindi nello status di irregolare.

Si potrebbe ipotizzare, nondimeno, che a migrare siano soprattutto gli ultimi, sospinti dalla povertà e dalla fame. Ma anche questo è incompatibile con i dati. Che mostrano invece come una frazione considerevole dei migranti sia costituita da persone che, nel loro paese, appartenevano al ceto medio. Per rendersene conto, basta confrontare il livello medio di istruzione degli immigrati approdati in Italia con quello, enormemente più basso, dei loro connazionali nei paesi di provenienza. Oppure riflettere sul costo del viaggio. Spesso ce ne dimentichiamo, ma il “biglietto di viaggio” che i trafficanti di uomini fanno pagare ai migranti (3-4-5 mila euro) è certo alto per i nostri parametri occidentali, ma è mostruosamente esoso per chi vive in paesi il cui Pil procapite è 5, 10, 20 volte più basso del nostro: chiedere 5 mila euro a un cittadino tunisino, è come chiederne 50 mila a un italiano. Inevitabile porsi la domanda: con questi prezzi, come si fa a pensare che a migrare siano soprattutto i più poveri e disperati?

Il fatto che una parte considerevole dei migranti siano migranti economici, che nei loro paesi appartengono al ceto medio e partono perché aspirano a una vita più libera e meno disagiata, è importante per due motivi, entrambi inquietanti. Il primo è che così le migrazioni tendono a depauperare l’Africa delle sue risorse umane migliori, un po’ come succede all’Italia con il flusso di laureati e diplomati verso paesi più ricchi e meritocratici. Il rischio è che iniziative pur lodevoli, come il piano Mattei, stentino a decollare perché i migliori e più intraprendenti sono già andati via, mentre quelli rimasti continuano a sognare il trasferimento in Europa, quali che siano i progressi – inevitabilmente lenti – delle società di origine.

Il secondo motivo di preoccupazione ha a che fare con il sistema di incentivi alla migrazione. Se è vero che il motore principale del flusso di migranti verso l’Europa  non è la spinta della povertà (del paese d’origine) ma l’attrazione per la ricchezza (del paese d’arrivo), allora non possiamo non vedere che la domanda di ingresso in Europa sarà sempre più elevata, molto più elevata, della disponibilità di posti. E che l’apertura di canali regolari, con conseguente crollo del biglietto di ingresso in Europa, non potrà che ampliare a dismisura lo squilibrio fra domanda e offerta.

Di qui una conclusione amara, ma difficile da evitare: il piano Mattei è un’ottima cosa, ma pensare che “aiutarli a casa loro” possa essere la soluzione è una ingenuità che l’Europa non si può permettere. Forse è giunto il momento di prenderne atto: esistono anche problemi che non hanno soluzione. Conciliare il diritto di chiunque di cambiare paese è incompatibile con il diritto dei popoli di scegliere chi accogliere. Per questo, chiunque governi e qualsiasi cosa faccia, sentiremo sempre che qualcosa di importante è andato perduto.

Denatalità e Governo

15 Settembre 2023 - di Alberto Contri

In primo pianoPolitica

Al Governo si sono accorti che la denatalità è un problema molto grave.

“Non c’è nessuna riforma o misura previdenziale che tiene nel medio e lungo periodo con i numeri della natalità che vediamo oggi in questo Paese” ha detto il Ministro Giorgetti al Meeting di Rimini.

Da alcuni mesi girano ipotesi di deduzioni progressive dal reddito a partire dal primo figlio.

E su questo tema i partiti di governo sembrano ciclisti in surplace pronti a scattare per intestarsi i relativi provvedimenti, il che costituisce già una parte del problema. Perché dimostra una visione di breve respiro. La mancanza di una complessiva visione strategica di sviluppo del paese spiega perché l’Italia è in un costante declino. Si tampona, si vende e si svende, si accontenta qualche categoria più rumorosa di altre, mentre il debito pubblico continua a crescere.

È certamente buona cosa che al Governo si stia pensando di incentivare la nascita di figli. Che dovrebbero essere procreati da giovani coppie con una visione del mondo ottimista e positiva. Ma chi ha qualche dimestichezza con la classe dai venti ai trent’anni fa davvero fatica a trovarne qualcuna.

Diseducata da una imperante e invasiva cultura woke, la maggioranza delle cosiddette future speranze del paese pare concentrarsi solo su un eterno presente, ricorrendo alla costante ricerca di piaceri istantanei, come aveva già scritto Lorenzo de Medici: “Chi vuole esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”. 

In assenza di certezze, se non quelle che prevedono – tardi – una pensione molto modesta, buona parte dei giovani si concentra su obiettivi di soddisfazione immediata come l’apericena e la discoteca, quando non si tratta di alcol e sballo. “Ciascun suoni, balli e canti, arda di dolcezza il core: non fatica, non dolore!”.

Sono passati più di cinquecento anni, e la situazione da allora è solo peggiorata. In particolare, dopo il big bang del web si è fatto di tutto per rammollire due generazioni dissolvendo la loro mente nella “costante attenzione parziale” stimolata dall’uso smodato del cellulare (v. Mc Luhan non abita più qui?-  Alberto Contri, Bollati Boringhieri , 2017]), assogettandole al non-pensiero di influencers come i  Ferragnez, convincendole che il sesso non c’entra con l’amore, che si può cambiare come un abito, che essere fluidi è assai moderno, cool, come dicono in America e piace ripetere da noi.

Può una simile poltiglia umana, che impazzisce per Chadia Rodriguez o i Maneskin, prendersi la responsabilità di mettere su famiglia?

Famiglia? Un’istituzione ritenuta superata, con una immagine continuamente delegittimata e ridicolizzata dalla narrazione dei mass media, dei social media e delle piattaforme di pay-tv. Si veda, a titolo di esempio, la serie Euphoria prodotta da Sky, il cui regista si vantò alla conferenza stampa di presentazione dicendo: “Questa serie farà andare fuori di testa molti genitori”.

Se la famiglia normale, come ha scritto il generale Vannacci sollevando un putiferio, non torna ad essere considerata una primaria aspirazione in tv, nel cinema e nei social – e non solo in qualche pubblicità dei maccheroni – non c’è alcuna speranza di invertire il grave trend della denatalità.

Ci rendiamo conto di quanti attori dovrebbero essere convintamente coinvolti in questo processo? Un qualche incentivo potrà generare un po’ di articoli di giornale, mentre per ottenere qualche risultato occorrerebbe reimpostare completamente il modo di immaginare la propria responsabilità sociale da parte delle giovani generazioni.

C’è in giro qualcuno che intende farsi carico di una simile rivoluzione culturale e antropologica?

Vannacci, la sua grossolana verità

14 Settembre 2023 - di Valerio Gironi

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Per dirla con San Paolo: confesso che ho peccato. Almeno credo, visto che taluni giudicano come tale la lettura de “Il mondo al contrario” del generale Roberto Vannacci. Il mio è un peccato “premeditato”, dunque non so se perdonabile, però sono convinto che per giudicare qualcuno o qualcosa, prima bisogna conoscere quel qualcuno o quella cosa. Fatta questa lunga (e forse inutile) premessa dico la mia sul fenomeno editoriale dell’estate 2023, evitando rigorosamente il riferimento a questo o quel capoverso: il “per esempio scrive…” induce sempre il lettore a soffermarsi a quell’esempio e perdere la veduta d’insieme del libro; e Roberto Vannacci in quanto a visione ed esposizione delle proprie convinzioni, è piuttosto solido e il suo prodotto se disaggregato perde di efficacia.

La prima (beh, non la primissima, quella è l’audacia dei giudizi) impressione che si ha leggendo il libro è che il generale Vannacci si trovi più a suo agio tra ordini scanditi e azioni coraggiose, piuttosto che con la punteggiatura e la sintassi (tipico inciampo di chi scrive di getto): nulla di irrimediabile con un buon editing.

Ciò detto, il libro scorre veloce e incuriosisce, non tanto per il dubbio di dove l’autore voglia andare a parare, quanto per la sicurezza delle sue affermazioni e dei giudizi derivanti. Insomma, uno che non le manda a dire, e soprattutto non tenta alcuna mediazione con le sue profonde convinzioni (che con tutto il fluido che gira di questi tempi…).

Però il vero valore aggiunto de “Il mondo al contrario” è quello di dare ordine alle idee e di mettere nero su bianco quel “pensato ma non detto” assolutamente trasversale – per sensibilità politiche e no – in larga parte di nostri concittadini.

Dunque credo che dobbiamo un grazie al Vannucci che riesce in una operazione verità – sintetica quanto efficace – del comune sentire patrio. Forse lo fa in modo grossolano, ma se abbiamo perdonato George Bernard Shaw che per sintetizzare l’essenza del melodramma italiano sosteneva che il tutto si riduceva semplicemente al tenore che voleva portarsi a letto il soprano mentre il baritono non era mai d’accordo, ecco il generale può, a buon diritto, rivendicare la sua grossolana verità .

Poi il diritto di essere e di dire è di tutti, compresi quelli che il libro non l’hanno letto e forse non lo leggeranno mai.

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