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Il 25 aprile e del perché a scuola in Italia si fanno 3 volte i Sumeri ma mai la Seconda Guerra Mondiale

30 Aprile 2024 - di Matteo Repetti

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In questi giorni, mentre leggevo i resoconti della manifestazione del 25 aprile a Milano, ho avuto come una presa di coscienza.

Mi sono infatti sempre chiesto, prima da studente e poi da genitore, per quale motivo nelle scuole italiane di ogni ordine e grado viene fatta studiare la storia antica – vale per i Sumeri come per l’antico Egitto – sia alle elementari che alle medie che nelle superiori, mentre, più ci si avvicina alla contemporaneità, lo zelo degli insegnanti si affievolisce e gli avvenimenti del ’900 non sono oggetto di uno studio altrettanto serrato e scandito.

In particolare, poi, la Seconda Guerra Mondiale rappresenta una specie di tabù: al massimo si arriva ai cosiddetti suoi prodromi, e difficilmente lo studente medio italiano sa come è andata realmente a finire.

Sarà colpa dei programmi, dipenderà dagli insegnanti, a cui manca il tempo necessario alla fine dell’anno scolastico, pensavo.

Ma poi, leggevo che alle manifestazioni per il 25 aprile in tutta Italia le piazze sono state egemonizzate o comunque pesantemente condizionate da chi chiedeva il cessate il fuoco ovunque, in Ucraina come a Gaza, denigrando gli americani, la NATO, gli ebrei e la brigata ebraica; ed assistevo ai distinguo, ai complicati giochi verbali di chi in questo paese – compreso chi ci governa – non riesce a dirsi antifascista.

Ecco, allora ho, per la prima volta, nitidamente capito che la moratoria sulla Seconda Guerra Mondiale, la circostanza che la guerra di liberazione dal nazifascismo e la resistenza in Italia non venga studiata a scuola, non è affatto casuale: il tacito patto di non affrontare quelle pagine di storia – che dovrebbero costituire invece il fondamento della nostra comunità nazionale – è funzionale affinché ogni parte politica, ogni fazione possa sostenerne la sua versione, in una logica da tifosi, senza il fastidio di dover tenere in conto la realtà.

La verità dei fatti, per chi la vuole intendere, è d’altra parte ormai piuttosto nota.

Il ventennio fascista ha rappresentato un regime orribile, fatto di oppressione, di violenza, in cui è stata conculcata ogni più elementare forma di libertà: ed è bene sapere che oltre alla pizza, al bel canto, alla moda e al made in Italy, nel mondo la stessa parola fascismo ha purtroppo il nostro copyright.

Così com’è ormai storiograficamente accertato che il regime nazifascista è stato sconfitto in Italia dalle forze alleate, dagli angloamericani. Si calcola che siano morti in Italia per liberarci poco meno di 100.000 soldati americani, e complessivamente gli alleati (tra cui americani e britannici, ma anche polacchi, brasiliani, neozelandesi, ecc.) ebbero circa 313.000 “casualties” (tra morti, feriti, dispersi o prigionieri): si tratta di numeri di molto superiori alle forze e alle perdite partigiane, che militarmente ebbero un ruolo residuale.

In altre parole, e per essere chiari: senza i partigiani, gli alleati ci avrebbero messo un po’ di mesi in più a risolvere la guerra in Italia. Ma senza gli alleati, la resistenza non avrebbe potuto neanche cominciare.

D’altra parte, come ebbe a dire Churchill: “Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure, questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti”. Insomma, è ormai acclarato che la resistenza non fu affatto un movimento di popolo, ma interessò una porzione molto limitata della popolazione al Nord del paese, e fu un fenomeno eterogeneo, in cui spinte ideali si mischiarono a regolamenti di conti, condotta da chi voleva fare la rivoluzione anche in Italia e quanti volevano invece semplicemente tornare a fare una vita normale.

Di certo ci fu anche un senso di riscatto civile e morale: ma l’Italia democratica e la Costituzione più bella del mondo furono anche frutto di contingenze geopolitiche.

Non sarebbe l’ora che queste cose, per come sono effettivamente andate, iniziassimo finalmente a dircele e a farle studiare ai nostri ragazzi? (con buona pace dei Sumeri, di cui sappiamo già tutto)

Protesta studentesca e libertà di parola – Davide contro Golia?

27 Aprile 2024 - di Luca Ricolfi

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Diversi osservatori si sono compiaciuti delle mobilitazioni studentesche pro-Gaza, perché esse mostrerebbero che i giovani non sono apatici e indifferenti come talora vengono dipinti, bensì impegnati e sensibili ai destini del mondo. Qualcuno ha pure evocato una sorta di nuovo ’68, come se l’idealismo della gioventù pacifista di oggi fosse una riedizione di quello di ieri contro la guerra del Vietnam.

Nessuno può sapere come le cose evolveranno, ma per ora – a mio parere – le differenze prevalgono sulle analogie. La differenza più evidente è che, per ora, le proteste degli studenti sono molto circoscritte e, anche per questo, significativamente infiltrate da soggetti esterni, sia negli Stati Uniti sia in Italia. Ma esiste anche un’altra differenza, di cui si parla poco: la complessità ideologica dell’oggetto del contendere.

Negli anni ’60 il nucleo della protesta, specie negli Stati Uniti, era l’opposizione a una guerra che coinvolgeva direttamente gli Stati Uniti, e che rischiava di ripercuotersi sugli studenti universitari, in quanto potenzialmente arruolabili. Sul piano politico, l’alternativa era relativamente semplice: si potevano condividere o viceversa contestare le ragioni dell’intervento americano nel sud-est asiatico. Due posizioni chiare e ben difendibili, da entrambe le parti.

Oggi le cose sono molto più complicate. Il conflitto che scalda gli animi dura da quasi 80 anni, ossia dalla nascita dello stato di Israele nel 1948. Nel tempo ha coinvolto direttamente o indirettamente numerosi stati e popolazioni, dando luogo a una catena di guerre più o meno esplicitamente dichiarate, con alleanze variabili fra i soggetti coinvolti. Come non bastasse, al centro del conflitto si sono trovati gli ebrei, ovvero le vittime principali del nazismo, e diverse popolazioni di fede musulmana, ostili alla nascita di uno stato ebraico in Palestina. Un vero groviglio, che ha dato luogo a una lunghissima partita, suddivisa in una decina di “tempi”, di cui quello iniziato il 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo.

Queste peculiarità della questione palestinese rendono terribilmente difficile dipanare la matassa ideologica del conflitto. Se si parla tra persone informate e non troppo faziose, nessuno si sente di schierarsi nettamente da una delle parti in conflitto, perché è impossibile non vedere la sequenza di tragici errori compiuti da entrambi i lati. Si può, più o meno istintivamente, sentirsi più solidali con gli uni o con gli altri, ma è difficile non vedere le immani responsabilità della parte per cui si parteggia.

Non così a livello di massa. A livello di massa prevalgono le semplificazioni manichee proprio perché la vicenda è troppo intricata. Il bisogno di prender posizione, ammirevole in quanto rifiuto di ogni indifferenza e apatia, si scontra con l’impossibilità di farlo senza cancellare ingenti porzioni della storia reale del conflitto. Ed ecco la soluzione: costruire un racconto a senso unico giocando sulla asimmetria fondamentale del conflitto, che vede da una parte uno dei popoli più martoriati della terra, dall’altro una delle nazioni più ricche e potenti dell’occidente. Una sorta di riedizione della sfida fra Davide e Golia, con Israele nella inedita parte del cattivo gigante Golia, e il popolo palestinese in quella del buono e coraggioso pastorello Davide.

Questo racconto partigiano, naturalmente, non ha alcuna possibilità di uscire indenne da un confronto storico-critico informato, che consideri tutta la storia del conflitto, e non nasconda le spaventose responsabilità delle classi dirigenti arabe (specie nei primi 20 anni del conflitto) e israeliane (specie negli ultimi 20 anni). Ed ecco spiegato come mai non accade quel che recentemente ha auspicato Massimo Cacciari: ossia che le università diventino luoghi di confronto, riflessione e dialogo nei modi ad esse appropriati, ossia con seminari, convegni, dibattiti, corsi di studio sulla storia del conflitto. La ragione per cui tutto ciò non accade, né potrà mai accadere, è che un dialogo aperto e senza censure farebbe sciogliere come neve al sole il rozzo racconto degli attivisti anti-Israele, per questo fermamente decisi a non fare i conti con tutta la complessità del groviglio medio-orientale.

Ma la debolezza storico-ideologica del racconto degli attivisti studenteschi spiega anche un altro tratto della protesta attuale: la sua vocazione intimidatoria, che si è manifestata in tanti episodi recenti, come le contestazioni degli ebrei David Parenzo e Maurizio Molinari, o l’espulsione dal corteo del’8 marzo della ragazza che ricordava gli stupri di Hamas. L’attivismo studentesco di oggi, a differenza di quello di ieri, ha assoluto bisogno di limitare la libertà di parola altrui, perché quella libertà ne metterebbe a repentaglio il racconto. In un confronto aperto non tutte le ragioni starebbero dalla parte dei palestinesi, e non tutti i torti dalla parte degli israeliani. È questo che impedisce agli studenti di lasciare il comodo terreno dei cortei e delle piazze per avventurarsi in mare aperto, dove l’unica forza che conta è quella delle idee.

(uscito sul Messaggero il 25 aprile 2024)

Il cambio di paradigma epocale dell’OMS nella trasmissione degli agenti patogeni respiratori.

20 Aprile 2024 - di Giorgio Buonanno

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Tutte le verità passano attraverso tre stadi. Primo, vengono ridicolizzate. Secondo, vengono violentemente contestate. Terzo, vengono accettate dandole come evidenti. (Arthur Schopenhauer)

All’inizio del turbolento 2020, l’umanità si è trovata a fronteggiare un nemico nuovo, un virus sconosciuto che ha scatenato il panico globale. Nelle prime fasi della pandemia da SARS-CoV-2, ci si è concentrati sui metodi tradizionali di igiene personale e disinfezione delle superfici, nell’illusione che queste pratiche potessero arrestare la diffusione del virus. Eppure, il vero veicolo di contagio si nascondeva nell’aria che respiravamo. La comunità scientifica, guidata da un gruppo di 36 scienziati, ha impiegato mesi per avere dall’OMS una timida apertura sull’importanza cruciale della trasmissione per via aerea nell’epidemiologia del COVID-19. Ma da noi in Italia, le nostre autorità sanitarie hanno continuato inutilmente per oltre due anni (nonostante qualche avvertimento dell’OMS) a sanificare superfici, ad imporre con ritardo l’uso delle mascherine (senza distinzione tra filtri facciali e mascherine chirurgiche), ad applicare unicamente il distanziamento ed il famoso Green Pass come misura preventiva negli ambienti chiusi. La risultante di tutti questi interventi era (ed è) di gran lunga inferiore agli interventi ingegneristici da attuare se avessero accettato la via aerea di trasmissione del COVID-19. Il nostro Comitato Tecnico Scientifico irresponsabilmente non ha applicato il principio di precauzione (che impone misure protettive anche nella semplice ipotesi – non prova – di rischi per la popolazione o l’ambiente) causando decine di migliaia di casi, ricoveri e morti in più, con un sovraccosto economico enorme nella gestione della pandemia. La recente pubblicazione dell’OMS dal titolo “Global technical consultation report on a proposed descriptive framework for the approach to pathogens that transmit through the air” sancisce un cambio di paradigma epocale all’interno della comunità medica: sotto la guida di una ventina di esperti mondiali con competenze multidisciplinari (quelle negate nei tre anni del CTS che ha visto la partecipazione di membri appartenenti alla sola comunità medica e addirittura sbeffeggiate dai nostri virologi) è stata sancita la trasmissione aerea (il famoso vecchio aerosol) come via primaria di trasmissione per tutti gli agenti patogeni respiratori, dal SARS-CoV-2 all’influenza, dal morbillo alla varicella. Questa revisione ha portato alla accettazione da parte dell’OMS del concetto di particelle infettive respiratorie (IRPs), eliminando la vecchia distinzione tra “aerosol” e “droplets” e mettendo in luce l’importanza della ventilazione degli ambienti chiusi nella prevenzione delle malattie respiratorie. Per aiutare questa nuova comprensione della trasmissione virale, l’OMS ha inoltre pubblicato ARIA (Indoor Airborne Risk Assessment), una web app basata su un tool pubblicato dall’Università di Cassino nel 2020 (AIRC, Airborne Infection Risk Calculator), che consente di valutare il rischio di contagio da COVID-19 in base a diversi fattori ambientali e comportamentali. Grazie alla collaborazione interdisciplinare tra esperti di diversa provenienza, è stato possibile integrare i fattori fisiologici, virali ed ambientali ed ogni responsabile di spazi pubblici potrà quantificare il rischio di infezione e identificare le misure ingegneristiche preventive più efficaci per garantire una effettiva protezione dal contagio.  Il riconoscimento dell’OMS della trasmissione aerea come modalità principale di contagio rappresenta un importante progresso nella lotta contro le malattie respiratorie, anche se è fondamentale comprendere che non tutti gli agenti patogeni si trasmettono allo stesso modo e che le misure preventive devono essere adattate di conseguenza. Purtroppo, nonostante ci fosse consapevolezza nella comunità scientifica, poco è stato fatto per migliorare la qualità dell’aria negli ambienti chiusi. La maggior parte delle persone continua a trascorrere gran parte del tempo in ambienti con ventilazione insufficiente, esponendosi così a rischi per la salute non solo legati al COVID-19, ma anche ad altre patologie respiratorie e al degrado delle capacità cognitive. Per affrontare questa sfida, è necessario un impegno politico e finanziario, oltre a normative internazionali e nazionali per garantire standard minimi di qualità dell’aria negli ambienti chiusi. Così come abbiamo ottenuto progressi significativi nella sicurezza dell’acqua e nella riduzione dell’inquinamento atmosferico all’aperto, dobbiamo ora concentrarci sul miglioramento della qualità dell’aria negli ambienti chiusi, riconoscendo che questa è una delle sfide più urgenti per la salute pubblica del nostro tempo. La scienza è stata soffocata fin troppo da un dogma delle nostre autorità sanitarie cristallizzato dalla fine dell’800 (i famosi droplets). E nel nome di questo dogma non abbiamo affrontato i rischi degli ambienti chiusi, il vero tallone d’Achille delle nostre società, là dove trascorriamo il 90% del nostro tempo ed avviene la quasi totalità delle infezioni. Ma con l’ostinazione e le motivazioni di chi si sente supportato dal sapere scientifico e dall’esempio di chi ci ha preceduto, la nostra comunità scientifica non ha mai interrotto il tentativo di diffondere e condividere il sapere riuscendo in un risultato fondamentale per affrontare le future pandemie.

[Prof. Giorgio Buonanno Università di Cassino e del Lazio Meridionale Queensland University of Technology, Brisbane, Australia]

Generazione Z: fuga dallo smartphone?

20 Aprile 2024 - di Luca Ricolfi

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Non è un momento felice per gli smartphone e per i social: da un anno a questa parte le voci che ne sottolineano ogni sorta di pericoli sono sempre più numerose. Fra le più recenti il possente studio di Jonathan Haidt sulla Generazione ansiosa, uscito poche settimane fa negli Stati Uniti, e il recente manifesto del professor Juan Carlos De Martin (Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica).

Per certi versi, questo allarme improvviso mi stupisce un po’, visto che le prove della dannosità del telefonino e della “vita online” c’erano già una quindicina di anni fa, grazie al lavoro di tanti scienziati, medici, psicologi e sociologi. È del 2012 l’uscita in tedesco di Digitale Demenz (Demenza digitale), di Manfred Spitzer. Nello stesso anno, in Italia, il linguista Raffaele Simone, uno dei più acuti osservatori dei cambiamenti cognitivi connessi alla tecnologia, pubblicava Presi nella rete. La mente ai tempi del web, lucida descrizione dei danni cognitivi delle nuove tecnologie. E l’elenco delle analisi critiche tempestive potrebbe continuare.

Dunque – torniamo a chiederci – perché solo adesso ci si accorge di quel che si sapeva già 10-15 anni fa? Perché fino a pochi anni fa solo un’esigua minoranza di studiosi e cittadini era disposta a riconoscere gli inconvenienti delle tecnologie della comunicazione?

Di ragioni, verosimilmente, ve ne sono più di una, ampiamente intrecciate fra loro. Ma la più importante credo sia che, per riconoscere i danni, abbiamo dovuto attendere che i danni stessi uscissero dal mondo ristretto dei laboratori, degli esperimenti scientifici e dei ragionamenti teorici, e si mostrassero – per così dire – in campo aperto. Il che significa: che potessimo vederli concretizzati, quei danni, sulla pelle, nei vissuti e nelle menti di un’intera generazione, quella che è entrata nell’adolescenza quando l’accesso ai social stava diventando di massa grazie allo smartphone. Come hanno ampiamente documentato gli psicologi americani Jonathan Haidt e Jean Tewnge, il punto di svolta è il triennio 2010-2012, allorché esce il primo vero smartphone (iPhone 4) e l’accesso ai social si sposta dal computer fisso allo smartphone stesso. Le cavie di questo colossale esperimento di psicologia sociale sono le ragazze e i ragazzi delle ultime due generazioni (Z e alpha) nate dopo la fine degli anni ’90, e di cui solo ultimamente abbiamo cominciato a percepire la fragilità, i limiti e le sofferenze.

Quel che è successo è che, a un certo punto, il disagio è divenuto troppo tangibile perché si potesse continuare a negarlo, sottovalutarlo, o non riconoscerne le cause. A renderlo percepibile ha indubbiamente contributo la mera osservazione dei comportamenti giovanili, sempre più intrappolati nella morsa fra autolesionismo e aggressività, ansia e depressione, iperconnessione e ritiro sociale. Ma l’apporto decisivo lo hanno dato e lo stanno dando le statistiche che, specie nel mondo di lingua inglese e nei paesi nord-europei, documentano non solo l’estensione del disagio, ma la rapidità con cui si è diffuso dopo il 2012 e la selettività con cui ha colpito le ultime generazioni, lasciando sostanzialmente indenni le generazioni più anziane. È solo negli ultimissimi anni che è divenuta schiacciante l’evidenza statistica su precocità dell’uso dello smartphone, tempo medio di connessione, ubiquità della pornografia, diffusione dei più svariati sintomi di disagio, particolarmente gravi fra le ragazze.

Soprattutto, è solo grazie agli studi più recenti (di Twenge e Haidt, in particolare) che, una dopo l’altra, sono cadute tutte le spiegazioni di comodo dell’esplosione del disagio giovanile: alla prova dell’analisi statistica, l’unica spiegazione che regge è quella che fa risalire il disastro al cocktail smartphone + social media.

Non si sottolineerà mai troppo l’importanza di questo risultato. Fino a ieri, dare uno smartphone a una ragazzina di 12 anni senza imporre anche drastiche limitazioni d’uso, poteva apparire una scelta imprudente o coraggiosa, a seconda dei punti di vista. Oggi, alla luce di quel che sappiamo, è solo un imperdonabile azzardo.

Un azzardo di cui – anche qui a giudicare dalle statistiche – sembrerebbero via via più avvertiti i giovani delle ultime generazioni. Le più recenti indagini sulla generazione Z rivelano segnali di allontanamento dai social e sempre più frequenti ritorni ai telefonini tradizionali (i cosiddetti flip phone, economici e senza connessione internet), quasi si sentisse il bisogno di una pausa di disintossicazione dai veleni della rete. Segno che, alle volte, i giovani sono più saggi dei loro genitori.

(uscito sul Messaggero il 19 aprile 2024)

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