Il Governo non è pronto per la “fase 2”. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, siamo tutti segregati in casa da 50 giorni e il governo ha prolungato la chiusura del paese fino al 3 maggio. Il danno economico sarà devastante. Ma almeno il lock down sta funzionando a contenere l’epidemia a suo avviso?
Sì e no. Sì, perché, dopo il duplice lockdown del 5 e del 9 marzo (chiusura scuole + chiusura totale), il numero giornaliero di nuovi contagiati ha quasi immediatamente smesso di crescere, almeno secondo la ricostruzione della Fondazione Hume, basata sulla dinamica recente delle morti e delle ospedalizzazioni).
Ma attenzione: meno nuovi contagi quotidiani non significa che si è fermato il contagio, ma solo che il numero di nuovi infetti cresce a un ritmo via via più lento. Giusto per darle un’idea: se fino all’annuncio della chiusura delle scuole avevamo 100 mila nuovi contagiati al giorno, dopo 10 giorni di arresti domiciliari (ultima settimana di marzo) si può stimare che i nuovi contagiati fossero scesi a “solo” 60 mila al giorno. Oggi dovrebbero essere ancora di meno, ma con i pochi dati che ci forniscono non si può stimare quanti siano.

Insomma il governo ci sta tenendo a casa perché sostanzialmente è l’unica cosa che sa fare per fermare il contagio?
Anche qui, mi permetta di rispondere senza nascondere le due facce della medaglia, quella pro-governo e quella anti. Il governo fa bene a mantenere il lockdown perché un mese non può bastare, e finché non si arriva vicini a contagi-zero è estremamente imprudente riaprire.
Al tempo stesso, però, non si può non rilevare che la curva di discesa è estremamente lenta, e questo è precisa responsabilità del governo, che non solo si è preso l’enorme responsabilità di ritardare di 2 settimane il lockdown totale (è dal 25 febbraio che c’erano gli elementi per capire che bisognava fermare tutto), ma non ha ancora fatto T-M-T, ossia le tre cose che avrebbero potuto abbreviare il percorso di uscita.

T-M-T ?
Sì, T come tamponi di massa, M come mascherine per tutti, T come tracciamento dei casi positivi e dei loro contatti. I paesi che hanno riportato vittorie significative nella lotta al virus (Cina, Corea del Sud, Singapore), hanno avuto successo perché hanno fatto queste cose. E in Europa tutto lascia pensare che il tributo di morti di ogni paese dipenderà più da T-M-T che dalla durata del fermo delle attività produttive. Da questo punto di vista, come ha notato il prof. Massimo Galli, la Germania è in vantaggio su molti altri paesi europei, e potrebbe – alla fine – uscirne meno peggio proprio perché non punta tutte le sue carte sul lockdown.

Lei stima un numero di contagi e morti molto più alto di quello ufficiale. In che modo desume questi numeri? Le autorità stanno sottostimando la diffusione del virus?
L’evidenza che suggerisce che i numeri non sono quelli ufficiali è frammentaria, ma molto convincente perché tutti gli indizi convergono nel farci ritenere che il numero di morti potrebbe essere il triplo dei morti rilevati dalla Protezione Civile, e che la mortalità al Sud potrebbe essere anche 10 volte quella ufficiale (per i dettagli si può consultare il sito della Fondazione Hume: www.fondazionehume.it)
Non credo che le autorità sottostimino la diffusione, semplicemente non vogliono che anche noi sappiamo quel che loro sanno perfettamente.

Il premier Conte a fine gennaio diceva che il governo era “prontissimo, abbiamo adottato tutti protocolli possibili e immaginabili”, possibile che il governo non avesse idea del pericolo che correva l’Italia?
Sì, è possibile. Perché i politici non si circondano di veri scienziati (che per me significa esperti che sono anche menti libere) ma scelgono gli studiosi più pronti a confermare le credenze e le scelte dei politici stessi. L’emergenza fu dichiarata non perché si era capito che saremmo arrivati al lockdown, ma semplicemente perché era un’occasione formidabile per assumere i “pieni poteri” (non metaforicamente, come l’ingenuo Salvini, ma sul serio).

Intervista rilasciata a Il Giornale del 12 aprile 2020




E se il Covid-19 fosse già dilagato anche al Sud?

Pubblichiamo qui i risultati di una analisi statistica sulla mortalità effettiva da Covid-19.
Seguono parti dell’articolo con cui i risultati sono stati presentati sul “Messaggero” dell’8 aprile 2020.

L’analisi statistica

La base di dati è costituita da 1084 comuni selezionati dall’Istat sia in funzione della disponibilità di informazioni aggiornate, sia in base alla circostanza che il tasso di mortalità delle prime 3 settimane del mese di marzo del 2020 risultasse significativamente diverso da quello del corrispondente periodo del 2019.
Per i medesimi comuni l’Istat fornisce:

a) il numero di morti dall’1 al 21 marzo 2019 (x0);
b) il numero di morti dall’1 al 21 marzo del 2020 (x1);
c) il numero di morti nell’intero mese di marzo del 2019 (x2).

Oltre a questa fonte sono stati usati i dati ufficiali della Protezione Civile sul numero di decessi da Covid-19 nell’intero mese di marzo del 2020 (y).
I comuni sono stati ricondotti alle Regioni e Province autonome di cui fanno parte, e per ciascuna di queste 21 unità (19 Regioni e 2 Province) sono stati riportati le variabili x0, x1, x2, y, più la numerosità della popolazione (dati 2019).
Dai calcoli successivi sono state eliminate 4 unità territoriali (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata, Bolzano) che presentavano problemi di insufficiente numerosità dei casi e/o di disponibilità dei dati. Le 17 unità territoriali superstiti coprono comunque il 97.5% della popolazione totale.
Il procedimento seguito per la stima può essere descritto in 4 passi:
1) calcolo, per ogni unità territoriale, del tasso di crescita della mortalità: r = (x1-x0)/x0
2) stima della mortalità aggiuntiva (z): z = x2 r
3) confronto con la mortalità ufficiale da Covid: y-z
4) calcolo dei tassi di mortalità ufficiali (dati Protezione Civile) e stimati (dati Istat) in rapporto alla popolazione (casi per 100 mila abitanti).
Il calcolo dei tassi di mortalità ufficiali (Protezione Civile) ed effettivi (stime con i dati Istat) è stato effettuato sia per la popolazione generale (17 unità territoriali), sia per le tre zone seguenti, individuate in base alla mortalità quale risulta dai dati della Protezione Civile:

– zona rossa: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Marche;
– zona verde: Sud incluso il Lazio;
– zona gialla: restanti regioni e province (Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Umbria, provincia di Trento).

Per la popolazione generale e per ogni zona, oltre al tasso di mortalità per 100 mila abitanti, si è calcolato anche un moltiplicatore, che indica di quanto occorre moltiplicare il tasso di mortalità ufficiale per aver una stima del tasso di mortalità effettivo.

Ed ecco i le stime dei tassi di mortalità per 100 mila abitanti (mese di marzo):

 Fonti: Istat, Protezione Civile

E’ verosimile che, a causa della non rappresentatività del campione Istat, i moltiplicatori effettivi siano un po’ più bassi di quelli stimati. E’ invece alquanto improbabile che, con la totalità dei comuni o con un campione di comuni rappresentativo, i moltiplicatori delle varie zone del paese risulterebbero simili fra loro.

Discussione

E una congettura. Solo una congettura. E speriamo pure che sia sbagliata. Però è troppi giorni che giro e rigiro i dati Istat sulla mortalità nei comuni italiani, e non riesco a scacciare il dubbio. Quindi eccomi qua, provo a raccontare quel che viene fuori.
Una decina di giorni fa l’Istat ha reso pubblici dei dati sull’andamento della mortalità in due periodi comparabili, ossia le prime 3 settimane di marzo 2019 e le prime 3 settimane di marzo 2020. I dati non riguardano tutti i comuni, ma solo una parte (di qui il tono dubitativo del mio discorso) di quelli in cui vi sono stati scostamenti apprezzabili fra la mortalità di quest’anno e quella dell’anno scorso. Ebbene, in molti comuni è successo quel che per la prima volta venne denunciato dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori qualche settimana fa, ovvero: i morti in eccesso rispetto all’anno scorso, sono molto più numerosi dei morti ufficiali per Covid-19 comunicati dalla Protezione Civile. E poiché non sembrano esserci spiegazioni plausibili per questo eccesso di mortalità, che non si è verificato solo a Bergamo ma in numerosi altri comuni, pare inevitabile concludere che i morti effettivi per Covid-19 siano molti di più di quelli ufficiali.
Su questa conclusione vi è sostanziale accordo fra quanti (studiosi e non) hanno nei giorni scorsi provato a maneggiare i dati della mortalità. Il dubbio è solo se i morti effettivi siano 2, 3 o 4 volte di più dei morti accertati. Sembra che il moltiplicatore sia circa 3, ma il fatto che il campione Istat non includa tutti i comuni, bensì solo comuni con scostamenti anomali della mortalità non può che indurre alla prudenza.
Fin qui tutto (relativamente) chiaro. Se però andiamo un po’ più a fondo, e ci prendiamo la briga di distinguere fra le varie zone del Paese, ecco che ci si presenta un dato scioccante: contrariamente a quanto siamo portati a pensare basandoci sulle morti ufficiali per Covid-19, il Mezzogiorno non risulta affatto un’isola felice, relativamente preservata dal virus, ma ha numeri paragonabili a quelli del resto dell’Italia.
Che cos vuol dire “paragonabili”?
Vediamo. Secondo la Protezione Civile il numero di morti da Covid-19 per 100 mila abitanti è 46.5 nelle regioni della zona rossa (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Marche), 2.6 nelle regioni del Sud (incluso il Lazio), 15.0 nel resto d’Italia. Dunque al Sud la mortalità da Covid-19 è quasi 20 volte più bassa che nella zona rossa, un ovvio motivo di conforto per chi vive nelle regioni relativamente preservate. Ma se, anziché usare i dati dei morti ufficiali, usiamo gli eccessi di mortalità desumibili dai dati Istat, i numeri cambiano completamente: le morti attribuibili al Covid-19 sono 104 ogni 100 mila abitanti nella zona rossa, e sono ben 61 su 100 mila abitanti nel Sud. Dunque sono un po’ di più della metà, non un ventesimo.
Possiamo anche metterla così. Se prendiamo per buone le stime desumibili dai dati Istat, dobbiamo concludere che nelle regioni della zona rossa si sono attribuiti al Covid 45 casi contro 100 effettivi, mentre al Sud se ne sono riconosciuti meno di 5 su 100. Detto ancora più crudamente: se vuoi sapere quanti sono i decessi effettivi per Coronavirus, ti basta moltiplicare per 2 se sei in una regione della zona rossa, ma devi moltiplicare almeno per 20 se sei in una regione del Mezzogiorno. In breve e in conclusione: per avere il numero effettivo dei morti non ci occorre solo un moltiplicatore (più o meno prossimo a 3), ma ne dobbiamo usare più di uno, molto diversi da un territorio all’altro.
Senza dilungarmi in precisazioni e distinguo (per cui rimando alle informazioni contenute nella sezione inziale), mi limito a due considerazioni, una tecnica e una di sostanza.
La considerazione tecnica è che è molto difficile ipotizzare che l’enorme sotto-diagnosi dei casi di Covid-19 al Sud sia interamente, o in gran parte, dovuta alla non rappresentatività del campione di comuni fornito dall’ Istat. E’ verosimile che con un campione di comuni rappresentativo l’entità della sotto-diagnosi possa attenuarsi, ma è quanto mai implausibile supporre che le differenze territoriali emerse fin qui miracolosamente scompaiano o diventino trascurabili.
La considerazione di sostanza è che, ove si confermasse che la sotto-diagnosi al Sud (ma anche in alcune zone del Nord) è enorme, tipo 9 casi dimenticati su 10, occorrerebbe capire come ciò sia stato possibile. L’unico indizio che sono riuscito a trovare è che l’entità della sotto-diagnosi è fortemente correlata con il sottodimensionamento dei posti letto, come se la percentuale di casi Covid-19 individuati e correttamente classificati fosse in qualche modo connessa alla forza e all’ampiezza della rete ospedaliera.
Resta un’ultima osservazione, forse la più rilevante: se il Covid-19 è diffuso in modo comparabile in tutte le aree del Paese, non sarà facile pianificare una ripartenza per grandi blocchi, con le zone “verdi” del Sud che riaprono molto prima delle zone “rosse” del centro-nord. Anche perché, se – a questo punto dell’epidemia – i punti di partenza sono molto più ravvicinati di quanto finora si è supposto, non è affatto detto che la meta dei contagi-zero sia raggiunta prima da una metà del Paese e dopo dall’altra. La gara per arrivare primi in zona contagi-zero è aperta, e ogni Regione, ogni Provincia, ogni Comune dovrà giocare fino in fondo le proprie carte.




Ci tengono chiusi in casa perché non sono capaci di gestire l’epidemia. Intervista a Luca Ricolfi

Come sta messo il paziente Italia?
Non benissimo, a giudicare dal valore del nostro indice di temperatura.

Come funziona l’indice messo a punto dalla Fondazione Hume che misura la temperatura?
L’indice si basa sugli unici dati relativamente affidabili forniti quotidianamente dalla Protezione Civile, ovvero morti, ricoveri ordinari e ricoveri in terapia intensiva. Queste informazioni vengono rapportate a quelle dei giorni precedenti, e sintetizzate in un indice molto semplice e intuitivo, che si può leggere come una temperatura: quando il termometro segna 42 gradi significa che l’epidemia sta galoppando, quando ne segna 37 vuol dire che si è virtualmente spenta.

E stasera qual è la temperatura?
È 37.8, poco meno di ieri. Ma il cammino da 38 a 37 è più lungo e difficile di quello da 39 a 38.

Quali sono le realtà più critiche?
La Valle d’Aosta e la Calabria. Lo abbiamo scoperto ieri, quando abbiamo applicato il nostro termometro a tutte le regioni. Nel cammino di avvicinamento a 37 gradi la Valle d’Aosta, con oltre 40 gradi, è la regione più lenta, la Calabria è di un soffio sotto i 40 gradi.

E la più veloce?
Se la Valle d’Aosta è la lumaca, la lepre è la Sardegna, che è già scesa sotto i 38 gradi, 37.6 per l’esattezza.

Alcuni studi dimostrano che il dato dei morti non è certo, quello reale, confrontando gli andamenti comunicati dalla Protezione civile con le medie degli ultimi anni, sarebbe di almeno tre volte tanto. Le risulta?
Mi risulta eccome. La mia stima più recente è che, almeno a marzo, i morti effettivi possano essere anche 3 volte quelli ufficiali. Il 31 marzo i morti ufficiali erano 12.428, il numero effettivo potrebbe essere di 40-45 mila: i morti silenti, dimenticati nelle loro abitazioni e nelle case di riposo, potrebbero essere 30 mila nel solo mese di marzo. E la differenza, credo che ne avremo le prove nei prossimi giorni, potrebbe essere dovuta in misura non trascurabile alle regioni del Sud, dove la diffusione del virus è molto più sottostimata che al Nord.

Ma se così fosse, il numero dei contagiati reali rispetto a quello degli accertati a quanto sale?
Questo è quello che tutti si stanno domandando, le stime che girano (talora relative al 28 marzo, talora aggiornate ai primi di aprile) spaziano da circa 2 a circa 16 milioni. Il valore più basso (1 milione e 900 mila) è il limite inferiore stimato dall’Imperial College, ed è a mio parere abbastanza irrealistico: sono parecchi di più. Il valore più alto, anch’esso di fonte Imperial College (15 milioni e 600 mila) è anch’esso poco credibile, a dispetto che sia stato recentemente accreditato dal nostro rappresentante presso l’Organizzazione Mondiale della sanità, che ha congetturato che gli infetti potessero essere il 20% della popolazione, ossia 12 milioni di persone.
In mezzo si situano ormai almeno 3-4 gruppi di studiosi, che convergono su una stima di 5-6 milioni di contagiati.

E lei ha una sua stima?
No, non ho una stima. Ne ho molte, perché – allo stato dell’informazione disponibile qualsiasi stima dipende da congetture su parametri che non abbiamo.

Quali parametri?
Essenzialmente quattro: il numero effettivo di morti rispetto al numero ufficiale, il tempo medio che intercorre fra il momento in cui si viene contagiati e la morte, il tasso di letalità in Italia (non è detto sia il medesimo in tutti i paesi), il peso degli asintomatici rispetto ai sintomatici e pauci-sintomatici. A seconda dei valori che si attribuiscono a questi parametri, la stima del numero di contagiati può variare notevolmente, anche se – a mio parere – non nel range indicato dall’Imperial College, che è troppo ampio ed equivale a non avere nessuna idea dell’ordine di grandezza del fenomeno: se dici che qualcosa può essere 1 o 10, come di fatto fa lo studio inglese (il rapporto fra massimo e minimo è 8.125), è come dire che non conosci nemmeno l’ordine di grandezza del fenomeno.
La “regola Crisanti” (moltiplico per 10 il numero dei contagiati ufficiali) porterebbe, ad esempio, a una stima di 1 milione e 325 mila contagiati (al 7 aprile). Se si usassero le morti ufficiali, e si ipotizzasse un tasso di letalità dell’1.5%, si potrebbe congetturare che i contagiati siano circa 1 milione. Ma se dovessimo accettare le congetture che molti studiosi stanno formulando in questi giorni, le cifre cambierebbero ancora, e di molto.

Che cosa si sta congetturando in questi giorni?
Il caso di Bergamo, in cui la mortalità fra marzo 2019 e marzo 2010 è esplosa ben al di là di quel che risulta dai morti ufficiali per Covid-19, ha indotto diversi studiosi a considerare come stima della mortalità da Covid non i decessi ufficiali della Protezione Civile bensì l’eccesso di mortalità osservato a marzo in una parte dei comuni italiani (l’Istat non è stata in grado di fornire i dati di tutti i comuni, ma solo di un campione distorto). Ebbene, i dati sulla mortalità pubblicati finora suggeriscono che il numero di morti effettivi possa essere il triplo del numero ufficiale. In tal caso il numero di contagiati non sarebbe di poco più di 1 milione, ma di poco meno di 4.
Ma anche assumendo per buona questa linea di ragionamento, resterebbe l’incertezza sul tasso di letalità, che per la maggior parte degli studiosi è compreso fra l’1 e il 2%, ma secondo i più pessimisti potrebbe anche essere maggiore del 3%.

Ma tenuto conto di tutto ciò, se la sente di azzardare una stima?
Sì, a me la stima più ragionevole pare quella che assume una mortalità tripla di quella ufficiale, e una letalità dell’ordine dell’1.5, forse del 2%, il che porta il numero di contagiati vicino ai 4 milioni (1 cittadino su 15), a metà strada fra la stima inferiore dell’Imperial College (2 milioni) e le stime pessimistiche dei colleghi che in questi giorni si sono spinti a parlare di 6 milioni di contagiati.

Come mai in Germania ci sono meno morti che da noi?
Non lo so. In un primo tempo, sono state avanzate due spiegazioni: il fatto che, essendo l’epidemia partita dopo, i malati tedeschi “non hanno ancora avuto il tempo di morire”, e l’ipotesi che il sistema di attribuzione delle cause di morte sia radicalmente diverso dal nostro. Ora però il tempo è passato, ed emerge che anche altri paesi hanno tassi di letalità apparente molto più bassi dei nostri. Quindi ribadisco la mia risposta: non lo so.

Abbiamo superato il picco?
Il concetto di “picco” è fuorviante. C’è un picco dei contagiati, un picco delle ospedalizzazioni, un picco della mortalità. E sono temporalmente sfasati fra loro. Il vero problema, però, non è se abbiamo superato il picco (io ritengo che abbiamo superato sia il picco delle ospedalizzazioni, sia quello dei morti), ma quanto lentamente scenderemo la collina: non è la stessa cosa metterci 5 settimane o 5 mesi, vuol dire riaprire a fine aprile o a settembre, dopo l’estate.
Il confronto con la Corea è scoraggiante: lì dopo il lockdown l’epidemia è scesa a precipizio, noi stiamo comodamente scendendo la collina.

Intanto c’è il rischio di una recessione profonda e duratura dell’economia?
No, non c’è un rischio, c’è una certezza. Purtroppo, per ora, il governo non sembra aver compreso le vere esigenze dell’imprese: si parla di prestiti a tasso zero garantiti dallo Stato, ma i problemi sono altri: pagare i fornitori e coprire i costi fissi quando il fatturato viaggia verso zero. Se vuole aiutare le imprese, lo Stato dovrebbe pagare istantaneamente tutti i suoi debiti verso il settore privato, e fornire aiuti a fondo perduto agli operatori che hanno subito un crollo del fatturato.
Ma le sembra che un imprenditore cui vengono a mancare alcune mensilità di fatturato può pensare di risolvere il problema aumentando l’indebitamento verso il sistema bancario? Che se ne fa di un prestito a tasso zero se ha un buco di fatturato del 20 o 30% rispetto all’anno precedente?

Il vaccino potrebbe arrivare forse il prossimo anno. Da più parti si chiede di mettere a punto una fase due di uscita graduale dalle misure di contenimento (lettera dei 150), con uso massiccio delle mascherine, test diffusi per scovare gli immuni e tamponi per i contagiati sommersi, ospedali dedicati per il Covid. Sperimentazioni stanno partendo in tal senso. Su quali basi e in quale tempo secondo lei si può pensare di allentare la stretta senza ritrovarsi in una situazione di ritorno più grave di quella di partenza?
La mia sensazione è che, non essendo capace di “fare come in Corea”, il governo caricherà quasi interamente sui cittadini l’onere di sconfiggere il virus, mettendo un intero paese agli arresti domiciliari piuttosto a lungo. Il fatto che negli ultimi giorni si siano moltiplicati gli avvertimenti che la fase di lockdown potrebbe essere lunga, io lo interpreto così: cari cittadini, noi non riusciremo a fare granché, quindi armatevi di santa pazienza, perché isolarvi e segregarvi è l’unica cosa che siamo davvero capaci di fare.
Se non fosse così, avremmo già visto: tamponi ed esami sierologici di massa, mascherine per tutti; sistema di tracciamento dei positivi funzionante; dati dell’Istituto Superiore di Sanità non secretati; campione statistico nazionale, per conoscere la diffusione dell’epidemia e tutti i dati necessari a governare la fase di riapertura.
Invece siamo ancora qui, a dibattere ogni giorno di cose che dovrebbero esistere da un pezzo.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi del 7 aprile 2020



Il partito della riapertura

Da almeno una settimana le voci che auspicano una ripresa delle attività produttive si sono moltiplicate. Scalpita per la riapertura Confindustria, che fa notare che ogni mese perduto si mangia quasi un punto di Pil. Scalpitano per l’apertura grandi e piccoli produttori, che rischiano di dover chiudere perché anche 2 sole mensilità (marzo e aprile) di mancato fatturato bastano a mandare all’aria il lavoro di anni, se non di generazioni. E scalpitano per l’apertura, più in generale, quanti si rendono conto che il fermo prolungato dell’economia potrebbe farci ritrovare, nel giro di pochi mesi, in un paese molto più povero e indebitato di prima, con inediti problemi di ordine pubblico e di malcontento sociale. Qualcuno si avventura a dire che, quando la base produttiva sarà semidistrutta, potremmo ritrovarci in un sistema di tipo cubano, con un’economia in cui quasi tutto è nazionalizzato e il tenore di vita si è drammaticamente abbassato. Uno degli argomenti centrali del “partito della riapertura” è che, quali che siano i tempi del ritorno alla normalità, con il virus dovremo comunque imparare a convivere, e dunque tanto vale provarci quanto prima, così almeno impediamo il collasso completo dell’economia (e del sistema sanitario). Questo argomento, nei più lucidi (o più cinici?) si accompagna con la tesi secondo cui il problema degli anziani si risolve rinchiudendoli in casa a tempo indeterminato, mentre quello dei giovani e degli adulti si affronta accettando il rischio di contagio, dato che per loro la mortalità è molto più bassa.

Non voglio negare che ci sia molto di vero in questo modo di porre la questione. E meno che mai voglio nascondermi il rischio che fra un anno ci ritroviamo in un “paradiso socialista”, con la gente che fa la fila per accedere ai generi di prima necessità. Perché è vero: se la base produttiva del paese si restringe drasticamente, tutto è destinato a saltare. Anziché la decrescita felice, avremo un tonfo tragico.

E tuttavia…

C’è un fondamentale “tuttavia”, secondo me. Lo scenario più catastrofico fra quelli che ci stanno davanti non è quello in cui apriamo troppo tardi, con conseguente grave erosione della base produttiva. Lo scenario più catastrofico per l’economia è quello in cui apriamo troppo presto, l’epidemia riparte a pelle di leopardo, e noi – causa la consueta disorganizzazione e miopia della classe dirigente – non siamo ancora nelle condizioni di bloccare ogni nuovo focolaio. A quel punto potremmo avere una nuova ecatombe sanitaria, ed essere costretti a un secondo lockdown, ancora più brutale e lungo di quello che stiamo sperimentando, con un’erosione della base produttiva di dimensioni tragiche. Questa è la vera alternativa da evitare.

Ma come evitarla?

La risposta di alcuni è: ritardare la ripartenza. Non dopo Pasqua, nemmeno il 1° maggio. Forse il 15 maggio, non prima (così ieri il commissario Borrelli). Insomma: aspettiamo che i contagi scendano a zero, poi ripartiamo.

Purtroppo, anche questa non è una risposta convincente. O perlomeno: non è una risposta completa. Una risposta completa sarebbe: ripartiamo quando, e nella misura in cui, non solo l’epidemia avrà esaurito la sua spinta, ma noi saremo in grado di evitare che riparta, nonché pronti a bloccarla sul nascere quando, qua e là, proverà a ripartire.

La domanda cui le autorità dovrebbero rispondere è: se oggi fossimo già a “nuovi contagi zero”, saremmo pronti a una progressiva riapertura, magari modulata per zone, settori produttivi, fasce demografiche?

La risposta non ce la danno, ma sarebbe chiaramente NO, per due ordini di motivi.

Primo. Non siamo pronti perché, nonostante tutte le denunce e le richieste del personale sanitario e dei comuni cittadini, ancora scarseggiano mascherine, tamponi, reagenti per i test, laboratori di analisi, dispositivi di protezione per i lavoratori; l’assistenza dei malati a casa è gravemente deficitaria, gli ospedali sono tuttora sotto pressione, né esiste un piano per la quarantena dei positivi che non possono trascorrerla in casa. Per non parlare della gestione degli asintomatici ancora contagiosi, che nessuno ci ha ancora spiegato come individuare e neutralizzare.

Secondo. Manca ancora quasi del tutto il sistema informativo necessario per la ripartenza. Non mi riferisco solo al fatto che buona parte dei dati dell’Istituto Superiore di Sanità non sono accessibili ai ricercatori, ma al fatto – ben più grave – che ben poco è ancora stato fatto per conoscere i dati di base della situazione (percentuale di italiani infetti, peso degli asintomatici, tasso di letalità), e soprattutto nulla è ancora pronto per il tracciamento dei contatti e degli spostamenti dei positivi, nonostante da almeno due mesi si sappia che questo è stato uno degli assi vincenti della Corea del Sud e degli altri paesi asiatici.

C’è, infine, un’osservazione che vorrei fare sui provvedimenti economici. Spero di sbagliarmi, ma la sensazione è che ben poco si stia facendo per evitare un radicale assottigliamento della base produttiva del paese. Dire, come è stato detto, che “nessuno perderà il posto di lavoro a causa del Coronavirus” significa nascondere la testa sotto la sabbia. Perché o si pensa che tutte o buona parte delle imprese che falliranno saranno nazionalizzate a prescindere dalla loro redditività, oppure si deve agire subito perché le imprese che, dal mattino alla sera, si ritrovano senza 2 o 3 mensilità di fatturato, non siano costrette a chiudere.

Ora, di questo tipo di azione io vedo ben poche tracce. Si parla di prestiti a tasso zero garantiti dallo Stato. Ma a un’impresa cui mancano mesi di fatturato servono stanziamenti a fondo perduto per pagare i costi fissi e saldare i fornitori, non agevolazioni per indebitarsi ancora di più. Senza parlare dei debiti dello Stato e delle Pubbliche amministrazioni verso il settore privato, quasi sempre incagliati e saldati con enorme ritardo: il modo più sano di aiutare le imprese non è sussidiarle, ma pagare tempestivamente i debiti.

Insomma, voglio dire che se il timore è che, dopo la crisi, l’apparato produttivo – già gravemente amputato nella crisi finanziaria del 2008-2013 – subisca ulteriori gravi amputazioni nel corso della crisi presente, allora è essenziale che tutto si faccia non solo per evitare (ora) le chiusure evitabili, ma anche per fornire (domani) incentivi alle imprese che saranno in condizioni di ripartire, specie se capaci di aumentare l’occupazione.

Perché possiamo nascondercelo per non spaventare la gente, ma la realtà è che, come in tutte le crisi e le ricostruzioni, anche in questo passaggio storico ci saranno molte imprese che chiuderanno e – speriamo – molte altre che apriranno o si riconvertiranno, secondo il consueto schema della “distruzione creatrice”, per dirla con Schumpeter. Alla fine, l’importante è che l’aggettivo, creatrice, abbia la meglio sul sostantivo, distruzione.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 aprile 2020




Tamponi, una storia inquietante

Oggi vi racconto una storia, ma spero vivamente che il mio racconto sia sbagliato. Sì, spero di sbagliarmi, e che le cose non siano andate come le ho ricostruite io. Perché se fossero andate come sembra a me, o anche solo più o meno così, dovremmo essere tutti molto preoccupati, ancora di più di quanto già siamo. E, forse, dovremmo chiedere che qualche politico faccia un passo indietro, o almeno ci chieda scusa.

Ed ecco la storia.

31 gennaio: appena appreso che due turisti cinesi sono positivi al Coronavirus, il Governo dichiara lo stato di emergenza fino al 31 luglio, e con ciò si auto-attribuisce poteri speciali; possiamo presumere che, almeno da quel momento, il Governo stesso sia consapevole della gravità della situazione

In realtà avrebbe potuto (e forse dovuto) esserlo già molto prima. In una serie di articoli pubblicati fra l’8 gennaio e la fine del mese, il sito di Roberto Burioni (Medical Facts) aveva fornito tre informazioni cruciali: una parte non trascurabile degli infetti è asintomatica ma può ugualmente trasmettere il virus; il controllo della temperatura negli aeroporti è una misura insufficiente; l’esperienza cinese suggerisce che è difficile fermare l’epidemia se non si intercettano almeno due terzi degli infetti.

21 febbraio: scoppiano i due focolai di Codogno (Lombardia) e Vo’ Euganeo (Veneto), si aggrava la situazione in Cina; Giorgia Meloni chiede la quarantena per chi viene dalla Cina o da altre zone ad alto rischio; anche Walter Ricciardi, nostro rappresentante nell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), critica il governo per essersi limitato a bloccare i voli diretti con la  Cina, ignorando il problema dei voli indiretti; ma il governo liquida la proposta della Meloni come “allarmismo” ingiustificato, e quanto alle critiche di Ricciardi se la cava nominandolo consulente del ministro della Sanità.

21-28 febbraio: mentre Roberto Burioni consiglia i tamponi anche a chi ha solo 37.5 gradi di febbre, parte l’offensiva del Governo contro i tamponi, che culmina con un’intervista a Walter Ricciardi in cui viene aspramente criticata la linea dei tamponi di massa adottata dal Veneto, contraria alle direttive mondiali ed europee, volte a minimizzare il numero di tamponi; contemporaneamente, in barba allo “stato di emergenza” dichiarato un mese prima, parte la compagna politico-mediatica per “riaprire Milano” e far ripartire l’economia.

28 febbraio: mentre l’epidemia dilaga, il ministro degli esteri Luigi Di Maio minimizza la gravità della situazione, dichiarando che “in Italia si può venire tranquillamente” e che i comuni coinvolti sono solo 10 su 8000; la linea del Governo è minimizzare i tamponi per non scoraggiare il turismo.

5 marzo: il prof. Andrea Crisanti, che sta conducendo un fondamentale studio epidemiologico sul comune di Vo’, congettura che il peso degli asintomatici possa superare il 30% (intervista rilasciata ad Alessandra Ricciardi su “Italia Oggi”); circa una settimana dopo, a conclusione della seconda rilevazione a Vo’, la congettura diventa certezza: il peso degli asintomatici è dell’ordine del 75%; e poiché gli asintomatici possono trasmettere il virus, diventa chiaro a tutti che il vero problema è individuarne il maggior numero possibile.

10-16 marzo: a seguito dell’indagine di Vo’, nel mondo scientifico si rafforzano le posizioni di quanti, diversamente dal nostro governo e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ritengono che minimizzare il numero di temponi sia stato un grave errore, e che – per quanto tardivamente – il numero di tamponi vada aumentato sia rendendo meno restrittivi i criteri per effettuare i tamponi, sia effettuando tamponi a tappeto alle categorie più a rischio (dai medici ai poliziotti, dagli edicolanti alle cassiere).

16-17 marzo: spettacolare giravolta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, per bocca del suo Direttore, ora invita a massimizzare il numero di test (“il nostro messaggio chiave è: testtesttest”), dopo settimane in cui li aveva scoraggiati in tutti i modi; anche il nostro rappresentante presso l’OMS, che 4 settimane prima aveva aspramente criticato le Regioni che volevano fare più test, aderisce istantaneamente alla giravolta dell’OMS, retwittando il messaggio “test, test, test”.

17-25 marzo: nel frattempo l’epidemia è esplosa in tutto l’Occidente, e ogni stato tenta di approvvigionarsi come può di materiale sanitario, compresi tamponi e reagenti per i test; il materiale per i test comincia a scarseggiare, ma i nostri governanti non sembrano avere fatto 2+2, ovvero: se l’OMS ingiunge di fare più test, e l’epidemia sta partendo in tutto il mondo, è inevitabile che vi sia una corsa di tutti a procurarsi il necessario, ed è ovvio che occorra immediatamente aprire una campagna di approvvigionamento sui mercati internazionali, specie per quei materiali che è più difficile produrre in patria (in particolare i reagenti, che servono per analizzare i campioni prelevati con i tamponi).

26-28 marzo: puntualmente accade quel che era logico aspettarsi; ovvero, proprio ora che il Governo si è convinto a non ostacolare le Regioni che vogliono fare più test, si scopre che scarseggiano i materiali per effettuarli, anche perché altri se li sono procurati prima di noi.

Ho seguito nei giorni scorsi quel che sta succedendo nelle varie Regioni, e il quadro è sconsolante. Tutte, o quasi tutte, vorrebbero moltiplicare i test per proteggere le persone più esposte e per individuare il maggior numero possibile di asintomatici, ma né la Protezione Civile né altri organismi dello Stato sono in grado di assicurare quel che serve. Soffre il Veneto, che vorrebbe fare 10 mila tamponi al giorno e riesce a farne solo 4000. Ma soffrono anche diverse altre regioni, come la Toscana e la Puglia.

A due mesi esatti dalla dichiarazione dello stato di emergenza, succede che il numero di tamponi che siamo in condizione di effettuare non solo sia del tutto inadeguato a scovare gli asintomatici, che sono il veicolo principale del contagio, ma non basti neppure ad assicurare i test per il personale sanitario. Nel frattempo, anche – se non soprattutto – per la mancanza di tutto ciò che servirebbe per proteggerli (dalle mascherine ai tamponi) i morti fra i medici sono più di 50, mentre ancora si attende di conoscere il numero delle vittime fra infermieri, operatori del 118, personale sanitario in genere. E non mi vengano a tirare in ballo i tagli alla sanità dell’ultimo decennio, perché chiunque abbia un’idea delle cifre in gioco sa benissimo che la mancanza di dispositivi di protezione individuale dei medici è una goccia nel mare magnum dei costi della sanità, e che per non trovarci nella condizione di oggi sarebbe stato sufficiente provvedere in tempo, quando si è capito che l’epidemia sarebbe arrivata (fine gennaio) e gli ospedali non erano al collasso.

Che dire?

Nulla, per parte mia. Mi limito e riportare le parole di uno dei pochi veri esperti italiani di epidemie, incredibilmente ignorato dal governo centrale (ma tempestivamente reclutato dal governatore del Veneto), il professor Andrea Crisanti, l’ideatore dell’indagine su Vo’: “Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte. Questo è un fallimento della classe dirigente del Paese”.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 marzo 2020