Professor Ricolfi, nella nostra ultima intervista del 21 giugno scorso lei ha mostrato come in una quindicina di province l’epidemia non poteva considerarsi sconfitta, anzi. Ora, a distanza di venti giorni, gli ultimi dati pubblicati sul sito della Fondazione Hume confermano che purtroppo il trend dei nuovi contagi in diverse province è in aumento. A che punto è la notte?
Direi che siamo nel momento più buio della notte, non nel senso che le cose vadano malissimo, ma nel senso che massima è l’incertezza interpretativa sui pochissimi dati che “Lor Signori” (mi permetto di evocare l’indimenticabile Fortebraccio) hanno la benevolenza di comunicare a noi umili sudditi di questa sfortunata Repubblica. Quello che è certo è che nella prima metà di giugno, ossia in coincidenza della liberalizzazione degli spostamenti fra comuni, è successo qualcosa di grave e di nuovo. Fino ad allora, di settimana in settimana, il numero di province critiche diminuiva, da allora ha smesso di diminuire e, nelle ultime due settimane, ha cominciato a salire in modo sistematico e preoccupante. Nella scorsa intervista i calcoli della Fondazione Hume segnalavano 15-20 province critiche, ora ne segnalano quasi il doppio. E in queste province non vi sono solo le “solite” province della Lombardia e del resto del Nord ma anche molte province del Centro Italia (fra cui Firenze e Roma) e del Mezzogiorno, ad esempio Avellino, Sassari, Chieti, Pescara, Salerno.
Mi sembra più che chiaro, perché allora parla di incertezza interpretativa?
Perché noi vorremmo sapere come le cose stanno andando in questo momento, mentre i dati dei nuovi contagi ci possono dire soltanto che, per la piccola porzione di realtà che le autorità sanitarie sono in grado di monitorare, le cose stavano nettamente peggiorando una decina di giorni fa, ovvero il tempo che occorre ad un evento di contagio per essere rilevato da un tampone. Oggi le cose potrebbero essere migliorate, ma potrebbero anche essere nettamente peggiorate.
Lei che cosa pensa?
Io penso che, verosimilmente, siano ancora un po’ peggiorate.
E’ il suo consueto pessimismo?
No, purtroppo: è l’andamento del numero di persone sottoposte a tampone che mi rende poco incline all’ottimismo. Nonostante le autorità nazionali abbiano finalmente compreso che è stato un grave errore fare pochi tamponi, e che occorrerebbe farne molti di più, la maggior parte delle Regioni sta riducendo il numero di tamponi. Se ne facessero di più, anziché di meno, i dati del numero di contagiati sarebbero ancora più inquietanti. E io non mi ritroverei ad essere fra i pochi che, da tre settimane, segnalano il pericolo.
La Fondazione Hume utilizza anche un altro strumento, un termometro giornaliero, che “misura” la temperatura dell’epidemia. Cosa ci dicono le ultime misurazioni? Confermano un incremento della pericolosità del virus?
Il termometro della Fondazione Hume si basa su tre indicatori: il numero di decessi, il numero di nuovi contagiati (corretto per il numero di tamponi) e una stima degli ingressi in ospedale. Queste tre informazioni vengono sintetizzate in una temperatura assoluta, in gradi pseudo-Kelvin, variabile fra 0 e 100, dove 0 significa che non ci sono nuovi contagi, mentre 100 significa che ce ne sono tanti quanti nella settimana di picco (ossia nei giorni a cavallo fra marzo e aprile). Negli ultimi 3 mesi la temperatura dell’epidemia è sempre diminuita, fino a portarsi al di sotto di 2 gradi pseudo-Kelvin (il 28 giugno toccava il minimo di 1.8), ma da una quindicina di giorni oscilla intorno a 2 e manifesta una leggera tendenza all’aumento. Poiché il termometro può solo rilevare quel che succedeva 2-3 settimane fa, anche questo strumento ci dice che nella prima metà di giugno il vento è cambiato, ma non sappiamo esattamente a che punto siamo oggi.
Siamo sopra o sotto la soglia di sicurezza?
Dipende da cosa consideriamo soglia di sicurezza. Io ritengo che, sfortunatamente, siamo ancora ampiamente sopra, e spiego perché. Per me la soglia di sicurezza è 6000 persone in grado di contagiare il prossimo, il che – in un paese di 60 milioni di abitanti – significa avere un contagiato ogni 10000 abitanti. La considero una soglia di sicurezza per vari motivi, ad esempio perché, nel breve periodo, anche i più “relazionati” fra noi difficilmente hanno contatti con più di 1000 persone, e comunque solo una parte di tali contatti è abbastanza stretta da comportare un serio rischio di contagio.
Ma la mia stima, basata sul termometro della Hume, è che attualmente il numero di contagiati ancora contagiosi sia dell’ordine di 60 mila persone, ovvero 10 volte al di sopra della mia personale soglia di sicurezza. Per farci stare abbastanza tranquilli il termometro dovrebbe segnare 2 decimi di grado o meno.
Ma come si passa da 2 gradi pseudo-Kelvin a una stima di 60 mila persone contagiose?
Non è un calcolo semplicissimo, diciamo che un grado pseudo-Kelvin corrisponde a circa 2000 nuovi contagiati al giorno, e che considerando che la contagiosità dura una quindicina di giorni, 2 gradi pseudo-Kelvin segnalano un numero di persone potenzialmente in grado di infettare altri non lontano da 60 mila (2000 x 2 x 15 = 60 mila).
Però le cifre ufficiali sono molto più basse…
Certo, le cifre ufficiali indicano che negli ultimi 15 giorni i nuovi contagi sono stati circa 3000 (non 60 mila), ma è noto che il numero di contagiati effettivo è un multiplo di quello ufficiale. Non arrivo a pensare, come Ilaria Capua, che il multiplo sia 100, mi limito a dire che potrebbe essere circa 20.
Lei si è lamentato per la poca trasparenza e profondità dei dati messi a disposizione dalle autorità pubbliche. La situazione è migliorata negli ultimi giorni o, se possibile, peggiorata?
Sì, è peggiorata. Oltre ai continui ricalcoli dei decessi e dei contagiati, ultimamente si è aggiunto un improvviso cambiamento nei criteri di assegnazione dei casi alle province. Fino al 23 giugno l’assegnazione era in base alla provincia di ospedalizzazione, dal 24 è in base a quella di residenza. Può immaginare a quali salti mortali tecnico-statistici siamo stati costretti per ricostruire le serie storiche provinciali. Aggiungo che permane il segreto sui dati comunali (che sarebbero essenziali per individuare tempestivamente i nuovi focolai) e che nessuno ha spiegato che cosa è effettivamente successo il 24 maggio in Lombardia (il dato di zero decessi è sicuramente falso, se non altro per la smentita della Ats di Brescia, ma nessuno si è ancora degnato di comunicare il dato vero).
Che tutto non stia andando per il verso giusto è dimostrato da un doppio fallimento: l’indagine sierologica e l’app Immuni sono state finora un flop. Come se lo spiega?
Sinceramente ho solo spiegazioni inquietanti, anche se per motivi diversi. Nel caso della app Immuni tendo a pensare (ma spero di sbagliarmi) che sia stata concepita solo per far credere che il governo stesse facendo qualcosa. Non mi spiego altrimenti perché non siano state utilizzate tecnologie già collaudate da molti paesi, e soprattutto perché non si siano formate ed assunte molte migliaia di persone per il tracciamento dei contatti, come se la app da sola fosse in grado di ricostruire a ritroso il percorso del contagio.
Nel caso della indagine sierologica, pianificata dall’Istat, sono semplicemente sbalordito. A giudicare da quel che riportano i quotidiani, sembra che l’indagine stia facendo flop perché molti dei soggetti inclusi nel campione Istat rifiutano il test. In base alla mia esperienza con i sondaggi mi chiedo: ma non lo sapeva l’Istat che per fare 1 intervista ci vuole una lista di riserva di almeno 5 nominativi, e spesso di 10? E non ha pensato che se così tanti rifiutano una tranquilla chiacchierata telefonica, sarebbero potuti essere ancora più frequenti i rifiuti verso un’indagine così invasiva, che avrebbe comportato un appuntamento per un prelievo del sangue?
Insomma, qui qualcosa mi sfugge. Leggo che il fallimento sarebbe colpa degli italiani, ma come sociologo e statistico sono invece stupefatto che il tasso di adesione (se è vero quello che riportano i mezzi di informazione) sia stato molto superiore a quello di un normale sondaggio politico o di una survey. D’altronde mi risulta difficile pensare che un ente come l’Istat, sicuramente iper-burocratico ma anche dotato di un’enorme esperienza, sia stato così ingenuo da non pensare a una lista di riserva adeguata, e abbia scelto la strategia notoriamente meno efficace: tempestare di decine di telefonate chi non ha voglia di partecipare all’indagine.
E i tamponi?
Anche qui alzo bandiera bianca, perché non capisco. Il governo avrebbe tutto l’interesse a farne a tappeto, per portare i contagi vicino a zero prima dell’autunno, ma non fa nulla, lasciando che le Regioni ne facciano pochi, pur di evitare di scoprire troppi nuovi casi. Eppure basterebbe dire chiaramente: care Regioni, non sarete giudicate (negativamente) sul numero di infetti che scoprirete, ma sarete giudicate (positivamente) sul numero di tamponi che farete per scoprirne il più possibile.
Ma forse la realtà è più semplice: in questa fase nessun governante, nazionale o locale, può permettersi di dire la verità sul contagio, perché ogni segnale di allarme danneggia l’economia.
Uno dei problemi che il governo sta faticando ad affrontare efficacemente è il cosiddetto Covid d’importazione. L’esecutivo finora si sta limitando a sospendere per alcuni giorni i voli diretti dai paesi più a rischio, come il caso del Bangladesh. Però la misura non sembra risolvere il problema: viene aggirata tranquillamente con la triangolazione dei voli, come la cronaca ci ha mostrato mercoledì, quando a Fiumicino sono arrivati 120 bengalesi tramite scalo a Doha. Quanto rischiamo per il virus che torna dall’estero?
Secondo me, e secondo una parte dei virologi, rischiamo molto. Ma qui, a mio parere, la responsabilità maggiore non ce l’ha il nostro governo (per una volta solidarizzo con Conte) ma ce l’hanno gli organismi internazionali, in primis l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Unione Europea. Nessun paese può chiudere o limitare drasticamente i collegamenti internazionali se non lo fanno anche la maggior parte degli altri paesi. Posso sbagliare, naturalmente, ma per me è semplicemente incredibile che chi ci governa non abbia ancora voluto accettare una cosa di puro buonsenso: il turismo internazionale è incompatibile con una pandemia.
Posso anche capire che, in un mondo altamente interconnesso, i movimenti internazionali legati al lavoro non siano limitabili, o lo siano solo in misura molto contenuta, ma i flussi turistici? Si parla e straparla continuamente di nuovo tipo di sviluppo, di green deal, di cambiamenti nello stile di vita, e non siamo in grado di accettare una limitazione temporanea di uno dei fattori fondamentali di diffusione e amplificazione dell’epidemia?
Possibile che non capiamo che questa è una pandemia, e il turismo internazionale è un cerino buttato in una polveriera?
Quanto rischiamo poi una seconda ondata in autunno?
Se non lo sanno i virologi, meno che mai può saperlo un sociologo. Quel che posso dire è che, a mio modestissimo avviso, la vera domanda è: quanto il forte rallentamento dell’epidemia osservato nel trimestre aprile-maggio è stato dovuto anche all’evoluzione del clima e alle sue conseguenze, prime fra tutte diminuzione dell’umidità, aumento del soleggiamento, frazione di tempo trascorsa all’aperto?
Se, come alcuni ritengono (vedi ad esempio l’articolo dell’ing. Mastropietro pubblicato sul sito della Fondazione Hume), questi fattori hanno avuto e continuano ad avere un ruolo cruciale, non si può escludere che con l’arrivo della stagione fredda l’osservanza delle regole comportamentali non basti più, e l’epidemia riparta.
Detto in modo più crudo: forse in questo momento la vera ragione per cui l’epidemia sembra ancora sotto controllo non è né l’autodisciplina della popolazione adulta (quella giovanile è già fuori controllo), né la tempestività delle autorità sanitarie nello spegnere i nuovi focolai, ma è semplicemente il fatto che i fattori climatici stanno contrastando e bilanciando quelli comportamentali.
L’eventuale seconda ondata sarebbe il colpo di grazia per la nostra economia? Gli stessi imprenditori, del turismo e non, dovrebbero essere più cauti in questo periodo?
Io non sono sicuro che il compito della politica, oggi, sia scegliere fra la salute e l’economia. Può darsi che sia così, ma si dovrebbe preliminarmente provare a rispondere a questa domanda: e se limitare (almeno) il turismo internazionale, misura sicuramente dannosa per l’economia nel breve periodo, non fosse invece una misura che tutela l’economia nel periodo medio-lungo?
Se la risposta fosse affermativa, il conflitto salute-economia sarebbe meno insanabile di quel che appare. Io sono piuttosto sicuro che aver ritardato di circa un mese il lockdown (il vero lockdown inizia solo il 22 marzo, ossia più di un mese dopo Codogno) non ha solo aumentato drasticamente il numero dei decessi, ma ha anche danneggiato l’economia (se si fosse chiuso subito, la chiusura sarebbe durata di meno). Sul domani sono assai meno sicuro, ma la domanda me la faccio: oltre a far ripartire l’economia, non dovremmo preoccuparci – proprio per il bene dell’economia – di evitare l’arrivo di una seconda ondata?
Perché se una tale seconda ondata dovesse abbattersi sulle nostre teste, quello cui assisteremmo non è una recessione drammatica, peggiore di quella del ’29, ma una catastrofe, l’inabissamento di un’intera civiltà.
Ormai esperti dell’analisi dei dati, virologi e medici si dividono fra pessimisti e ottimisti. Dove l’hanno collocata? E soprattutto: da che parte si sente di stare?
Quella dei pessimisti e degli ottimisti è una commedia, volutamente mandata in scena per permettere alla politica, complice la secretazione dei dati essenziali, di tenersi le mani libere. Se fra gli scienziati vi fosse una posizione dominante o egemonica, se i dati fossero pubblici e di qualità, lo spettro delle scelte della politica si restringerebbe drasticamente, perché alcune scelte apparirebbero chiaramente dannose, o strumentali, o palesemente inappropriate.
Invece così, grazie al chiacchiericcio di tutti (compreso il nostro in questa intervista), grazie alla opinabilità di ogni presa di posizione, i governanti possono tutelare il bene per essi più prezioso: la facoltà di decidere solo in vista del consenso, al di fuori di ogni controllo dell’opinione pubblica.
Quanto a me, so che molti mi classificano fra i pessimisti, o fra i nemici dell’economia. Ma sbagliano. Il pessimismo è un’altra cosa, pessimismo è vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, anche quando non lo è. A me capita un’altra cosa, ossia di non essere dotato di quella che molti studiosi considerano una delle caratteristiche distintive, e uniche, degli esseri umani: la capacità di ridurre la “dissonanza cognitiva” mediante costruzioni mentali che servono ad attenuare l’angoscia, a mitigare la paura, a nascondere rischi e pericoli, a dispetto della cruda realtà.
Insomma, come sociologo penso di appartenere al mondo animale: se una gazzella vede un leone, non pensa che sia un ornitorinco solo per controllare l’ansia che sente dentro di sé. Incredibile: pensa che sia un leone.
Intervista di Gianni Del Vecchio a Luca Ricolfi, Huffington Post, 10 luglio