Tronti

Apriamo il Popolo perduto di Mario Tronti (Nutrimenti): “Non voglio metterla sul sentimentale… Ma devo confessare un disagio… non mi va di trovarmi dalla stessa parte dei benestanti, mentre i nullatenenti stanno dall’altra parte”.  Commovente, da parte   del guru dell’operaismo  Tronti, allora nietzscheanamente  indifferente alla sfera dei “valori”  e algido  teorico della ferrigna “scienza”operaia, partire da un disagio personale legato al  privilegio sociale.  Forse ogni tanto bisogna pur metterla “ sul sentimentale” (in un’altra pagina lo stesso autore confessa le proprie lacrime di rabbia…). Proprio il vecchio Marx, molto malato ad Algeri, scriveva a Engels che gli dava conforto solo il chiaro di luna  sulla superficie marina (il chiaro di luna che quei fessi dei futuristi intendevano abolire!). Entrare all’Auditorium alle 9 di sera e pensare a chi si sveglia alle 6… Da che parte stare, con i “benestanti”? No, certo, dalla parte degli oppressi, degli umiliati e offesi. Aggiungo solo, stavolta rileggendo Marx,   proprio in nome di ciò che, nonostante il privilegio, è  “umiliato” e  “offeso” anche dentro di me, ma su questo tornerò dopo.

L’intero libro è punteggiato da riflessioni originali e penetranti – sull’Europa e l’internazionalismo, sulla “anomalia Italia”,  sulla folla solitaria della Rete, sulle tre società  che oggi si fronteggiano (garantiti, non garantiti e nove milioni di  esclusi (tra l’altro basandosi su una ricerca della Fondazione Hume), sulla forma-mondo, sul capitalismo post-industriale, sul femminismo della differenza –  all’insegna del motto trontiano “pensare estremo, aggire accorto”. Credo però che nel cuore del libro ci sia una contraddizione su cui vale la pena soffermarsi. Da una parte infatti l’autore chiede alla politica di reimmergersi nel vissuto delle persone, nel vivere quotidiano delle persone semplici, e si richiama al senso civico dei problemi, alla volontà di intervento diretto, all’automobilitazione di base. Dall’altra Tronti  ribadisce di essere  un “uomo di partito”, cita il “moderno Principe”,  ci invita a “ripartire dall’alto”, e soprattutto mostra di avere pochissima fiducia nel  singolo, nella persona, che ad esempio  – come scrive – “non ha il tempo, il modo, l’agio di occuparsi delle polveri sottili”. E perché mai? Mi sembra di tornare alla antropologia riduttiva della classe operaia  anni ’60 da lui definita “rude razza pagana”, cioè priva di slanci ideali, nobili passioni, interessi diversi dal salario  e infine di umanità! Ho l’impressione che Tronti sia rimasto, fuori tempo massimo,  intimamente leninista (qui elogia varie volte Lenin). Negli  anni ’60 aveva scritto “Lenin in Inghilterra”, un saggio fulminante  scritto in uno stile percussivo (forse poco rispettoso della “realtà”, dell’empiria, ma suggestionò una intera generazione). Ora forse vorrebbe  scrivere “Lenin nell’Italia dell’antipolitica”. Ma il nostro orizzonte deve  essere ancora  quello leninista (solo “corretto” da un po’ di “egemonia” gramsciana)?

Punctum dolens è il giudizio svalutativo sul Partito d’Azione (cui si sarebbe oggi ridotto oggi il PD), che secondo Tronti significa andare alla guerra disarmati. E ad esso contrappone persino  la doppiezza togliattiana, per lui assai più saggia e realistica. A me sembra che oggi il meglio dell’azionismo, al netto del moralismo predicatorio e di altri difetti su cui esiste  una sterminata bibliografia,  sopravviva non tanto nel PD come Partito Radicale di massa quanto nelle buone pratiche di cittadinanza, nelle comunità  argentine di nonni e bambini di cui parla Naomi Klein, in Occupy Wall Street, nelle esperienze di cooperazione e consumo critico, nella rete di contropoteri che già qui ed ora ci modificano e ci liberano. Negli anni ’80, Vittorio Foa, esponente della tradizione azionista, scrisse un prezioso libriccino sulle lotte operaie in Inghilterra: la Gerusalemme rimandata. Impegnati a riorientare politicamente  le masse, a “riprenderci” il popolo,  a riformare  improbabili partiti, quanto ancora la rimanderemo? La novità più bella degli ultimi decenni è il revival di un filone libertario fondato sulla pratica degli obiettivi: Colin Ward, Paul Goodman, Saul Alinsky, Ivan Illich…. Il  governo locale come  scuola di civismo politico: negli organismi di base si forma un cittadino responsabile e consapevole  che si prende cura di sé e del bene comune. Dove altro si può formare? Nelle scuole-quadri dei  partiti?  Ne parlò Giolitti alla Costituente: “la garanzia essenziale del regime democratico è l’autogoverno, che è fondato sul senso di responsabilità, sulla coscienza morale e politica del cittadino”. Ecco, non vede Tronti che  Togliatti e De Gasperi condividevano l’idea di una immaturità dell’autogoverno ( e quindi dell’individuo), e anche perciò respinsero la proposta Dossetti-Moro di introdurre nella Costituzione il “diritto di resistenza” perché avrebbe ridotto il ruolo dei partiti. Può darsi che allora avessero buone ragioni, ma oggi?  Rileggiamo  gli Scritti politici di Carlo Levi, giellista, dove il senso  della politica non è la riscoperta del ceto politico ma “un diverso e rinnovato interesse al concetto di responsabilità”(Bidussa).

Tronti confessa una  simpatia per Giorgio Gaber. Bene. Carlo Levi esortava a sconfiggere il fascismo “dentro di noi”. Cito da Gaber: “Non mi fa paura Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me”. Sì, ritroviamo il popolo perduto. Ma anche noi siamo “popolo”. Anche noi siamo “periferia”.  Ripartiamo dalle nostre paure e insicurezze, dal nostro pervicace attaccamento ai privilegi e dalla nostra inconfessata xenofobia. E anche però dalla nostra capacità di resistenza e spirito critico. Per Tronti l’individuo da solo, con le sue capacità,  non ce la fa. Eppure dovremmo avere fiducia, al di là di ogni determinismo sociologico,  negli individui –  nella loro iniziativa autonoma,  nella loro immaginazione, nel valore di contagio della loro azione –  dei quali invece diffidano da sempre sia la tradizione comunista che quella cattolica. L’individuo non è la monade borghese,  chiusa nel suo egoismo autoreferenziale, il capitano di industria senza scrupoli  del neoliberismo, ma anzitutto colui che pensa (“si pensa da soli”, Hannah Arendt) e che  dice no al potere: “mi rivolto dunque siamo”(Camus). Il singolo che si ribella prefigura la  comunità. Ma noi ci  crediamo all’individuo?




Il singhiozzo delle élites

Oggi che si parla molto di popolo, populismo e élites, mi torna in mente una trasmissione radiofonica di quasi mezzo secolo fa: Chiamate Roma 3131. Fu una vera rivoluzione perché per la prima volta si poteva “chiamare la radio” e parlare in diretta. Anche il più comune e anonimo ascoltatore, senza alcun merito o particolarità distintiva o privilegio, poteva prendere il telefono, fare il numero 3131, parlare col conduttore e essere ascoltato da tutti. Poteva per esempio chiedere di mandare in onda una certa canzone, per dedicarla al fidanzato o fidanzata: a Francesco, a Giovanni, a Maria, Elisabetta, mia nonna, la mia vicina, il mio panettiere…

Era il 1969. Avevo 13 anni, e mi capitava di ascoltare la radio certe mattine d’estate, con mia madre che lavorava in casa. Mi piaceva sentire la musica, aspettavo con trepidazione che trasmettessero le mie canzoni preferite, e quando succedeva mi sembrava un segno fortunato della sorte. Invece a un certo punto la mia radio fu invasa da quelle voci estranee, prosaiche, noiose. Me lo ricordo molto bene. Di colpo, ascoltare la radio divenne per me una barba infinita. Tutta quella gente che interveniva, interrompendo il flusso delle canzoni, senza avere in fondo niente da dire…

Prima di allora la radio trasmetteva canzoni, notizie, drammi radiofonici: trasmetteva e basta, in una sua solitudine assoluta e inavvicinabile; era una voce a cui nessuno poteva rivolgersi, che si poteva solo ascoltare. Credo che dovette sembrarci, a un certo punto, una cosa terribile, un errore a cui si doveva quanto prima porre rimedio. Non so come si giunse a questo sentimento colpevole, ma credo che fu una naturale conseguenza del nuovo clima che si era instaurato dal ’68 in poi e che tanto drasticamente cambiò il nostro mondo.

Oggi la radio è quasi esclusivamente fatta dagli ascoltatori che intervengono, a raccontare qualcosa di sé, della propria vita, o dire come la pensano su ogni argomento. Radio, tivù, giornali e social: un sottofondo costante di voci, un brusio composto perlopiù da una retorica comune e generica che si moltiplica, che si avvoltola senza fine su se stessa: Rumori, per dirla con il libro di Attali del 1978.

A me sembra che sia cominciato tutto lì, in radio, con Chiamate Roma 3131. O meglio, è il primo segnale concreto che io ricordi di questa che chiamerei “volontà di compartecipazione”, del desiderio, cioè, che ci prese allora e oggi è più che mai vivo, di aprire tutto a tutti, perché non esista più un solo spazio, nemmeno un angolino, che possa sembrare riservato ai pochi, o peggio che mai ai singoli. L’idea insopportabile che sia uno solo a parlare e tutti gli altri condannati al silenzio. Sembrava ingiusto, vagamente dittatoriale. Si iniziò allora a pensare che ascoltare era troppo poco, privilegiava i pochi “parlanti” e condannava gli altri a un ruolo passivo, subordinato.

Anche a scuola. Si cominciò ad “aprire” ai bambini, che dicessero la loro durante le lezioni, qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Ci piaceva che “intervenissero”, anche interrompendo la lezione. Sapeva di libertà, estroversione, democrazia. Allo stesso modo si aprì ai genitori, con i Decreti delegati dei primi anni ‘70, perché avessero parte diretta nella vita della classe, nella conduzione della scuola. Poi, circa vent’anni fa, si cominciò a dire che far lezione non andava più bene: ormai chiamata “lezione frontale”, è oggi additata come l’esempio più esecrabile della scuola del passato, il marchio da cancellare, l’errore di una scuola d’élite. Fino alla recentissima didattica della “classe capovolta”, dove nessuno fa più lezione: gli allievi lavorano in gruppo, e gli insegnanti organizzano il lavoro, assistono, controllano che tutto funzioni.

Anche in chiesa. A un certo punto abbiamo preferito che il prete smettesse di parlare latino, e di guardare l’altare dando le spalle ai fedeli. Come abbiamo voluto che l’insegnante la smettesse di sentirsi in cattedra e “scendesse”, così abbiamo voluto un prete di fronte, aperto, trasparente, e che la gente interagisse nella messa, per esempio scambiandosi il segno di pace. Così che tutti avessero la sensazione di partecipare più attivamente, e non si sentissero in qualche modo estromessi dal vivo della funzione.

Allo stesso modo in teatro, spesso chiamiamo il pubblico sul palco a recitare, gli diamo una parte perché non si senta pubblico passivo. Rompiamo la quarta parete e lo convochiamo a contribuire allo spettacolo. È come se pensassimo che non è bello che siano solo gli attori a fare gli attori. Anche nei libri, nei fumetti: chiediamo da anni ai lettori di esser loro a suggerire il prosieguo della trama, l’aggiunta di un personaggio, un finale diverso. Perché non è bello che lo scrittore sia uno solo; è bene che anche i lettori si sentano parte del processo creativo, tutti in qualche modo scrittori, non puri e inerti spettatori dei pochi che hanno il privilegio di inventare.

I lettori che scrivono con lo scrittore. I fedeli che officiano con il prete. Gli studenti che insegnano con l’insegnante. Gli spettatori che recitano con l’attore. I radioascoltatori che conducono con il conduttore…. Sono tutti esempi di uno stesso copione. A un certo punto ci è parso importante che non ci fosse uno solo che dirige, conduce, scrive, crea, recita, insegna. Quell’uno ci sembrava un privilegiato. Ci sembrava… élite.

Piano piano, abbiamo cominciato a smantellare anche i luoghi dove ci pareva che qualcuno o qualcosa emergesse, avesse un ruolo superiore, si distinguesse o, cosa ben peggiore, dominasse qualcosa e qualcuno: per esempio abbiamo allargato il concetto di libreria, così che accanto ai libri si venda anche la pasta, il vino, le matite, i peluches, i computer e le ceramiche dipinte. Abbiamo allargato il concetto di libro a comprendere qualsiasi testo scritto e pubblicato. E abbiamo allargato il concetto stesso di cultura perché avevamo il terrore che la cultura fosse soltanto libri, studio, ricerca, cioè qualcosa che riguardava i pochi. Abbiamo declassato a inutile ogni sapere, e eletto unico sapere utile l’unico che fosse accessibile a tutti: il web.

Il bello è che sia stata l’élite ad aver fatto tutto questo.

Ha cominciato tanti anni fa a autodenunciarsi, e autodistruggersi. E forse il fenomeno di quel che oggi chiamiamo populismo può leggersi (anche) così: il risultato del senso di colpa delle élites. Parlo delle élites culturali, soprattutto, ovvero di coloro, persone ma anche enti, che detenevano non dico il potere ma almeno una notevole autorevolezza: radio e tivù, insegnanti, artisti, studiosi, librerie, case editrici, intellettuali, scrittori, teatri….

È l’élite a non sopportare di essere élite. Ha una paura fottuta di essere élite e si spende il più possibile per non esserlo, e nemmeno sembrarlo. Ha il terrore dell’esclusione: non di essere lei esclusa, ma di escludere. Non ammettere, non condividere, non inglobare, non accogliere… Vuole che siano tutti non solo uguali, ma protagonisti: nella scuola, a teatro, in radio, in chiesa, in tivù e anche al governo.

Per questo l’élite oggi è molto grata alla tecnologia. Pensa che il web sia stata la più grande fortuna, lo strumento massimo di quella rivoluzione democratica che finalmente dà voce al popolo e contribuirà a sconfiggere le disuguaglianze. Ed è felice che, grazie ai social, il popolo abbia accesso diretto anche al governo delle città e dello Stato.

Sì, ogni tanto l’élite lamenta un certo dilagare di volgarità, soprattutto nel linguaggio, fors’anche una certa ineleganza nel vestire, e certi toni un po’ fascisteggianti… Ma sono solo i postumi di un aristocratismo difficile da guarire, ancora un po’ di pazienza e le passerà.

Bisognerebbe leggere Pascal Bruckner. O, avendolo letto, ricordare (e citare) di più i suoi libri. Per esempio Il singhiozzo dell’uomo bianco (1983, Guanda 2008), o La tirannia della penitenza (2006, Guanda 2007). Lì vien detto splendidamente che l’Occidente è affetto da sensi di colpa almeno dal secondo dopoguerra in poi, che siamo fermi alla vecchia dottrina del peccato originale, e che dalla caduta del muro di Berlino l’Europa “si macera nella vergogna di sé”.

“In terra giudaico-cristiana non esiste miglior sprone del senso di colpa (…). Come diceva Nietzsche in nome dell’umanità le ideologie laiche non hanno fatto altro che sovracristianizzare il cristianesimo e potenziarne il messaggio”. E ancora: “E’ l’eterno movimento: un pensiero critico, dapprima sovversivo, si ritorce contro se stesso trasformandosi in un nuovo conformismo, il quale conserva tuttavia l’aura, il ricordo dell’antica ribellione”. E ancora: “La casta degli intellettuali, alle nostre latitudini, è la casta penitenziale per eccellenza, erede diretta del clero dell’Ancien Régime”. “Così come esistono predicatori di odio nell’islamismo radicale, esistono predicatori di vergogna nelle nostre democrazie, soprattutto fra le élite intellettuali”.

Il mea culpa delle élites di fronte ai populismi insorgenti è dunque il solito masochistico refrain dei privilegiati che desiderano abbassarsi a “capire” il popolo, ne giustificano le intemperanze in nome di una rivoluzione santa, dovuta e condivisa, e riprendono la consueta autoflagellazione in odore di martirio. Tutto molto conformistico.

Eppure sembrerebbe chiaro che qualcuno deve dir messa, qualcuno deve fare lezione, qualcuno deve recitare Amleto, qualcuno deve scrivere libri. E quel qualcuno normalmente deve essere un singolo. Quel che le élites intellettuali non sopportano è proprio questa necessità del singolo, questa inevitabilità che certe funzioni siano demandate a singoli, e possano non essere allargabili ai tutti. E’ il singolo stesso a sentirsi a disagio, a vergognarsi della sua “singolarità”, che gli sembra subito maledettamente élitaria, non democratica. Quindi colpevolmente chiede scusa e si adopera perché il suo ruolo sia condiviso e partecipato dalla più grande moltitudine possibile.

Eppure, ripeto, dovrebbe essere chiaro. E ci è chiaro, ma soltanto in ambito sanitario, sembrerebbe. Lì ci appare lampante che il chirurgo debba essere lasciato solo, ovvero con la sua équipe di altrettanti chirurghi ma certamente non affiancato dal popolo dei pazienti. Sarebbe assurdo che il paziente collaborasse e intervenisse alla propria operazione per sentirsi meno passivo. Eppure, se ci pensiamo, è proprio quel che capita nell’ambito dell’istruzione: lì non abbiamo la minima remora a pensare che accanto all’insegnante (anzi, meglio, al suo posto) ci debba essere l’allievo che partecipa alla sua propria educazione…

Dovremmo accettare che una certa funzione non possa che essere svolta dai pochi. E, soprattutto, i pochi dovrebbero accettare di essere soli a svolgere la loro funzione, e non convocare sempre le masse accanto a sé: per il bene di tutti. Certamente dovremmo adoperarci perché tutti (qui sì davvero tutti!) possano diventare quei pochi, perché tutti cioè abbiano la via spianata, economicamente e culturalmente, per accedere a quei pochi posti dove si svolgono funzioni ai livelli più alti.

È bello e giusto pensare che tutti possano diventare chirurghi. Ma pensare che tutti debbano affiancare il chirurgo, anche i pazienti stessi, anche coloro che non hanno alcuna competenza, soltanto per mitigare il senso di colpa dell’uomo bianco perennemente singhiozzante, questo no, sarebbe pura follia.

Articolo pubblicato su Il Sole24Ore del 29 gennaio 2019



Elezioni europee: dai socialisti ai sovranisti?

Le recenti analisi sul rapporto tra italiani ed Europa, pubblicate nelle ultime settimane a partire da varie indagini demoscopiche (Censis, Eurobarometro e diversi Istituti di ricerca), ci proiettano automaticamente verso il prossimo futuro, verso l’importante (forse decisiva) scadenza delle elezioni europee del maggio del prossimo anno. Quando i destini della UE saranno messi in discussione dall’ondata “sovranista” che ribolle in maniera ormai evidente in tutti i territori dell’Unione.

Secondo l’ultimo Eurobarometro, tra i sostenitori del “remain” gli italiani (con circa il 66%) sono quasi in ultima posizione tra i cittadini europei, battuti solamente dai britannici (attestati oggi al 60%, una decina di punti in più rispetto al passato referendum). L’opinione dei nostri connazionali non fa certo scalpore, nonostante tanti commentatori abbiano espresso preoccupazione per questo risultato. Che inaspettato certo non è, in primo luogo per il noto trend decrescente dell’ultimo decennio nella fiducia nella UE, in secondo luogo a causa dei costanti richiami negativi dei nostri attuali governanti che, rispetto al passato, non fanno che enfatizzare ancora più la natura quasi perversa della conduzione dei vertici europei, così poco attenti ai popoli – a loro dire – per privilegiare unicamente gli aspetti economico-finanziari. Ma su questo tema così controverso e con risultati spesso ambivalenti, cercherò di fare il punto in maniera un po’ più approfondita, al di là degli “strilli” giornalistici, nei prossimi giorni.

Nonostante dunque il generale plebiscito a favore della permanenza nella UE, da parte di tutti gli elettori dei paesi membri, sappiamo molto bene come stia crescendo in molti di quegli stessi paesi un ampio fronte di partiti e movimenti dichiaratamente a favore della riduzione dell’influenza europea sulle singole Nazioni. Si vuole dunque restare in Europa, certo, ma nel contempo si vogliono mutare sensibilmente i confini di questa permanenza, ridando forza agli impianti legati alla sovranità nazionale.

Il rischio, di qui a qualche mese, è che il ruolo di questa UE possa cambiare in maniera drastica, che il cammino di progressiva indifferenziazione dei diversi Stati, in nome di un bene comune sovra-nazionale, faccia importanti passi indietro. Se non nella moneta unica, che rimane solidamente ancorata nella testa dei cittadini, quanto meno in numerosi degli altri aspetti che ci vedono oggi “schiavi” delle direttive europee, in materia non solo economica, ma anche ambientale, nella vita civile, nella gestione delle risorse, eccetera.

Che una maggioranza “sovranista” possa prendere piede a livello politico nel parlamento europeo non è ovviamente una certezza, ma è comunque uno dei possibili risultati delle prossime consultazioni europee. Il parlamento attuale, definito dal voto del 2014, vede i gruppi tradizionalmente riconducibili alla sinistra (verdi, socialdemocratici e sinistra radicale) attestati poco sotto il 40% dei deputati complessivi, una quota molto simile a quelli facenti capo al centro-destra (popolari+conservatori), con i liberal-democratici vicini al 9%. Gli euro-scettici hanno invece una rappresentanza parlamentare piuttosto insignificante, al di sotto del 7%.

Una situazione che verrà sicuramente rivoluzionata dalle prossime elezioni del 2019. Oggi i rappresentanti dei partiti che fanno parte dell’alleanza socialista-democratica nel parlamento sono in disarmo pressoché ovunque: nei paesi più popolosi e dunque con il maggior numero di parlamentari (Italia, Germania, Francia e Spagna) socialisti e social-democratici sono ridotti ad una quota di elettori compresa tra il 10% e il 20%, considerando oltretutto che non sarà presente l’UK, il solo luogo dove l’area socialista, con il Labour, è ancora altamente competitiva. Per tacere del cosiddetto “gruppo di Visegràd”, dove sono praticamente scomparsi, rimangono ancora competitivi nei paesi scandinavi, ma il loro buon risultato non sarà certo sufficiente per ambire ad un tasso di rappresentanza europea superiore al 15% complessivo, circa 10 punti in meno di quelli attuali. La sinistra dovrebbe viceversa confermare il risultato del 2014 (intorno al 6-7%).

Nell’area di centro-destra, gli stessi popolari non godono di buona salute, e sarà per loro molto dura riuscire a ribadire il risultato vicino al 30% di quattro anni fa, considerando l’assenza dei conservatori inglesi ed il fatto che alcune delle forze politiche di centro-destra (come già fece la Lega) potrebbero alle prossime elezioni uscire dal gruppo dei Popolari europei, polacchi ed ungheresi in particolare. Arrivare al 25% sarebbe per loro un successo, se l’appeal della Merkel reggerà, in attesa di comprendere a quale gruppo farà invece riferimento En Marche.

E’ probabile che Macron, peraltro anche lui in deciso regresso di consensi, vada ad alimentare le fila dei Liberal-Democratici, che arriverebbero così più o meno al 10% dei suffragi. Calcolando che le altre forze (conservatori e Verdi) prenderanno poco meno del 15% dei voti, la parte rimanente, un ulteriore 30% dei suffragi, se non di più, andrà molto probabilmente appannaggio dei partiti o dei movimenti o apertamente anti-europeisti o quanto meno euro-scettici, come il nostrano Movimento 5 stelle e la stessa Lega di Salvini, il Front National francese o Ciudadanos in Spagna.

L’attuale governo europeo, come è noto, è composto da una sorta di Grande Coalizione, tra socialisti, popolari e liberal-democratici, che detengono una forte maggioranza vicina ai due terzi dell’assemblea. Se i risultati saranno quelli qui ipotizzati, un po’ meno ottimistici per il governo in carica di quelli citati sul Sole 24 ore di domenica scorsa da Roberto D’Alimonte, quella maggioranza potrebbe ridursi al 50% dell’assemblea, o magari non raggiungerla affatto. Sarebbe certo possibile riproporla, ma con molte difficoltà di tenuta, soprattutto se, come si è detto, alcune delle forze politiche dei paesi dell’est abbandonassero l’area dei popolari per aderire a quella degli euro-scettici.

Sarebbe forse più semplice la formazione di un governo più compatto composto dal centro-destra più classico, con i conservatori, i popolari e i liberali, magari con l’appoggio dei verdi. Assisteremmo dunque in questo caso ad una competizione serrata tra il centro-destra, da una parte, e l’area euro-scettica (i “sovranisti”) dall’altra. E se questi ultimi uscissero vincitori della contesa, difficile ma non impossibile, molto arduo sarà immaginare quale Europa avremo di fronte di qui ad un anno.

*Una precedente versione ridotta di questo scritto è uscita sul sito “Gli Stati Generali”



La linea d’ombra dell’esperienza

A proposito della mania attuale dell’ “autorealizzazione”, e delle riflessioni di Luca Ricolfi sulla volontaria sequestrata in Kenya (Silvia Romano), vorrei aggiungere qualcosa. 

Anzitutto una premessa. Può darsi che da quella scelta derivassero alla ragazza gratificazioni  particolari, e che da essa venisse nutrito il suo narcisismo. Per rispetto verso Silvia Romano bisognerebbe però riconoscere una cosa. Il solo fatto di far coincidere autorealizzazione e altruismo, piacere e sacrificio di sé, abnegazione e vanità, mi sembra comunque una conquista altissima, che evita tra l’altro qualsiasi approccio moralistico alla morale (la benevolenza è almeno altrettanto naturale e “gratificante”dell’ aggressività).

Mi soffermo però sull’aspirazione universale –  che caratterizza il nostro presente –  alla felicità personale e appunto all’autorealizzazione (a tutti i costi),  sulla ossessione della creatività. Si ritiene infatti che esista un diritto alla creatività e al talento: tutti poeti, come volevano i surrealisti! Tutti romanzieri! Tutti virtuosi del clarinetto! E invece il talento è distribuito in modo disuguale. Dio è tendenzialmente di destra. Dunque quella aspirazione, essendo perlopiù disattesa, genera frustrazione e invidia. In altre epoche e in altre civiltà si accoglie serenamente il proprio destino, si accetta la parte –  sia pure essa “mediocre” –  che il caso ci ha assegnato. Non ci si sente tutti artisti incompresi, vittime di qualche complotto. Che fare? Dobbiamo auspicare  l’amor fati degli stoici o magari una rassegnazione   alla provvidenza, come la Lucia manzoniana? Suggerisco due risposte possibili.

La prima è tentare di vedere la “creatività” là dove uno di solito non la cerca,  magari in una nostra attività anonima, silenziosa, fuori dai riflettori. Una volta Borges dichiarò di essere orgoglioso non dei libri che aveva scritto ma di quelli che aveva letto!  Non sarà ricordato nelle storie letterarie per questo. Eppure era orgoglioso dei libri letti. Bisognerebbe contribuire a diffondere modelli diversi di creatività.  Rivalutare la creatività che si manifesta come passività ricettiva, come attività  appartata,  ad esempio come gusto di un lavoro ben fatto, di una soluzione ingegnosa a un problema pratico, etc. (anche senza che ci siano spettatori o testimoni). E passo al secondo punto, che riguarda l’esperienza.

Nella Linea d’ombra di Conrad il giovane al suo primo comando scopre che la “realtà” non si trova lì dove se l’aspettava. L’esperienza vera non è infatti sfidare tifoni e tempeste – e passare alla Storia -, esponendosi  intrepidamente a qualche prova eroica (un po’ troppo pianificata e in fondo “letteraria”), ma sopportare 21 giorni di imprevista, prosaica  bonaccia, senza cedere alla follia. L’esperienza vera non coincide tanto con l’avventura spettacolare, con l’Impresa di Fiume,  quanto  con la esperienza della nostra sostanziale impotenza di fronte alla realtà. La maturità per Conrad consiste precisamente in questo: accettare la noia, l’opacità  e il vuoto che sono parte dell’esistenza (senza perdere la testa),  elaborare volta a volta strategie adattive  di fronte agli eventi, saper attendere e  soprattutto però tenersi pronti, cogliere l’occasione che anche la situazione più sventurata può implicare.




Elogio della distrazione

Un mese fa ho difeso l’attenzione, adesso proverò a elogiare la distrazione. L’esatto contrario dell’attenzione.

Distrarsi vuol dire proprio questo: smettere di fare attenzione. Infatti se mi distraggo durante un compito di matematica, non risolvo il problema e prendo quattro. E se mi distraggo davanti a una scala mobile, inciampo e cado lunga distesa. In entrambi i casi pago la mia mancanza di attenzione.

In realtà distrazione vuol dire “essere tratti via da” qualcosa verso qualcos’altro, cioè smettere l’attenzione in qualcosa per mettere attenzione in altro. Magari mentre salgo la scala mobile passa un mio vecchio compagno di scuola e io, nella gioia di riconoscerlo, mi distraggo. Cioè, faccio attenzione a lui. In tal caso cado, ma felice. Direi “aumentata”, poiché l’incontro ha aggiunto qualcosa di bello alla mia giornata.

Digressione n. 1: può esistere anche la “persona aumentata”, non solo la “realtà aumentata” che tanta parte avrà nel nostro futuro prossimo.

Non potrei scrivere, se non mi distraessi continuamente. Credo che scrivere sia intimamente connesso al distrarsi.

Certo, l’attenzione ai dettagli viene prima di tutto. Ben prima della storia, del tema, del senso. Non importa se racconto la storia di una madre che lavora e trascura il suo bambino di sei anni, il quale ogni tanto si butta in ginocchio e prega. Non è quello il punto. Il punto è che guanti indossa, come si veste, che rumore fa il cellophane quando lei scarta la merendina per suo figlio. Il punto non è che lei ogni sera lava i piatti, ma il verde vischioso del gel, in che modo e con quali pensieri lei lo guarda scivolare sul bianco dei piatti che sta lavando.

La distrazione nella scrittura si chiama digressione. Vai per una certa strada (narrativa), poi ti distrai e prendi un viottolo. Ti perdi in un altro pensiero, un ricordo personale, la storia di un altro. Anche se non c’entra niente. Anche a costo di perdere il filo, parlare di cose irrilevanti, deviare l’attenzione del lettore… Pazienza. E poi, chi lo stabilisce cosa è irrilevante o meno?

Il massimo del romanzo digressivo (si può dire?) è l’Orlando furioso. Non abbiamo più raggiunto simili vette di “scrittura deviata, dis-tratta”. La strabiliante riduzione televisiva di Ronconi, che ha allietato le nostre serate negli anni ‘70, con quei cavalli su rotaie che passavano da una stanza all’altra tirati dal caso, ne è stata la migliore dimostrazione visiva.

Scrivere è degredere di continuo. Un romanzo può essere una serie ininterrotta di digressioni incastonate l’una nell’altra, oppure una digressione ogni tanto, anche minima, dove però si sente che sta il cuore del libro, il nodo del senso: il punto dove l’autore è riuscito a dire quel che veramente gli stava a cuore dire, al di là della storia che sta raccontando, della trama, della coerenza narrativa.

Può capitare che le digressioni siano la vera anima di un libro. Di sicuro ne fanno il ritmo narrativo, sono il respiro della narrazione: ansante, quieto, scoppiettante, ondivago, martellante, disteso… Mare mosso o mare calmo, ochette o cavalloni. Un mondo, un universo. Una “cattedrale”. Tutto Proust, per esempio.

O, altro capolavoro digressivo, il Tristam Shandy.

Escamotage. Scappatoia. Nicchia segreta dove nascondere il tesoro. Nascondere, scappare, sì. Non sempre l’autore vuole svelare e svelarsi, parlare in modo diretto, letterale. A volte preferisce celare, velare. Dire una cosa dicendone un’altra, apparentemente lontana. Non dico ingannare, ma depistare, camuffare, complicare. La scrittura ha un rapporto complicato con la verità: non è dicendo il vero che svelerà la realtà delle cose, spesso è inventando un vero fittizio che meglio riuscirà a toccarla.

La digressione è libertà. E trasgressione. Degredere (o degredire) è anche transgredere (bellissimi verbi che non esistono in italiano): mandare all’aria lo schema, farsene due baffi della progressione logica, e anche delle aspettative del lettore.

È lanciare una sfida molto hard al lettore: vediamo se mi segui là dove ti sto portando, se hai il coraggio di intraprendere questa stradina così nascosta e irrilevante. Vediamo se lo vedi, innanzi tutto, questo viottolino coperto da cespugli di rovo…

In piccolo, anche l’inciso è una digressione. La frase incidentale, o la parola tra parentesi.

Gadda ne è maestro. Sentite qua, da quel surreale eppur realisticissimo racconto che è L’incendio di via Keplero: “Il Besozzi (…) si asciugava – con un asciugamano color topo di chiavica -; si pettinava – con un suo mezzo pettine tascabile, verde, di celluloide –, e poi…”.

L’inciso è lo spazio dei dettagli, dell’apparente insignificante e irrilevante.

Un giorno mi piacerebbe scrivere un romanzo pieno di incisi e parentesi. Almeno una parentesi a pagina, per esempio.

Ogni distrazione ci devia. Ci depista, ci sposta da dove siamo, da chi siamo. Sposta gli occhi, e i pensieri. Ci fa andare via, pur rimanendo col corpo dove siamo. Ci porta quindi in luoghi che non avevamo previsto. Ci fa viaggiare, esplorare mari sconosciuti.

E andare via, ogni tanto, ci fa bene. Ci aiuta a diventare altro da noi, stranieri, sconosciuti a noi stessi.

Il problema poi è tornare. Riprendere il filo. Il rischio esiste, di non riprenderlo più, di perdersi. Ulisse e Orlando son due che hanno rischiato grosso; potevano non tornare mai, non ri-diventare quel che erano: il re di Itaca, il campione dell’esercito cristiano.

Giro-vagare. Scrivere da vagabondi senza meta, o con una meta che abbiamo perso. Non andare più da nessuna parte. Essere vaghi. Vagabondi. Come il fannullone di Eichendorff (o perdigiorno) che va suonando il suo violino di qua e di là. Come i violinisti volanti nei cieli di Chagall. Evitare con cura l’obiettivo, la carriera, il potere e ogni ruolo definito. Mancare la vittoria. Perdere….

Atalanta è la fanciulla che non vuole sposarsi. Corre più veloce di tutti, e un giorno indice una gara crudele: chi vuole sposarla deve batterla nella corsa, se no morirà. Ippomene la vuole, è innamorato. Corre, ma lei gli sta sempre davanti, imprendibile. Allora lui lascia cadere sulla strada tre mele d’oro, una dopo l’altra, e Atalanta, attratta da quell’oro, rallenta e devia dalla meta. Si distrae.

Si perde?

Di sicuro perde la corsa.

Credo che attenzione e distrazione debbano andar congiunte. È bello che convivano, che ci sia complicità, tra di loro.

Il fatto è che lo sguardo è mobile, viaggia sulle cose. Ma esiste il tempo, abbiamo deciso che lo sguardo è progressivo, e anche la nostra vita: la pensiamo come un insieme di istanti. Fotogrammi che mettiamo in successione, a costruire una linea temporale che in realtà, forse, è una finzione. Il tempo puntiforme? Non sapremo mai se il tempo esiste o tutto è racchiuso in un punto. Barbour, nel suo libro La fine del tempo, solleva dubbi….

E il multitasking? Direi che la distrazione è esattamente il contrario del multitasking che oggi tanto ammiriamo. La virtù del multitasking consiste nel mettere attenzione a tanti oggetti contemporaneamente, esser capaci di dedicarsi a mestieri e gesti diversi, aprire più finestre e tenerle “accese” tutte insieme. La distrazione invece è lasciare un oggetto per andare su un altro. E quando si va su un altro, sul primo oggetto cade il buio, per forza di cose. Non c’è accumulo, non vince la pluralità. C’è sempre una cosa soltanto in luce, che semplicemente non è più quella di prima.

C’è il tempo, dentro la distrazione. È uno spostarsi nello spazio e nel tempo. Prima guardavo un quadro alla mostra di Van Gogh, ora guardo la formichina che mi cammina sul piede. Non guardo sia Van Gogh sia la formichina, non m’interessa tenere insieme le due visioni. O non ne sono capace. O meglio, decido che non ne sono capace. Atalanta non è capace di continuare la corsa e guardare la mela d’oro. Segue la mela e abbandona la corsa, per forza. C’è il tempo come successione, nella sua vita. Dunque c’è la scelta. Altissimo valore morale: vogliamo perderci il valore della scelta, in questa corsa sfrenata al futuro?

Digredire e trasgredire impongono sempre di scegliere. Una cosa piuttosto che un’altra.

Non so se il multitasking produrrà performance mentali innovative e strabilianti. Alcuni sono convinti di sì, molto convinti. Ma credo che nessuno abbia certezze. Quindi, nel frattempo, mi asterrei da tanta esaltazione.

Per quel che riguarda il mio mestiere, non so se si possa scrivere, in modalità multitasking. O se per scrivere sia necessario esattamente il contrario: un’attenzione a un unico oggetto per volta, e uno spostamento continuo (e lento) da un oggetto all’altro. La digressione è un viaggio, il multitasking, in fondo, è star fermi. Si è in più luoghi ma si sta fermi, gli occhi posati su più punti, cose, persone, panorami, contemporaneamente.

È quel contemporaneamente che non mi convince: c’è assenza di tempo. O un tempo che mi sembra statico, e anche presuntuoso. C’è la presunzione di onnipresenza (e onnipotenza), nel multitasking. Ma noi non siamo Dio. E ogni tanto andiamo via, lasciamo luoghi amati e persone care.

Anche per scrivere (o creare in generale) bisogna perdere qualcosa: andare via di continuo vuol dire di continuo abbandonare qualcosa, qualcuno. C’è tristezza, in questo, e nostalgia. Ma c’è anche un premio: non farsi trovare mai nello stesso posto. Diventare imprendibili.

Il multitasking mi fa pensare alla grande cucina di un ristorante, dove il cuoco deve badare nello stesso momento a una decina di pentole, cibi e cotture diverse: buttare la pasta, girare il sugo, salare le patatine, aggiungere le spezie all’arrosto, spegnere il forno, girare la frittata. Bravissimo, questo cuoco. Ma sta sempre in cucina. Non si muove.

Distrarsi vuol dire lasciare la cucina e andare in giardino, e poi in sala, e poi sul balcone e poi scendere per strada. Spostarsi. E ogni volta essere un altro, raccontare altro, cambiare se stessi, e il senso di quel che diciamo.

A costo di perdersi.

E sì, se fai digressioni rischi di non ritrovare la strada. Potresti non tornarci mai, in quella cucina.

Per questo, comunque, mi piacciono i perdenti. Quelli che perdono tutte le gare, che arrivano ultimi. Non perché gli ultimi saranno i primi, non ci ho mai creduto. Ma perché gli ultimi si sottraggono alla gara, e quindi sono i veri vincenti. Mi piacciono quelli che si rifiutano di competere, e magari alla fine vincono fuori da ogni competizione, in qualche idilliaco paradiso a-mediatico, novello giardino edenico. (Mi scuseranno gli sportivi, ma proprio non ce la faccio. La competizione mi annebbia un po’ lo sguardo, mi offusca la pace interiore).

Magari lo studente che si distrae durante il compito di latino o matematica prende quattro. Anzi, è sicuro. Ma magari si è distratto per scrivere una poesia bellissima. E allora, chi ha perso, chi ha vinto? Cosa è meglio e cosa è peggio?

Cosa ne sappiamo noi di che cosa siamo veramente chiamati a fare? Distrarsi è anche lasciarsi andare. Credere, confidare in un destino.

Atalanta come sappiamo sposerà Ippomene. Perdendo la gara, ha vinto l’amore.