Eterno non è il fascismo ma il manicheismo, nemico della civiltà liberale

Nelle ultime settimane dell’estate si tiene a Camogli il Festival della comunicazione, ideato da Umberto Eco e da Danco Singer. Una Valle di Giosafatte in cui ci sono tutti: scrittori, saggisti, attori, registi, giornalisti storici, psicologi, sociologi, letterati etc. etc. Non tutti, per la verità, ma quasi tutti giacché una conventio ad excludendum ne tiene fuori quanti non fanno parte del mainstream culturale – diciamo, brutalmente intellettuali vicini al o non lontani dal centrodestra. Non è casuale, del resto, che a ridosso del Festival, “Repubblica” – diretta dal liberale Maurizio Molinari – abbia distribuito, nei giorni 15 e 16 settembre due scritti di Umberto Eco, Il fascismo eterno e Migrazioni e intolleranza.

Eco è stato un benemerito degli studi semiologici in Italia, ha scritto diversi romanzi (“Il nome della rosa”, “Il pendolo di Foucault” etc.) per la verità di faticosa lettura e, soprattutto, ha coltivato il genere parodistico talora in maniera geniale. (Fu lui a far ripubblicare da Bompiani l’Antologia apocrifa di Paolo Vita-Finzi).

Le bustine di Minerva sono, sia pure per palati raffinati, una lettura divertentissima degna dei grandi umoristi della letteratura italiana. Sennonché il filosofo alessandrino – che aveva una solida formazione medievistica e una non comune competenza di storia dell’estetica – decise, a un certo punto, di diventare il maître-à-penser di un paese ormai incamminato sulla via della secolarizzazione e che del marxismo aveva rimosso i fondamenti teorici portanti ma non la rivolta contro il capitalismo e la società di mercato. Forse la vera anima del sessantottismo totalitario fu proprio Eco, con la sua dissacrazione della società borghese e della sua etica repressiva. A questo punto, però, ci si chiede: come mai della sua vasta e importante produzione intellettuale si sono scelti proprio i due discutibili volumetti sul fascismo e sull’intolleranza? La spiegazione sta nel fatto che ormai in Italia, per citare Max Weber, le parole che si pronunciano nei Festival culturali, «non sono un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta», sono una politica fatta con altri mezzi. Si sarebbe tentati di dire: una patetica chiamata a raccolta di un ceto intellettuale che, incontrandosi e contandosi, si compiace di essere così numeroso ed esorcizza il fantasma di un popolo che elettoralmente ha voltato le spalle alla sinistra.

 L’Eco maître-à-penser rivela tutta la sua formazione cattolica: nel mondo si svolge l’eterna lotta delle forze del Bene contro quelle del Male e compito del filosofo è quello di mettere in guardia dalla lezione pluralistica di Isaiah Berlin per il quale «le peggiori catastrofi della storia nascono da contrasti tra principi buoni», come giustizia e libertà, tra valor militare e aspirazione alla pace, tra nazione e umanità.

Non meraviglia, quindi, che il fascismo diventi una sorta di Arimane che attraversa i secoli. Nella sua “brillante paranoia” – come Alfonso Berardinelli definì Il fascismo eterno – Eco lo associava a una serie di brutture (tradizionalismo, antimodernismo, culto dell’azione, criminalizzazione del disaccordo e del pacifismo, paura della differenza, appello alle classi medie frustrate, tribalismo, complottismo, invidia sociale, elitismo, militarismo, machismo, populismo qualitativo, neolingua) con le quali dovremo sempre cimentarci. Si tratta di caratteristiche presenti in molti regimi totalitari ma generosamente assegnate al solo Ur-Faschismus.

Se nichilismo significa cancellazione di un momento imprescindibile dell’umano, Eco, innegabilmente, aveva un coté nichilistico: la “comunità” (tradizione, patria, etnia, famiglia etc.) era per lui un disvalore assoluto, il cilindro da cui Satana faceva uscire i cavalieri dell’Apocalisse. In Migrazioni e tolleranza, profetizzava, non senza un sottile compiacimento, che «nel prossimo millennio l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, “colorato”. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso». «L’Europa sarà come New York o come alcuni paesi dell’America latina». Diventeremo quindi una società di meticci! E sia pure ma che c’azzecca l’esempio della civiltà romana, razzialmente meticcia ma con un senso così forte dell’identità culturale e istituzionale da trovare l’ultimo cantore in Rutilio Namaziano, un gallo narbonese. «Signora, disse Fustel de Coulanges all’imperatrice Eugenia, sua allieva— noi siamo di razza celtica ma di cultura romana». Sarebbe assai difficile trovare tale orgoglio nei Black Lives Matter o nelle altre etnie che rendono le società multiculturali latino-americane (e ora anche gli Stati Uniti) così instabili e conflittuali.

Lo stesso Eco, è vero, riconosce (retoricamente) che la “tolleranza aperta” è cosa buona ma «dobbiamo nello stesso tempo riconoscere che ci sono abitudini, idee, comportamenti che sono e devono restare per noi intollerabili». Ma chi, poi, in una democrazia che si rispetti, deve stabilire cosa è da conservare se non i cittadini che non si affidano alla sofocrazia ovvero ai preti, ai dotti, agli scienziati, ma valutano l’accettabile e il non accettabile in base alle loro esigenze e al loro ideale di “vita buona”?

Per Eco, i populisti non hanno idee ma solo «pulsioni selvagge»: l’”altro” quindi non è un avversario politico ma un agente patogeno.

Non ci resta che un commento malinconico: eterno non è il fascismo ma il manicheismo, il vero, grande, nemico della civiltà liberale. Nelle scuole di una volta si insegnava che la validità di un’analisi storica, politica, sociologica si mostra in ciò che concede all’avversario: se a quest’ultimo non si riconosce nessun valore, nessuna istanza iscritta nell’umano, nessuna “ragione”, vuol dire che non abbiamo a che fare con la ricerca della verità ma con l’invettiva lanciata dal pulpito. Dal chierico traditore… anche lui “eterno”.

Pubblicato su Il Dubbio del 19 settembre 2020




Legge e ordine non è uno slogan trumpiano ma uno dei capisaldi di ogni democrazia

In un articolo impeccabile pubblicato sul Foglio del 1° settembre, Perché se dici che legge e ordine sono il presupposto della democrazia ti prendi del fascista, Paola Peduzzi cita Andrew Sullivan che su Weekly Dish mostra il pericolo rappresentato da Black Lives Matter per la democrazia in America.

Se parlo di «assolutismo nelle strade, delle macerie che vengono spazzate via ogni mattina in molte città americane dove ci sono proteste ininterrotte e violente, se segnalo i video in cui i negozianti raccolgono pezzi delle loro vetrine e implorano di smetterla perché l’assicurazione non paga più nulla, contribuisco anch’io a far vincere Trump?» si chiede Sullivan che, amaramente, richiama il principio (hobbesiano) che senza legge e ordine non può esserci libertà politica.

«Le sommosse e l’assenza della legge sono un male – scrive – Ogni autorità che permette, tollera o sminuisce la violenza, i saccheggi e i disordini nelle strade si spoglia di ogni legittimità. Senza ordine non c’è spazio per altre questioni. Il disordine sempre e ovunque richiama altro disordine; nel momento stesso in cui le autorità sembrano tollerare la violenza, questa violenza è destinata a crescere. E se i liberali non difendono l’ordine, lo faranno i fascisti». Come lo fecero in Italia, ce ne ricordiamo bene, quando la borghesia liberale volse le spalle a Giovanni Giolitti che aveva tollerato l’occupazione delle fabbriche.

Non mancano anche nel nostro paese analisti consapevoli della gravità della situazione americana e che – a differenza di Riccardo Barlaam (Il Sole- 24 Ore) o di Gianni Riotta (La Stampa) non attribuiscono le violenze nelle strade all’inquilino della Casa Bianca che getta benzina sul fuoco.

Penso, ad esempio, a Federico Rampini (La Repubblica) che ricorda come Portland sia «diventata il simbolo di una protesta anti-razzista di Black Lives Matter che è sfuggita di mano, ha creato delle zone proibite di fatto alle forze dell’ordine, dei ghetti dove si sono allargate le gang, moltiplicando i reati».

E tuttavia anche professionisti seri e realisti come Sullivan e Rampini, a mio avviso, non colgono fino in fondo il significato epocale delle sommosse statunitensi. Lo coglie, invece, il sociologo Antonio Bettanini – uno dei protagonisti intellettuali della stagione craxiana – in un articolo inviato all’Avanti. Vale la pena citarne un lungo brano. La diagnosi pessimistica di Bettanini è ineccepibile: «La mia ipotesi è che ci troviamo  di fronte ad una espressione di neo-totalitarismo ideologico – favorito dai meccanismi strutturali che presiedono al racconto dei media –  i cui tratti riconosciamo forse con difficoltà (e con prudenza) anche a giudicare dalla cautela con cui si sono poi  decisi a scendere in campo 150  rappresentanti autorevoli dell’universo intellettuale angloamericano in difesa della libertà di espressione e contro la “cancel culture” degli anti-razzisti. Un campanello d’allarme (su Harper’s Magazine) sulla deriva e sulla tirannia che un certo mondo delle minoranze sembra poter esercitare sull’opinione pubblica. La “novità” sta nel fatto che questa attività (di comunicazione) per quanto esercitata, in principio, in nome di un universalismo di valori (declinato però negativamente: la lotta al razzismo), sembrerebbe appoggiarsi sulla distruzione di tutto quanto, sotto forma di memoria collettiva, celebri il mondo colpevole della bianchitudine. Una leva di propaganda che ricorda il fondamento distintivo (l’arianesimo, l’appartenenza di classe) sul quale i due grandi totalitarismi del ‘900 formarono la loro identità ed il loro principio di esclusione. Qui la lotta al razzismo si accompagna sia ad una prepotente richiesta di risarcimento dei torti subiti (le forme ed i contenuti della disuguaglianza), sia ad un’opera di “igiene della memoria” indifferente alla complessità dei diversi contesti storici.  Si tratta di riscrivere la storia alla luce della sensibilità dell’oggi. Ecco che allora il sindaco democrat di Columbus decide per l’abbattimento della statua di Colombo così che: “Noi non vivremo più all’ombra del nostro brutto passato”».

Lo spettro del totalitarismo si aggira davvero nell’area euro-atlantica. E tuttavia, a mio parere non si può ridurre la partita che si sta giocando in questi ultimi tempi a quella tra minoranze, infettate dal virus totalitario, e maggioranze (ancora) legate alle vecchie istituzioni e ai vecchi valori. Per adoperare un termine impegnativo, non ci troviamo, temo, dinanzi a una crisi di modelli sociali economici e politici “che perdono colpi” ma a un’eclisse della civiltà occidentale che sembra realizzare davvero l’incubo di Oswald Spengler.

In parole povere, abbiamo creato società civili che traevano la loro legittimità dalle catastrofi soprattutto morali causate da “forme di governo” che contrapponendosi violentemente al binomio democrazia/mercato e azzerando l’uno o l’altro – o entrambi – avevano scatenato l’inferno sulla terra, in forma di Lager o di Gulag. Sennonché, ricacciati i demoni nell’Ade, non si è riusciti a radicare forme di convivenza civile soddisfacenti per tutti. È come se al collante sociale fornito dal terrorismo totalitario si fosse sostituito l’indebolimento, fino all’estinzione, di qualsiasi altro legame tra individui, gruppi, territori. Insomma, masse sempre più numerose di cittadini “non si trovano bene”, non si riconoscono nei valori del sistema, nei suoi simboli storici, nel suo “sacro”, per citare un filosofo dimenticato come il neo-hegeliano Eric Weil.

Questo sottoproletariato interno, straniero indipendentemente dall’appartenenza etnica, non rispetta nulla: né la proprietà, né le leggi, né i monumenti a Colombo o a Jefferson personaggi lontani anni luce dal loro vissuto quotidiano. Cosa vogliamo farne?

Reprimerlo brutalmente, come chiedono i conservatori trumpiani?

Assecondare la sua furia iconoclastica, in nome della “tolleranza” e della “comprensione” come vorrebbero i buonisti di tutto il mondo uniti?

Purtroppo non si intravedono vie di uscita.

Pubblicato su Il Dubbio del 5 settembre 2020




Il debito e il sonno dei mercati

Capisco che sentirsi seduti sopra una montagna di euro sia inebriante. E’ la sensazione che doveva provare lo zio Paperone quando si tuffava fra le monete del suo deposito. E dev’essere la sensazione che provano i nostri governanti quando parlano dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa.

Ci sono due importanti differenze, tuttavia. I soldi che arriveranno in Italia non saranno dollari, bensì euro. Ma soprattutto: lo zio Paperone sedeva su soldi propri, perché li aveva guadagnati. Invece i nostri governanti si accingono a sedersi su soldi altrui, che dovranno essere restituiti.

Qualcuno potrebbe obiettare: una parte dei soldi che attendiamo dall’Europa, più di 80 miliardi, sono a fondo perduto. Ma è un’illusione. Chi ha provato a fare i conti, come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, avverte che, dal momento che l’Italia è contributore netto al bilancio europeo, il beneficio effettivo per il nostro paese potrebbe aggirarsi sui 46 miliardi. Che sono meno della metà del nuovo debito che il Governo ha contratto con i tre scostamenti di bilancio approvati durante il primo semestre, e circa un terzo dell’incremento del debito pubblico intervenuto in appena 5 mesi, da febbraio a luglio di quest’anno.

In poche parole: i soldi “veri” (diversi dai prestiti) che prima o poi arriveranno dall’Europa non bastano nemmeno a ripianare il debito aggiuntivo (più di 100 miliardi) che abbiamo già accumulato nella prima parte dell’anno. L’occasione meravigliosa e “senza precedenti” che l’Europa ci offre è di aggiungere ai debiti già contratti nei mesi scorsi altri 130 miliardi di ulteriori debiti, destinati a diventare quasi 170 se ci decideremo a ricorrere anche al MES.

E’ in questa situazione che, da qualche giorno, è partito l’assalto alla diligenza delle “risorse” in arrivo dall’Europa. Centinaia e centinaia di progetti si contendono l’accesso ai nuovi fondi, come se si trattasse solo di decidere che cosa è importante per il nostro futuro. Parole fumose e astratte si inseguono nella speranza di incontrare la comprensione e la benevolenza delle autorità europee cui spetta approvare i nostri progetti di spesa: digitalizzazione, innovazione, transizione ecologica, rivoluzione verde, infrastrutture, istruzione, formazione, equità, inclusione sociale.

Quel che resta del tutto in ombra è il punto decisivo: a conti fatti la manna che arriverà dal cielo europeo è fatta solo di prestiti, e i prestiti andranno restituiti. Il che significa: il problema non è di spendere in cose che riteniamo utili al paese (su questo ognuno ha ovviamente le sue idee), il problema è di far sì che, alla fine, ogni euro speso generi più di un euro di nuovo Pil. Solo così potremo rimborsare domani i prestiti che ci vengono erogati oggi.

E’ questo che i vari piani e progetti dovrebbero essere in grado di garantire, o perlomeno rendere verosimile. E non è affatto un requisito facile. La spesa pubblica corrente di norma distrugge più risorse di quante ne crei, e gli investimenti stessi non sempre sono in grado di far crescere il Pil più di quanto costino. Molto dipende dai settori in cui si investe, dalla qualità dei piani, dai manager chiamati ad attuarli, ma ancor più da un fattore che troppo spesso trascuriamo: l’ambiente economico e istituzionale in cui l’investimento avviene. Se la burocrazia soffoca l’iniziativa privata, la giustizia civile non funziona, il mercato del lavoro è ingessato, il fisco asfissia i produttori, anche i migliori investimenti e i migliori stimoli all’economia rischiano di generare benefici modesti, o addirittura nessun beneficio netto.

Perché la politica non si pone il problema della restituzione del debito? Perché si parla e si ragiona come se i prestiti fossero finanziamenti a fondo perduto, o come se il creditore potesse dimenticarsi del debitore, o rimettere i suoi debiti “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

Sinceramente non lo so. Alle volte penso che sia la nostra cultura cattolica che ci rende così irresponsabili. Come il peccatore pecca e ripecca sereno in attesa della prossima confessione o indulgenza che lo laverà di tutti i suoi peccati, forse allo stesso modo il politico pensa che alla fine si troverà una quadra, e che i debiti non debbano essere davvero restituiti.

Altre volte, invece, mi capita di pensare che dietro la rimozione del problema del debito vi sia un calcolo preciso, e cioè: il problema riguarda chi verrà dopo, noi intanto spendiamo e acquisiamo consenso, poi chi vivrà vedrà. Può darsi che sia così, che il governo giallo-rosso pensi di durare fino al 2023, spendendo allegramente i 209 miliardi del Recovery Fund, e che la restituzione del debito tocchi a Salvini-Meloni-Berlusconi, quando sarà il loro momento.

Se fosse così, sarebbe un calcolo alquanto cinico. Però, a mio parere, sarebbe anche un calcolo azzardato. La scommessa di poter fare tranquillamente le cicale per 2-3 anni, lasciando a chi verrà dopo la gestione della bancarotta del Paese, non tiene nel debito conto un’eventualità tutt’altro che remota: i mercati finanziari, che in questi mesi sono stati drogati dalle politiche dei bassi tassi di interesse, potrebbero anche svegliarsi. I calcoli della Fondazione Hume sui rendimenti dei titoli di Stato dei paesi europei segnalano che, in questi mesi, gli interessi richiesti alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona (compresa la Francia, ma escluse Germania e Irlanda) sono molto più bassi di quanto i fondamentali dei vari paesi suggerirebbero e giustificherebbero. Il che significa: domani potrebbero essere più alti, anche molto più alti.  A quel punto i paesi indebitati fino al collo, come l’Italia, la Grecia, e il Portogallo potrebbero salvarsi da una spirale di innalzamento dei rendimenti (come quella del 2011) solo se le loro economie fossero state nel frattempo risanate, e poste su un robusto sentiero di crescita.

Perché è inutile illudersi: il debito “buono” non è quello che serve a fare le cose che i politici di turno ritengono prioritarie per il paese, ma è quello che i mercati giudicano rimborsabile. E, quando il rapporto debito/Pil è molto alto, ci sono due modi soltanto di rassicurare i mercati: l’austerità (più tasse e meno spese), che serve a diminuire il numeratore, e la crescita, che serve ad aumentare il denominatore.

Ecco perché l’enfasi esclusiva su “come spendiamo questa montagna di soldi”, e la demonizzazione delle riduzioni fiscali (fra le poche misure in grado di dare una spinta alla crescita) sono estremamente pericolose. Certo, potrebbero creare problemi solo ai governi successivi, quando i mercati si sveglieranno. Ma ne potrebbero creare anche al governo in carica, ove esso dovesse durare più a lungo del sonno dei mercati.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 settembre 2020




La triste fine della Hume Tower. I nuovi bigotti

E’ di pochi giorni fa l’ennesima capitolazione, da parte di un’autorità (se così si può ancora definire) accademica britannica, di fronte alla tirannia del politicamente corretto. Si tratta stavolta delle pretese di diverse centinaia di persone (in prevalenza attivisti studenteschi) le quali, con una petizione online, hanno insistito affinché venisse cambiato il nome di un edificio appartenente all’università di Edimburgo, la David Hume Tower. Il filosofo scozzese, una delle figure di punta dell’illuminismo europeo, viene infatti accusato di avere professato opinioni razziste “che giustamente sono oggi causa di grave turbamento” e di non meritare perciò un edificio che porti il suo nome: ignorando bellamente il fatto che le opinioni contestate erano state espresse nel Settecento, cioè in un secolo in cui erano condivise praticamente da tutti, intellettuali compresi, e che è assurdo giudicare idee di tre secoli fa con il metro attuale.

Ormai però questo tipo di reazione del corpo accademico, il suo cedimento all’illogicità, all’incapacità di storicizzare personaggi e comportamenti, allo strisciante terrorismo intellettuale, sembra essere prassi consolidata e quasi obbligata nel mondo anglofono (e, vista l’attuale supremazia culturale di questo mondo, in altri paesi occidentali sono percepibili le prime avvisaglie di questa mentalità). Sempre più le università inviano segnali che vanno contro quella che dovrebbe essere la loro vocazione: trasmettere conoscenze, spirito critico, voglia di dibattere senza preconcetti e senza scomuniche. Sempre più, ad essere considerata prioritaria è l’esigenza di non turbare la cosiddetta sensibilità (per meglio dire: fragilità psicologica e intellettuale) degli studenti. Anziché aiutarli a maturare, l’università sembra fare di tutto per infantilizzarli. Anziché aiutarli ad apprendere, sembra fare di tutto per incoraggiare l’ignoranza e l’approccio isterico e irrazionale ai problemi.

Il fenomeno della cosiddetta “cancel culture” naturalmente non si limita all’ambito accademico, ma mette ormai a repentaglio la libertà di espressione nell’editoria (libri “politicamente scorretti” rifiutati dagli editori, opere del passato messe al bando da scuole e biblioteche perché considerate razziste: valga per tutti, negli Stati Uniti, il caso del capolavoro di Mark Twain, Huckleberry Finn), nei rapporti di lavoro (non si contano più i casi di licenziamenti minacciati o messi in atto perché il dipendente aveva usato un linguaggio o espresso opinioni bollate come disdicevoli, anche in ambito privato), e anche e soprattutto sui cosiddetti “social”, che sarebbe forse meglio definire “antisocial media”. Sconfortante in tale contesto è poi constatare come la resistenza si riduca a poca cosa e come i presunti colpevoli scelgano quasi sempre di umiliarsi pubblicamente con formule di scusa che ricordano le autocritiche dei “nemici del popolo” durante la rivoluzione culturale cinese; non solo, ma nel caso delle università è quasi scontato che il corpo accademico obbedisca senza fiatare ai diktat più assurdi: come nel caso, appunto, della David Hume Tower.

Un recente, e purtroppo raro, esempio di ribellione ai nuovi inquisitori si è visto nello scorso mese di luglio, quando sulla rivista americana Harper’s Magazine è stata pubblicata una lettera, firmata da 150 autori ed accademici di fama (come JK Rowling, Noam Chomsky, Margaret Atwood, Salman Rushdie, Gloria Steinem) in cui si deplorava la crescente intolleranza nei confronti delle opinioni considerate politicamente scorrette. L’appello però sembra avere raccolto successivamente ben poche nuove adesioni, anzi, a far parlare è stato soprattutto il successivo “backlash”, con critiche spesso feroci rivolte da più parti agli autori.

In tutti questi casi, a colpire sono, da un lato, la pusillanimità delle autorità accademiche, che sembrano disposte veramente a tutto pur di non venire turbate nelle loro importanti attività quotidiane (nonché nelle loro prospettive di carriera …), e dall’altro il comportamento, altrettanto vile ed opportunistico, di editori e altri soggetti economici che mostrano di temere come il fuoco il boicottaggio dei loro prodotti da parte degli attivisti digitali. Qui bisogna essere chiari: se le persone cui stanno a cuore il pluralismo di idee e la cultura non si mobilitano con la stessa energia e prontezza di cui si sono dimostrati capaci i loro nemici, finiremo per vivere in un deserto intellettuale in cui le opinioni (o anche soltanto le parole) non conformi potranno soltanto essere bisbigliate fra amici e ogni ambito del sapere dovrà fare i conti con la censura di libri, personaggi, interpretazioni. La vicenda della David Hume Tower ha ora indotto diversi esponenti del mondo accademico britannico ad esprimere in merito posizioni molto critiche; se questo tipo di reazione dovesse estendersi, se i responsabili delle università venissero sistematicamente messi di fronte alla stupidità delle loro azioni, forse comincerebbero a farsi qualche domanda e a chiedersi se vale la pena di perdere la propria credibilità per dare retta ad una manica di bambini viziati di cui tutto induce a pensare che rappresentino solo se stessi.

Stesso discorso per i prodotti editoriali e d’altro genere, di cui gli attivisti minacciano regolarmente il boicottaggio. Anche in questo caso sorge il sospetto che le imprese si lascino prendere dal panico e sopravvalutino di molto il rischio di una perdita economica: rispetto al grande pubblico, che di fronte a certe controversie non ha mai mostrato di voler rinunciare in massa all’acquisto di certi prodotti, gli attivisti digitali fanno la figura di tigri di carta, e sarebbe interessante mettere alla prova l’efficacia delle loro minacce. Per dirne una: il libro di Woody Allen A proposito di niente, che la casa editrice Hachette aveva rinunciato a pubblicare, non sembra aver sofferto oltre misura delle reazioni negative provenienti dall’establishment politicamente corretto (in Italia si è addirittura piazzato subito in cima alla classifica delle vendite online). Proviamo dunque a mostrare ai nuovi bigotti che la censura nelle varie sue forme può essere non solo inutile, ma spesso anche controproducente. Perfino la Chiesa cattolica l’aveva già capito quando, nel lontano 1966, abolì l’Indice dei libri proibiti …. dove dal 1761 figuravano tutti gli scritti di David Hume!




Potevamo vincere il virus, il Governo ha scelto il turismo. Intervista a Luca Ricolfi

Che cosa ci dicono i dati sull’andamento del virus elaborati dalla Fondazione Hume?
La Fondazione pubblica quotidianamente un termometro dell’epidemia, che monitora l’andamento del numero di contagiati. Ebbene, il termometro segnava 1.5 gradi pseudo-Kelvin alla fine di luglio, oggi sfiora gli 8 gradi. Questo significa che il numero di contagiati è almeno quintuplicato in poco più di un mese.
Un’altra cosa che facciamo è valutare la capacità dei vari paesi di intercettare i contagiati. E’ un’operazione essenziale, perché i dati dei nuovi casi (i più usati dai mass media) sono del tutto fuorvianti: 1000 casi in più in Italia, che ha una bassa capacità diagnostica, sono molto più preoccupanti che 1000 contagiati in più in Germania, un paese che, grazie al numero di tamponi e alla capacità di tracciamento, ha una capacità diagnostica ben superiore alla nostra.

Che evoluzione c’è stata in questi mesi?
Forse, riguardo all’Italia, in questo momento il dato più significativo è l’inversione di tendenza delle curve dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva.  In poche settimane abbiamo avuto una triplicazione (decessi) e una quadruplicazione (terapie intensive). La svolta nella curva epidemica risale alla seconda metà di giugno (noi l’abbiamo segnalata il 18 giugno sul sito: www.fondazionehume.it), ma il governo – fino a Ferragosto – è stato del tutto sordo ai nostri allarmi, e non solo ai nostri. Anche la Fondazione Gimbe, con il prof. Nino Cartabellotta, anche virologi autorevoli come Andrea Crisanti e Massimo Galli, si sono sgolati per mesi avvertendo del pericolo di una ripartenza dell’epidemia, ma è stato tutto vano. Il governo non voleva vedere né sentire.

I virologi consigliano di guardare il numero dei ricoverati e non quello dei contagiati per capire l’andamento dell’epidemia: è d’accordo?
Hanno perfettamente ragione, il numero di ricoverati è molto più significativo. Però anche il numero di ricoverati ha dei problemi, due soprattutto. Il primo è che la Protezione Civile non fornisce il numero di ingressi in ospedale (dato di flusso), ma solo quello degli ospedalizzati (dato di stock), che è altamente fuorviante: se avessero fornito il numero di ingressi in ospedale, che non si sono mai fermati, ci si sarebbe accorti che l’epidemia andava assai meno bene di quanto suggerisse la stazionarietà o la diminuzione del numero di ospedalizzati. Il secondo problema è che l’andamento del numero di ospedalizzati sottostima fortemente l’andamento dei contagi quando l’età mediana dei contagiati si abbassa, perché i giovani finiscono in ospedale molto più raramente degli anziani. In concreto questo significa: negli ultimi 30 giorni le persone in terapia intensiva sono “solo” quadruplicate, ma i contagiati potrebbero essere aumentati anche di 7 o 8 volte.

Il governo Conte si è proposto come modello di gestione della pandemia, ma lei ha sconsigliato di prendere l’Italia come esempio. Perché?
Perché, fra le società avanzate (che sono più di 30) ci sono solo 3 paesi che hanno registrato più morti per abitante di noi, e cioè Belgio, Regno Unito, Spagna. Persino gli Stati Uniti, che i nostri media descrivono come un paese dove si è scatenata l’Apocalisse, hanno meno morti per abitante di noi. Ma non è l’unica ragione per cui considero l’Italia come un modello da non imitare, ce ne sono almeno altre due.

Quali?
La prima è che l’Italia ha gestito malissimo il ritorno a scuola, commettendo alcuni errori madornali, primo fra tutti la mancata riduzione del numero di alunni per classe. La seconda è che l’Italia è uno dei pochi paesi che sono riusciti nel capolavoro politico di rilanciare l’epidemia e al tempo stesso affossare l’economia.

Chi bisognerebbe seguire? La “solita” Germania?
Sì, la Germania si è comportata benissimo, era organizzata e pronta già a febbraio con i tamponi e il tracciamento. Ma, se devo indicare dei modelli, più che un singolo paese indicherei una categoria di paesi, che per brevità chiamerò i “paesi disciplinati”. Si tratta di paesi che, per le ragioni più diverse (la religione, la tradizione, la cultura), hanno una ampia riserva di senso civico, rispetto per l’autorità, propensione a seguire le regole. Fra questi c’è sicuramente la Germania, ma ci sono anche altri paesi europei di area germanica o asburgica (Austria, Svizzera, Ungheria), o di religione luterana (paesi scandinavi), nonché buona parte delle democrazie asiatiche più o meno influenzate dal confucianesimo e dal buddismo (Giappone, Corea del Sud, Taiwan). Se si vanno a vedere i tassi di mortalità per il Covid di questi paesi, si scopre che sono tutti molto inferiori a quelli dei maggiori paesi europei, come Regno Unito, Francia, Spagna, Italia.

A chi va attribuita la ripresa dei contagi? Ai giovani incontrollabili e amanti del rischio? Alla voglia generalizzata di sfogarsi dopo i mesi di isolamento? O è semplicemente un’evoluzione naturale della malattia alla quale dovremmo adeguarci?
No, il Covid si poteva sconfiggere, anche se non debellare completamente, quando (a giugno) i contagi erano scesi a 2-300 al giorno. Quello era il momento di moltiplicare i tamponi e mettere restrizioni severe ai viaggi per motivi turistici, sia verso l’estero sia verso l’interno. Alcuni governatori, ad esempio quelli della Sardegna e della Sicilia, l’avevano capito, ma sono stati messi a tacere dall’imperativo categorico di salvare la stagione turistica, costi quel che costi.

Le autorità sanitarie dovevano seminare tra la gente ancora più paura del Covid?
No, le autorità sanitarie avrebbero dovuto limitarsi a dire la verità, senza cambiarla a seconda dei giorni, dei programmi televisivi, o di chi fosse l’intervistato di turno.

Che messaggi ha dato il governo ai cittadini in questi mesi con la sequela di regole incoerenti su bus, treni, aerei, scuole, discoteche, aperitivi, mascherine a orario?
E’ molto semplice. Il governo ha scelto di dare messaggi contraddittori, perché ognuno potesse raccontarsi la situazione come voleva. Il governo desiderava che ci sfrenassimo, per risarcirci del lockdown e far ripartire l’economia, ma non poteva dire che non c’erano pericoli, perché sarebbe stato accusato di “procurata epidemia”. Ha scelto di lasciarci credere che i pericoli fossero tutto sommato limitati, senza prendersi la responsabilità di affermarlo esplicitamente.

Perché per la scuola si parla soltanto di regole da applicare, dai banchi mobili a chi deve rilevare la temperatura, senza che nessuno si sia preoccupato di una riforma più complessiva?
E’ da almeno vent’anni che, quando si parla di scuola, si parla solo di cattedre, graduatorie, edilizia, orari, senza alcun riferimento alla funzione di trasmissione culturale. Questo governo si è limitato a continuare sulla strada dei predecessori, dopo essersi liberato dell’unico ministro (l’on. Fioramonti) che sulla scuola e sull’università forse qualche idea ce l’aveva.

Alla fine del lockdown lei disse che il governo si giocava una “scommessa rischiosa”: lasciava riprendere l’economia e consentiva di fare le vacanze sperando che in autunno la situazione sarebbe stata diversa. Scommessa vinta o persa?
Strapersa, direi. Anche perché stagione fredda e influenze non potranno che peggiorare ancora le cose.

Nel suo ultimo libro (La società signorile di massa, La nave di Teseo), pubblicato subito prima dello scoppio della pandemia, lei sostiene che l’Italia si sta trasformando in una “società parassita di massa”. Le decisioni prese finora dal governo a colpi di bonus confermano la sua analisi. E’ una tendenza ineluttabile?
Temo di sì, perché anche a destra le spinte stataliste e assistenziali sono molto forti (quota 100 l’ha inventata Salvini). La realtà è che le forze pro-impresa e pro-mercato, non eccessivamente compromesse con l’assistenzialismo, non rappresentano più del 30% dell’elettorato.

A chi si riferisce?
Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione (Calenda), Italia viva (Renzi), più qualche esponente isolato del Pd, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori.

I soldi promessi dall’Europa serviranno davvero per ripartire o sarà l’ennesima iniezione di assistenzialismo parassitario?
La seconda che ha detto.

Lei ha scritto che del Covid si è parlato finora come minaccia per la salute e per l’economia, e non per la nostra psiche. Che intende?
Che non ci si può dividere stabilmente fra impauriti e incoscienti, e che il Covid è destinato a degradare la rete delle nostre relazioni sociali. Se dura ancora a lungo, diventerà anche un problema psichiatrico, perché l’umanità non è programmata per vivere temendo sistematicamente l’altro, quando l’altro è parte della propria comunità, rete di amici, cerchia famigliare.

Davvero ci avviamo verso una società in cui gli altri sono soltanto un pericolo?
No, perché una società di questo tipo non è una società. Se il Covid dura, e non si trova un vaccino né una cura, quella verso cui ci avviamo è una società di bolle, o monadi, o vasi non comunicanti: piccole cerchie di persone, che si vedono fra loro e minimizzano i contatti con il resto del mondo. Con buona pace della globalizzazione.

Posso chiederle che cosa voterà al referendum, se voterà?
Vivo buona parte dell’anno a Stromboli, non mi sposto certo a Torino per scegliere fra il sì e il no al referendum. Il problema è che chi vota no rafforza la casta, chi vota sì rafforza l’anti-casta, ma nessuno sa quale delle due fa più danni all’Italia.

Intervista di Stefano Filippi a Luca Ricolfi, La Verità, 14 settembre 2020