Antigone non abita più qui

Hanno assunto una certa frequenza, negli ultimi anni, i casi in cui un individuo o un funzionario pubblico violano qualche legge o regola più o meno vincolante invocando ragioni di principio, o ricorrendo a qualche forma di obiezione di coscienza, se non di vera e propria disobbedienza civile. È accaduto, in passato, con i decreti sicurezza di Salvini, con la gestione disinvolta degli immigrati (famoso il caso del sindaco Mimmo Lucano), con le leggi che vietano l’aiuto al suicidio (Marco Cappato e il Dj Fabo). Accade, negli ultimi tempi, con le trascrizioni, da parte dei sindaci, degli atti di nascita dei figli di coppie del medesimo sesso. Ed è accaduto pochi giorni fa con il rifiuto del rettore dell’Università per stranieri di Siena di esporre la bandiera a mezz’asta, rispettando il lutto proclamato dal governo per la morte di Silvio Berlusconi.

Ma è accaduto spesso anche in modo più subdolo, ogni volta che gruppi di contestatori hanno impedito di parlare a esponenti politici, quasi sempre di destra. L’ultimo caso di questo tipo è accaduto al Salone del Libro di Torino un mese fa, quando al ministro Eugenia Roccella è stato fisicamente impedito di presentare un suo libro, adducendo come motivo il carattere liberticida del governo di cui fa parte.

Tutti questi episodi sollevano un problema importante: in quali casi è giustificato esercitare l’obiezione di coscienza, o mettere in atto forme (collettive) di disobbedienza civile?

A prima vista, una risposta potrebbe essere: ogniqualvolta l’autorità pubblica viola un diritto o un principio fondamentale. È il modello Antigone, che nella celebre tragedia di Sofocle dà sepoltura al fratello Polinice, obbedendo alle “non scritte leggi degli dei”, ma così violando quella della città (Tebe), retta dal tiranno Creonte.

Ci sono due complicazioni, però, se cerchiamo di applicare il modello Antigone al nostro tempo. Innanzitutto, siamo in una democrazia, le leggi sono espressione del Parlamento, ed esiste la possibilità di cambiarle senza spargimento di sangue. In secondo luogo, siamo in un tempo di “politeismo dei valori”, espressione con cui Max Weber descriveva la necessità di scegliere fra valori contrastanti, nessuno dei quali può pretendere di avere una validità assoluta. A differenza di Antigone, raramente abbiamo un valore condiviso cui appellarci contro la prepotenza del potere, perché siamo noi stessi – cittadini delle società moderne – in conflitto fra noi sui valori, i principi, i doveri e i diritti.

Ecco perché l’obiezione di coscienza, in qualsiasi campo si applichi, è sempre esposta a un rischio: quello di far valere un principio che non è universale, ma pretende di esserlo. Come già nelle antiche vicende della leva obbligatoria e dell’aborto, non ci troviamo di fronte a un principio assoluto e indiscutibile, da far valere contro un potere dispotico, ma a un genuino conflitto fra valori inconciliabili: la difesa della patria e il divieto di uccidere, la vita del nascituro e l’autodeterminazione della donna. In una situazione nella quale la società civile è divisa fra opposte concezioni di quel che è giusto e quel che è sbagliato, di quel che è bene e quel che è male, l’obiezione di coscienza è ancora possibile, ma assume inevitabilmente una curvatura soggettiva, e per ciò stesso non esente da arbitrarietà, se non da hybris individualista. Il caso della gestazione per altri, o utero in affitto, lo illustra nel modo più chiaro: fra diritto alla genitorialità e principio di non mercificazione del corpo della donna è impossibile fare una scelta che metta d’accordo rutti.

Forse dovremmo rassegnarci a questo e, quando insorgono conflitti valoriali, considerare con rispetto entrambe le posizioni, senza pretendere di attribuire caratteri di universalità a diritti che tali non sono. In una democrazia, il conflitto fra modelli culturali e concezioni del bene è fisiologico. Quel che non è fisiologico è che una parte assuma di avere il monopolio del bene, e pensi le proprie battaglie nel registro dell’obiezione di coscienza classica, come se fossero dirette contro un potere arbitrario e dispotico, che calpesta diritti divini, naturali o universali. Perché il mondo è cambiato, Giorgia Meloni non è Creonte, e Antigone non abita più qui.




Meloni, consenso effimero?

Che Giorgia Meloni abbia il vento in poppa sono in molti a pensarlo. I recenti risultati alle elezioni comunali sembrano dimostrarlo in modo inequivocabile. La maggior parte dei sondaggi lo confermano. Compresi quelli usati per sostenere il contrario, come quello recentissimo di Alessandra Ghisleri, pubblicato con grande evidenza su “La Stampa” giovedì scorso: il calo di consenso di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni sono di entità trascurabile (entrambi contenuti entro l’errore statistico), mentre tutti gli altri principali leader, compresa Elly Schlein, perdono circa 2 punti.

Dunque tutto bene per il governo di Giorgia Meloni?

Apparentemente sì. Però ci sono anche ragioni per pensare che il consenso attuale sia drogato da alcuni fattori che lo tengono artificialmente elevato. Vorrei menzionarne almeno tre.

Primo. Il principale partito di opposizione, il Pd, non ha una linea politica riconoscibile, come hanno mostrato le ambiguità sul termovalorizzatore di Roma, sull’invio delle armi all’Ucraina, sul delicato tema dell’utero in affitto. Né si vede come una tale linea possa emergere, stante il fatto che la maggioranza degli iscritti al Pd ha scelto Stefano Bonaccini, non certo Elly Schlein (53% contro 35% dei consensi). Per realizzare il suo progetto, Schlein ha necessità di rottamare buona parte della vecchia classe dirigente, ma se provasse a farlo fino in fondo farebbe esplodere le tensioni e i conflitti interni al partito. La vicenda della sostituzione, come vice-capogruppo alla Camera, del riformista Piero de Luca con l’ultra-pacifista Paolo Ciani, è solo un assaggio di quel che potrebbe accadere man mano che la neo-segretaria procederà sulla via del ricambio.

Secondo. Non è detto che intellettuali, tv e grande stampa non si accorgano, prima o poi, che la demonizzazione di Giorgia Meloni è controproducente. Oggi il premier può contare sull’aiuto involontario che, con le loro chiamate alle armi ed esternazioni antifasciste, quotidianamente le forniscono personaggi come Roberto Saviano, Michela Murgia, Ginevra Bompiani, Tomaso Montanari. Ma domani? Se la smettessero, o i media non si prestassero più a diffondere i loro allarmi, se il dibattito si spostasse su temi più prosaici e concreti, e Giorgia Meloni venisse chiamata a rispondere, punto per punto, dell’efficacia del suo operato? Allora, la rendita di posizione dovuta al cieco furore dei suoi nemici giurati potrebbe sciogliersi come neve al sole.

Terzo. Il tempo esiste. Per l’opinione pubblica non è la stessa cosa giudicare un governo all’inizio, a metà o alla fine di una legislatura. La sinistra si illude se pensa che i cittadini possano ritirare il consenso a Giorgia Meloni solo perché, finora, non ha mantenuto nessuna delle promesse fondamentali del centro-destra: contenere gli sbarchi illegali, ridurre le tasse a tutti, portare a 1000 euro il livello delle pensioni minime. E ancor più si sbaglia se spensa che la delusione per queste promesse mancate possa portare voti a sinistra: la gente sa perfettamente che, certe promesse, può mantenerle solo la destra, e che un governo di sinistra si limiterebbe ad azzerare ogni speranza di vederle realizzate.

Ma nel medio periodo tutto cambia. Se Meloni non riuscirà a mantenere le promesse, speranza e paziente attesa, di cui l’elettorato sta dando ampia prova, sono destinate a lasciare spazio a disillusione, amarezza, risentimento. Perché l’opinione pubblica funziona così: alla luna di miele segue il redde rationem, l’ora della resa dei conti. Anzi, si potrebbe dire che il redde rationem è la norma, la luna di miele è l’eccezione, una sorta di privilegio degli inizi. Non per nulla, nella seconda Repubblica, nessun governo è mai stato confermato nel turno elettorale successivo.

Una volta scavallato l’appuntamento delle elezioni europee (primavera dell’anno prossimo), comincerà il conto alla rovescia per le elezioni politiche del 2027, punteggiato da una miriade di insidiosissimi appuntamenti elettorali locali (regionali e comunali). È a quel punto che sarà essenziale, per Giorgia Meloni, avere un bilancio di risultati concreti in attivo. Altrimenti, nemmeno le pulsioni autolesioniste del Pd potrebbero bastare a conservarle il consenso.




Il fantasma del pluralismo

Sempre più spesso ritorna sui giornali il tema  della Nazione. Oggi la Nazione o è un valore alto da riscoprire (per le destre) o è il ritorno di Satana da esorcizzare (per le sinistre:v. gli articoli di Ezio Mauro su ‘la Repubblica’). E’ la riprova che la nostra cultura politica non sa neppure cosa sia quel pluralismo che un grande filosofo come Isaiah Berlin aveva illustrato in memorabili saggi sul Romanticismo, su Vico, Herder, Kant etc. Essere pluralisti significa prendere sul serio la lezione degli Antichi  che ‘il mondo è pieno di dei’. E, nella fattispecie, rendersi conto, ad es., che la Nazione è un valore ma accanto ad altri valori che, per alcuni, in certi momenti storici, possono essere più importanti (i ‘nazionalisti liberali’ Benedetto Croce e Federico Chabod si auguravano, negli anni 40, la sconfitta della patria che avrebbe comportato la fine della dittatura fascista); che le libertà civili sociali e politiche sono un valore ma possono entrare in conflitto con altri bisogni, come la sicurezza e l’ordine; che l’attaccamento alla famiglia è un valore ma, in certi casi, può arretrare davanti all’etica e al diritto. Il ritorno dell’Inquisizione—religiosa o laicistica che sia—ci riporta oggi al fondamen-talismo dell’aut/aut: per chi non ha il sentimento della patria, la patria è un fantasma emerso dagli Inferi —ha scritto una nota antropologa terrorista del concetto: “I figli non hanno chiesto di venire al mondo in una determinata patria. Perché dovrei amarla, non avendola scelta?”; per chi si sente imprigionato nella comunità familiare, quest’ultima è un residuo tribale. Il pluralista non pretende di riconciliare tutti i valori e, anzi, spesso è drammaticamente consapevole della loro irriducibilità ma esige di riconoscerli come tali e di rispettarli anche nel dissenso, in quanto iscritti ‘tutti’ nell’umano. Egli sa che i modelli di vita buona sono tanti e che il conflitto nasce dalla diversa priorità che le famiglie ideologiche danno agli uni sugli altri. Stiamo assistendo, invece, alla nascita di una umanità spaventosa, che cancella o demonizza tutte le idealità che non sente e non intende. Ed è questa la vera rivincita della ‘mens totalitaria’.




Il fascino discreto della rottamazione: Schlein come Renzi?

Che cosa abbia esattamente in testa Elly Schlein non si è ancora capito. Si citano, al riguardo, le incertezze o ambiguità sul termovalorizzatore di Roma, sull’utero in affitto, sull’invio di armi all’Ucraina. Però, se andiamo a rileggere il programma su cui ha vinto la battaglia per la segreteria del Pd, almeno una cosa risulta in modo chiarissimo: non farò come Renzi. Nella mente della neo-segretaria del Pd, Renzi e il renzismo sono, all’interno della sinistra, una sorta di male assoluto. Se c’è una cosa che il nuovo Pd non deve ripetere sono gli “errori” di Renzi. Che non riguarderebbero solo le scelte in materia di mercato del lavoro (Jobs Act), ma anche le relazioni industriali (asse con Marchionne contro la Cgil), le politiche migratorie (memorandum Italia-Libia di Marco Minniti), per non parlare del referendum istituzionale (Elly Schlein votò contro).

Da questo punto di vista, non è esatto dire che Elly Schlein non abbia le idee chiare. Sarà pure stata incerta su alcune tematiche sensibili (green, guerra, utero in affitto), ma non si può dire che le manchi una stella polare: portare il Pd lontano dal renzismo. Questa è la missione, su questo non ammette tentennamenti.

Però…

Però c’è una cosa su cui Elly Schlein non solo non è lontana da Renzi, ma pare ricalcarne perfettamente le orme. Ricordate gli anni della “rottamazione”? Ricordate l’aspra polemica con Massimo d’Alema? Le frecciate a Bersani e Veltroni? Ricordate quanti esponenti del Pd vennero messi da parte, o indotti ad andarsene? E la rivoluzione delle cinque capolista, tutte donne, alle (trionfali) elezioni europee del 2014? O la nascita di Articolo 1, in cui si rifugiarono Bersani, Speranza, e tanti altri illustri esponenti del Pd?

Insomma, c’è molto del (vecchio) Renzi nel modo in cui Elly Schlein tenta di governare il suo (nuovo) Pd. Con una importante differenza, però: lo stile. Che non può mai essere elegante quando si rottama, ma c’è modo e modo. Ha destato molto sconcerto, negli ultimi giorni, il modo in cui è stato rimosso e sostituito il vice-capogruppo Pd della Camera. Perché la rimozione di Piero de Luca, figlio di Vincenzo de Luca, ha tutto il sapore di una vendetta per le pungenti critiche del padre, governatore della Campania. E la sua sostituzione con Poalo Ciani, un esterno che ha votato contro l’invio di armi in Ucraina, è parsa a molti un gesto incomprensibile, per non dire arrogante. La sensazione, nel Pd, è che Elly Schlein non abbia alcuna intenzione di ascoltare i membri della minoranza riformista, più o meno bonacciniana, e ciò a dispetto del loro essere maggioranza fra gli iscritti del partito (ricordiamo che, nel voto degli iscritti, Schlein ha avuto appena il 35% dei consensi, contro il 53% di Bonaccini).

Persino Sansonetti, “vecchio comunista” e direttore del recentemente resuscitato quotidiano “L’Unità”, si è sentito in dovere di ricordare a Elly Schlein che il Partito comunista, spesso accusato di stalinismo, usava più rispetto verso i dissenzienti, al punto da nominare capigruppo alla Camera e al Senato personaggi dell’opposizione interna come Pietro Ingrao, o non allineati come Umberto Terracini.

Che dire, a questo punto?

Forse soltanto che, se vuole sopravvivere al partito di cui è divenuta segretaria, a Elly Schlein converrebbe trattenere il buono e prendere rapidamente congedo dal cattivo (o dal meno buono) dello stile di Renzi. Dove il buono è stato di ingaggiare con l’opposizione interna una battaglia politica aperta, fatta di idee e di proposte. Mentre il meno buono è stata la spavalderia con cui è stata rottamata la vecchia guardia. Anche perché, non va mai dimenticato, in un partito fatto di correnti e di cordate di potere, c’è sempre il rischio che i rottamati e le vecchie guardie, prima o poi, ti tendano un’imboscata.

Luca Ricolfi




E se smettessimo di fingere? Investire contro il cambiamento climatico: ma è la strada giusta?

Quando si parla di Pnrr, la preoccupazione prevalente è di spenderli bene, spenderli tutti, i quattrini che l’Europa ci impresterà. C’è però anche un secondo problema, di cui si parla di meno, o meglio si parla in modo obliquo: per che cosa spenderli.

La risposta canonica è: portare a termine le sei “missioni” indicate dall’Europa, dalla digitalizzazione alla transizione ecologica, dalle infrastrutture alla ricerca, dall’inclusione alla salute. Ma è una risposta convincente?

Forse non del tutto, per vari ordini di ragioni. Intanto perché forte è il rischio che gli enti locali siano chiamati a spendere pur di spendere, senza una chiara e previa individuazione delle priorità. In secondo luogo, perché non è detto che i costi futuri di mantenimento delle nuove opere (infrastrutture e personale) abbiano le dovute coperture. Ma soprattutto perché le due voci principali, digitalizzazione e transizione ecologica (circa 120 miliardi di euro), non sono esenti da rischi e criticità.

Sulla digitalizzazione, andrebbero prese molto sul serio le preoccupazioni, culturali e pedagogiche, che da qualche tempo sono emerse nel mondo della scuola (vedi ad esempio il manifesto “Insegnare contro vento”, firmato da insegnanti e illustri studiosi). Quanto alla transizione ecologica, credo che dovremmo affrontare di petto il dubbio che, pochi anni fa, sollevò Jonathan Franzen nel suo pamphlet E se smettessimo di fingere?  (Einaudi 2020).

Lo riassumo brutalmente. Il riscaldamento globale, ammesso che sia imputabile prevalentemente alle emissioni di anidride carbonica, avremmo avuto qualche chance di contenerlo se avessimo cominciato ad agire con determinazione 30-40 anni fa. Ora non più. Ora è tardi, ora contenere il surriscaldamento anche solo di qualche decimo di grado ha costi enormi, che la maggior parte dei paesi inquinatori non ha la minima intenzione di sostenere, se non altro perché comporterebbe un drastico ridimensionamento del tenore di vita delle popolazioni “virtuose” (pensiamo, per fare giusto due esempi, alle conseguenze delle direttive europee in  materia di auto green e classi energetiche delle abitazioni).

In breve: perché fingere che sia ancora possibile raggiungere un obiettivo che è chiaramente fuori della nostra portata?

Detto così, sembra un messaggio disfattistico, che spegne la speranza, e tutt’al più disturba gli enormi interessi, economici e politici, dell’establishment climatico e delle lobby green. C’è però un risvolto cruciale del ragionamento di Franzen: lo spaventoso  costo-opportunità della “scelta climatica”, ossia del convogliamento di enormi risorse economiche nel tentativo (disperato?) di mitigare di qualche decimo di grado il surriscaldamento globale.

Che cos’è il costo-opportunità di una scelta? È il valore delle alternative cui si rinuncia per il fatto di aver scelto una determinata alternativa a scapito di altre. Se spendi 100 miliardi per fare A, rinunci a tutte le cose (B, C, D,…) che avresti potuto fare con quei soldi se non li avessi spesi per fare A.

Ed ecco l’idea Franzen: “una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente”.

Le alternative cui rinunciamo, in altre parole, sono le innumerevoli azioni il cui scopo non è fermare l’innalzamento delle temperature, ma fronteggiare le sue drammatiche conseguenze. Azioni che, dirottando la maggior parte delle risorse sul cambiamento climatico, non possono essere messe in atto risolutamente, efficacemente, e nella misura necessaria.

La posizione di Franzen è interessante perché non è affatto anti-ambientalista (lo scrittore americano è da anni fra i più impegnati nella difesa dell’ambiente e nella tutela della biodiversità). Quello che Franzen, con il suo piccolo pamphlet, ha provato a fare, è semplicemente di metterci una pulce nell’orecchio: siete sicuri che abbia senso concentrare la maggior parte delle risorse su un problema quasi sicuramente irrisolvibile, quando ci sono innumerevoli problemi ambientali, dal dissesto idrogeologico alla protezione delle foreste, dalla tutela della biodiversità alla gestione dei rifiuti, che possiamo affrontare con successo spostando i nostri investimenti su quei problemi?