Cari politici, non dipende solo da noi

Ha fatto senz’altro bene il Governo a restringere ulteriormente il perimetro della attività produttive essenziali (il “Messaggero” lo aveva già chiesto ben 2 settimane fa, con un editoriale del suo direttore). Ha fatto bene a dare più ascolto ai sindacati, preoccupati della salute dei lavoratori, che alle organizzazioni imprenditoriali, preoccupate del quasi-arresto dell’economia. E stanno facendo benissimo governo, giornali, televisioni, divi dello spettacolo, scienziati a invitarci a rispettare rigorosamente le regole, nonché a stigmatizzare severamente chi non lo fa.

C’è, tuttavia, anche qualcosa che non va affatto bene nella comunicazione da cui siamo investiti, specie in quella che proviene dalle autorità di governo e dai partiti della maggioranza. Troppe volte il messaggio che si cerca di veicolare non contiene solo l’esortazione a rispettare le regole ma veicola anche, più o meno sottilmente (talora spudoratamente) due ulteriori messaggi, entrambi inaccettabili.

Il primo messaggio dice più o meno così: non è il momento delle polemiche, dobbiamo stare tutti uniti, chiunque critica le autorità è un disfattista.

Eh, no, questo proprio non avete diritto di dirlo. L’opposizione non ha solo il diritto di criticare il governo, ma ha il dovere di farlo se ritiene che il governo stia sbagliando. E la libera stampa, gli studiosi, i comuni cittadini hanno tutto il diritto di criticare il Governo: i nostri governanti hanno (giustamente) sospeso la maggior parte delle nostre libertà personali, dal diritto di spostamento a quello di voto, ma non hanno alcun titolo per toglierci una delle ultime libertà che ci è rimasta, quella di dire la nostra opinione senza subire linciaggi e intimidazioni. Chi ci governa non può pretendere l’immunità dalle critiche, e semmai dovrebbe chiederci umilmente e solennemente scusa per i grandissimi sbagli commessi fin qui.

Il secondo messaggio è ancora più insidioso. Esso dice in sostanza: cari cittadini, rispettate le regole, la sconfitta del virus è nelle vostre mani. Solo voi potete fermare l’epidemia, la vittoria dipende da voi e dai vostri comportamenti. Questo messaggio ci è stato ripetuto ossessivamente da tutte le autorità, Presidente del Consiglio e ministro della Salute in testa, da quando – appena 3 settimane fa – il governo si è (finalmente) deciso a prendere sul serio l’epidemia.

Eh, no, anche qui non ci sto. Perché non è vero. L’avanzata e l’arretramento dell’epidemia sono sicuramente influenzati dai comportamenti dei cittadini, ma non solo da essi.

Lo dico innanzitutto pensando agli enormi ritardi e alle gravissime omissioni nel fornire le armi che servono. Vogliamo qualche esempio?

Tantissimi medici e farmacisti sono stati costretti ad operare senza mascherine, tanti lavoratori senza dispositivi di protezione individuale. Il numero di tamponi è straordinariamente basso, e lo è per scelta delle autorità. La protezione Civile ha inviato alla Regione Lombardia 250 mila mascherine inadeguate. Intralci burocratici e la consueta farraginosità delle procedure rallentano i rifornimenti di materiale sanitario. Lo stesso vale per i fondi messi a disposizione da Banca Intesa, fermi per 15 giorni in attesa dell’immancabile “protocollo d’intesa”. Per non parlare dell’incapacità di mettere in piedi un monitoraggio (via internet e cellulari) dei soggetti positivi e dei loro contatti, come quello sperimentato in paesi come la Cina e la Corea del Sud. O almeno un efficace sistema di telemedicina per i pazienti costretti a casa e privi di assistenza, come invano e ripetutamente suggerito dal prof. Massimo Galli.

Potrei continuare, ma il punto è semplice: che cosa c’entriamo noi cittadini con tutto questo? Eppure la velocità con cui l’epidemia avanza, la quantità di medici che muoiono sul campo, il grado di letalità della malattia dipendono in modo cruciale da queste scelte ed omissioni, su cui noi cittadini non abbiamo alcun potere.

Ma non è tutto. Vogliamo parlare della “curva epidemica”? Vogliamo parlare dell’ondata di morti degli ultimi giorni, peraltro sottostimata dal fatto che molti anziani vengono lasciati morire in casa e seppelliti senza un’autopsia e una diagnosi (vedi il drammatico caso di Bergamo, più volte raccontato dal sindaco Giorgio Gori).

Ebbene, la responsabilità del picco di morti è chiaramente imputabile alla leggerezza della politica (e di molti media, bisogna aggiungere purtroppo). I dati parlano chiaro, chiarissimo. Il segnale di Codogno e Vo’, con l’improvvisa apparizione di due focolai di contagiati, è di venerdì 21 febbraio. Per qualche giorno restiamo attoniti, la speranza (ma sarebbe meglio dire: l’illusione) è di circoscrivere l’epidemia isolando i comuni interessati. A quel punto si apre un bivio: riconoscere la gravità della situazione, dichiararla pubblicamente, e prendere subito misure restrittive volte a minimizzare i contatti in tutta Italia; oppure: riesumare la retorica del “noi non ci faremo fermare, noi vogliamo continuare la nostra vita di sempre”, già collaudata nei confronti degli attentati terroristici.

Ebbene, arrivati a questo snodo fondamentale, non solo il governo, ma anche consistenti porzioni dell’opposizione, dei media, dell’arte, della società civile hanno risolutamente imboccato la seconda strada, quella del “riaprire le città” e “riprendersi la vita”. Potrei citare decine di prese di posizione, di video, di campagne di stampa. Mi limito a ricordare due fatti.

Il 27 febbraio, a meno di una settimana da Codogno e Vo’, la campagna “Milano non si ferma” è in pieno svolgimento, e culmina con lo sfortunato aperitivo in città voluto dal sindaco Beppe Sala e da Nicola Zingaretti, assai più preoccupato di “non diffondere il panico” che di diffondere il virus. Ma la linea de “riaprire” è caldeggiata anche da Salvini. Due giorni dopo, un sondaggio certifica che la netta maggioranza dei milanesi è a favore della riapertura. I politici stanno sbagliando, ma forse stanno sbagliando perché, contrariamente a quel che dicono, il loro faro non è la scienza, che da tempo li invitava a prendere sul serio il pericolo, ma è il consenso.

Ebbene, i 7 giorni che vanno dall’aperitivo a Milano alla decisione del governo di chiudere le scuole e le università (primo timido segnale di pericolosità della situazione), è stata cruciale nel favorire l’avanzata del virus. Un’avanzata che ha avuto a disposizione una manciata di giorni in più quando la chiusura delle scuole ha finito per prolungare le vacanze di Carnevale, e il governo ha atteso altri giorni per varare finalmente, una dopo l’altra, le varie ulteriori misure di chiusura, prima rivolte alle regioni e province più colpite, poi – nel week-end di follia del 7-8 marzo – finalmente a tutta l’Italia.

La curva delle morti di oggi (più di 500 al giorno nell’ultima settimana) non fa che riflettere, come la luce che viene da stelle lontane, gli eventi dei 10 giorni di follia che vanno dalla campagna “riapriamo Milano” alla riapertura delle scuole.

Ecco perché dico che a noi spetta rispettare le regole, ma alle autorità spetta tutto il resto. Non solo rifornire medici, malati, comuni cittadini di tutto ciò che avrebbero dovuto avere e non hanno avuto (dalle mascherine ai respiratori, dai tamponi all’assistenza domiciliare), ma anche non ripetere domani gli stessi errori di ieri, che  già tante vite ci stanno costando proprio in questi giorni. Perché su un punto la maggior parte degli studiosi è ormai concorde. Se e quando l’epidemia sarà stata domata, il pericolo più grande diventerà quello di non esserci nel frattempo attrezzati a reagire nel modo più tempestivo e risoluto ogni volta che il virus proverà a rialzare la testa.

Una prontezza di reazione che dipenderà dalla nostra maturità e disponibilità ad accettare altri sacrifici. Ma dipenderà anche dalla percezione che chi ci governa abbia imparato la lezione.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2020



Coronavirus: facciamo un’indagine nazionale su un campione rappresentativo

L’idea è venuta tempo fa a un mio amico viticoltore, che ha l’azienda in Friuli (si chiama Nicola Manferrari, le sue vigne sono a Borgo del Tiglio): perché non cerchiamo di capire quanti sono i contagiati dal coronavirus con un’indagine statistica?

Se si sottoponesse a tampone e (possibilmente) ad esame del sangue un campione rappresentativo della popolazione italiana, potremmo rapidamente sapere alcune cose fondamentali, che al momento non sappiamo ancora:

  • quanti sono i contagiati totali (sintomatici, asintomatici, guariti)
  • qual è la percentuale di asintomatici
  • qual è la distribuzione per genere, età ed altre caratteristiche
  • qual è, approssimativamente, il tasso di letalità.

Tutte informazioni preziose per contrastare la diffusione del virus.

Allora (appena tre settimane fa) l’idea mi parve impraticabile perché le stime che circolavano sul numero di contagiati erano troppo basse. I casi ufficiali erano circa 1000, e si pensava ancora che i casi totali potessero essere il triplo, magari anche il quadruplo o il quintuplo, ma certo non più di 10 mila. Diciamo che un numero verosimile poteva essere non lontano da 6000, il che significa 1 italiano su 10000.

Di qui la mia perplessità. Se il numero di contagiati è sconosciuto ma ancora molto basso (diciamo 1 caso su 10 mila, giusto per fissare le idee), per poter stimare accuratamente il numero effettivo di contagiati nella popolazione complessiva occorrerebbe un campione enorme: con un campione di 10 mila casi potremmo anche non intercettarne nessuno (o averne appena 1, o 2), con un campione di 100 mila casi potremmo ragionevolmente attenderci di intercettarne una decina (con un errore atteso di circa 3 casi). Per poter sperare di intercettare anche solo un centinaio di casi occorrerebbe un campione di 1 milione di casi, che è decisamente troppo grande (anche perché sarebbe opportuno sottoporre a test tutti i soggetti nei medesimi giorni).

Ora però le cose sono cambiate, per quattro motivi.

  1. Il numero di casi è molto più alto di tre settimane fa (al 20 marzo, i 1000 casi di inizio mese sono diventati circa 50 volte tanti).
  2. Sono sempre più numerosi gli esperti che congetturano che i casi effettivi possano essere molto più numerosi (anche 10 volte tanti, se non di più) rispetto ai casi ufficiali.
  3. La regola enunciata dal prof. Andrea Crisanti (lo studioso che ha guidato l’indagine di popolazione sul comune di Vo’), secondo cui l’ordine di grandezza del numero di asintomatici è 10 volte il numero di ospedalizzati, conduce a valutare in 200 mila il numero totale di casi positivi.
  4. Una stima indipendente, condotta dalla Fondazione Hume con un approccio del tutto diverso, conduce a valutazioni del medesimo ordine di grandezza.

E allora il calcolo è presto fatto. Se riuscissimo a organizzare una rilevazione per fine mese, anche un campione relativamente piccolo (per esempio 50 mila casi: più o meno i tamponi che oggi si fanno in 3 giorni) potrebbe fornirci le informazioni che cerchiamo.

I 45 mila casi ufficiali attuali (20 marzo), infatti, tra la fine del mese e i primi di aprile saranno diventati circa 150 mila, cui andrebbero aggiunti tutti gli asintomatici, che adottando la “regola Crisanti” (asintomatici = ospedalizzati x 10) potrebbero essere un po’ più di 400 mila.

Questo significa che, già nei primi giorni di aprile, potremmo avere a che fare con una popolazione di 5-600 mila contagiati su 60 milioni (l’1% della popolazione). Un campione di 20 mila casi ne intercetterebbe circa 200, un campione di 50 mila casi ne intercetterebbe circa 500.

Certo, resterebbe il problema di stratificare il campione per zona geografica, perché il numero di positivi per abitante è molto alto nel centro-nord, e molto più basso nel centro-sud. Ma è un problema risolvibile sovracampionando il centro-sud e sottocampionado il centro-nord, in modo da avere pressappoco il medesimo numero di casi in entrambi i territori.

Il vero problema è di estrarre un campione davvero rappresentativo, cosa che si può fare usando le liste elettorali, l’anagrafe tributaria o altra fonte amministrativa capace di raggiungere la quasi totalità della popolazione.

Insomma, il contagio è andato così avanti che l’idea di ripetere con un campione rappresentativo ciò che a Vo’ è stato fatto con la quasi totalità della popolazione sta diventando praticabile.

Non sappiamo quanti siano i contagiati, ma conoscerne l’ordine di grandezza (1 italiano su 100 ai primi di aprile) è più che sufficiente per pianificare un’indagine campionaria, che potrà finalmente fornire una risposta affidabile alle nostre domande iniziali: quanti sono effettivamente i contagiati, qual è il peso degli asintomatici, qual è la composizione per età, qual è il tasso di letalità.

Tutte cose che al momento non sappiamo, e che sarebbe molto meglio sapere. Come ha detto il prof. Crisanti nell’ultima intervista a “Italia Oggi” a proposito dell’idea di un’indagine statistica nazionale: “potrebbe essere molto utile dopo il picco quando si tratterà di capire se è il caso di sollevare le misure restrittive”.

Il picco è previsto per martedì 24 marzo. Credo che – se c’è la volontà politica di farla – l’indagine potrebbe partire lunedì 30 marzo e terminare lunedì 6 aprile.

[20 marzo 2020]



Né di destra, né di sinistra

Capita spesso di leggere articoli che intonano il de profundis per la più antica coppia nemica della modernità politica: destra e sinistra. «Destra e sinistra – ha scritto il filosofo del diritto Paolo Becchi su Libero il 2 febbraio scorso – nuotano ormai nello stesso brodo culturale. La sinistra ha abbandonato la lotta di classe, la difesa della classe operaia oppressa dal modo di produzione capitalistico e la destra la battaglia per la difesa della comunità e della tradizione: entrambe in fondo hanno accettato la cultura dell’individualismo libertario sciolto da legami sociali e comunitari. A destra non si discute la competizione sul mercato globale e a sinistra si insiste sulla emancipazione non dei lavoratori ma dalle radici. L’unica libertà che conta è quella delle merci, dei capitali e degli individui».

Becchi sintetizza in poche, chiare, righe un leitmotiv ormai quasi secolare anche se le spiegazioni del tramonto delle due categorie politiche variano col tempo, con gli uomini, con i partiti.

Mutano anche gli atteggiamenti con i quali si prende atto della presunta irrilevanza di destra e sinistra.

Per alcuni il loro declino è la liberazione da fantasmi di epoche passate, per altri è il segno della crisi spirituale della nostra epoca che ha azzerato tutti i valori, tutti gli ideali per i quali gli uomini erano disposti a battersi e a rischiare la vita.

Ho l’impressione, tuttavia, che nelle relazioni ufficiali dell’avvenuto decesso si celi una pericolosa incomprensione. Quella di credere che “destra” e “sinistra” non hanno nulla di “sostanziale” in quanto legate al mondo della “superstizione politica” (che genera i fantasmi, appunto) o a stili di pensiero che, da rimpiangere o meno, sono relegati nel “mondo di ieri”.

Sennonché sia negli individui che nelle società si trovano elementi strutturali che possono appannarsi, venir dimenticati per anni, trascurati più o meno consapevolmente ma che, nondimeno, riemergono prima o poi: e spesso con una virulenza proporzionale alla sottovalutazione. Il bisogno di comunità, il senso della tradizione che caratterizza la destra – e che trova il suo simbolo privilegiato nell’albero che affonda le sue radici sul terreno della storia – è qualcosa di insopprimibile, come la proiezione verso il futuro, la volontà di emanciparsi dal peso di usi e costumi che incatenano gli individui al suolo, alla famiglia, al milieu religioso. Che ha il suo simbolo, invece, nell’atto di spezzare le catene del privilegio.

La grandezza dell’Occidente, a ben riflettere, è consistita nella capacità di tenere in equilibrio le due dimensioni, “l’unico” e “l’universale”, per riprendere un saggio del grande Jacob L. Talmon, la “comunità di destino” e la “società degli individui”, il romanticismo politico e l’illuminismo, banditore dell’universalismo etico. Oggi sembra vincente la delegittimazione etica di tutto ciò che sa di particolare, di difesa del “sangue” e del “suolo”, di richiamo all’identità. A guardar bene, è l’ideologia di grandi quotidiani come la Repubblica o di periodici di nicchia come Il Foglio.

Ed è quella che, per reazione, risuscita istinti tribali di difesa che ai livelli alti ispirano una saggistica sempre più lontana da quel “pensiero unico” che lega ormai l’Istituto Bruno Leoni agli eredi del comunismo e dell’azionismo in nome della demonizzazione dello Stato nazionale e delle sue logiche.

Quasi in retromarcia, Paolo Becchi conclude l’articolo scrivendo che «la distinzione politica fondamentale oggi» è «quella tra coloro che difendono il globalismo, l’universalismo astratto e coloro che lo criticano in nome di particolarità concrete».

Ma non è questa la forma che oggi assume la dialettica tra “destra” e “sinistra”? Becchi, che col suo “sovranismo mite” sta dalla parte dei no global, ritiene che nulla vieta di pensare a un progetto politico in cui «potrebbero coesistere idee come quella di comunità, di appartenenza, identità, lealtà, senso dello Stato, con altre idee che riguardano la giustizia sociale, la solidarietà e la redistribuzione».

Senza avvedersene, però, rivela la stessa forma mentis del mainstream progressista che, nel suo culto della globalizzazione, rassicura i timorosi che non hanno niente da temere, che far parte di società politiche sempre più vaste, non rappresenta affatto una minaccia per le comunità storiche ma, anzi, è un modo per preservarle da altre guerre distruttive, dagli odi etnici, dalla barbarie tribale.

Ma è proprio vero che le cose buone stanno sempre insieme e che esistono formule magiche in grado di salvare capre e cavoli, libertà ed eguaglianza, solidarietà e individualismo, difesa dei confini ed apertura a chi vuole entrare, ragion di Stato e limitazione della sovranità etc. etc.?

È così difficile (a destra e a sinistra) rassegnarsi al fatto che ogni famiglia ideologica, ogni partito, porta nel mercato della politica i suoi prodotti specifici? E che a dividerci non sono tanto i valori ma la priorità che diamo a quello che ci sta più a cuore quando non è possibile, ad esempio, salvaguardarli tutti: tutelare, ad esempio, la libertà senza sacrificare un po’ di eguaglianza; sostenere l’autorità dello Stato senza limitare i diritti degli individui?

Il sospetto è che il discredito della contrapposizione tra destra e sinistra, nasca dalla pretesa che esse non hanno più alcun significato giacché esisterebbe un punto di vista superiore in grado di salvaguardarne quanto – poco o molto – c’è di valido nell’una o nell’altra. È un punto di vista che non è al di sopra ma è al di sotto dei due vecchi duellanti. Al di là delle retoriche buoniste o cattiviste dilaganti, sta emergendo un “pensiero unico” che al di fuori di sé lascia soltanto (se si è di sinistra) il razzismo, l’atavismo di una destra impresentabile o (se si è di destra) il nichilismo che passa come un rullo compressore sulle Nazioni o e dei popoli. Dietro la “buona novella” che destra e sinistra sono passate a miglior vita, ci sono, in sostanza, la delegittimazione degli avversari e la morte del pluralismo.

È la fine della democrazia liberale: impensabile senza l’eterno contrasto tra conservatori e progressisti, tra Disraeli e Gladstone, tra De Gaulle e Mitterand.

 

DIETRO LA “BUONA NOVELLA” CHE DESTRA E SINISTRA SONO PASSATE A MIGLIOR VITA, CI SONO, IN SOSTANZA, LA DELEGITTIMAZIONE DEGLI AVVERSARI E LA FINE DEL PLURALISMO

 Pubblicato su Il Dubbio del 10 marzo 2020



Proteggete il Centro-Sud e le zone franche

Vivo al Nord, alcuni mi considerano (sbagliando) un paladino degli interessi del Nord, ma oggi devo unirmi all’invito di Virman Cusenza (direttore del “Messaggero”) e dirlo chiaro e tondo: arrivati a questo punto, preservare il Sud e il Lazio – almeno in parte e in qualche misura – dalla sorte toccata a buona parte del Nord e del Centro per colpa di un governo tardivo, irresoluto e irresponsabile, è essenziale se vogliamo che l’Italia abbia ancora un futuro. Il che significa: fare in modo che le limitazioni alla circolazione, una misura che gli studiosi più lucidi hanno sollecitato da tempo, siano una cosa seria.

La ragione è semplice: la diffusione del virus, per quanto di entità drammatica anche al Sud e nel Lazio, è attualmente 30 volte minore rispetto alle regioni del Centro-Nord, in cui solo Bolzano sembra in parte salvarsi. In termini temporali: il Sud, con il Lazio, si trova oggi più o meno nella situazione in cui le regioni più colpite del Nord si trovavano 12 giorni fa. Detto altrimenti: ha un piccolo vantaggio temporale, di cui può approfittare.

Nessun territorio, salvo forse la Calabria (che ha 100 volte meno positivi della Lombardia), può provare a sperimentare che cosa sarebbe successo se il governo si fosse mosso un mese fa, quando i cosiddetti allarmisti lo imploravano di agire. Ormai è troppo tardi.

Ma il Mezzogiorno nel suo insieme può almeno sperimentare, a proprio vantaggio, la riduzione del danno di cui il Nord avrebbe potuto beneficiare con un governo più risoluto.

Solo una cosa sento ancora di dover raccomandare agli amici del Mezzogiorno: usate pure i dati (elaborati dalla Fondazione Hume), che trovate qui sotto per confortarvi un po’, per prendere coscienza di quanto meno pericolosa sia la situazione del Sud e del Lazio rispetto a quella del resto d’Italia, ma non fate l’errore di pensare che, allora, potete stare meno attenti di noi, intrappolati nelle zone rosse del centro-nord. Proprio perché la vostra situazione è, per ora, meno drammatica della nostra, approfittatene per proteggervi nel modo più rigoroso possibile.

Ne va del vostro futuro, e anche del nostro.

Fonte: Elaborazioni Fondazione Hume su dati Dipartimento della Protezione Civile (aggiornamento al 9/3/2020)
Pubblicato su Il Messaggero del 10 marzo 2020

 

 




Coronavirus, una guerra che non ammette disertori

Fino a sabato avevo in mente, per l’editoriale che leggete oggi, di ribadire con ancora maggiore forza il concetto che avevo espresso più volte, sia un mese fa sia nei giorni scorsi; la situazione è seria, anzi drammatica, chi la sottovaluta o minimizza i pericoli, ma soprattutto chi non si attiene a tutte le regole consigliate dalle autorità contribuisce, con la propria superficialità, ad accelerare l’avanzata del virus che sta devastando il nostro paese, e non solo il nostro. Avere senso civico, oggi, significa fare ciò che ci viene richiesto, anche se significa vivere in un modo orribile e disumano. Ed è gravissimo che sia i privati (per interessi economici) sia le autorità (per ragioni politiche) continuino a diffondere le tre bufale fondamentali che hanno ritardato la presa di coscienza dei cittadini: che il virus uccida solo gli anziani già affetti da altre gravi patologie; che i soggetti senza sintomi (i cosiddetti asintomatici) non possono trasmettere il virus; che il coronavirus sia poco più che una brutta influenza. Come è gravissimo che lo spot di Amadeus sulle regole di comportamento sia stato così reticente su alcuni pericoli fondamentali: la trasmissione attraverso le cose, il contagio in bar, ristoranti, piscine, cinema, palestre, sale giochi, mezzi di trasporto, mostre, chiese, musei, acquari, festival, giusto per ricordare i principali.

Ora però è tutto diverso. Il governo, dopo aver partecipato (o organizzato?) la sceneggiata della tranquillizzazione (in una trasmissione condotta da Bruno Vespa) pare essersi improvvisamente convertito alla linea più severa. Gli appelli di noi presunti “allarmisti”, lapidati su internet perché indurremmo panico e psicosi collettive, sono finalmente diventati superflui. Ancora venerdì pochi avevano capito, oggi hanno capito – si spera – quasi tutti. Già nella giornata di sabato, con la notizia che il virus aveva colpito Zingaretti (a proposito: i miei auguri più sinceri di uscirne presto e bene!) il livello di attenzione del pubblico, ma soprattutto della politica, è improvvisamente salito alle stelle. E la politica, questa volta, ha dovuto arrendersi, risolvendosi a fare oggi quel che avrebbe dovuto fare un mese fa. Meglio tardi che mai, anche se la lezione non pare completamente assimilata: se vuole prevenire, anziché intervenire solo quando i buoi sono scappati, chi ci governa forse dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di adottare misure drastiche di contenimento e di limitazione anche nelle zone a bassa diffusione del virus, proprio per preservare almeno alcune “isole felici”, o meno infelici delle altre.

Oggi, dunque, non è più il tempo di lottare per far capire a tutti come stanno le cose. Oggi è tempo di obbedire scupolosamente agli ordini che ci vengono impartiti, il che significa – inevitabilmente – rinunciare a un bel pezzo della nostra libertà, a partire da quella di movimento. Con quali prospettive?

Nessuno può avere risposte sicure. Quel che però possiamo fare è cercare di delineare il percorso che dobbiamo fare, e le ragioni per le quali non è impossibile frenare l’avanzata del virus, e persino – alla fine – far spegnere questa epidemia.

Per capire come, occorre spiegare alcune cose un po’ tecniche, ma che è essenziale comprendere per arruolarsi convintamente nella armata dei nemici del virus.

In una epidemia, il parametro fondamentale, da cui tutto dipende, è R0. Con questo simbolo (“erre zero”) si intende il numero di persone che, mediamente, ogni infetto contagia prima di diventare innocuo (o perché messo in isolamento, o perché ricoverato o perché deceduto). Il valore di R0 è fondamentale, perché più R0 è grande, più il contagio si allarga velocemente. Se R0 è 2, il tempo medio in cui si resta contagiosi è una settimana, e ci sono 1000 infetti, allora dopo una settimana gli infetti saranno 3000 (i 1000 di partenza + 2000 nuovi infetti). Se R0 è 5, dopo una settimana gli infetti saranno 6000 (i 1000 di partenza + 5000 nuovi infetti). A questo punto il ciclo riparte, con più o meno ritardo a seconda di quanto tempo un neo-infetto impiega a diventare esso stesso contagioso. Ma non ci vuole molto a capire che, una volta che la base di partenza si sia allargata abbastanza, bastano pochissime settimane a generare un numero di infetti molto grande, dell’ordine delle centinaia di migliaia di persone, se non oltre.

Ma quanto è grande R0 nel caso del coronavirus?

Nessuno lo sa, e infatti le stime che sono circolate nella letteratura scientifica, spesso basate su dati cinesi, vanno quasi tutte da 2 a 6, valori entrambi preoccupanti, ma enormemente preoccupanti se il valore effettivo fosse davvero 5 o 6 (come ha autorevolmente congetturato, fra gli altri, il prof. Crisanti, eminente studioso ora arruolato nella task force della regione Veneto).

C’è però anche un’altra risposta, la risposta più corretta, alla mia domanda sul valore di R0: e la risposta corretta è che R0 non esiste, perché non dipende solo dalle caratteristiche del virus ma anche dal nostro comportamento. Sul punto, voglio lasciare la parola al prof. Crisanti:

“Nella letteratura scientifica non ci sono valori di R0 esportabili geograficamente, perché il tasso di replicabilità non dipende solo dalla virulenza del virus, ma molto dalla densità della popolazione di un’area, dalle condizioni di igiene, dalle abitudini di vita, dalla mobilità. Faccio un esempio: la poliomielite nel 1930 aveva un R0 di 12 in Italia. Negli Usa era di 4. Lì avevano le fogne, noi no”

Capite? Trasportato ai giorni nostri, “avere le fogne” si traduce in: rispettare scrupolosamente tutte le regole, a partire dal “distanziamento sociale” e dall’isolamento in casa degli anziani (come me: ho quasi 70 anni).

Se sapremo farlo, il valore di R0, quale che sia oggi, non potrà non scendere. Insomma: non è detto che vinciamo la guerra, avremo sicuramente delle perdite gravi, ma abbiamo anche un’arma con cui combattere.

Ma c’è anche un’altra buona notizia o, se preferite, un altro filo di speranza. Ed è che la matematica del contagio dimostra che, perché l’epidemia si esaurisca, non occorre che R0 sia 0, ma basta che sia minore di 1. Che cosa significa, in concreto?

Significa che non occorre che un infetto non contagi nessun altro, ma basta che il numero medio di contagiati per infetto sia minore di 1. Il che significa, tornando all’esempio dei 1000 contagiati iniziali, che l’importante è che 1000 infetti ne contagino meno di altri 1000, per esempio 900, o 800. Può sembrare strano a chi non è uno specialista di statistica o di epidemiologia, ma è precisamente così. Se R0 è minore di 1, poco per volta l’epidemia, anziché propagarsi, si spegne.

Il compito delle prossime settimane sarà di capire qual è il valore attuale di R0, e di quanto esso cala man mano che noi combattiamo nell’unico modo che ci è concesso, quello della più stretta osservanza delle regole di prudenza. E’ una guerra, lo so, ma è una guerra che non ammette disertori.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 marzo 2020