Una riflessione controcorrente sulla Prima Guerra Mondiale

Negli articoli e saggi scritti durante gli anni della grande guerra, Max Weber, così giustificava lo scatenamento del conflitto da parte della Germania imperiale: «Un popolo di 70 milioni di abitanti, posto tra le potenze conquistatrici del mondo, aveva il dovere di diventare uno stato di grande potenza. Dovevamo essere una grande potenza, e per poter far sentire anche il nostro peso nelle grandi decisioni del mondo, dovevamo arrischiare questa guerra. Avremmo dovuto farlo anche se avessimo potuto temere di soccombere. L’imponeva l’onore del nostro patrimonio etnico-culturale. Non è in gioco solo la nostra esistenza. Solo l’equilibrio reciproco delle grandi potenze garantisce la libertà dei piccoli stati. Se non avessimo voluto arrischiare questa guerra, ebbene, allora avremmo potuto rinunziare alla creazione del Reich e avremmo potuto continuare ad esistere come un popolo di piccoli stati».

Oggi queste sembrano a noi «parole di colore oscuro». Se pensiamo all’inferno delle trincee—evocato in film come Orizzonti di gloria di S. Kubrick o La Grande guerra di M. Monicelli—alle devastazioni di territori un tempo fertili, alle vittime di strategie militari che sottovalutavano la potenza delle nuove tecnologie, alle lacerazioni sociali, morali e culturali di un  dopoguerra che vide la nascita di opposti totalitarismi e di movimenti politici radicali responsabili, col terrore, di carneficine quantitativamente ben superiori a quelle belliche, alla irrimediabile finis Europae e all’ascesa di Grandi Potenze extraeuropee, ci è difficile non dare ragione al Papa che, nel 1917, avrebbe voluto mettere fine all’«inutile strage». Sennonché, come ha avvertito Rosario Romeo, uno storico la cui altezza d’ingegno era pari soltanto alla sua probità morale, col metro di Benedetto XV, non si comprende il passato. In una visione ispirata all’assolutismo etico, non solo la Prima Guerra Mondiale ma «le rivoluzioni nazionali del ’48 e la stessa rivoluzione francese con le successive guerre napoleoniche, per non parlare delle guerre di religione o delle crociate», diventano inutili massacri. Anzi  l’intera vicenda umana finirebbe per «apparire assurda e grottesca: se a fermarci su questa strada non intervenisse il ricordo di quale somma di valori sta invece intrecciata a quel grottesco, e se non fosse doverosa una generale riserva metodica di fronte al patente anacronismo di giudizi  nei quali idea­li interessi e aspirazioni del nostro presente vengono as­sunti a criterio di valutazione di epoche e di uomini che  non li conobbero e che si mossero invece sulla scia di al­tri interessi aspirazioni ed ideali». L’unico scienziato politico italiano che si sia occupato dell’azzardo del 1915, Gian Enrico Rusconi, è arrivato a conclusioni non dissimili. «È tempo, ha scritto, di riprendere e rivisitare i paradigmi classici della politica’ e della guerra e di ripercorrere con essi il processo decisionale che ha portato l’Italia dentro alla ‘ca­tastrofe originaria’ del secolo passato — mentre poteva non entrarci o entrarci in altro modo. Per noi oggi è facile criticare la predominanza dei paradigmi dello ‘stato di potenza’ che influenzano il ceto dirigente italiano del 1915, soprattutto quando si esprimono in modo esclusivo nella dimensione militare. Ma non possiamo proiettare antistoricamente i nostri attuali criteri di giudizio etico-politico—che si sono formati proprio sulle esperienze negative di quel passato—in contesti politici che vanno giudicati secondo altri criteri.».

Riportandoci ai “contesti”, la “guerra civile europea” non nacque da impulsi irrazionali e tribali ma da logiche specifiche e tipiche del tempo, da un ‘gioco del potere’ finito in maniera catastrofica per vinti e per vincitori apprendisti stregoni incapaci di tenere sotto controllo un rischio che si voleva calcolato. Non pertanto le loro motivazioni erano campate in aria. E ciò valeva non solo per la Germania che, nel 1913, avendo superato come potenza industriale, l’Inghilterra, rimasta tuttavia signora degli Oceani, se ne sentiva il fiato sul collo ma anche per l’Italia. Come rilevò il principe della storiografia liberale britannica, George Macaulay Trevelyan, che aveva trascorso più di tre anni al fronte italiano: la nazionalità d’Italia era «incompleta, e la sua indipendenza politica minacciata». Perciò essa doveva unirsi alla guerra comune contro quella Potenza che, vincendo, avrebbe «distrutto la sua indipendenza e che da lungo tempo» aveva «minato con la pene­trazione pacifica le fondamenta della sua «nazionalità incompleta». Non a caso «gli idealisti della Penisola, quasi senza eccezione, divennero il partito della guerra, poiché videro nella guerra contro le Potenze Centrali l’unica via per salvare l’indipendenza, le tradizioni, l’anima della Patria».

Anche per l’Italia valeva la domanda: quale senso avrebbe avuto l’unificazione delle sue membra sparse se non si fosse tradotta nell’accesso al club di Stati che decidevano i destini del mondo? Protesa nel Mediterraneo, la penisola sarebbe rimasta terra di conquista per i paesi affacciati sul mare nostrum ¸tirata da una parte o dall’altra da quanti non avrebbero esitato a seminar zizzania e a resuscitare i vecchi “partiti” o, meglio i vecchi partigiani di questo o quel governo straniero.

È fuori di dubbio che l’Italia avrebbe avuto tutto da guadagnare senza il tuono dei cannoni di agosto, ma il fatto è che la conflagrazione era scoppiata e che si trattava per le sue classi dirigenti di decidere su quale piatto della bilancia porre il suo peso decisivo. Per Gaetano Salvemini, storico insigne e interventista convinto, la vittoria degli Imperi Centrali avrebbe ridotto il paese a stato vassallo e va ricordato che del suo avviso era gran parte della società civile colta.

Oggi ripeto quel mondo—eserciti, “peso determinante”, egemonie politiche, zone mediterranee d’influenza– ci è divenuto del tutto estraneo: abbiamo messo tanti fiori nei nostri cannoni da renderli irriconoscibili. E tuttavia, a ben riflettere, siamo diventati devoti della Dea Pace e della Dea Umanità perché non siamo più noi a dover sopportare il peso della difesa e degli armamenti né siamo più in grado di condizionare gli eventi e le relazioni internazionali. È come se la perdita netta di potere—dovuta alla catastrofe bellica—ci avesse privato della facoltà di intenderne la dura necessità. Una felice incoscienza in un sistema internazionale bipolare ma sempre più pericolosa nel mondo dei Trump, dei Putin, dei Xi Jinping, dei Ram Nath Kovind, leader di stati continentali oceanici che giocano oggi le partite che ieri furono mortali per la vecchia Europa.

Pubblicato su Il Giornale del 29 novembre 2018



Fare attenzione

I cartelli di pericolo ci esortano a fare attenzione. Attenzione al gradino, all’incrocio, al passaggio di animali, alle buche. Se no cadiamo, precipitiamo, anneghiamo, scivoliamo. Senza attenzione, ci facciamo male.

Anche a scuola l’insegnante esorta gli allievi, da secoli: State attenti! Vuol dire che è bene ascoltare la lezione trattenendo qualcosa nella memoria, o badare a non fare errori nelle verifiche in classe.

Mi ha colpito, in questi giorni, una frase di Philip Roth che ho letto in un’anticipazione dei suoi scritti nonfiction, appena pubblicati da Einaudi: Perché scrivere? Saggi conversazioni e altri scritti. La frase riguarda un aneddoto della sua infanzia, quando andava ogni quindici giorni nella piccola biblioteca di quartiere, prendeva cinque o sei libri in prestito e li portava a casa nel cestino della bici. Ecco, Roth dice che scrivere è parlare di quel cestino, evocarlo, descriverlo. Mettere attenzione ai particolari. È bellissimo questo, ha ragione. Se scrivesse solo che si portava a casa i libri della biblioteca, non sarebbe letteratura (secondo una certa idea di letteratura, almeno…). Diverso dire che se li metteva nel cestino della bici. È quel cestino, il centro. Perché così noi lo vediamo, quel bambino che pedala verso casa, con i libri che gli sballonzolano nel cestino. E, poiché lo vediamo, non è più soltanto lui: siamo tutti noi. Uguale: letteratura.

Scrivere è far vedere le cose, leggere è vedere. Se azzeriamo i particolari, il gioco finisce.

Credo che l’attenzione sia un bene prezioso, una qualità che l’essere umano decide o no di usare, e di coltivare. Credo sarebbe meglio che decidesse di usarla, e vivesse con attenzione, osservando le cose e le persone nei particolari. Vale per la scrittura, ma direi in generale per la vita.

Scrivere è certamente fare attenzione. No, lo dico meglio: scrivere è vivere facendo attenzione.

(Ecco perché si è scrittori anche quando non si scrive: perché si vive in un certo modo, osservando, ascoltando. Captando segnali ovunque lo si possa fare).

L’altro giorno una ragazza mi ha chiesto come s’impara a scrivere un romanzo. Domanda a cui non ho mai saputo rispondere. Neanche a scuola sapevo insegnare a scrivere… Una non-qualità che mi è stata spesso imputata, da genitori e colleghi. Be’, a quella ragazza ho risposto proprio questo: per imparare a scrivere bisogna osservare con attenzione. Mi ha chiesto:

Osservare cosa?

Tutto, i gesti delle persone, le scarpe, i colori dell’autunno, le scatole dei pelati, i topi di fogna che passano lungo il fiume, la piega dei pantaloni di un manager, le briciole che ti cadono sul maglione. E ovviamente i sentimenti, tuoi e degli altri.

Si osservano i sentimenti?

Certo che sì.

E come?

Be’, di questo dovremmo parare a lungo, adesso mi scusi ma devo andare…

Fuga? Sì, fuga. A gambe levate.

Mi soccorre, per fortuna, Hemingway. Trovo un suo librino meraviglioso, dell’editore che ormai è diventato il mio preferito: parlo delle edizioni Henry Beyle, di Vincenzo Campo. Il libro s’intitola Lettere dall’alto mare sullo scrivere, e già da qui, dal titolo, come non saltare sulla sedia dalla felicità? Lo leggo tutto. Sottolineo ogni riga, e vorrei parlare di questo libro a ogni Paginetta. Ma oggi mi limiterò a passarvi queste parole, sentite qua: “Come scrittore non dovresti giudicare. Dovresti capire. E poi ascolta. Quando la gente parla ascoltala totalmente. Non pensare a quello che dovrai dire. La maggior parte della gente non ascolta mai. E neanche osserva. Dovresti essere capace di entrare in una stanza e quando esci sapere tutto quello che hai visto”.

Non pensare a quello che dovrai dire… com’è vero! Ascoltiamo sempre pensando a quel che poi ci toccherà rispondere, alla bella figura che, rispondendo, ci piacerebbe fare! Non ascoltiamo mai la domanda. Non facciamo per niente attenzione a quel che l’altro ci chiede o ci dice, prestiamo attenzione soltanto a noi, a quel che gli altri penseranno di noi a seconda di come avremo risposto. Non è ascoltare, questo, è guardarsi allo specchio. È stare chiusi dentro un perenne esercizio di egocentrismo. Insuperabili, in questo paradossale non-ascolto, sono proprio coloro che per mestiere fanno domande: gli intervistatori della tivù, per esempio. Lo vediamo chiaramente che, mentre l’intervistato risponde alla domanda numero 1, il conduttore non ascolta la risposta ma pensa alla sua domanda successiva.

Bisogna, allo stesso modo, osservare molto. Osserviamo? Normalmente no, direi. Usiamo gli occhi, certo, li mandiamo a destra e manca. Guardiamo, vediamo, registriamo visivamente cose e persone. Ma osserviamo mai davvero? Mettiamo attenzione ai particolari, esterni ed interni? Voglio dire, tanto il gesto del nostro gatto di pulirsi i baffi, quanto i nostri imbarazzi, risentimenti, le nostre soddisfazioni, irritazioni e improvvise felicità? Questo dicevo alla ragazza. Anche senza prendere appunti, non importa: quel che avremo osservato, poi entrerà in qualcosa che scriveremo, senza volerlo, quando meno ce lo aspettiamo.

Anche leggere è fare attenzione. Alle parole, non alla trama. Sono le parole che fanno un libro, il modo in cui la storia è raccontata vale di più della storia in sé. Il romanzo di Manzoni è un capolavoro per come l’ha scritto, la trama si ridurrebbe più o meno a questo: due giovani vogliono sposarsi, ma un giovinastro del paese s’invaghisce della promessa sposa e impedisce il matrimonio. Pochino.

Leggere è prestare un’attenzione spasmodica alle parole, ai legami, alla posizione all’interno della frase, ai possibili sinonimi, alla loro ambiguità, e possibile molteplicità di sensi. Indugiare con amore sulle parole, amarle, una per una.

Filologia vuol dire questo.

L’attenzione. Viene da attendere, rivolgere l’animo, la mente a qualcosa. Implica concentrazione, riflessione, interesse, impegno. Diligenza, cura, prudenza, riguardo, cortesia. Per le persone e per le cose.

Per esempio l’educazione dei figli esige attenzione. Il genitore attento è colui che osserva e ascolta il figlio. Sta in silenzio a guardare ogni sua minima mossa, ogni rossore, ogni pianto o sorriso. E ne indaga il senso. Si chiede qualcosa intorno a quel che osserva. Inevitabilmente interpreta, e può anche fraintendere. E forse un’idea del figlio se la farà soltanto dopo molti anni, e sarà comunque un’idea parziale, limitata, e forse persino sbagliata. È così. Siamo difettosi, “esseri manchevoli”, anche come genitori. Non è detto che li capiamo davvero nel profondo, i nostri figli. Ma l’importante sarà averli osservati e ascoltati: aver dato loro la nostra attenzione. Nel qual caso, è possibile anche che perdoneranno i nostri errori.

In una parola, l’attenzione è amore.

Ancor più, sicuramente, l’amore è attenzione.

Lo ha sempre detto Susanna Tamaro nei suoi libri. Anche nell’ultimo, appena uscito, Il tuo sguardo illumina il mondo (edizioni Solferino), dedicato all’amico poeta Pierluigi Cappello. A un certo punto dice: “Cos’è infatti l’amicizia se non un’attenzione paziente e amorosa alla vita dell’altro?”.

L’attenzione è in pericolo oggi?

Stiamo smettendo di stare attenti, di prestare attenzione?

Alcuni di noi hanno qualche apprensione riguardo al mondo digitale e robotico che verrà, proprio perché è possibile che ci tolga attenzione. O così ci pare che potrebbe succedere: per esempio ci viene il dubbio che non saremo più capaci di restare concentrati su quel che facciamo, diciamo, scriviamo o ascoltiamo. Questo preoccupa un po’ alcuni di noi, per quel discorso sull’amore, sull’attenzione che è amore e viceversa…

Ma poi ci passa. Pensiamo che il mondo andrà dove deve andare ed è bene così, l’essere umano troverà altri modi di stare “attento”, oppure scoprirà che può benissimo farne a meno.

Personalmente, sono molto tranquilla. Credo per esempio che, nonostante il proliferare di tablet, instagram, iphone e altro, e anche nell’ipotesi che diventeremo un corpo computerizzato (cioè che prima o poi  ci immetteranno, in un braccio o tra le costole, un meccanismo elettronico) credo che continueremo a camminare sulle spiagge, dove batte l’onda, per respirare ozono, per guardare il mare. Dunque, credo che continueremo a stare attenti: ai sassi, alle conchiglie, ai piccoli vetri verzolini, a quei frammenti di bottiglia che il mare ha levigato per mesi, anni (o secoli? non ho mai avuto chiaro quanto ci metta il mare a prendersi un pezzetto di vetro e a restituircelo così tondo e liscio).

Sono quasi certa che accadrà, perché l’attrazione del mare, del camminare sulle spiagge e raccogliere sassi, è insostituibile e inalienabile e si manterrà intatta nei millenni a venire. Ed questa eternità del mare – o meglio, del rapporto tra noi e il mare e i suoi sassi – la cosa su cui possiamo contare, e che ci rende fiduciosi del futuro, pur così tecnologicamente nebuloso.

 Presteremo sempre attenzione, raccogliendo i sassi del mare.

E adesso, dopo aver tanto elogiato l’attenzione, mi verrebbe da elogiare la distrazione.

Ma aspetto le prossime Paginette.

Pubblicato su Il Sole24Ore il 1 novembre 2018



Perché Bach ci può salvare. Storia della pianista internata da Mao

Qualche settimana fa, facendo ordine nella libreria, mi è capitato in mano il famoso Libretto rosso di Mao Zedong. Era la versione in cinese di mio padre, sinologo dilettante. Non ero in grado di leggere neppure un ideogramma, ma improvvisamente mi sono tornati in mente i tanti slogan che rimbombavano nelle orecchie degli adolescenti e dei ragazzi della mia generazione. La rivoluzione non è un pranzo di gala. Colpirne uno, per educarne cento. L’imperialismo è una tigre di carta. Pochi giorni dopo ho iniziato a leggere un libro che mi ha profondamente colpito, Il pianoforte segreto, l’autobiografia di Zhu Xiao-Mei (Bollati Boringhieri, 2018), pianista cinese, famosa le sue interpretazioni delle Variazioni Goldberg di Bach.

Nata nel 1949 da una famiglia «di cattive origini» borghesi, Zhu Xiao-Mei ha iniziato a suonare il piano a sei anni ed è entrata in conservatorio a dieci, carica di luminose attese, non sapendo che solo dopo un anno si sarebbe abbattuta sulla Cina una devastante carestia, conseguenza delle folli scelte economiche e agricole del «grande balzo in avanti» voluto da Mao per incrementare la produzione di acciaio. Scelte che alterarono l’equilibrio naturale dell’ambiente, provocando la morte di decine di milioni di persone, oltre allo sterminio di quasi tutti gli uccelli, rei di essere dei parassiti borghesi. Un disastro epocale che spinse Mao, messo da parte dalle leve del potere dallo stesso suo partito, a rivolgersi direttamente alle masse invitandole a portare avanti una Rivoluzione culturale dal basso: una chiamata alle armi diretta soprattutto ai giovani e giovanissimi destinata a far cambiare per sempre la mentalità al popolo cinese, estirpando alla radice, distruggendo e nullificando tutte le tradizioni che lo avevano guidato fino ad allora con lo scopo finale di instaurare finalmente la giustizia e la felicità in Cina e nel mondo. La stessa Zhu Xiao-Mei viene travolta da questa ondata rivoluzionaria che, passando da Mozart a Mao, trasforma il Conservatorio di Pechino in un luogo di delazioni e di vendette, di terrore e di umiliazioni. Dopo essere caduta in disgrazia per una battuta scherzosa, la giovane promessa del piano sarà costretta a fare autocritica, diventando poi una convinta sostenitrice di Mao, pronta a calpestare, in nome della rivoluzione, gli affetti più importanti e a denunciare i suoi stessi maestri.

Zhu Xiao-Mei ha voluto scrivere questa spietata e dolorosa confessione soprattutto per fare ammenda del dolore causato, per non essere riuscita a salvarsi dal plagio collettivo. «La Rivoluzione culturale mi ha sporcata — scrive —, mi ha reso complice. A un certo punto ha persino ucciso in me ogni senso morale». Assistiamo, pagina dopo pagina, al divampare della follia collettiva: dal rogo compiuto di tutti gli lp e gli spartiti borghesi, alle violenze e alle uccisioni dei docenti, fino alla chiusura dello stesso conservatorio. La seguiamo passo dopo passo nella disumanità e nell’abbrutimento dei cinque lunghi anni in diversi campi di lavoro, in cui Xiao-Mei sfiora la disperazione totale, fino al giorno in cui, rischiando il tutto per tutto, riesce a farsi spedire dalla madre il vecchio pianoforte camuffato da credenza, privo di molte corde ma comunque capace di far rinascere nel suo cuore l’amore per la bellezza e l’armonia. Ai guardiani dice che le serve per suonare gli Yan Bang Xi, i motivi scritti appositamente per la rivoluzione cinese invece, fidando nelle loro ignoranza, si immerge nelle eterne note di Bach e di Chopin. Solo nel 1980 riuscirà a lasciare la Cina per Hong Kong e poi per gli Stati Uniti, dove, prima di riprendere gli studi di pianoforte, sopravviverà per parecchio tempo facendo la colf. Ora vive a Parigi ed è considerata una delle più grandi interpreti di Bach. Suona con gli occhi chiusi, le piccole mani che sfiorano i tasti con il distacco e l’intensità delle più alte forme di meditazione.

Quando ho terminato il libro, la prima cosa che ho pensato è che andrebbe letto nelle scuole; la seconda è che, pur parlando della Cina della rivoluzione maoista, in realtà è un libro che parla anche del grande rischio dei nostri tempi. Quando all’orizzonte ricompare l’idea della giovinezza come valore in sé, quando troppo spesso nel discorso pubblico ritornano le parole «giustizia», «popolo» «felicità» come valori assoluti, quando questa battaglia porta con sé il mito della «sincerità» come virtù edificante, dell’aggressività diffusa come arma di dissuasione, quando viene preso come paradigma assoluto la vita concreta, pratica, ignorando tutto ciò che costituisce la complessità e la ricchezza dell’essere umano, si entra in un tunnel in cui dall’altra parte non c’è il paradiso in terra ma un mondo di desolazione e di appiattimento. Relegando l’uomo alla sola dimensione materiale, ridicolizzando tutto ciò che non appartiene al mondo degli istinti primari, deridendo ogni forma di pensiero complesso e di espressione artistica, considerati appannaggio di un’élite di privilegiati, emerge l’animalità, e l’animalità prospera sotto una legge molto semplice, quella della sopravvivenza del più forte.

L’irruzione della tecnologia nella nostra vita ha portato innumerevoli benefici e altri probabilmente continuerà a portarci, ha però reso i pensieri di tutti più epidermici, privi di profondità, ha ridotto i sentimenti per lo più a un’esagitazione viscerale, senza più il controllo della mente. L’assenza di silenzio e solitudine fa il resto. Così si finisce sempre per accontentarci della prima risposta e si è grati a chi ce ne fornisce una dietro alla quale correre senza esitazione.

Per chi crede ancora che nell’umano ci sia qualcosa che non sarà mai assimilabile alla pura tecnologia, questi tempi di slogan assertivi fanno davvero paura. Pensando proprio al libro di Zhu Xiao-Mei possiamo trovare il coraggio di dire che l’assenza di cultura è una delle più grandi forme di povertà. Essere poveri di parole, di pensieri e di sentimenti vuol dire essere poveri nelle proprie relazioni e nella comprensione della realtà. La storia della pianista cinese dimostra con esemplare chiarezza che la storia ci può privare di tutto, della nostra cultura, della libertà, della dignità, spingendoci a vivere al limite dell’umano, ma non può spegnere l’anelito alla bellezza che è nascosto in ogni persona che abbia la forza d’animo di seguire la voce della propria coscienza. Primo Levi è sopravvissuto ad Auschwitz grazie anche alle poesie imparate a memoria, Zhu Xiao-Mei non si è fatta sopraffare dalla bestialità dei campi di lavoro grazie alla musica di Chopin e a Bach che continuava a risuonare dentro di lei. Nell’opacità di questi tempi forse è bene ricordare che solo l’arte e il riverbero della bellezza riescono a illuminare i momenti più bui della storia.

Articolo pubblicato da Il Corriere della Sera il 05 novembre 2018



La Quarta Via

Nel 1998, l’allora direttore della London School of Economics, Antony Giddens, scriveva The Third Way: The Renewal of Social Democracy, un saggio in cui parlava di una visione del mondo alternativa sia alle politiche liberiste di ampia fede nelle leggi del mercato, sia alle politiche stataliste di intervento esteso dello stato sui mercati. Giddens delineava appunto una terza via lungo la quale i partiti potessero proporre riforme pragmatiche dall’area politica del centro.

Soluzioni pratiche ai bisogni della gente, come la riforma del welfare introdotta da Bill Clinton nel 1996, con l’obbiettivo di ridurre la povertà e la disoccupazione; o l’espansione del settore privato nel National Health System del Regno Unito, riforma promossa da Tony Blair a partire dal 1997; oppure il programma di riforme sociali, fiscali e del lavoro introdotte da Gerhard Schröder nel 2003 in Germania, a cui molti hanno accreditato almeno in parte la resilienza dell’economia tedesca dopo la Grande Recessione del 2007-2011.

Negli anni Novanta, sembrava che questi leader avessero trovato la ricetta magica per coniugare protezione sociale e crescita economica, diritti dei lavoratori e interessi imprenditoriali, libertà civili ed eguaglianza sociale. Poi nel 2007 è arrivata la recessione, durante la quale i redditi sono caduti e le diseguaglianze sociali sono aumentate. Nel 2017 in Italia, il reddito medio pro-capite rimaneva del 10%  inferiore a quello di dieci anni prima.[1] Negli Stati Uniti, la classe medio-bassa ha perso oltre il 40% di ricchezza nel periodo 2007-2010, mentre la classe medio-alta ha perso oltre il 20% di ricchezza nello stesso periodo, riuscendo entrambe a recuperare solo il 5% nei 6 anni successivi.[2] Poco sorprende se, oggi, pochi parlano ancora di una terza via socialdemocratica.

Cosa non ha funzionato a dovere? Tra il 1990 e il 2007, pochi hanno messo in luce gli aspetti negativi, soprattutto per alcune fasce sociali, della rapida globalizzazione di merci, servizi, capitali e persone. Così, mentre nel 2000 Bill Clinton  diceva: “La globalizzazione non è qualcosa che possiamo interrompere o da cui possiamo astenerci. È l’equivalente in economia di forze della natura come il vento o l’acqua”,[3] e pochi anni dopo, nel 2005, Tony Blair ribadiva: “Sento persone dire che dobbiamo fermare la globalizzazione e discuterne. Sarebbe come discutere se l’autunno deve seguire l’estate”,[4] la globalizzazione creava distorsioni nel mercato del lavoro di tanti paesi occidentali, aumentando diseguaglianze sociali e, almeno nel breve periodo, creando nuovi disoccupati.

Uno dei pochi “cantori del dubbio” era Dani Rodrik, economista di Harvard, che nel 1997 scriveva un libro premonitore, Has globalization gone too far?, in cui parlava apertamente delle problematiche insite in un mondo globalizzato che coesiste con dinamiche sociali, economiche e culturali necessariamente nazionali. La globalizzazione ha creato da almeno vent’anni una divisione tra fasce sociali con alti livelli di formazione e capacità tecniche, che ne traggono vantaggio, e fasce sociali senza la formazione e le capacità per trarne vantaggio. Una divisione tra vincenti e perdenti, dove i primi non si sono preoccupati del malessere generalizzato dei secondi, né tantomeno di mettere in atto quegli ammortizzatori necessari affinché il contratto sociale reggesse il peso di questo rapido cambiamento epocale. I vincitori non si sono resi conto che avrebbero risentito, ancor di più dei perdenti, dell’instabilità sociale causata dalla globalizzazione.

In un mondo sempre più globalizzato, ma allo stesso tempo basato geo-politicamente su stati-nazione che non vogliono abbandonare le proprie prerogative politiche interne, come si coniugano crescita economica e protezione sociale? Come si rinnova il contratto sociale interno e allo stesso tempo si promuove la pace tra le nazioni? Serve una nuova narrativa politica, che prenda il meglio della radicale offerta riformista, pragmatica e post-ideologica, che sia supportata da rigorosa evidenza empirica e sappia renderla rilevante ai valori e ai bisogni della gente. Serve una nuova visione del mondo semplice, chiara, puntuale e soprattutto una visione che colleghi efficacemente le riforme proposte con le sensazioni fisiche ed emotive della gente, spesso determinanti a formarne la percezione degli eventi ancor più dei fatti.[5] Questa narrativa deve articolare un nuovo modo di stare assieme, che metta al centro l’individuo immerso nelle proprie relazioni sociali locali, ma allo stesso tempo anche parte di un mondo sempre più interconnesso.

Negli ultimi dieci anni, le forze liberal-democratiche e progressiste delle democrazie occidentali sono state incapaci di offrire una narrativa politica che rispondesse in modo efficace e puntuale alle problematiche socioeconomiche sollevate dalla globalizzazione. E anche quando hanno offerto le migliori risposte riformiste ai mutamenti in corso, queste forze hanno peccato di mancanza di umiltà nel connettersi con un mondo che stava velocemente cambiando, e soprattutto nell’elaborare una visione del futuro che recepisse i bisogni e le emozioni della gente. Come si spiega, altrimenti, la mancata rielezione di un democratico alla Casa Bianca nel 2016? Risultato atteso, visto come Barack Obama aveva gestito il recupero dell’economia americana. Sull’orlo del collasso nel 2007, il governo di Obama ha offerto prestiti pubblici per oltre 830 miliardi di dollari a banche, imprese e società di assicurazioni, quando non era scontato che questi prestiti avrebbero aiutato l’economia a risollevarsi, salvando così interi settori industriali e gli annessi posti di lavoro.[6] Il suo successore alla Casa Bianca, Donald Trump, nel suo discorso di inaugurazione del gennaio 2017, ha promesso invece di mettere fine al “massacro degli americani” conseguenza della recessione. Una catastrofica lettura della situazione socioeconomica americana, diametralmente opposta a quella offerta da Obama alla fine del suo mandato, tutta incentrata sullo straordinario salvataggio dell’economia intrapreso con successo dal suo governo.

A partire dal 2000 e sempre di più dopo la grande recessione, sono stati i movimenti populisti che hanno invece saputo offrire una risposta forte e convincente ai problemi della gente, elaborando narrative politiche efficaci e facilmente comprensibili.[7] Nati negli Stati Uniti con la creazione del People’s Party nel 1891, inizialmente mobilitarono contadini e piccoli imprenditori contro le élite che dominavano le grandi aziende e la politica. Nel secolo scorso si diffusero in America Latina, nelle accezioni sia di sinistra che di destra, e in Europa, soprattutto nell’incarnazione fascista. Dal 2000 in poi, in Europa i movimenti populisti hanno promosso e ottenuto la Brexit nel Regno Unito, introdotto la cosiddetta democrazia illiberale in Ungheria, cooptato e accompagnato al governo la destra in Austria e Italia, governato stabilmente in Polonia. Negli Stati Uniti, Trump è al potere, contro ogni aspettativa, da quasi due anni. Fino ad oggi, le fondamenta liberal-democratiche di questi paesi hanno tenuto, incluso in Ungheria e Polonia, anche grazie all’Unione Europea e al forte sistema di checks and balances della democrazia americana. In futuro non sappiamo come e quanto queste fondamenta dureranno. Come si rinnoverà la fiducia nel liberalismo occidentale del XXI secolo?

Il minimo comune denominatore della narrativa politica messa in campo dai movimenti populisti si basa sull’ostilità verso l’immigrazione, su una palese avversione verso lo stato di diritto interno e il sistema globale di relazioni politiche e commerciali, sull’assistenzialismo verso cittadini e imprese, su una buona dose di autoritarismo, e su un utilizzo poco ortodosso del debito pubblico come strumento finanziario per realizzare le proprie proposte. Quasi sempre a ciò si unisce un nemico esterno che assume varie forme tra cui quella dell’Unione Europea, della Cina, delle élite liberal-democratiche, inclusi i tecnici, i professori, gli esperti e i media. Questa narrativa si basa su uno stato di continua tensione durante la quale i cittadini vengono mobilitati per difendersi da un nemico che li ha quasi sempre derubati di ciò che spettava loro “naturalmente”, allontanandoli da uno stato di natura perso da tempo al quale si aspira invece a ritornare. Uno stato di natura che quasi sempre include società e culture omogenee, poco dissenso, poco dibattito su proposte politiche alternative, un’economia tendenzialmente autarchica (“America First!”, “Prima gli Italiani!”) e l’uso della forza reale o figurata come strumento per prevalere politicamente. Questa narrativa si è rivelata efficace perché ha saputo dare una risposta specifica e diretta ai bisogni concreti della gente, ad ambo i lati dello spettro politico, ed è in particolare riuscita ad incoraggiarne la radicalizzazione.

Negli Stati Uniti, durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2016, Donald Trump ha proposto di costruire un muro con il Messico per arginare il flusso fuori controllo di immigrati, aumentare la sicurezza e dare quindi più lavoro agli americani. Una narrativa chiara, semplice, che risponde al sistema di valori di quella parte della società americana che chiede più sicurezza e più lavoro e teme che l’esistenza della propria cultura sia messa in pericolo dall’apertura degli Stati Uniti al Messico come al resto del mondo. Poco importa se questa narrativa non è supportata da una chiara evidenza empirica.[8] Allo stesso modo, in politica commerciale, Trump ha proposto di alzare le tariffe doganali per proteggere il lavoro e le imprese americane. Anche in questo caso, il messaggio è semplice, diretto, ben collegato ai valori statunitensi di equità e patriottismo. E anche in questo caso, la narrativa non è supportata dai dati.[9]

In Italia la coalizione Lega-M5S oggi al governo, con oltre il 57% del consenso degli italiani a inizio novembre 2018,[10] porta avanti una simile narrativa politica, precisa e costantemente ripetuta nei media. Tra i messaggi chiave, per esempio, la Lega si è focalizzata su “meno immigrazione, perché l’immigrazione porta insicurezza e toglie lavoro agli italiani”. Messaggio semplice e diretto, che dà una risposta concreta al bisogno di maggiore sicurezza e più lavoro. E anche in questo caso la narrativa non è supportata dall’evidenza empirica: oggi l’ingresso di immigrati regolari e irregolari in Italia è drasticamente diminuito rispetto al 2017, la loro presenza non è necessariamente collegata a un incremento della criminalità e gli immigrati non tolgono lavoro agli italiani.[11] Allo stesso modo, il M5S invoca “meno casta e lotta alla povertà”. Il messaggio “meno casta” risponde all’insofferenza popolare verso gli abusi di potere dei politici, ben documentati negli anni da ripetuti scandali. Eppure, la promozione di un approccio pauperistico alla politica è tanto efficace al ritorno d’immagine quanto poco effettivo nello sradicare la corruzione legata alla politica, se non bloccare tanti investimenti in infrastrutture e grandi opere. “Lotta alla povertà” invece risponde al bisogno dei cittadini meno abbienti di protezione sociale. Dalla recessione del 2007-11 in poi, varie fasce di italiani hanno visto il proprio reddito pro-capite stagnare o, al peggio, calare.[12] Ciononostante, la proposta del reddito di cittadinanza non aiuta la classe media, vero motore dello slancio produttivo di cui l’Italia ha bisogno, mentre offre solo un palliativo ai cittadini più poveri che oggi sono aiutati, almeno in parte, dal reddito di inclusione e da altre misure di contrasto alla povertà. Poco importa quindi se le risposte date alla domanda di “meno casta e lotta alla povertà” siano controproducenti o inadeguate.

Quale narrativa è stata proposta sull’altro versante dello spettro politico? Come hanno risposto i democratici americani ed italiani alla visione del mondo proposta dai movimenti populisti su ambo i lati dell’Atlantico? Come hanno saputo leggere gli scompensi socioeconomici provocati dalla globalizzazione e utilizzato le numerose ricette di riformismo radicale a loro disposizione per raccontare un nuovo mondo possibile? Tentennando, nel migliore dei casi, e opponendosi alle narrative populiste, nel peggiore. Fornendo numeri, dati, statistiche, elenchi di cose fatte e da fare, articolando in maniera poco efficace le proprie proposte di soluzione ai bisogni della gente se non addirittura ignorando o negando questi bisogni, come spesso è avvenuto. Al messaggio trumpiano “Costruiamo un muro con il Messico”, che veniva incontro in modo primordiale alle insicurezze e paure della gente rispetto all’immigrazione, Hillary Clinton, nella sua campagna presidenziale del 2016, ha risposto criticando quelle stesse persone proprio per quelle insicurezze, fino a definirle “un cumulo di miserabili”.[13] In Italia, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del marzo 2018, il Partito Democratico ha proposto un programma articolato in 100 punti. Ma che cosa rimaneva alla gente di una proposta politica articolata in 100 punti? Quale visione del mondo sottintendevano questi 100 punti? Quanto facevano sognare e sperare in un mondo migliore?

La visione del mondo proposta dall’area liberal-democratica e progressista è stata carente di spessore narrativo, fatto di storie, aneddoti, metafore, messaggi chiari, semplici e ripetuti, che offrissero alla gente una lettura delle proprie insicurezze economiche reali o percepite, e delle conseguenti riforme necessarie. Decenni di studi e ricerche offrono una lunga lista di soluzioni tecniche, supportate da evidenza empirica, per favorire lo sviluppo economico, combattere la povertà, lottare contro le diseguaglianze, e sostenere le pari opportunità. Ciò nonostante, questo mix di risposte ai bisogni di determinati gruppi sociali, affiorati in particolare durante il rapidizzarsi della globalizzazione, acquista valore solo quando viene costantemente adattato al contesto storico e geografico, e proposto attraverso una narrativa politica che lo metta in relazione ai bisogni, le aspirazioni e le emozioni della gente.

I democratici americani e quelli italiani hanno lasciato l’iniziativa di una nuova narrativa politica, necessaria in un mondo globalizzato, agli avversari, limitandosi a negarne la solidità empirica e implicitamente avvalorandone il costrutto logico-deduttivo. La neurolinguistica ci spiega che opporsi al messaggio dell’avversario politico ne valida la costruzione logica iniziale e, come conseguenza, finisce per rafforzarlo.[14] Per esempio, nel 2015 il M5S ha creato una narrativa politica negativa sul presunto conflitto di interessi del ministro per i Rapporti con il Parlamento Boschi nell’ambito della pubblicazione del “Decreto Salva Banche”.[15] L’obbiettivo era di creare una narrativa secondo la quale il Governo Renzi era amico di banchieri, ne supportava gli interessi e ne nascondeva le malefatte, con la complicità di un proprio Ministro. Sia Renzi che Boschi hanno risposto a questi attacchi negandoli, senza preoccuparsi di smontare nella sostanza quella narrativa per proporne un’altra. Allo stesso modo, i repubblicani americani erano riusciti a infangare il nome di John Kerry, candidato nel 2004 alla presidenza degli Stati Uniti, attraverso l’appoggio indiretto a un gruppo di veterani della guerra del Vietnam, Swift Boat Veterans for Truth, che aveva trasformato efficacemente la percezione di cui godeva Kerry come veterano decorato in quella di un quasi disertore senza coraggio. Donald Trump conosce istintivamente queste dinamiche narrative, dichiarando spesso che “any news is good news”.

Le forze liberal-democratiche e progressiste devono elaborare una nuova narrativa politica che metta esplicitamente in relazione soluzioni tecniche, riforme, politiche pubbliche radicali, efficaci e pragmatiche, basate su evidenza empirica, con i bisogni e le emozioni di persone che vivono in un mondo globalizzato. Mentre Tony Blair e Bill Clinton hanno saputo raccontare un’entusiasmante visione del mondo ai vincitori della globalizzazione, una nuova narrativa politica, che chiameremo Quarta Via, deve narrare una visione del mondo altrettanto entusiasmante dove ci sia spazio sia per i vincitori che per i vinti, alternativa a quella dei populisti ma altrettanto agguerrita, e che utilizzi un proprio linguaggio.

La Quarta Via si collega ai valori universali di compassione, fratellanza, libertà, e uguaglianza, come sono stati declinati tradizionalmente dall’area liberal-democratica e progressista a partire dalla Rivoluzione francese. La Quarta Via si fonda su una esplicita ispirazione morale liberale, sul conseguente stato di diritto (rule of law) e bisogno di sicurezza (public order) e per definizione prende posizione sul tipo di soluzioni tecniche che affrontano e risolvono le necessità della gente. Allo stesso tempo, si interroga costantemente sull’evoluzione del concetto di giusto e sbagliato, sull’adeguatezza del contratto sociale esistente e pragmaticamente offre soluzioni tecniche che migliorano la vita dei cittadini. Elemento chiave di questa narrativa è la riduzione di problemi complessi in termini semplici, spesso attraverso una storia o l’uso di metafore che uniscono i fatti e li intrecciano trascendendo le riforme tecniche offerte in partenza, offrendo ai cittadini un contesto dove possano elaborare autonomamente un significato per le proprie azioni e uno scopo per la loro vita.[16] Questo significato aiuta la gente a formare il proprio senso d’identità e appartenenza, e di conseguenza ad interpretare la vita di tutti i giorni.[17]

Per avere successo, la Quarta Via deve vincere i cuori e le menti della gente offrendo speranza in un mondo migliore di quello odierno. Un sentimento di speranza che, quando efficacemente articolato, ha buone probabilità di prevalere sui sentimenti di paura e rabbia sui quali si basa la narrativa politica populista. La Quarta Via non è una nuova forma di comunicazione, in quanto si preoccupa di creare una storia potente ed efficace che cattura l’immaginario collettivo della gente, e non si limita alla ricerca di un modo di comunicare questa storia visivamente e testualmente per attrarre quante più persone possibile. La narrativa, o story-making, interpreta la realtà attuale, offrendo uno o più contesti di interpretazione e propone una visione futura del mondo. La comunicazione, o story-telling, racconta questa realtà attraverso un video o un post, un documentario o un editoriale, un discorso o una chat.

La notte del 4 novembre 2008 le strade di Washington, DC, erano completamente inondate di gente che celebrava l’improbabile vittoria di Barack Hussein Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Quando ancora i movimenti populisti stavano crescendo nei consensi ma, almeno nei paesi occidentali, non avevano ancora raggiunto le leve del potere, Obama vinceva le elezioni con una narrativa politica che entusiasmava il popolo americano come non succedeva dai tempi della vittoria elettorale di John F. Kennedy del 1960. Obama si proponeva come l’incarnazione di una società americana post-razziale e post-ideologica, dove le divisioni dettate dal colore della pelle e dalle ideologie di destra o di sinistra non offrivano più le adeguate chiavi di lettura del presente. La sua narrativa politica includeva la riforma del sistema sanitario e quella del sistema finanziario, collegandola ai valori di solidarietà, equità, uguaglianza e libertà, e articolava in modo costante e ripetitivo questi valori adducendo la propria storia personale ad esempio tanto improbabile quanto straordinario: il cambiamento, nell’America del 2008, era possibile, e un uomo nero che fino a meno di centocinquant’anni prima avrebbe potuto essere legalmente schiavizzato, adesso poteva diventare presidente di quello stesso paese. Un mondo migliore era possibile.

Nel 2012, un politico canadese inesperto ma in ascesa, Justin Trudeau, reinterpretava le necessità del popolo canadese elaborando una narrativa politica che offriva soluzioni tecniche imperniate sui valori di tolleranza e apertura. Figlio a sua volta di un Primo Ministro, quel Pierre Trudeau che negli anni Sessanta aveva lottato per tenere il Canada unito quando le forze politiche secessioniste del suo Québec ne minacciavano la disintegrazione, Justin Trudeau va alla ricerca dei valori fondamentali che tengono unito il Canada. Nel suo manifesto politico Common Ground elabora le fondamenta della sua narrativa politica progressista, poi lanciata durante la campagna elettorale vinta nel 2015. Questa narrativa collega quei valori di tolleranza e apertura, a suo dire intrinsecamente canadesi, con politiche pubbliche progressiste tra le quali l’apertura del Canada ai rifugiati e agli immigrati, ingenti aiuti economici a famiglie e studenti, il matrimonio gay, e la liberalizzazione della marijuana.[18] Trudeau elabora una narrativa politica basata sul senso di un destino comune di cui i canadesi contemporanei hanno bisogno data la loro natura di popolo per la stragrande maggioranza composto da immigrati.

Emmanuel Macron rilancia l’idea, nell’agosto 2016, dell’Europa come unico contesto immaginabile entro il quale la Francia possa risolvere i propri problemi e soddisfare i propri bisogni. Non solo vince le elezioni presidenziali dell’anno successivo con oltre il 66% dei voti, a 39 anni e senza il supporto di un partito tradizionale, ma guadagna anche la maggioranza assoluta dei seggi nelle successive elezioni parlamentari con il movimento politico da lui fondato solo un anno prima, la Republique en Marche. Questo successo si basa su una narrativa politica visionaria, imperniata su una Francia che ha tutto da guadagnare dall’apertura al mondo esterno, dove l’Europa è vista come pilastro insostituibile per il progetto francese di un mondo più giusto, sicuro e pacifico. Le politiche pubbliche concrete che propone si ricollegano a questa visione del mondo e vengono pragmaticamente rilette e inquadrate in questo contesto, senza paure dettate dalle gabbie ideologiche che soffocano i partiti tradizionali. Macron risponde alle domande di appartenenza (da dove veniamo?) e destino (dove andiamo?) che i francesi, come tutti i popoli della terra, condividono, e si prende il rischio di interpretarle con successo in chiave europea, in un contesto politico dove la destra populista del Front National aveva invece proposto una visione identitaria e di chiusura.

In un recente saggio sul liberalismo, l’Economist afferma che “il contratto sociale e le norme geopolitiche alla base delle democrazie liberali, e l’ordine mondiale che le tiene in piedi, non sono state pensate per questo secolo”.[19] La Quarta Via allo sviluppo umano, sociale ed economico offre una visione del mondo contemporaneo che include soluzioni tecniche dettagliate che variano da paese a paese, ma che presentano alcuni tratti comuni. Primo, le riforme proposte si basano su evidenza empirica e, qualora questa non esista, includono una misurazione della propria efficacia mentre le riforme sono in corso d’opera. Secondo, queste riforme si preoccupano in primis di dare una risposta agli effetti negativi della globalizzazione di merci, servizi, capitali e persone, con particolare attenzione ai gruppi sociali più disagiati. Terzo, le riforme si collegano efficacemente ai bisogni e alle emozioni della gente. Questa nuova narrativa politica elabora una visione ispirata a valori liberal-democratici e progressisti, riaffermando la speranza di un mondo dove i figli potranno nuovamente vivere in un mondo migliore di quello in cui vivevano i loro genitori.

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[1] UNU-WIDER, “World Income Inequality Database (WIID3.4)”, Gennaio 2017.
[2] Dettling, Lisa J., Joanne W. Hsu, and Elizabeth Llanes, “A Wealthless Recovery? Asset Ownership and the Uneven Recovery from the Great Recession ”, FEDS Notes. Washington: Board of Governors of the Federal Reserve System, Settembre 2018.
[3] http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=1038
[4] https://www.theguardian.com/uk/2005/sep/27/labourconference.speeches
[5] William Davies, “How feelings took over the world”, The Guardian, Settembre 2018.
[6] “Estimated Impact of the American Recovery and Reinvestment Act on Employment and Economic Output from October 2011 Through December 2011”, Congressional Budget Office, Febbraio 2012.
[7] Dani Rodrik, “Populism and the economics of globalization,” Journal of International Business Policy, 2018, p. 13.
[8] “Statistical Portrait of the Foreign-born Population in the Unites States, 1960-2016”, Pew Research Center.
[9] Joseph Francois and Laura M. Baughman, “Does Import Protection Save Jobs? The Estimated Impacts of Proposed Tariffs on Imports of U.S. Steel and Aluminum”, Policy Brief, Trade Partnership, Marzo 2018.
[10] Demos&Pi e Demetra, “Atlante Politico”, commissionato da La Repubblica, 2 Novembre 2018. Campione: 1.001, livello di rappresentatività: 95%, margine di errore: +/- 3.1%.
[11] XXVII Rapporto Immigrazione, Caritas e Migrantes (RICM) 2017-2018, “Un Nuovo Linguaggio per le Migrazioni”, Settembre 2018. Cfr. anche Paolo Segatti e Federico Vegetti, “Rapporto sull’accoglienza degli italiani. Fattore sfiducia”, Il Regno – attualità̀, Nr. 18/2018, pag. 557-571.
[12] Massimo Baldini, “Perché aumenta la disuguaglianza in Italia”, Lavoce.info, 27 Aprile 2018.
[13] https://www.youtube.com/watch?v=PCHJVE9trSM
[14] George Lakoff, “Don’t Think of an Elephant!: Know Your Values and Frame the Debate”, Chelsea Green Publishing, Settembre 2004.
[15] Decreto Legge 183/2015 recante Disposizioni urgenti per il settore creditizio, approvato il 22 Novembre 2015 dal Consiglio dei Ministri del Governo Italiano.
[16] Jeong-Hee Kim, “Understanding Narrative Inquiry”, SAGE Publications, Marzo 2015, p. 190.
[17] Kalypso Nicolaïdis, “Brexit as myth: Exodus, Reckoning, or Sacrifice?”, Standpoint, Luglio/Agosto 2017.
[18] Justin Trudeau, “Common Ground”, HarperCollins, Agosto 2015.
[19] “Reinventing liberalism for the 21st century”, The Economist, Settembre 2018.



Dov’è sparita la scuola?

Sono tempi di sparizioni. Sono spariti da un po’ i pomodori col gusto di pomodoro, come aveva scritto Pietro Citati (anche le mele col gusto di mela, per quel che ne penso io). Sono sparite le videocassette, le sarte, il teatro radiofonico, i capelli cotonati, la lacca. Spariscono sempre più i generi letterari, le spiagge (mangiate dal mare), i ghiacciai (mangiati dal caldo). Spariranno forse a breve anche i libri con tutti gli annessi: scrittori, editori, librerie e biblioteche.

E la scuola, è sparita?

No di certo: essendo settembre, è ricominciata.

Sembrerebbe sparita, però. Non se ne parla più. Non se n’è mai parlato così poco, direi. Silenzio assordante. Da mesi e mesi, nel perenne stato di propaganda politica pre e post elettorale in cui viviamo, nessun candidato o leader dei vari movimenti o partiti ha mai fatto nemmeno un accenno, fuggevole, magari per errore, al tema scuola. A parte l’ex ministro Calenda, che ha più volte nominato in pubblico, mostrando grande coraggio, le parole istruzione, libri, lettura e, qua e là, persino la parola cultura. Eroico. Ha tutta la mia ammirazione. È l’unico, mi pare. Per il resto, tema completamente sparito. Non era nelle priorità per il paese, non era nell’agenda dei politici.

E, visto che i politici oggi fanno politica seguendo i like dei loro follower, dovremmo a malincuore dedurne che il tema scuola non interessa agli italiani, cioè a nessuno di noi. Può darsi. O a ben pochi, una componente elettorale tanto irrisoria che si può benissimo ignorare. Sì, è possibile che la maggioranza mandi i figli a scuola per una sorta di inerzia sociale e la consideri di fatto un’incombenza (nel senso che incombe) inutile e uggiosa nella vita dei figli, qualcosa di cui non vale più la pena nemmeno di parlare. Altri i temi scottanti del dibattito, televisivo e non, tutti economici, o al più moraleggianti: le tasse, le pensioni, la disoccupazione, lo spread; gli immigrati, gli sbarchi, l’accoglienza, le ONG.

Ma è settembre, e la scuola, come sempre, è ricominciata. Che dire?

Non sono più un’insegnante in servizio, e guardo ormai la scuola da una lontananza siderale. Per esempio, conosco poco le ultime novità, solo per sentito dire, non avendole esperite: il registro elettronico, l’alternanza scuola-lavoro, i cambiamenti dell’esame di maturità. Ma il tema mi sta sempre molto a cuore. Parlarne può essere di una sconcertante inutilità, lo so. Soltanto parole. Ma il non parlarne è il segno di una battaglia persa per sempre. Le parole non sono irrilevanti, se usate non a vuoto. Le parole sono idee. E senza idee si muore. Dunque, che il mio Paese non abbia più parole, e idee, sulla scuola mi fa un’enorme tristezza. Difficile fondare o rifondare qualcosa se non si parte dall’istruzione, dai libri, dallo studio, dall’esercizio del pensiero. Difficile far andare avanti il mondo se non si pensa a coltivare le menti degli esseri umani fin dalla loro tenera età. Età scolastica, appunto.

Ci sarebbe molto da dire, soprattutto se la scuola così com’è oggi non ci piacesse, se fossimo animati da qualche dubbio sull’ondata tecnologica, per esempio, o sulla dittatura dei test a crocette, e se volessimo che la scuola tornasse a essere un ascensore sociale, che muove i giovani dai piani bassi dove per nascita la sorte li ha collocati, ai piani alti dove un più alto livello di studi potrebbe farli arrivare. Sì, ci sarebbe molto da dire e molto lavoro da fare. Forse si potrebbe pensare, una buona volta, di cambiare drasticamente rotta…

Ma adesso, quest’anno per la prima volta, mi coglie una preoccupazione nuova. Ho letto sui giornali che alcuni insegnanti vogliono fare politica a scuola: insegnare l’antirazzismo, per esempio. L’antifascismo, l’antibullismo… La solidarietà, la convivenza civile, la democrazia…

Grandi valori, non c’è dubbio. Lodevoli propositi. Ma… Avrei qualche non piccola obiezione. Per dire, non credo che l’antirazzismo si possa “insegnare”, ecco. L’amore, la generosità, il rispetto, l’altruismo non s’insegnano. Non funziona in modo così scoperto, letterale, diretto. Non riesco a immaginare corsi per far innamorare qualcuno, o per convincerlo a convivere amorevolmente con una persona di altro colore e di altra cultura. Cioè, non è dicendo che non bisogna essere razzisti, e dicendolo con apposite conferenze di esperti, convegni psico-sociologici o prediche più o meno laiche, che otterremo che la gente non sia razzista. Credo anzi che la lezione morale, inevitabilmente retorica e pedante, possa addirittura in certi casi suscitare l’effetto contrario. Pinocchio, ricordiamolo, prende a martellate il Grillo Parlante.

Capisco la solitudine degli insegnanti, sempre più abbandonati a se stessi, ricattati dalla maleducazione di genitori e allievi, impigliati nella rete frustrante della burocrazia e nella rete tout court, dilacerati tra programmi vetusti e meravigliosi nuovi metodi, nonché ripetutamente gettati nei pentoloni bollenti dei corsi di aggiornamento. Capisco ancor di più che oggi gli insegnanti, di fronte alla decadenza culturale, morale e politica dell’intero nostro Paese, si sentano animati da nobili propositi educativi e vogliano in qualche modo dirigere al meglio gli animi. Migliorare l’umanità, cambiare il mondo, eccetera…

Ma far politica nelle scuole siamo sicuri che sia la via giusta?

Ho fatto il liceo negli anni ’70, e li ho visti da vicino gli insegnanti cosiddetti “politicizzati”. Arrivavano in classe come sul piede di guerra, e accantonando libri e registri cominciavano, infervorati, le loro concioni quasi fossero in piazza con le bandiere. Ne ho avuti alcuni che per tutto il triennio del liceo classico non hanno quasi mai (direi mai, affidandomi ai miei ricordi, ma non vorrei esagerare) fatto lezione. Voglio dire che per tre anni non hanno insegnato la loro materia!

Credo che ritenessero d’aver ben altri compiti, che quello di spiegarci le guerre puniche, le teorie kantiane o le formule di prostaferesi. Troppo banale, semplice, irrilevante.  Avevano materie più scottanti di cui parlarci: la Cina di Mao, i Khmer rossi in Cambogia, gli scioperi, i picchetti, le assemblee, la lotta operaia, gli scontri con i picchiatori fascisti. Probabilmente ritenevano, in buona fede e in ottemperanza alle loro più profonde convinzioni, che fosse molto più importante discutere di attualità e agitare le coscienze, che non insegnare nozioni ai loro occhi vetuste, astratte e atemporali, di matematica, filosofia o storia dell’arte. Hanno preferito fare politica, piuttosto che fare scuola. Usando inevitabilmente parole faziose, non neutre, non imparziali, per influenzare, per plasmare. Per indottrinare!

Non li ho mai perdonati. Perché non è vero che poi, negli anni, uno se le studia comunque, se vuole, le materie che non ha fatto a scuola. Non è vero. Quelle materie per me sono state perse per sempre, un buco irreparabile, una ignoranza che mi ha accompagnato tutta vita, sicuramente impoverendola.

Forse gli insegnanti dovrebbero limitarsi a far lezione. Ma dovrebbero farlo pensando che non sia una limitazione, anzi, dovrebbero pensare che il loro più vero impegno “politico” sia proprio questo: non privare i giovani della cultura, dar loro il massimo delle conoscenze, e al livello più alto possibile, perché questo li renderà “umani”.

Le parole di Inge Feltrinelli mi giungono da un’intervista televisiva, in questi giorni tristi dedicati al suo ricordo: “I libri non sono per imparare, per studiare. Sono per la vita”. Non saprei dirlo meglio. La vita di una persona, in tutta la sua pienezza e complessità, nutrita dai libri, dal sapere che diventa possesso personale, unico. Allora sì, in questo senso, la cultura rende davvero umano un essere umano. La cultura scolastica prima di tutto, che è quella che si acquisisce lentamente, negli anni dell’infanzia e giovinezza. Studiando, sì, le “materie”. Storia, geografia, fisica, arte, matematica, letteratura, chimica, filosofia. Dante, Keplero, Mozart, Van Gogh, Freud, Einstein… È leggendo i libri, è attraverso le opere dei grandi, scrittori, scienziati, artisti, che da studenti impariamo i valori più nobili. Ed è facendo lezione che, da insegnanti, incidiamo nella mente dei ragazzi, insegniamo loro – ma in modo indiretto! – a essere rispettosi, generosi, altruisti, misericordiosi… E non razzisti! Senza bisogno di parole dirette, faziose, predicanti. Parole troppo “piccole”, anguste, limitate: ancorate soltanto alla contingenza del presente.

La cultura apre a orizzonti temporali ben più vasti. È spazio senza confini. È parola non faziosa e non attuale. È libertà assoluta di pensiero.

 … e la poesia?

E la poesia, esiste ancora?

Sì, esiste. Non è vero che è morta. Si pubblicano ancora libri, ci sono collane, editori, autori. E ci sono premi, convegni, persino festival di poesia.

Dunque la poesia esiste.

Sì. Ma mi viene da pensare ai fuochi che si facevano in campagna per bruciare i legni, gli sterpi, i vari rimasugli di una vita contadina, che così come produceva, sapeva anche distruggere il superfluo, il pattume. Ora non c’è più la vita contadina, e comunque i fuochi in campagna sono proibiti. Ciò nonostante ogni tanto qualcuno che abita in campagna, o un po’ ai lati delle periferie, non sapendo cosa farne delle foglie secche, dei rami potati, accende un grosso fuoco. Magari verso sera, o all’alba di certi giorni particolarmente nebbiosi, perché siano poco visibili, perché nessuno se ne accorga.

Così è per la poesia. Non ci sono più le condizioni per cui si possa produrre poesia; non ci sono più lettori, per esempio. E forse non ci sono nemmeno più poeti; poeti grandi, dico, riconosciuti come tali. Ma qualcuno resiste, ai margini; qualche poeta sparuto, grande o piccolo lo sapremo poi o non lo sapremo mai, che se ne vive appartato e che quasi di nascosto scrive i suoi versi che chissà mai chi leggerà. Una o due poesie, o anche un librino vero, se ha fortuna di pubblicarlo, se trova un editore: allora fa un giretto sul palco di qualche festival e magari vince anche qualche piccolo premio.

Ne parlo con una mia grande amica, con cui ho condiviso studi e passioni letterarie per tutta la vita. Prendiamo un caffè, qualche giorno fa, e le chiedo che ne è della poesia, secondo lei, cosa fanno oggi i poeti.

Ci pensa un po’. Mi guarda con i suoi occhi piccoli e scuri, un po’ triangolari, poi risponde:

– Vanno a capo.

Folgorante. Già. La poesia è andare a capo a ogni verso. Ma se diventa soltanto andare a capo?

Non diciamo più niente. Lei mi sorride, io le sorrido. E ci finiamo il caffè.

Pubblicato su Il Sole24Ore del 1 ottobre 2018