Autenticità o cultura?

Ho riletto L’immoralista di Gide.

Tempo di riletture, da qualche anno. Si rivede la vita, alla mia età, quindi, perché no?, si rivedono anche i libri letti. Spesso non si ricorda d’averli letti e si scopre a un certo punto, magari dopo pagina 100, una sottolineatura, un appunto in margine a matita. E allora s’infila in noi l’orrendo sospetto d’aver già compiuto la lettura di quel libro; sospetto che non sarebbe di per sé orrendo, se non equivalesse al pensare che la lettura ora ci appare del tutto nuova, come se mai si fosse prodotto il fatto d’aver già letto, e annotato, e sottolineato quel libro. Mai. O almeno non nella nostra vita, forse in quella di un altro. Ecco allora che ci esercitiamo caparbiamente nell’arte di non riconoscere la nostra calligrafia a margine, così che ci venga consentita l’opzione che forse qualcun altro, un amico, un familiare, abbia letto prima di noi e annotato. Ma qualcosa ci riporta sempre inesorabilmente a noi, la svirgolettatura di una a, il modo tutto nostro di mettere l’accento sulla e…

Dell’Immoralista non ricordavo nulla; non la trama, non il protagonista, l’ambiente, i luoghi, gli altri personaggi. Nulla. Ma ricordavo benissimo d’averlo letto e molto amato.

Ho amato tutto Gide, in quell’età avida dei quattordici-quindici anni quando il mondo dei libri ci si apre davanti immenso, misterioso e foriero di un’avventura mentale che, lo intuiamo, ci renderà adulti e ci forgerà la vita intera futura. Il mondo dei libri francesi, in particolare, per quel che mi riguarda. Leggevo solo i francesi, a quell’età. Casualmente. E il caso – un destino! – era che la mia insegnante di francese fosse una donna eccezionale. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei, anche buttarmi nel fuoco. In mancanza del fuoco, leggevo i libri della sua letteratura e me ne innamoravo. Come ci sono amori per interposta persona, così ci sono amori per interposizione di libri: voglio dire, ovvio che mi ero innamorata della mia insegnante di francese…

L’immoralista è un libro bellissimo. Molto francese. Molto decadente. Molto intriso di Nietzsche, anche. E molto moderno. È assolutamente necessario leggerlo – o rileggerlo – oggi. Fin dal titolo: nessuno oggi intitolerebbe un romanzo così. Immoralista è una parola che oggi non si usa, una parola che, direi, si è spenta. Che le parole si spengano e si riaccendano è un dato di fatto incontestabile, mi pare, visto che le parole hanno una loro storia millenaria che, come la nostra, è fatta di cicli e ricicli. Dimenticanze e improvvise e lancinanti memorie. La parola immoralista ha dentro un che di battagliero: è un’opposizione. È andare contro una morale. Amorale invece è prescindere da ogni morale, è indifferenza.

Michel, il protagonista del romanzo di Gide, è a suo modo uno che si oppone al mondo, va contro. È un giovane che ha ricevuto una rigida educazione puritana e si è dato agli studi della filologia classica. Sposa Marceline, pur non amandola, per compiacere il padre, per conformarsi ai modelli comuni, studiare, lavorare, sposarsi. Nel viaggio di nozze si ammala di tubercolosi. E attraverso il male che mina la sua vita, impara ad amare la vita. O meglio, scopre un altro possibile modo di vivere, più naturale, tutto sensoriale. Arrivato a Tunisi, s’inebria della terra d’Africa, assapora i profumi dei giardini, i paesaggi notturni rubati al sonno, le infinite mutazioni dell’attimo, il contatto dell’essere con la natura, la bellezza in tutte le sue forme, anche la bellezza irresistibile dei fanciulli africani. Rinnega i libri, la cultura, l’educazione severa, la dedizione al passato, la memoria. Lo studio, l’insegnamento, la frivolezza dei salotti parigini ormai lo annoiano. I colleghi archeologi e filologi, gli amici poeti, romanzieri e filosofi, che considerano la vita “un fastidioso impedimento allo scrivere”, gli appaiono estranei e stucchevoli: “Nessuno di loro ha saputo essere malato. Vivono, danno l’impressione di vivere e di non sapere che vivono”.

Michel rifiuta ogni forma di conformismo, di adeguamento a modelli. Rincorre la parte unica di sé, originale, solitaria, libera, e quindi indifferente al bene degli altri. Non è più disposto a sopprimere quel che sente essere la sua vera natura. E rinasce. Resuscita a una “vita più aperta e libera, meno costretta e legata agli altri”. Scopre “l’essere autentico, quello che tutto intorno a me, libri, maestri, genitori e io stesso, ci eravamo sempre sforzati di sopprimere”. Inizia a disprezzare l’altro se stesso, “l’essere secondario, costruito, che l’istruzione aveva formato al di sopra”. E sente di voler “scuotersi di dosso quelle sovrapposizioni”.

E in questa forma di assoluta dedizione al nuovo se stesso, in un parossismo di egocentrico piacere, dimentica ogni dovere e cura verso l’altro: quando Marceline si ammalerà anche lei di tubercolosi, invece di dedicarsi a curarla come lei aveva fatto con lui, le impone un viaggio estenuante dalla Svizzera, dove stava lentamente ritrovando la salute, verso il sud, i climi caldi, il sole, i profumi, verso l’Italia e poi di nuovo l’Africa, la sua Africa, la luce di Tunisi dove “l’aria stessa è come un fluido luminoso in cui tutto affonda, dove ci si immerge, si nuota”, dove “la terra voluttuosa seconda il desiderio ma non lo placa, ed ogni piacere lo esalta”. Fino a Biskra, dove Michel aveva iniziato a guarire e aveva scoperto il suo essere autentico. Lì cerca quei fanciulli bellissimi che allora lo avevano incantato, e li ritrova inevitabilmente cresciuti. Mentre matura la sua delusione e impara dal vivo una delle lezioni che già gli aveva impartito il collega Ménalque: “non c’è niente che ostacola la felicità quanto il ricordo della felicità”, Marceline peggiora, fino a soccombere. Michel l’ha uccisa, col suo forsennato egoismo, inseguendo il suo bene, il richiamo di una libertà che lo porta sempre più lontano.

Non credo che oggi definiremmo Michel un immoralista. Non ci verrebbe neanche in mente. Lo iscriveremmo normalmente all’ambito di quella cultura dei diritti che oggi ci pervade.

È per questo che dovremmo rileggere il romanzo di Gide, per essere messi di fronte a quell’eterno conflitto, che mi pare ora molto obnubilato, tra natura e cultura, tra libertà e doveri. Tra il rigore delle leggi che c’incarcera nella fedeltà ai modelli ma anche ci regala la pace di una vita morale, e la sfrenatezza imperiosa dell’io che si dedica solo a se stesso e ci getta nell’abisso di un bieco self interest.

L’aspetto rilevante è che qui l’essere autentico viene contrapposto all’essere “costruito” dalla civiltà e dalla cultura. Mi chiedo se oggi in tale conflitto non si stia dibattendo l’intera nostra civiltà occidentale, e non soltanto il singolo individuo. Mi sembra di scorgere, in molte manifestazioni del nostro vivere attuale, proprio questa ricerca di un’autenticità che, per essere tale, vuole spogliarsi di ogni memoria, di ogni patina anche solo vagamente culturale. Penso a una certa aspirazione a tutto ciò che sembri spontaneo, naturale, primitivo. Penso al fastidio che oggi molti provano verso tutto quel che riveli una cultura, una patina di tradizione, una sostanza profonda, qualcosa che si sia sedimentato e abbia fatto di noi quel che siamo, attraverso i millenni; alla voglia di liberarsi dello studio, della fatica, del sapere; al disprezzo verso chi di quello studio si sia nutrito e abbia perseguito, per esempio attraverso i libri, una forma di conoscenza.

Vagheggiamo forse un novello stato di natura. Propendiamo pericolosamente per una certa rozzezza dei modi, dei gesti, del linguaggio credendo che sia sinonimo di autenticità, libertà, apertura. Ma potrebbe essere soltanto l’espressione selvaggia di una civiltà che sta cercando di rinnegare se stessa.

È possibile che, in nome di una fittizia autenticità, ci stiamo privando di quella cultura che ci ha reso grandi. E mi viene da farmi qualche domanda. Autentico deve per forza contrapporsi a cultura? Si può essere colti e allo stesso tempo autentici? Studiare e vivere contemporaneamente? Oppure scrivere (e leggere) non è mai vivere? Il mito di quale umanità stiamo rincorrendo? Cos’è questo nostro tendere al ruspante, al viscerale, a un vivere “di pancia” (orrenda espressione che sento ormai ovunque) che si contrappone al pensiero, all’analisi, e anche alle buone maniere, allo stile, a un’eleganza del vivere? La cultura è davvero una “costruzione” di cui è bene liberarsi?

La cultura sarebbe dunque un limite, qualcosa che ci “riduce”? O non è piuttosto la chance di averli, dei benedetti limiti, l’ultimo baluardo che ci protegge dall’arroganza della hybris?

E infine, fino a che punto ci è lecito perseguire il nostro personale piacere, ottemperare alla parte più vera e libera di noi, perseguire la nostra autorealizzazione? Anche a discapito dell’altro? Quanto limitiamo la libertà dell’altro, cercando la nostra? Ci spingeremmo fino al punto, anche, di produrre la sua rovina?

Potrebbe essere un nuovo immoralismo, il nostro. Lavarsi la coscienza proclamando astrattamente il dovere planetario di una bontà sempre più s-confinata e un “diritto ad avere diritti” (per dirla con Rodotà) sempre più universale, e intanto coltivare indisturbati ognuno il proprio sfrenato e immarcescente individualismo.

Era il 1902 quando Gide scriveva L’immoralista. Sono passati centodiciassette anni, ma le domande che riguardano l’uomo sono sempre le stesse.

Il romanzo di Gide, come tutti i grandi romanzi, per fortuna non dà risposte. Non indica una via, non giudica, non prende posizione. Ci mette semplicemente davanti a un’idea, e la spinge, narrandola attraverso la storia dei personaggi, fino al limite estremo.

Stare a guardare quell’abisso è oggi, almeno come lettori, l’ultimo dovere che ci resta.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 aprile 2019



Marciapiedi da passeggiare

I romanzi che abbiamo scritto ce li dimentichiamo. Non pensiamo più a loro perché siamo presi, tirati, da nuove storie. I libri che abbiamo scritto, quindi, viaggiano da soli, staccati per sempre da noi che dopo averli creati, di loro non ci occupiamo più. Sono i nostri figli abbandonati.

In realtà non va esattamente così: i libri che abbiamo scritto covano sempre dentro di noi, esattamente come covavano prima di uscire. Erano, allora, una specie di brace sotto la cenere; e riprendono ad essere quella brace, una volta scritti e abbandonati.

Così, può capitare che a volte si riaccendano. Qualche giorno fa mi si è riacceso Non so niente di te, un mio romanzo del 2013, che amo molto e a cui penso troppo poco. C’è un giovane eroe dei nostri tempi, in quel libro: Filippo Cantirami, Fil, un giovane bravissimo economista che vince un dottorato a Standford e non ci va, preferisce stare in campagna a pascolare pecore, perché capisce, a un tratto, che fare l’economista di successo non è la vita che vorrebbe.

So che un autore non è bene che citi i suoi libri, ma Fil mi è tornato in mente di colpo una settimana fa quando ho letto, con grande felicità, questa frase: “Voglio apparire il meno possibile perché è il modo migliore per non scomparire”.

L’ha detta in un’intervista Anastasio, il rapper che ha appena vinto XFactor. Nell’intervista che ha rilasciato per “La Stampa” il 23 marzo confessa di avere non poche difficoltà a sopportare il successo, ovvero tutti gli infiniti impegni che il successo comporta, ospitate, comparsate, tour e “apparizioni di vario genere”. “Sogno un mondo dove scrivo canzoni e basta”, dice. Ma non riesce più a scrivere, da quando è famoso.

Dunque, la fama oscurerebbe l’opera. Il ruolo pubblico affonderebbe la creazione. E nel gioco di prestigio del successo, apparire equivarrebbe a scomparire.  Grande lezione. Chi ha anche solo una minima vita creativa sa che è così: per creare bisogna stare molto fermi, soli e nascosti. Possibilmente invisibili. Anonimi sarebbe il meglio (felici coloro che si occultano dietro pseudonimo…?).

Non so se questo discorso riguarda solo i lavori creativi, artistici. Penso di no. Penso che riguardi ogni nostra attività che abbia a che fare con l’anima, con la parte più spirituale di noi. Il pensiero, lo stare soli con noi stessi e lasciarsi portare dai pensieri, guardare i nostri pensieri mentre scorrono. Che i pensieri scorrano mi è molto chiaro: siamo costantemente attraversati da un fiume, se stiamo attenti possiamo percepirne la lenta e sinuosa corrente, a volte un balzello tra i massi, una cascatella.

Ecco, in certi momenti può capitare che in alcuni di noi si insinui la necessità di fermare la corrente di quei pensieri, di condurla da qualche parte e farne qualcosa di solido, meno acquoreo. Consolidare i pensieri in un’opera. Può essere scrivere una canzone o un romanzo, fare una scultura, un disegno. Ma anche costruire una casa, arredare una stanza, confezionare un abito. Leggere un libro. Studiare… Lo studio è già un’opera, è un’opera in fieri e ha molto a che fare con l’anima, e solo per uno sconsiderato – spero transitorio – errore di prospettiva noi oggi lo leghiamo soltanto alla realizzazione professionale, ne facciamo uno strumento concreto e finalizzato, un mezzo di trasporto che ci dovrebbe condurre dritti dritti al mondo del lavoro e basta.  Una visione molto riduttiva.

Dicevo, quando qualcuno di noi vuole consolidare i pensieri in un’opera, deve allontanarsi almeno un po’ dal frastuono, dalle sirene degli impegni e delle ambizioni: Fil rinuncia a fare un dottorato, per poter studiare! A un certo punto s’accorge che, se vuole veramente fare ricerca, deve abbandonare proprio gli studi. Sembra paradossale. Ma se gli studi sono diventati un mondo caotico e competitivo, egli deve fare proprio questo: andarsene. Isolarsi. Costruirsi una vita più consona. E la vita consona a studiare, pensare, creare, è una vita il più possibile vuota.  Vuota di impegni e di ruoli, e anche di cose e di persone. Soprattutto vuota di ambizioni.

A proposito… Siamo soliti dare un valore positivo all’ambizione, guai non averne almeno un po’; l’ambizione ci porta avanti, ci aiuta a migliorare. Certo. Ma ambire vuol dire “andare attorno”. Girare in qua e in là, darsi un gran daffare presso “le persone utili”, per acquisire una posizione. In origine gli ambiziosi erano i candidati che andavano in giro a procacciarsi i voti. Ci piace così tanto? L’ambizione ci assorbe totalmente, finisce per diventare lo scopo di se stessa. Ci impedisce di creare, ci annebbia i pensieri, ci toglie il tempo, e la libertà. Ambizione è desiderio di potere. E arte e potere non sono mai andati bene insieme. Perché dovrebbero farlo oggi?

Se Fil vuole lasciare una traccia del suo ingegno, se vuole creare qualcosa di solido nell’ambito dei suoi studi, deve ambire a… non avere ambizioni. Deve diventare… nessuno. Rinunciare a impegni pubblici, cariche, prestigio. Astenersi da ogni “apparire”. E, così, riprendersi l’anima. Solo a quel punto, proprio come dice Anastasio, non scomparirà: la sua ricerca di Economia sfocerà in un’idea nuova, rivoluzionaria, che resterà nel tempo.

Creare presuppone sempre un rinunciare.

Mi verrebbe da dire che il lavoro stesso ci distoglie dalle attività creative, da quella condizione dell’anima che non saprei come chiamare. E che quindi certe apatie e rilassatezze, certe pigrizie, certi impulsi a dire anche noi, sulla esemplare scia di Bartleby, “Avrei preferenza di no”, siano dovuti a improvvise e ribelli lucidità, in virtù delle quali ci rifiutiamo di obbedire agli onerosi diktat del mondo e ci riprendiamo per così dire i “nostri momenti”, quei bagliori dell’anima di cui sentiamo il bisogno.

Il lavoro, se non è lavoro consono alla nostra anima, ci distoglie, ci frastorna e ci estrania da noi stessi. È in qualche misura il nostro più acerrimo nemico. E va combattuto. Anche per poco, non solo per opere imperiture. Anche solo per fumarsi un sigaro sul balcone, andare a passeggio alle tre del pomeriggio, guardarsi alla sera un film. Anche per cose che son ritenute marginali, banali o sciocche.

Lo dice molto più mirabilmente Cesare Pavese, in una lettera del 14 aprile 1942, che la mia amica Giovanna Ioli chissà perché mi manda, oggi, su whatsapp, proprio mentre sto scrivendo queste Paginette, ignara, ma come sempre fatidica. Pavese scrive al suo editore Giulio Einaudi di lasciarlo in pace, di non caricarlo come sempre di lavoretti estenuanti di revisione e altro, perché, dice, “c’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere”. Quella vita che è già, ovviamente, scrittura. Solitaria, im-potente, e autoappagante.




Perché non credere ai sondaggi

Da anni, da quando ho iniziato ad occuparmi di sondaggi, soprattutto politici ma non solo, ho sempre fatto riferimento ad uno strano decalogo, quasi un decalogo all’incontrario: 10 buoni motivi per cui è opportuno non credere ai sondaggi, o meglio, ai risultati di un sondaggio. Gli errori insiti nel procedimento demoscopico sono così numerosi che, anche a cercare di far le cose in maniera il più corretta possibile, è quasi impossibile arrivare ad una soluzione che rispecchi esattamente il pensiero della popolazione di riferimento. Ci si può avvicinare, certo, ma con grandi margini di imprecisione.

Pensate soltanto ai quotidiani sondaggi sulle intenzioni di voto. Si utilizzano campioni di un migliaio di casi, quando va bene, per stimare partiti che a volte stanno attorno al 4%, e che con il classico “errore di campionamento” del 2-3% potrebbero valere dall’1% al 7%. Senza senso. Ma anche per le forze politiche più robuste le stime rimangono parecchio aleatorie. Su 1000 persone che rispondono, almeno 350-400 sono indecisi o astensionisti, e già qui il campione si riduce a 600 casi, con un margine di errore che sale a +/- 4%. Quindi, se ottengo una percentuale di consensi per la Lega, ad esempio, pari al 32%, vorrà dire che sono quasi certo che la Lega viaggia tra il 28% ed il 36%. Tutto e il contrario di tutto: se fosse al 28%, sarebbe in crisi, al 34% sarebbe in gran spolvero. Sostanzialmente, quel sondaggio non mi serve a niente, non mi dice nulla di più di quanto non sapessi già.

E questo per limitarci al solo errore statistico “misurabile”. Mentre nulla sappiamo di tutte le altre distorsioni non quantificabili: le sostituzioni del campione, l’auto-selezione dei rispondenti, l’errore di rilevazione, le bugie consapevoli e inconsapevoli, gli “auto-inganni”, l’influenza del mezzo di rilevazione, la desiderabilità sociale, la ristrutturazione del ricordo di voto, le risposte acquiescenti, l’impatto dell’intervistatore, l’aleatorietà delle opinioni e così via.

Last ma non certo least, il cosiddetto “wording”, vale a dire la scelta delle parole utilizzate per porre una certa domanda, che ha una influenza a volte così decisiva sui risultati dei sondaggi che in alcune occasioni le opinioni di campioni della popolazione, interrogati nello stesso giorno da due istituti di ricerca differenti, divergevano nettamente le une dalle altre.

Il caso più noto ci riporta a quanto avveniva negli USA durante la guerra del Vietnam: i quotidiani pro-intervento pubblicavano sondaggi in cui emergeva come la maggioranza degli americani fosse favorevole a “proteggere il popolo vietnamita (e americano) dall’influenza sovietica”; i quotidiani anti-interventisti pubblicavano viceversa sondaggi dove la maggioranza si dichiarava contraria a “mandare i propri figli a combattere e a morire in Vietnam”. Ma tutti i giornali titolavano semplicemente: “Gli americani sono a favore (oppure contro) il ritiro delle truppe”.

Questo esempio, unitamente a molti altri dello stesso tenore, ci induce infine a porci la cruciale domanda: fino a che punto è possibile “manipolare” un sondaggio, indirizzare cioè già dalla formulazione delle domande gli esiti delle interviste, ancora da realizzare? Per tentare di rispondere a questo quesito ho condotto un esperimento, in un mio recente laboratorio universitario. Ho redatto due questionari sulla qualità della vita a Milano, uno mirato ad ottenere un esito “positivo” e l’altro “negativo” su numerosi aspetti della vita milanese, e in particolare sulla accoglienza del programmato incremento di 50 centesimi del biglietto dei trasporti pubblici, deciso dal Comune.

Ho mandato poi gli studenti del laboratorio ad effettuare 600 interviste a due campioni gemelli con i due diversi questionari. I risultati hanno certificato, almeno in parte, le aspettative. I giudizi sugli aspetti considerati differiscono di quasi 20 punti percentuali tra il “positivo” e il “negativo”, con differenze piuttosto significative (oltre il 30%) per quanto riguarda soprattutto la dotazione commerciale, la manutenzione stradale e, come c’era da aspettarsi, il tema dell’immigrazione e dell’integrazione. Meno evidente, inaspettatamente, il “distacco” sul problema della sicurezza percepita.

In generale, peraltro, la buona percezione della qualità della vita a Milano è stata ribadita in entrambi gli approcci, con un livello di soddisfazione comunque elevato, costantemente superiore al 70% di giudizi positivi. Segno evidente che, se la gente è abbastanza soddisfatta, risulta difficile indurla alla negatività, anche con strumenti manipolatori.

C’è però un dato, infine, che getta una luce obliqua sulle capacità manipolatorie del “wording”, ed è quello che riguarda il giudizio sull’incremento del biglietto dei mezzi di trasporto. In questo caso, le differenze sono davvero molto sensibili: con l’approccio “positivo” l’opinione favorevole all’aumento del costo è pari al 69%, con quello “negativo” si riduce ad un misero 22%. Un abisso.

Che cosa farà dunque un’Amministrazione comunale “perversa” per far accettare ai suoi cittadini una qualsiasi propria iniziativa? Semplicemente, diffonderà con molta enfasi risultati di sondaggi manipolati, in cui risulta che la popolazione è particolarmente favorevole a quella iniziativa. Attenzione, dunque, quando appaiono sui giornali titoli evocativi di sondaggi effettuati: è opportuno, in ogni occasione, non fidarsi. Meglio andare a verificare “come” sono state poste le domande.




La grande ipocrisia

Una caratteristica costante dell’antropologia culturale italica è la grande divisione tra le cose che si possono dire in pubblico (il sapere essoterico) e le cose che si possono dire solo in privato (il sapere esoterico). Quando si tratta di vicende personali tutto ciò può avere un senso: posso fare insinuazioni, tra amici, sull’infedeltà di una donna ma non posso sbandierarla ai quattro venti; a maggior ragione, se si sospetta che abbiano commesso reati nostri conoscenti o figure pubbliche.

 Non dovrebbe esserci invece, almeno in una società aperta, nessuna censura sulle opinioni politiche o sul modo in cui vediamo il passato. Certo chi riveste un ruolo pubblico—si tratti di governanti, di parlamentari, di giudici, di militari etc.—non può tessere l’elogio di un regime liberticida, fascista o comunista che sia, e se lo fa, è legittimo che lo si chiami a risponderne. Ma posto—e solo nei casi detti—il divieto di apologia della dittatura, non c’è nulla di più assurdo della censura che colpisce quanti, dopo aver premesso, che, per loro, la peggiore delle democrazie è preferibile alla migliore delle tirannidi, riconoscono realisticamente che queste ultime possono lasciare opere e istituti utili al paese. Specialmente quando—ed è il caso della recente intervista rilasciata da Antonio Tajani a ‘La Zanzara’ (Radio 24) —si tratta di verità acquisite (e ripetute) dalla stragrande maggioranza degli italiani. Che cosa ha detto, in sostanza, il Presidente del Parlamento europeo su Mussolini? Diamogli la parola:” “Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche |…| si può non condividere il suo metodo. Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e non condivido il suo pensiero politico però se bisogna essere onesti, ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale”. Ed ha aggiunto, a scanso di equivoci, “Complessivamente non giudico positiva la sua azione di governo, però alcune cose sono state fatte. Le cose sbagliate sono gravissime: Matteotti, leggi razziali, guerra. Sono tutte cose inaccettabili”. In seguito, bersagliato da ogni parte, ha chiarito ulteriormente il suo pensiero: “La dittatura fascista, le sue leggi razziali, i morti che ha causato sono la pagina più buia della storia italiana ed europea”.

E’ finita lì? Neppure per sogno! Il capogruppo dei Socialisti e Democratici all’Europarlamento, Udo Bullman, ha chiesto, sommamente indignado, dei ‘chiarimenti’ ; Romano Prodi ha parlato di ‘affermazioni molto discutibili’; l’ANPI, che ha il monopolio della vigilanza antifascista, naturalmente, è subito insorta, seguita a ruota dal M5S la cui vocazione antitotalitaria è ben nota—come dimostra la piattaforma Rousseau!:v. le dichiarazioni del sottosegretario Stefano Buffagni e del  capogruppo M5S alla Camera Francesco D’Uva); Carlo Calenda ha  scritto che Tajani ha dimostrato “una notevole dose di ignoranza e una totale inadeguatezza a ricoprire” la sua carica. E non parliamo delle sparate retoriche del segretario di “più Europa”, Benedetto Della Vedova, del sindaco di Milano Beppe Sala, del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti; e, soprattutto, della Sissco (Società Italiana per lo Studio della Storia contemporanea) che, quasi fosse il Centro Studi dell’Anpi, in sostanza, ha accusato sul povero Tajani “di avvalorare una lettura del tutto parziale del fascismo”

 Nel nostro paese ci sono sempre eroi che si rivoltano nella tomba, martiri che si sentono umiliati, cittadini onesti e coscienze integerrime che chiedono la punizione di chi ‘parla male di Garibaldi’ anche se lo fa indirettamente, riconoscendo qualche merito ai suoi nemici.

 In realtà, tutte queste incomposte reazioni sono sconfortanti per quegli studiosi che da una vita, ‘sine ira et studio’, cercano di comprendere la natura effettiva del fascismo, la sua genesi storica, la sua eredità politica e culturale, in senso lato, e che, per le loro ricerche, non si rivolgono a Carlo Calenda ma all’officina lasciata da Renzo De Felice e da altri storici non prevenuti del ventennio. Per questa scuola, alla quale mi onoro di appartenere, Tajani non ha detto proprio nulla di scandaloso, e semmai avrebbe potuto essere meno circospetto.

 Ho trovato discutibile, invece, la sua marcia indietro ovvero il capo cosparso di cenere presentato ai suoi inquisitori europei e italiani. “Da convinto antifascista mi scuso con tutti coloro che possano essersi sentiti offesi dalle mie parole, che non intendevano in alcun modo giustificare o banalizzare un regime anti-democratico e totalitario”. Invece di rivendicare, con dignità, la libertà di esprimere un’opinione (pur se discutibile) su momenti cruciali della nostra storia, Tajani si è recato a Canossa, giustificando implicitamente Bullmann, Prodi, Della Vedova & C. per averlo esposto alla gogna mediatica: è stato come riconoscere che avrebbe dovuto essere più attento alle parole e pensare alle reazioni che avrebbero potuto provocare. Diciamoci la verità: il ‘politicamente corretto’ lo abbiamo inventato noi anche se, per un residuo senso estetico, non ne meniamo vanto. O meglio abbiamo inventato il suo coté negativo laddove negli Stati Uniti vige da tempo quello positivo: in America, il politically correct serve a ‘imbiancare’, a dare dignità (ad es.,ai neri che diventano afroamericani), in Italia serve ad ‘annerire’, a demonizzare persone, figure e simboli storici che, se estranei al mainstream buonista e universalista, vengono precipitati nella stessa ‘massa damnationis’: in entrambi i casi, troviamo la  censura del pensiero e l’umiliazione di chi si ostina a pensare con la propria testa.

D’ora in poi, si può scommettere, Antonio Tajani—politico mite, rispettoso e così diverso dalla media dei suoi colleghi—sarà più guardingo nelle sue ‘esternazioni’, ricordando che quanto si dice in privato, non può essere detto in pubblico. Le convenzioni vanno rispettate anche se imposte dalla ‘grande ipocrisia’.




Talento Cosmico Invisibile

Perché solo le pere cadono

Ci son cascata come una pera. Mi piace quest’espressione, mi piace l’immagine della pera matura che cade. Lo dico così spesso che non so quante pere ho visto cadere, nel parlare della mia vita.

Però anche le pesche cadono. E cadono anche le mele, le prugne, le nespole e, ancor più classicamente, le foglie. Allora perché non diciamo mai: ci sono cascata come una pesca? Perché nel nostro linguaggio, nell’uso comune, nella tradizione dell’espressività popolare, cadono sempre soltanto pere?

In questo inizio d’anno politicamente ed economicamente tormentato, dove intellettuali, giornalisti, scienziati, scrittori, attori e studiosi si dedicano a capire perché il PIL non cresce, perché la disoccupazione sale, se usciremo dall’euro e quanto siamo fascisti, io tenterei di dare una risposta al problema delle pere: diciamo così perché un tempo nelle campagne i peri erano gli alberi maggioritari, cioè i contadini piantavano in prevalenza peri? o perché ai contadini piace il formaggio con le pere, dunque in qualche modo è il loro frutto preferito, anche nel linguaggio? o perché le pere, per qualche loro strana fragilità costituzionale, cadono di più rispetto agli altri frutti?

Mi sono rivolta a un mio amico, uno studioso molto serio, il quale dopo averci pensato un po’ ha risposto: perché le pere cadono in piedi. Gli ho chiesto di spiegarsi meglio. Ha detto che la conformazione fisica della pera, il peso maggiore della sua parte posteriore, fa sì che cada in verticale, si appoggi col sedere a terra, per dirla in modo visivamente efficace. Effettivamente la pera cadendo non rotola, o rotola meno. Soprattutto non cade mai a testa in giù (ammesso che la testa sia dove spunta il picciuolo). Quindi è la più adatta ad esprimere l’analogia con l’essere umano che cade, anche lui solitamente di sedere. Poi l’amico scienziato s’è perso in un vortice di similitudini, tra le quali: Sai, in fondo potremmo dire che la pera è come il gatto, cade sempre giusto.

E qui mi si è disegnato in mente un gatto che cade da un’altezza considerevole e riesce ad atterrare molleggiando sulle quattro zampe. E riprende a camminare come nulla fosse, con passo elegante, ovviamente felpato.

Punteggi ambulanti

Di recente abbiamo preso ad insegnare soltanto il metodo, il modo, di fare una certa cosa. Non la cosa in sé, ma come farla. Procedure, strategie. Insegniamo a riempire schemi prefabbricati, moduli prestampati; mettere crocette, completare puntini.

In qualche misura, equivale a insegnare a essere furbi, strategici. Stiamo dunque affermando il trionfo della strategia, del piano. Ci piace insegnare come aggirare gli ostacoli. Per esempio aggirare la propria ignoranza: bisognerebbe studiare per passare un test, ma se impari il metodo per passarlo non importa più che studi. Non importa se non sai quel che ti chiedo, importa che tu acquisisca un metodo per rispondere.

L’importante è centrare il bersaglio, raggiungere il fine: passare un esame, vincere il concorso per un posto di lavoro. Ultimamente, ottenere il reddito di cittadinanza (ho visto in tivù certe riprese agghiaccianti in cui si suggeriva all’utente come compilare l’ISEE a proprio vantaggio…).

Non importa sapere, conoscere la sostanza delle cose, approfondire una materia, acquisire una sapienza. Tantomeno dire la verità. Non interessa il contenuto, solo la confezione.

Come per i regali di Natale: importa il pacchetto. La carta, il nastrino, la pallina decorativa. E soprattutto l’etichetta del negozio. I regali, e chi li fa, vengono misurati (“valutati”) prima di aprirli: non da cosa c’è dentro il pacco, ma da dove hai comprato l’oggetto. È un atteggiamento piuttosto recente, direi: mi sembra che quand’ero giovane io non fosse così, o che il fenomeno non fosse così vistoso. O ero giovane e non mi accorgevo di niente?

Abbiamo tutti acquisito negli ultimi anni un atteggiamento sempre più “commerciale” nei confronti della vita. Ragioniamo da “economisti”, anche nei rapporti con gli altri: valutiamo, misuriamo, consideriamo le offerte, l’utilità, i benefici.

Forse ci tranquillizza. Forse così acquietiamo il nostro spirito guerriero che dentro ci rugge, oggi agguerrito soprattutto sulle (peraltro irrisolvibili) questioni di uguaglianza e ineguaglianza, merito e privilegio: ci sembra che usare tabelle, riempire moduli, crocettare, rispondere a quesiti prestampati, classificare e mettere in classifica, quantificare in punteggi, tradurre in percentuali, ci conduca a una oggettività di giudizio, a una imparzialità.

A me sembra un’illusione, che paghiamo a un prezzo molto alto: ci siamo numerizzati. Abbiamo accettato di essere ridotti a numeri. Siamo un punteggio ambulante, per arrivare al quale dobbiamo corrispondere a criteri. E i criteri sono imposizioni, violenze. La violenza di essere valutati non per la sostanza di quel che siamo e sappiamo, non per il nostro effettivo valore e talento (tutta roba invalutabile in modo oggettivo e impersonale), ma per la forma, il guscio esterno di noi, per quei dettagli esteriori e concreti che si offrono come gli unici a poter essere valutati.

Comunque non è facile imparare una strategia. Si tratta pur sempre di studiare, cambia solo l’oggetto dello studio. Per esempio per passare un test di scienze, invece di studiare un manuale di scienze, studiamo un manuale che ci insegna la strategia per passare un test di scienze. Stesso numero di pagine, stessa energia mentale. Forse ci sentiamo furbi, pensiamo di sgominare l’avversario. Invece abbiamo sprecato il tempo studiando cose molto noiose e inutili. Cioè utili soltanto a un fine ben definito e concreto, e tutto sommato limitato, come superare un test.

Piccolo omaggio ai talenti sconosciuti

In quanto al merito, al talento, il discorso è sempre difficile. Una strada impervia, direi. A parte i pochi casi in cui emerge chiaramente ed è pubblicamente conclamato (ovvero procura fama), esiste un talento tacito, umbratile, appartato: il talento che passa inosservato. Ed è quello che riguarda la maggioranza di noi. Potremmo dire che il mondo è interamente percorso da un Talento Cosmico Invisibile Sotterraneo, una specie di fiume nascosto che scorre nei meandri della terra e non esce mai in superficie. Eppure ristora e nutre il pianeta intero.

La maggioranza di noi può vivere anche tutta la vita senza che il proprio talento venga mai scoperto, riconosciuto, ammirato. Eppure c’è stato, è veramente esistito, ha avuto modo di esprimersi per lunghissimi anni, e ha agito nel mondo distribuendo indubitabili doni agli altri.

Può essere un ingegnoso idraulico, un’insegnante appassionata, una ballerina di fila bravissima, un maestro di karate in un’oscura scuola di periferia, la cuoca di una sperduta osteria che fa lasagne eccezionali; un medico che si dedica ai suoi pazienti ben oltre il dovuto, un giardiniere a cottimo che scalpella siepi artistiche. Non importa che mestiere fa, ma lo fa in modo eccelso, particolare, tutto suo, magari geniale. E lo fa per tutta la durata della sua vita, costantemente, ogni giorno, perché tutta la sua vita è quello, è esprimere esattamente quel talento.

Chi ha la fortuna di venire a contatto con persone del genere gode di infiniti benefici, e spesso ne è ignaro, non pensa affatto di esser stato toccato dal talento unico e irripetibile di quegli eroi e artisti incogniti. A volte non ringrazia neppure. E invece, dovrebbe esprimere una gratitudine sterminata.

Ho conosciuto personalmente molte persone così. Sono persone prese soltanto dalla loro passione, avulse da ogni forma di potere, estranee a ogni tornaconto personale, direi anche inconsapevoli del loro valore, o comunque non interessate a che quel valore venga pubblicamente riconosciuto. Penso che non ambiscano a nulla, e che un’effimera gloria non aggiungerebbe nulla alla loro vita, perché si nutrono di un bene che è ben maggiore, e che chiamerei la “contentezza di sé”, quel sentimento di pienezza della vita che ci prende quando sentiamo di aver fatto bene il nostro lavoro.

Fare bene il proprio lavoro, il senso sta tutto in quell’avverbio: bene, meglio che si può. Certo che quel bene meriterebbe un premio. Ma il premio migliore a cui dovremmo tutti quanti aspirare è proprio la capacità di fare a meno di qualsiasi premio.

Sono sicura che tutti ne abbiano incontrate, di queste persone. In genere sono riconoscibili da una luce che ne illumina gli occhi, il sorriso. Una luce che, come direbbe Dante, “ci porta di là”.

A tutte queste persone sconosciute, generose, non egoiste, non ambiziose, ignare di sé, vorrei dedicare il libro di Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi. E in particolare la pagina iniziale, che fa un po’ da epigrafe:

Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile.

Articolo pubblicato su Il Sole24Ore del 24 febbraio 2019