Hume e Smith: un lungo sodalizio intellettuale e personale

Si è spesso parlato dei rapporti intercorsi fra David Hume e Adam Smith. E ciò è stato fatto in forma accessoria, attingendo a biografie che sono state scritte per raccontare la vita dell’uno o dell’altro. Non c’è stata un’opera incentrata sul lungo sodalizio, dapprima intellettuale e poi anche personale, a cui hanno dato vita i due maggiori rappresentanti dell’Illuminismo scozzese. Dennis C. Rasmussen colma la lacuna. Pubblica una monografia (“The Infidel and the Professor”, Princeton University Press, 2017) che per la prima volta ci offre un dettagliato quadro delle loro convergenze, di qualche divergenza e della loro amicizia.

Hume nasce nel 1711 e Smith nel 1723. Il loro primo incontro è del 1749. Hume aveva già pubblicato il “Treatise of Human Nature”, gli “Essays, Moral and Political” e i “Philosophical Essays”. E Smith, dopo avere studiato per tre anni all’Università di Glasgow, era stato dal 1740 al 1746 al Balliol College di Oxford: un’esperienza, quest’ultima, da lui giudicata in termini molto negativi, soprattutto se confrontata con il periodo di tempo precedentemente trascorso a Glasgow. L’impegno degli studenti di Oxford era quello di “partecipare alle preghiere due volte al giorno e di seguire due volte alla settimana le lezioni”, tenute da “professori che avevano del tutto abbandonato ogni pretesa di insegnare”. Per di più, entrati senza preavviso nella sua stanza, i “dons” avevano trovato una copia del Treatise di Hume. L’avevano subito requisita e avevano rimproverato severamente Smith per il possesso un’opera così tanto empia. È molto probabile che Smith avesse già letto gli “Essays”, pubblicati nel 1742, e che da quelli fosse risalito al “Treatise”.

Durante la permanenza a Oxford, Smith aveva scritto tre saggi, fra cui quello sulla storia dell’astronomia, che verranno poi pubblicati postumi. Non diversamente da Hume, egli si era mostrato in tali scritti molto scettico sull’estensione del campo d’indagine della ragione umana e sulle capacità della stessa. Ed è con tale orientamento culturale che aveva fatto ritorno in Scozia, dove aveva cominciato, a partire dall’autunno del 1748, a tenere delle conferenze a Edimburgo. Ma Hume era partito all’inizio dell’anno, in qualità di segretario del generale James St. Clair, per svolgere una missione diplomatica a Vienna e Torino. Il suo rientro è dell’autunno del 1749. E il suo primo incontro con Smith è sicuramente avvenuto nel corso di una delle conferenze da questi tenute in quel periodo presso la Edinburgh Philosophical Society, di cui Hume era uno dei principali punti di riferimento. Ciò è confermato da una lettera di circa dieci anni più tardi, in cui lo stesso Hume rammenta a Smith il successo di quelle conferenze. È così che è cominciato un lungo e solido sodalizio, passato progressivamente dal “Caro Signore”, “Caro Smith” e “Caro Hume”, Mio Caro Amico, al più stretto “Mio Carissimo Amico”.

Fino alla “teoria dei sentimenti morali”

Com’è noto, in conseguenza dell’opposizione del clero presbiteriano e dei moderati, la candidatura di Hume per una cattedra presso l’Università di Edimburgo era stata bocciata nel 1744. E la stessa cosa accade nel 1751 presso l’Università di Glasgow. Al posto di Hume, viene chiamato James Clow, che non lascia alcunché di rilevante. Ernest Campbell Mossner ha commentato: “l’infatuazione accademica per la mediocrità aveva trionfato ancora una volta”.  Le cose sono andate ben diversamente per Smith. Poco prima, egli era stato chiamato a occupare una cattedra nella stessa Università di Glaslow. E non aveva esitato a sostenere Hume. In una lettera a un collega, aveva scritto: “Preferirei Hume a qualunque altro studioso”. Se non ne fosse stata respinta la candidatura, Hume si sarebbe trovato assieme a Smith. Ed entrambi avrebbero avuto come collega James Watt.

L’insuccesso accademico non ha influito sulla produzione di Hume. Il periodo che va dal 1749 al 1759 è il più fecondo della sua vita. Quando vengono pubblicati i “Political Discourses”, Smith presenta i saggi sul commercio, letti sicuramente in anteprima, alla Literary Society di Glasgow. E non solo. Le sue lezioni di quegli anni risentono chiaramente dell’influenza di tutto quanto scritto da Hume. Il passaggio dalla società feudale a quella commerciale è ispirato dalla trattazione humiana contenuta in “The History of England”, un’opera che può essere considerata la “prima spiegazione (…) della società capitalistica”. Smith dichiara apertamente ai suoi studenti di considerare il lavoro di Hume come la sola storia moderna priva di “spirito di parte”.

Sebbene impegnato a Glasgow, Smith continua a essere vicino ai suoi amici di Edimburgo. Il miglioramento della viabilità realizzato in quegli anni gli consente di viaggiare facilmente fra le due città. Rivede spesso Hume. Ed entrambi sono fra i soci fondatori della Select Society. Le loro conversazioni coinvolgono anche Adam Ferguson, Lord Elibank, Henry Home (poi Lord Kames), Hugh Blair, John Jardine, William Robertson e il giovane Alexander Wedderburn (che diverrà poi Lord Cancelliere). Sono anni fervidi che culminano con la pubblicazione (1759) de “The Theory of Moral Sentiments” di Smith. L’opera viene accolta con entusiasmo dalla “repubblica delle lettere” di tutta Europa. E, tenuto conto che “The Wealth of Nations” apparirà diciassette anni dopo, si può dire che i “sentimenti morali” costituiscano il lavoro con cui, nel corso della sua vita, Smith è stato maggiormente identificato.

Quando “The Theory of Moral Sentiments” vede la luce, Hume si trova a Londra, impegnato a seguire la pubblicazione dei volumi, dedicati ai Tudor, della sua “storia d’Inghilterra”. Ovviamente, riceve una copia dell’opera di Smith e, come sottolinea Rasmussen, risponde all’amico con “una delle più felici lettere dell’intera storia della filosofia”. Dopo avere ringraziato Smith per il “gradevole dono” e dopo avergli comunicato di avere a sua volta inviato delle copie a uomini che sarebbero stati dei “buoni giudici” e che avrebbero diffuso il loro giudizio sul valore dell’opera, Hume fra l’altro afferma: “Ho ritardato a scrivervi per potervi dire qualcosa sul successo del libro e pronosticare, con qualche probabilità, se sarà condannato all’oblio o se entrerà nel tempio dell’immortalità. Anche se è stato pubblicato solo da poche settimane, ritengo che ci siano già tutti gli elementi che consentono di predirne il destino”. Hume recensisce l’opera sulla “Critical Review”. Sostiene che la teorizzazione di Smith “ha il coraggio che accompagna sempre il genio”. Esalta la chiarezza dei princìpi, il vigore dell’argomentazione e lo stile dello “scrittore davvero geniale”.

Hume avrebbe avuto motivo per replicare ad alcune critiche di cui Smith lo aveva reso destinatario. Non lo ha fatto. Il che si deve alla circostanza che egli non ha rilevato elementi di discontinuità fra la sua opera e quella smithiana. In entrambi i casi, le regole morali non sono “conclusioni della nostra ragione”, ma condizioni imposte dalla necessità di cooperare con gli altri. Tutto ciò su cui Hume ha richiamato l’attenzione di Smith si trova in una lettera privata (28 luglio 1759), che precede la seconda edizione de “The Theory of Moral Sentiments”. È la richiesta di meglio chiarire il concetto di “sympathy”, già utilizzato dallo stesso Hume e che serve a indicare il meccanismo tramite cui ci poniamo al posto degli altri, per vedere come essi giudicano le nostre azioni. Ma è un punto a cui Smith non apporterà modifiche alla sua opera: né nell’edizione del 1760, né nelle successive.

Hume e Smith a Parigi

Gli Sessanta aprono a Hume e Smith nuovi orizzonti. Nominato ambasciatore a Parigi dopo la guerra dei Sette Anni, Lord Hertford chiede a Hume di accompagnarlo come segretario d’ambasciata. Hume aveva già vissuto in Francia fra il 1734 e il 1737, quand’era impegnato nell’elaborazione del suo “Treatise of Human Nature”. Lo stesso Hume scriverà: “Sebbene fosse attraente, ho dapprima declinato l’offerta, sia perché ero riluttante a stringere rapporti con i potenti, sia perché temevo che le modernità e le gaie compagnie di Parigi potessero riuscire sgradevoli a una persona della mia età e del mio temperamento”. Ma Lord Hertford insiste. E questa volta Hume non esita ad accettare. È nominato segretario d’ambasciata, carica che ricopre dall’autunno del 1763 all’estate del 1765, allorché diviene incaricato d’affari, a seguito della nomina di Lord Hertford a luogotenente d’Irlanda e in attesa del duca di Richmond, nuovo ambasciatore in Francia.

Hume scrive da Parigi ai suoi amici scozzesi. La sua prima lettera ha come destinatario Smith, a cui fra l’altro dice: “Sono stato tre giorni a Parigi e tre giorni a Fontainebleau; e in ogni dove mi sono stati resi gli onori più straordinari che la più esorbitante vanità potrebbe volere o desiderare. Gli omaggi dei duchi, dei marescialli di Francia e degli ambasciatori stranieri mi vengono al momento per ogni nonnulla (…). Tutti i cortigiani, che stavano attorno a me quando sono stato introdotto a Mme de Pompadour, mi assicurano di non averle mai sentito dire così tanto di un uomo (… E,) come da ogni parte mi viene detto, il delfino non perde occasione per parlare molto favorevolmente di me”.

Se la corte comprende che Hume è lo studioso che nella sua “History of England” ha osato versare una “lacrima generosa” per il destino di Carlo I e del conte di Strafford, i maggiori esponenti dell’Illuminismo francese apprezzano la filosofia di Hume. Il sodalizio più stretto è con d’Alembert, ma non mancano le conversazioni con Buffon, Marmontel, Diderot, Duclos, Helvétius, d’Holbach, Turgot. È questo il periodo più felice della vita di Hume.

Intanto, anche Smith si prepara a un soggiorno in Francia. Subito dopo la pubblicazione dei “sentimenti morali”, Charles Townshend (futuro Cancelliere dello Scacchiere) aveva pensato a lui come precettore del figliastro, il giovane duca di Buccleugh che, secondo le consuetudini del tempo, avrebbe dovuto intraprendere un’istruzione biennale all’estero. Il progetto si concretizza alla fine del 1763. Smith e il giovane Buccleugh partono alla fine del successivo gennaio alla volta di Parigi, dove soggiornano solamente dieci giorni. Ma vedono Hume. Si stabiliscono poi a Tolosa, visitano Bordeaux, rimangono per due mesi a Ginevra, dove Smith incontra Voltaire, e giungono nuovamente a Parigi verso la fine di dicembre del 1765 o all’inizio del 1766. Non è quindi chiaro se Smith sia riuscito a rivedere Hume prima del 4 gennaio, data in cui quest’ultimo parte alla volta dell’Inghilterra in compagnia di Jean-Jacques Rousseau. In ogni caso, eredita tutte le frequentazioni di Hume e anche l’accoglienza di Mme de Boufflers, ritenuta la “più distinta salonnière del Settecento”, le cui pressioni avevano spinto “le bon David” a portare con sé in Inghilterra il ginevrino.

Hume sapeva quanto estraneo fosse il suo pensiero a quello di Rousseau. Ma probabilmente non aveva idea di quanto difficile fosse relazionarsi con lui. D’Holbach lo aveva messo in guardia. Gli aveva detto: “Mio caro Signor Hume, mi dispiace deludere le speranze e le illusioni che voi cullate, ma vi anticipo che presto sarete dolorosamente deluso. Voi non conoscete quell’uomo. Vi dico francamente che vi state mettendo una vipera in seno”. Indubbiamente, Hume e Rousseau non erano caratterialmente fatti per intendersi. Come è stato tuttavia scritto, la loro rottura non è un argomento da porre in una “nota a piè di pagina del manuale di filosofia”. Essa mostra lo scontro fra due concezioni contrapposte della vita individuale e collettiva. Da una parte, c’è il sostenitore (Hume) della libertà individuale di scelta e della Grande Società; dall’altra, c’è colui (Rousseau) che con le sue idee ha alimentato i deliri dei giacobini di tutti i tempi. Smith non avrebbe voluto che Hume rendesse pubblico il litigio (Rasmussen abbraccia la posizione di Smith). Ma il parere di d’Alembert è stato determinante. E oggi disponiamo di un prezioso carteggio e dei commenti di Hume, che forniscono una direzione di marcia a tutti i sostenitori della società aperta.

La “ricchezza delle nazioni”

Nel mese di novembre del 1766, Smith rientra a Londra da Parigi. E lì rimane fino al successivo mese di maggio, per seguire la pubblicazione della terza edizione de “The Theory of Moral Sentiments”. Da parte sua, Hume era tornato a Edimburgo nel settembre del 1766, con l’idea di godere di un “ritiro filosofico”. Ma nel mese di febbraio viene richiamato a Londra. Il soggiorno dei due personaggi nella stessa città si sovrappone per tre mesi. Dopo di che, Smith decide di rientrare a Kirkcaldy, sua cittadina natale, dove rimane nei successivi sei anni. In una lettera spedita a Hume da Tolosa il 5 luglio del 1764, aveva annunciato l’avviata stesura di una nuova opera. È il primo riferimento a “The Wealth of Nations”. E, per portare a termine il suo progetto, Smith “si seppellisce negli studi”.

Hume fa ritorno a Edimburgo nell’agosto del 1769. E subito scrive a Smith. Dice di vedere Kirkcaldy dalle finestre della propria casa. Lo invita continuamente. Smith accetta, ma non quanto Hume vorrebbe. I rapporti si intensificano. Nella primavera del 1773, la prima stesura de “The Wealth of Nations” è completata. Ma Smith pensa che, per rivedere, correggere e ampliare il testo, sia necessario trasferirsi a Londra. È tanto esausto da sentirsi vicino alla morte. Prima di intraprendere il viaggio, nomina Hume suo esecutore letterario, incaricandolo di distruggere, in caso di sua dipartita, tutte le carte lasciate nel suo studio, tranne il saggio sulla storia dell’astronomia. La grande opera di Smith, “The Wealth of Nations”, esce il 9 marzo del 1776. Hume non può non apprezzare la condizione di ignoranza e fallibilità in cui si trova a operare l’attore smithiano. E giudica il lavoro profondo, solido e acuto.

Rasmussen richiama l’attenzione su una questione strettamente metodologica. Vede accomunate “The History of England” e “The Wealth of Nations” dall’utilizzo della categoria delle “conseguenze inintenzionali”, lo strumento di analisi che ha portato alla nascita delle scienze sociali. Sottolinea in tal modo l’innegabile influenza di Hume su Smith. Ma bisogna pure dire che, sul punto, entrambi devono molto al lavoro pioneristico di Bernard de Mandeville. E occorre nello specifico precisare che Hume aveva già nel “Treatise” fatto ricorso agli esiti inintenzionali generati dalle azioni umane. Aveva in particolare spiegato che “l’interesse di ciascun individuo” è “vantaggioso” per gli altri, perché nessuno può realizzare i propri fini senza la cooperazione altrui; il che significa dover fare qualcosa per coloro che ci prestano la loro collaborazione. Come si vede, c’è qui un’anticipazione della “mano invisibile” di Smith, che non è altro che un’applicazione della teoria delle conseguenze inintenzionali.  Purtroppo, Rasmussen salta a piè pari tale tema, come anche quello della continuità fra “The Theory of Moral Sentiments” e “The Wealth of Nations”. Si sa che nel corso dell’Ottocento, soprattutto da parte di autori tedeschi, è stato sostenuto che fra la prima e la seconda opera di Smith ci sia una certa inconciliabilità. È una tesi che in anni più recenti a noi è stata affermata anche da Amartya Sen. Ma la “sympathy” non è altro che la precondizione dello scambio: è il meccanismo delle aspettative che ci spingono ad agire; la “mano invisibile” è presente in entrambe le opere; e Smith ha abbracciato il liberoscambio sin dalle sue prime conferenze di Edimburgo.

La morte di Hume

Hume lottava da tempo contro una grave malattia. Dopo un apparente miglioramento durante un soggiorno di cura a Bath, le sue condizioni sono sempre più peggiorate. Pochi mesi dopo la pubblicazione de “The Wealth of Nations”, muore a Edimburgo. È il 25 agosto del 1776. La sua volontà è che Smith sia l’esecutore letterario e che, d’accordo con l’editore Strahan, pubblichi i “Dialogues Concerning Natural Religion”. Smith si sottrae a tale incombenza. Vorrebbe destinare i “dialoghi” alla circolazione fra una ristretta cerchia di amici. E ciò sarà visto da alcuni come un tradimento della fiducia riposta in lui da Hume. Ma le cose stanno ben diversamente. Smith temeva che la pubblicazione di quell’opera potesse nuocere all’immagine di Hume. Non c’è stato quindi alcun tradimento. Il loro è stato un grande sodalizio intellettuale e umano. La stima di Smith nei confronti dell’amico si può vedere sintetizzata in questo giudizio: “durante la sua vita e dopo la sua morte, l’ho sempre considerato vicino, nella misura in cui ciò viene consentito dalla fragile natura umana, all’idea di un uomo perfettamente saggio e virtuoso”. Il che chiaramente riecheggia quanto Fedone disse di Socrate: “l’uomo migliore fra quelli che allora conoscemmo e, soprattutto, il più saggio e il più giusto”.




Pietà per i nostri carnefici (populisti)

Francesco Damato, nel suo meditato articolo, Giustizialisti l’album di famiglia – Il Dubbio del l° giugno – tesse le lodi di Angelo Panebianco che, nell’editoriale I politici sovranisti non vengono da Marte – Corriere della Sera del 28 maggio – sostiene la tesi che le forze politiche emergenti oggi in Italia sono ostili alla democrazia rappresentativa (liberale) e che il  «diffuso rigetto nei confronti della democrazia rappresentativa, delle sue regole, e delle istituzioni liberali che la sorreggono, è il frutto di una trentennale, martellante, propaganda che ha dipinto la politica rappresentativa come un verminaio, il concentrato di tutte le lordure e le brutture, e i suoi esponenti come gente per la quale vale l’inversione dell’onere della prova: è ciascuno di loro che deve dimostrare di non essere un corrotto. Il lavaggio del cervello a cui il “circo mediatico-giudiziario” ha sottoposto per decenni tanti italiani, ha funzionato». Damato fa rilevare giustamente che a quel “circo” il Corriere della Sera non ha fatto mancare il suo contributo. Gli autori del libro La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili (2007), Sergio Rizzo e Antonio Stella, facevano parte, infatti, dello staff di Via Solferino e tale circostanza «ha dato un po’ il sapore freudianamente autocritico al titolo assegnato all’editoriale di Panebianco “Album di famiglia”», con immancabile riferimento all’articolo di Rossana Rossanda, su Il Manifesto, in cui le BR venivano riconosciute come una costola della sinistra.

A me non sono mai piaciuti i giornalisti come Stella e Rizzo «di indiscussa bravura ma spesso lasciatisi prendere la mano nella loro campagna contro la “casta”» (Damato), e ho sempre pensato che ci fosse “qualcosa di marcio in Danimarca” se il libro-denuncia di Raffaele Costa, L’Italia del privilegi (Mondadori 2002) non ha venduto il milione e duecentomila copie che in soli sette mesi fecero della Casta un best seller. Probabilmente al libro di Costa mancava, del “circo mediatico-giudiziario”, la seconda componente, quella giudiziaria, che fu la carta vincente dei due PM della carta stampata distaccati alla redazione del quotidiano milanese. Detto questo, però, bisogna mettere in guardia della tentazione di ritenere che i citati muckraker (‘rastrellatori di scandali’) abbiano instillato nell’immaginario collettivo l’idea falsa (o quanto meno esagerata) che siamo il paese più corrotto del mondo e che stiamo sprofondando nel baratro della decadenza morale, sociale e politica. Non è affatto vero che, quanto a corruzione politica, il nostro paese sia ai primi posti, ma il problema non è questo. Il problema è che abbiamo una classe politica che, con la complicità dei grandi corpi dello Stato, dei sindacati, della Confindustria (quella più legata alle commesse statali), ha fatto a pezzi il Paese, ha creato una  spaventosa voragine del debito pubblico, che ora ci impedisce di fare la voce grossa in Europa perché non si è mai visto che debitori quasi insolventi mettano in riga i loro creditori, ha minato lo stato di diritto con sentenze a orologeria, che «applicano le leggi agli amici e le interpretano per i nemici», ha distrutto la scuola con le lauree facili e le moltiplicazioni delle sedi universitarie sul territorio, (è stato calcolato che se chiudessero quelle di Imperia e di Savona e la Regione Liguria  ospitasse nei migliori alberghi di Genova gli studenti delle due province, ci sarebbe un risparmio per le casse pubbliche di almeno il 50%), non si vergogna di un sistema carcerario che ricorda il film di Alan Parker Fuga di mezzanotte (1978).

Qualche volta autorevoli opinion maker ci ricordano che abbiamo la classe politica che ci meritiamo e se i governanti lasciano a desiderare i governati non sono certo esempi preclari di virtù civiche. E’ ovvio ma non si dimentichi quanto sapevano bene gli antichi, che «l’esempio viene dall’alto» e, soprattutto, non si perda di vista la differenza fondamentale tra chi fa le leggi e chi le subisce. A distinguere la sfera politica dalle altre dimensioni della convivenza umana è il fatto che la prima emana decisioni vincolanti erga omnes e può farle valere con le sanzioni previste dai codici per i disobbedienti laddove la società civile esercita influenza, ma non potere, sui costumi, sugli atteggiamenti collettivi, sulle mentalità e la comunità religiosa prescrive a quei pochi che ne fanno ancora parte precetti la cui infrazione comporta sanzioni che non sono di questo mondo.

Sì, cari Panebianco e Damato, siamo tutti colpevoli: i nostri Hykson «li abbiamo allevati noi» ma ci sono colpe e colpe: noi uomini della strada abbiamo potuto chiedere favori e raccomandazioni illecite ai nostri politici ma il potere di soddisfare le nostre richieste -con espressione altisonante “l’autorità dello Stato” – ce l’avevano loro, non noi. Una civil society, priva di ogni senso dell’interesse collettivo, può aver ottenuto provvedimenti e leggine volte a favore di questa o quella categoria sociale ma quei provvedimenti e quelle leggine sono state concesse da parlamenti e governi che avevano in una mano la spada e l’altra mano libera, avendo gettato per terra la bilancia del diritto.

Al direttore di un grande quotidiano storico, un tassista napoletano rimbrottato per aver votato il 4 marzo per un partito populista, recplicò «Dottò, ce stanno tre tassì: une saie che t’arrobbane; n’ate vide che fiete e merda; nu tierze, nun saie che cazz’è: agge vutate pe ‘o’ tierze!». Temo che nei prossimi mesi impareremo a nostre spese che cosa ci riservi il terzo taxi, quello del Governo Conte. Per citare Panebianco, mi spaventa, tra l’altro, il proposito di abolire «la prescrizione dei reati» che «neanche ai fascisti era mai venuto in mente» ma dobbiamo essere consapevoli che, se siamo a questo punto, la colpa è soprattutto di chi ci ha governato finora. E di quell’establishment fatto di prestigiosi giuristi, di alti ‘servitori dello Stato’(sic!), di economisti di regime, di maitres-à-penser della carta stampata, di presunti “cavalli di razza” della politica che hanno ferocemente denunciato le crepe del Palazzo ma non hanno mai spiegato che cosa abbiano fatto, loro che ci abitano confortevolmente da anni, per porvi rimedio. La colpa è sempre dell’uomo qualunque, ignorante e irresponsabile, che si lascia abbindolare dai Simon mago di turno? Se questo è populismo, ebbene sì, sono un populista anch’io pur non avendo votato (né penso di votare in futuro) per i gialloverdi.




Per capire il governo evitare le etichette

Che quello che ha giurato ieri sia un governo di destra, anzi il governo “più di destra che l’Italia abbia mai avuto dalla fine della seconda guerra mondiale”, è un’opinione espressa da diversi osservatori. In questo giudizio non fa che riemergere, ancora una volta, un classico vizio del linguaggio democratico, che da sempre considera sinonime, e dunque intercambiabili, tre parole: brutto, fascista, di destra.

Sfortunatamente un simile uso del linguaggio, (forse) efficace come strumento di propaganda, è invece ben poco utile per comprendere ciò di cui si parla. Se vogliamo capire la natura del neonato governo giallo-verde, la prima cosa da fare è sbarazzarci delle etichette di destra e sinistra. Non perché, nel contratto di governo, non vi siano molte cose considerate di destra e molte cose considerate di sinistra, ma perché la novità sta proprio qui: il governo giallo-verde non è affatto “né di destra né di sinistra”, nel senso in cui lo sono stati diversi governi di compromesso sperimentati nel passato, ma è, tutto al contrario, “sia di destra sia di sinistra”.

Il governo che si appresta a nascere è il primo che, di fronte all’alternativa fra tagliare la spesa pubblica per abbassare le tasse (destra) e aumentare le tasse per sostenere il welfare (sinistra), ha l’ambizione di sommare i due sogni della destra e della sinistra: meno tasse e più spesa. Perché, al di là di qualche progetto a costo zero o a basso costo, sono questi i piatti forti del menu di governo: il piatto “di destra” ambisce a sterilizzare l’aumento dell’IVA e ad abbassare le aliquote fiscali su famiglie e imprese (slogan: flat tax), il piatto di sinistra ambisce ad aumentare la spesa pensionistica e le misure di reddito minimo (slogan: abolire la Fornero, reddito di cittadinanza).

E’ il caso di sottolinearlo: un governo “additivo”, che vagheggia esplicitamente più spesa e meno tasse, non si era mai visto in tutta la storia repubblicana. Fanno benissimo, dunque, i protagonisti a chiamarlo governo del cambiamento: più diverso da quelli del passato non si può. E fanno altrettanto bene gli osservatori sbigottiti da cotanta novità a chiedersi: dove prenderanno i soldi? Non è, per caso, che la soluzione sarà di aumentare ancora il debito pubblico, prendendoci il rischio di un’uscita più o meno indolore dall’eurozona?

Di fronte a questa entità nuova possiamo dividerci in tanti modi, a seconda delle nostre inclinazioni politiche. Io trovo più utile, invece, cercare di immaginare, concretamente, che cosa potrebbe succedere, e quali siano gli ostacoli che il programma additivo potrà incontrare. Azzardo dunque qualche previsione, consapevole del detto dell’indimenticabile Gianni Brera: non sbaglia previsioni solo chi non ne fa.

Prima previsione. Il governo non verrà travolto dalla irrealizzabilità dei suoi programmi, come sognano molti oppositori, certi che la nave dei sogni non potrà che andare a sbattere contro l’iceberg della realtà; più verosimile è che preferisca sopravvivere ridimensionando, e soprattutto spostando avanti nel tempo, le sue promesse più costose. Più che puntare a realizzare il contratto in tempi brevi, Di Maio e Salvini si preoccuperanno di dare subito qualcosa, almeno qualcosa, ai propri sostenitori. Fra le due promesse più costose, meno tasse e più spesa pubblica, penso che – almeno nel breve periodo – a essere sacrificata sarà la flat tax. Questo per vari motivi: il cosiddetto reddito di cittadinanza costa molto di meno della flat tax e può essere facilmente modulato nel tempo, basta mettere un po’ più di soldi sul reddito di inclusione (già avviato dal duo Renzi-Gentiloni) e ribattezzarlo reddito di cittadinanza; sul versante fiscale c’è già da disinnescare la bomba a orologeria dell’aumento Iva, gentile omaggio dei governi precedenti; e infine: se vuole accampare meriti con il suo elettorato, Salvini ha a disposizione diverse misure altamente simboliche e a bassissimo costo, da un giro di vite sugli sbarchi (blocco navale?) a una legge sulla legittima difesa.

Seconda previsione. I guai cominceranno l’anno prossimo, quando verrà meno il Quantitative Easing della BCE, Mario Draghi esaurirà il suo mandato, e si vedrà il “vero” valore dello spread, un punto su cui – molto opportunamente – ha attirato l’attenzione Mario Monti nei giorni scorsi. Nessuno sa con esattezza come i mercati valutino l’affidabilità finanziaria dell’Italia, ma quel che è certo è che, fino a oggi, i rendimenti sono stati tenuti artificialmente bassi dal Quantitative Easing (QE) della BCE. Quando questo intervento cesserà i rendimenti subiranno inevitabilmente uno spostamento verso l’alto. Giusto per dare un ordine di grandezza, nei primi 4 mesi dell’anno l’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici italiani, che misura il “giusto” rendimento dei nostri titoli decennali (indice VS, elaborato dalla Fondazione Hume) si aggirava intorno al 3.3%, mentre i mercati si accontentavano di meno del 2%. Se attribuiamo questa differenza, pari a circa 150 punti base, al Quantitative Easing, dobbiamo concludere che il “vero” spread, ossia quello che avremmo avuto nei giorni scorsi in assenza del sostegno della Bce, non sarebbe stato di 320 punti base, ma si sarebbe aggirato intorno a quota 480, vicino ai livelli dei momenti più drammatici del biennio 2011-2012.

Terza previsione. Proprio perché hanno promesso cose diverse, e temono di deludere i rispettivi elettorati, Di Maio e Salvini saranno sempre in tensione fra loro per decidere in che cosa convogliare le poche risorse disponibili. Logica vuole che, fra i due, a prevalere sia Di Maio, che ha il doppio dei voti e le cui promesse costano la metà. Bisognerà vedere se, messo un po’ all’angolo, Salvini non preferirà rompere il contratto e riprendersi il ruolo di leader del centro-destra, ammesso che questa espressione non sia nel frattempo diventata vuota.

Quarta e ultima previsione. Il Capo dello Stato avrà il suo daffare, e verosimilmente non si tirerà indietro. E’ infatti probabile che, non riuscendo a trovare le “coperture” che servono, Di Maio e Salvini provino a convincere il ministro dell’Economia a varare una finanziaria “espansiva”, ovvero a fare ulteriore debito pubblico, in più o meno aperta violazione dell’articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio. A quel punto bisognerà vedere che cosa farà Mattarella, ma è difficile pensare che, dopo aver avuto la fermezza di rifiutare la nomina di un ministro, il Quirinale si astenga da ogni intervento su un punto assai meno opinabile, ovvero il mancato rispetto del dettato costituzionale in materia di entrate e uscite dello Stato. E’ a quel punto, e solo a quel punto, che la sceneggiata di queste settimane, con dichiarazioni e contro-dichiarazioni sulla permanenza dell’Italia nell’Eurozona, dovrà per forza avere uno sbocco, in un senso o nell’altro. Chi vivrà vedrà.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 03 giugno 2018



Fuga dalla mediocrità

Galline

Abbiamo, noi esseri umani, una capacità sorprendente e invidiabile di trovarci delle vie di fuga, qualora l’aria si faccia, per un motivo o per l’altro, irrespirabile. Siamo sublimemente capaci di distrarci, svicolare, schivare, spostarci. Andare altrove. Lasciare la strada principale e addentrarci in certi viottoli seminascosti dai rovi o sederci sul ciglio, mentre gli altri vanno. Lasciar che gli altri vadano e trovar per noi un angolo riparato, tana o nascondiglio. Fermarci o deviare, l’importante è dedicarci ad altro, permettere che qualcosa, anche di piccolo e marginale, ci distolga e ci porti in altri universi. È la nostra salvezza. È anche la nostra migliore virtù, secondo me. Non credo infatti che sia sempre il caso di immergersi nel pieno delle cose, nel vortice, soprattutto se le cose sprofondano in zone putride e malsane, in una specie di melma buia e fangosa. Ben vengano le ali che ci spostano, i voli di cui siamo capaci.

Per esempio, alleviamo galline.

È da poco uscito il libro di Isabella Rossellini Le mie galline e io, per Jaca Book, dove lei racconta di quando le arrivò lo scatolone con trentotto pulcini, e di come la sua vita sia da allora cambiata, vivendo con le galline, e studiando e ammirando il loro comportamento.

Quanto condivido… Inutile che io taccia il mio amore per le galline. Seppur molto meno tecnico e molto più metaforico, è stato il mio inizio, matrimoniale e letterario: quando mi sposai, andai a vivere in un posto campestre dove il vicino aveva mucche, galline, conigli; e quattordici anni dopo pubblicai un libro dove si racconta di un’insegnante che alleva galline coltivando il sogno di farne volare almeno una, un giorno.

Erano però, lo ripeto, galline del tutto metaforiche. La vita poi, in modo inaspettato, mi portò davvero ad avere un pollaio, seppur per via indiretta. Il vero possessore era mio figlio, che a diciotto anni ricevette in dono dagli amici un gallo, al quale poi lui regalò alcune galline… Ricordo che dava lui i nomi, a codeste galline, stranamente a coppie: Galla e Placidia, Paola e Francesca, Thelma e Louise. Fu allora che maturò in me la vera conoscenza delle galline, mi avvidi di cos’erano realmente, e qui concordo con Isabella Rossellini: persone! Esseri infinitamente intelligenti e affettuosi, amiche, compagne di vita, ognuna col suo carattere e coi suoi tratti distintivi; c’era la gallina timida e quella estroversa, la gallina rissosa e la gallina sempre sorridente. Mi avvidi però, altresì, di quanto la vita delle galline sia sottoposta a pericoli e conduca perlopiù a esiti veramente tragici: di notte si aggirano faine e volpi e, per quanto uno protegga il suo pollaio, le reti possono non tenere a sufficienza, ahimè.

Fine del pollaio reale, letterale. Le metafore, la letteratura in generale, di solito tengono di più.

La magia del nuoto

Oppure nuotiamo negli abissi.

È appena uscito, per Bompiani, un libro che vorrei accompagnasse la nostra estate: La cerimonia del nuoto, di Valentina Fortichiari.

Nuotare è un mistero, per quanto ci sforziamo non si può dire cosa sia. È, di colpo, appartenere a un altro elemento. Tuffarsi, provare il brivido di lasciare un mondo per entrare in un altro, sperimentare ogni volta questo confine. E poi, farsi portare. Lasciarsi andare, affidarsi. Dunque, anche, avere fede. Galleggiare, avere questo coraggio di permettere al nostro corpo, al nostro io, di galleggiare: vuol dire rinunciare alle difese, ai luoghi comuni, alle appartenenze, a tutto ciò che ci supporta e ci sostiene, abbandonare ogni sorta di rigidità, partiti presi, velleitarismi. E allenare il respiro. Vivere ritmicamente di quel respiro. Sprofondare e riemergere. Fondersi. Ma anche fendere come ferire, e nello stesso tempo umilmente obbedire.

Ma soprattutto nuotare è sentire il tempo in un altro modo, sperimentare un altro scorrere, o non scorrere. Dimenticare l’ancoraggio del presente e affondare in tutti i propri “momenti di essere”, anche passati e futuri. Non so dire altro. È disciplina, è rito, è cerimonia, come dice Fortichiari. È anche solitudine, e sospensione: “Appena s’immerge, il nuotatore resta solo con se stesso, sospeso nell’elemento liquido come nei sogni”. Difficile dire cosa sia nuotare. “Sentire l’acqua, dominarla, e fare di questo dominio un’arte è la magia dei nuotatori”.

Nuotare è innanzi tutto il mare, provare questa sorta di amore sacro per il mare, tornare a sentirci, proprio grazie all’abbraccio del mare, un tutt’uno con l’universo: “C’è silenzio, e il mare è intatto e immobile ad aspettarmi. È necessario guardare lungamente il mare. Una forma di meditazione che aiuta a staccarsi da sé: una dimensione senza corpo, senza tempo, fatta solo di sensi. Il respiro comincia a farsi profondo, le narici annusano, e i rumori del mare fanno rallentare il sangue”. Sì, nuotare in mare è pensiero puro.

Ma il libro di Valentina Fortichiari non parla solo di nuoto: scopre e rivela, come un’onda, i racconti del mare. Racconta tutte le storie affondate e profondissime che il mare conserva in sé, che tiene strette nel cuore dei suoi abissi. È quindi anche un libro di racconti, perfetti, misteriosi, rapiti all’insondabile profondità dell’essere: il racconto del tonno di corsa, del pesce volante, del narvalo unicorno degli oceani, della foca artica, del cavalluccio marino… In realtà, sono racconti che parlano di noi, della nostra vita: gli amori, le amicizie, i pericoli, i tradimenti, il dolore… Il dolore di un figlio che vede morire sua madre, e poco importa se la madre è una donna o una balena, uccisa e squartata da marinai: negli occhi di suo figlio, il piccolo capodoglio solitario, lei è la “madre legata con funi, trainata, mentre le acque al suo passaggio si tingevano di rosso” e lui la segue perché non può far altro: “Confuso, disperato, incapace di aiutarla mentre la balena a pancia in su fissava il sole, non gli riusciva, irragionevole, affamato, di abbandonarla”.

Fino al racconto finale, che s’intitola Mio padre, nuotando, e che sonda ben altri misteri, bel altri confini: il tempo misterioso in cui un padre sta per lasciare il mondo, e una figlia che nuotando ancora un’ultima volta col vecchio padre “sente”, così come sente l’acqua, l’inesorabile avvicinarsi della sua perdita.

Le stelle

Il mare, le galline… Cosa cambia? Vale tutto parimenti come via di fuga. Anzi, direi che in genere è proprio così: o fuggiamo attraverso l’infinitamente piccolo (studiamo insetti al microscopio, fotografiamo fiori, fili d’erba e gocce d’acqua col macro obiettivo, alleviamo api, galline…) o fuggiamo nell’immensità. Del mare, dello spazio…

Ricordo qui un altro libro bellissimo, che mi accompagna sempre: Il grande racconto delle stelle, di Piero Boitani (Il Mulino, 2012). Questo libro siamo noi, che di fronte agli astri interroghiamo noi stessi, noi che di fronte alla bellezza e al mistero indaghiamo il senso del nostro esistere, attraverso la storia, la filosofia, la poesia, la musica, i miti del cosmo… Siamo noi, ancora una volta capaci di fuggire, e di inventarci mondi. E anche di superare quel che impropriamente chiamiamo tempo, se riusciamo a contemplare stelle che da centinaia di anni hanno smesso di esistere…

Il Principe Azzurro e le felpe della politica

Insomma, in molti modi sappiamo di-vagare. Perderci nei viottoli, trovare angoli, stanze tutte per noi, anfratti che diventano universi. Il nuoto, le api, le galline, le stelle… La letteratura, i libri. Le storie. Le favole…

Le cose molto piccole o le cose molto grandi. Evitando quel che sta in mezzo, e che solo a volte, nei casi fortunati, è aurea mediocritas: il più delle volte è mediocrità e basta.

Per questo forse ci attraggono fortemente i matrimoni delle famiglie reali, amiamo così tanto seguire le dirette tivù, leggere notizie, guardare video e foto: perché ci porta via dalla mediocrità che vediamo dilagare intorno, soprattutto in questi ultimi mesi, qui in Italia, costretti come siamo stati finora, a guardare l’inguardabile spettacolo di una politica mediocre, e spesso volgare.

Il matrimonio di Harry e Megan ci conquista. Ci rilassa, ci distrae. Forse anche ci innalza. Non credo sia perché amiamo da sempre la favola del Principe che sposa Cenerentola. Sebbene ci siano davvero tutti gli elementi, non solo il giovane Principe barbuto e rosseggiante e la bellissima fanciulla che viene più o meno dal nulla, ma anche tutto il corredo di cavalli, carrozze, pennacchi e… cappelli. Grande lode ai cappelli inverosimili, esorbitanti e surreali delle dame inglesi!

Certamente la favola ci attrae, credo stia in qualche parte recondita di noi da millenni. Ci attrare benché sappiamo quanto sia, oggi, fuori tempo, ingenuo e scontato credere ancora al Principe Azzurro. Ce lo siamo raccontato in tutte le salse quanto tutto ciò sia politicamente scorretto. Eppure, in quella parte recondita di noi proviamo un godimento, un’ebbrezza, davanti alle immagini televisive che ci mostrano il matrimonio di Megan e Harry, è innegabile.

Ma credo sia soprattutto un punto ad attrarci: la bellezza, lo spettacolo sempre commovente della bellezza. Abbiamo un inconfessabile bisogno di bellezza. Non tanto lo sfarzo e il lusso di una nobiltà perduta, quanto l’eleganza, la bellezza che è fatta, anche, di rito e cerimonia, di regole e di forme. Qualcosa di sacrale, che ancora regga.

Non ne possiamo più di felpe e maniche di camicia. Ci sentiamo oppressi, schiacciati, abbattuti, mortificati e depressi dalla bruttezza che da mesi la politica ci impone. Vorremmo uscirne. Per questo ci troviamo i viottoli dove scappare.

La vera bruttezza, la vera mediocrità, naturalmente, non solo (soltanto) le felpe. Ho riflettuto un po’, in questi mesi, in questo prolungarsi dell’agonia del vuoto di governo. Ho ascoltato e visto di tutto: dichiarazioni, commenti, talk show (per quel furore masochistico che mi prende, a volte, di affondarci in pieno, nella melma…). E sono arrivata a pensare che l’aspetto peggiore, più mortificante, è che questa politica si sia finora più che mai fondata su cose e non su idee. Cose soltanto concrete, che si toccano, si quantificano, si spendono. La promessa di “cose”: più soldi, meno tasse, bonus, agevolazioni, sussidi… Nomi di cose e basta. Un profluvio di offerte da supermercato: è questo che ci offende. Vorremmo votare un politico che ci mostri una visione del mondo, non uno che ci offre una scatola di pelati in più.

Lo so che potrebbe sembrare un bene: finalmente una politica concreta e non fumosa. E questo è stato fino a un certo punto anche il mio modo di vederla. Ma oggi non saprei…. Troppa concretezza bieca, pesante, fine a se stessa. Manca un volo, un’impennata. Era meglio non dico il fumo, ma una onesta genericità, e una altrettanto onesta ma dispiegata al massimo, esibita, ampiamente e narrativamente esposta, idea generale del mondo. Una politica di idee. Ideale, appunto.

Utopie e velieri

Ci manca molto il pensiero. Soffriamo a causa di una dolorosa… défaite de la pensée (è il bellissimo titolo di un libro di Alain Finkielkraut, del 1987). L’energia pensante. La capacità che ha l’umano pensiero di inventare e costruire universi.

In realtà, non capisco quasi niente di politica e dovrei tacere. In realtà, sono la prima a stupirmi di quel che dico, perché quel che dico mi conduce inesorabilmente a un punto che mi lascia perplessa: il rimpianto delle ideologie. C’è da ridere, io che rimpiango ciò che da sempre definisco come il peggiore dei mali, ciò che ci ha tolto la libertà: la dittatura delle ideologie! Inaudito. Eppure…

Eppure c’era un lato buono. E oggi mi ritrovo a elogiare il lato buono delle ideologie perdute. Criticabili quanto si vuole, per alcuni versi detestabili. Ma oggi non siamo nelle condizioni di permetterci una critica, possiamo solo, e forse dobbiamo, concederci un sano e doveroso rimpianto, oggi che siamo subissati solo di slogan e promesse, frasi fatte, annunci iperbolici, discorsini imparati a memoria e mandati in onda a ripetizione.

Le ideologie erano ben più che degli slogan. Erano organizzazioni mentali complesse, costruzioni dense di significato. Ogni volta la costruzione di un mondo nuovo e preferibile al vecchio. Ogni volta una sovversione, una rigenerazione. Ma erano prima di tutto costruzioni, edifici di cui si vedevano le fondamenta, le impalcature, i muri, le finestre, il tetto. Non importa se non erano concreti, “veri”. Erano utopia. Ma utopia non vuol dire promesse, è l’esatto contrario. L’utopia non promette, inventa, costruisce invenzioni. In questo senso è un po’ come la favola… Quindi poi alla fine tutto si tiene, torniamo al punto da cui siamo partiti: il matrimonio di Megan e Harry. Il nuoto, le galline… Se nessuno più costruisce mondi per noi, ognuno di noi si costruisca il suo mondo.

Torneremo a coltivare il famoso giardino di voltairiana memoria? Può darsi. Ma un giardino può essere un’isola, e un’isola il mondo intero. In miniatura. Forse l’isola che non c’è, ma che val la pena immaginare. Non sottovaluterei l’impresa. E nemmeno le miniature…

Finirei così, con l’elogio dei mondi miniaturizzati. Il veliero nella bottiglia, per esempio. Tanto per tornare al mare… Chi lo costruiva quel veliero? Chi introduceva nel collo della bottiglia con le pinze ogni volta un pezzettino di legno, un gancetto, un cordino? Chi tirava su quelle minuscole vele? Chi aveva quella pazienza, quella modestia, di fare qualcosa di così minuto e inessenziale, eppur così determinante, e imprescindibile direi, per la nostra vita mentale, per la fantasia, per la capacità immaginifica che (ancora) abita in noi e ci anima?

Un grazie, a tutti i costruttori di velieri.

Pubblicato su Il Sole24Ore del 27 maggio 2018



L’alibi dei vincoli europei

Finora, in Europa occidentale, si era visto un solo governo populista puro, quello greco rosso-nero guidato da Tsipras, un governo di coalizione fra il principale partito di sinistra (Syriza) e un piccolo partito nazionalista e conservatore (Anel). Ora anche l’Italia ci prova: salvo imprevisti, nei prossimi giorni si insedierà un governo populista giallo-verde che, come primi “assaggi” di sé stesso, ha già dato segnali del proprio convinto anti-europeismo.

In buona sostanza: in Italia facciamo quel che ci pare, e dei vincoli europei su debito e deficit ben poco ci importa. C’è stata l’austerità fino ad oggi, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, è giunto il momento di cambiare rotta. Salvini si è spinto a dire, in polemica con il ministro francese dell’economia che aveva richiamato l’Italia al rispetto degli impegni assunti, che il nuovo governo avrebbe fatto semplicemente il contrario dei governi precedenti.

Sul rapporto con l’Europa la si può pensare in tanti modi, però – comunque la si pensi – forse una domanda dovremmo farcela: il rispetto dei vincoli europei, giusti o sbagliati che siano, è davvero il macigno che impedisce all’Italia di ripartire?

Oggi la polemica anti-europea sta diventando il biglietto da visita del nuovo governo, il cui unico vero colore politico è di non essere di sinistra, però non possiamo dimenticare alcuni fatti storici. Il 17 ottobre 2002, stiamo quindi parlando di sedici anni fa, fu lo stesso Prodi – allora presidente della Commissione europea – a definire “stupido” il patto di stabilità, un parere ribadito nel 2014, poche settimane dopo la nascita del governo Renzi. Quanto a quest’ultimo, ci ricordiamo tutti che i suoi tre anni di governo sono stati spesi a battagliare contro le regole europee, e a deridere i burocrati europei e le loro fissazioni sui decimali (del rapporto deficit-Pil). Né possiamo dimenticare che la critica delle politiche di austerità, e l’invocazione continua di investimenti pubblici anche in deroga ai vincoli di bilancio, è il leitmotiv dell’estrema sinistra in tutta Europa.

Quindi la prima cosa che vorrei dire, a chi è sbigottito di fronte all’assalto dell’ircocervo populista contro le regole europee, che se Salvini e Di Maio si muovono agevolmente sul terreno dell’antieuropeismo è perché quel terreno è stato a lungo dissodato, concimato e innaffiato dalla sinistra stessa. Ciò detto, tuttavia, la domanda resta: sono le regole europee che ci impediscono di uscire dal pantano?

Per certi versi senz’altro. Se sull’immigrazione un paese geograficamente esposto non può fare molto è anche a causa delle regole europee, peraltro liberamente sottoscritte, e qualche volta anche caldeggiate. Se il mercato europeo è troppo regolamentato all’interno, con conseguente lievitazione dei costi per le imprese, e troppo aperto verso l’esterno, senza validi strumenti di difesa nei confronti delle importazioni (e delle merci contraffatte) dalla Cina e dai paesi emergenti, sicuramente una notevole responsabilità ce l’ha l’Europa.

Per altri versi, però, no. L’Europa c’entra poco. Chi racconta che abbiamo avuto 10 anni di austerità, e che è ora di cambiare strada, non sa di che cosa parla. Se avessimo davvero avuto 10 anni di austerità, saremmo riusciti a ridurre non dico l’ammontare del debito, ma almeno il rapporto debito-Pil. Il fatto è che si continua a confondere due cose nettamente distinte: la capacità di un paese di risanare i conti pubblici, con politiche che possono essere di austerità “buona” (meno spesa pubblica) o di austerità “cattiva” (più tasse), e il cambiamento delle condizioni di vita dei suoi cittadini, che quando peggiorano fanno gridare all’austerità, ma che sono tutt’altra cosa.

Il fatto è che, nei sette anni della crisi (da 2007 al 2014), l’Italia è riuscita nella duplice impresa di non risanare i conti pubblici, e al tempo stesso non far recuperare ai cittadini il tenore di vita pre-crisi. Di qui il cortocircuito logico: dato che stiamo peggio, ci raccontiamo che sono stati anni di austerità.

La realtà, purtroppo, è che le regole europee spiegano forse perché i paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno degli altri paesi dell’Unione, o perché l’Europa nel suo insieme cresce meno del resto del mondo, o cresce meno degli Stati Uniti, ma non possono spiegare – proprio perché sono regole comuni – come mai certi paesi europei crescono a ritmi accettabili e altri, come l’Italia, la Grecia o la Finlandia, invece ristagnano. Soprattutto non spiegano perché l’Italia, in questi gloriosi anni renziani, sia scivolata all’ultimo posto come tasso di crescita del Pil, e al penultimo come tasso di occupazione.

Perciò, è vero: con altre regole potremmo (forse) crescere un po’ di più, ma non raccontiamoci che il vero ostacolo alla crescita dell’economia italiana è l’Europa. No, sfortunatamente se l’Italia cresce di meno degli altri paesi europei è solo perché ha fatto ben poco di quel che avrebbe dovuto fare per ridare fiato all’economia e risanare il bilancio pubblico, non certo perché la cattiva Europa non le ha permesso di spendere in deficit quanto le sarebbe piaciuto.

E’ questo, purtroppo, l’equivoco su cui il nascente governo giallo-verde sembra intenzionato a puntare molte delle sue carte.

Articolo pubblicato da Panorama il 24 maggio 2018