Siamo un popolo che non perde la testa

Una grande potenza come la Cina scatena – non si sa se per colpa dei suoi laboratori di ricerca o per i mancati controlli dei mercati alimentari e dei macelli – la più grande pandemia che si ricordi dal tempo delle pestilenze medievali, per quanto terribili territorialmente limitate; mette in crisi l’economia planetaria, unendo i continenti in una comune tragedia; stravolge i modi di vivere di società che si sentivano sicure dai flagelli antichi, al riparo delle loro tecnologie. Eppure il grado di maturità degli italiani è così alto che non si sono avute recriminazioni incomposte, maledizioni da parte delle vittime del covid19, episodi razzisti. Nessun sit in dinanzi alle ambasciate cinesi, nessun assalto ai megastore che in certe città hanno cambiato il volto di vecchi quartieri, nessuna condanna, nessuna esecrazione degli eredi di Mao. Qualcuno ha fatto notare che un regime democratico non avrebbe tenuto nascosto un “incidente” mille volte più esiziale di Chernobyl e che i ritardi nel darne l’annuncio hanno comportato un costo specie per l’Occidente. Quasi nessuna accusa, però, si è levata contro la Cina: una terribile disgrazia può capitare a tutti. C’è persino qualche giornalista “liberale” che s’è affrettato a elogiare l’industria e la chimica cinese alla notizia che si stava preparando un vaccino antivirus da distribuire urbi et orbi senza ricavarne alcun vantaggio economico (come avrebbero fatto le potenze capitalistiche). Se la notizia fosse stata confermata, chissà, avremmo dovuto chiedere scusa al rosso-celeste Impero per aver parlato di ritardi nell’informazione. Questa è civiltà! E certo nulla sarebbe cambiato se la pandemia fosse venuta dagli Stati Uniti, dall’Ungheria, dal Brasile.. Comprensione, solidarietà, rassegnazione, in nome dell’ever green “legge del Menga”, sarebbero state riservate anche ai governi di Washington, di Budapest e di Brasilia. O sbaglio?




Il partito della prudenza

Alla fine Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza (e rappresentante dell’Italia nell’OMS), si è lasciato scappare la verità: la riapertura delle scuole è a rischio, e le elezioni pure. Era un’ovvietà, lo sa chiunque segua i dati dell’epidemia. Ma lo hanno costretto a rimangiarsela: non si stava riferendo all’Italia, avevamo capito male. Il totem della riapertura non si può toccare.

In questi mesi il governo ha finto di puntare tutto sulla riapertura delle scuole. Ma la verità è che la priorità del governo non è mai stata la riapertura delle scuole. Se lo fosse stata avrebbe agito diversamente.

Ricapitoliamo. E’ da due mesi, non da pochi giorni, che i segnali di una ripresa dell’epidemia si moltiplicano. Per tutta risposta, il governo ha accuratamente evitato di imporre la chiusura delle discoteche, lasciando pilatescamente la patata bollente alle Regioni. E su tutti gli altri fronti si è mosso nella medesima direzione: chiudere un occhio su ogni infrazione delle regole, prima fra tutte il distanziamento, per non danneggiare il turismo; permettere che la gente (aiutata da esperti negazionisti o minimizzanti) si autoconvincesse che il peggio era passato, che il virus era in ritirata, e che le regole potevano essere violate impunemente.

Eppure l’evidenza scientifica (e sociologica) diceva tutt’altro. I più giovani si ammalano raramente e poco gravemente, ma sono un vettore formidabile del virus. Il contagio fra coetanei è inevitabile in qualsiasi situazione diversa dal lockdown. Se si vuole impedire che il contagio deflagri nelle scuole, mettendo a rischio innanzitutto la salute di insegnanti e familiari, la via maestra non sono i banchi a rotelle ma è portare il più possibile vicino a zero il numero di contagiati; approfittare dell’estate (alte temperature, poco smog, vita all’aperto) per appiattire ancora la curva epidemica, in modo che il primo giorno di scuola i ragazzi contagiosi siano il meno numerosi possibile.

Perché è vero che dobbiamo imparare a convivere con il virus, è vero che non siamo ancora nelle condizioni di azzerare i contagi, ma è completamente diverso combattere il virus quando i contagiati sono uno ogni 10 mila, uno ogni mille, o uno ogni cento. Fino a un paio di mesi fa eravamo vicini alla prima soglia (1 su 10 mila), ora abbiamo superato la seconda (1 su 1000), e stiamo puntando a vele spiegate verso la terza (1 su 100). E’ una situazione pericolosissima, che molto somiglia a quella di febbraio. Come ha recentemente osservato l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, il problema è che – lasciando correre il virus come finora si è fatto – si stanno creando le condizioni per “l’innesco di una seconda ondata. Lo stesso innesco che a febbraio, semplicemente, non abbiamo rilevato e che poi ha provocato la grande ondata”.

Non sono considerazioni nuove. Sono il nucleo della “dottrina Crisanti”, più volte enunciata pubblicamente da lui stesso, e sottoscritta da una piccola minoranza di istituzioni, studiosi, operatori dell’informazione, preoccupati dell’imprudenza del governo centrale e di non pochi governatori delle Regioni.

Ora, però, siamo a 6 mesi esatti dallo scoppio dell’epidemia (Codogno, era il 21 febbraio), e il “partito della prudenza” è chiaramente e inequivocabilmente sconfitto. Inutile nasconderlo, inutile insistere con i numeri e con le analisi. Persa la battaglia in favore di un vero contrasto dell’epidemia, è forse giunto il momento di capire perché abbiamo perso. O meglio: perché abbiamo perso in modo così rovinoso e totale, perché mai non siamo riusciti a vincere nemmeno una delle nostre battaglie.

Sconfitta (a febbraio) la linea della prudenza verso i cinesi e i voli (diretti e indiretti) dalla Cina. Persa la battaglia contro la campagna “Milano non si ferma”. Sconfitta l’idea di fermarsi subito, ai tempi delle mancate chiusure di Nembro e Alzano. Ignorati (una prima volta a marzo e una seconda a maggio) gli appelli per i tamponi di massa. Snobbate, ai primi di giugno, le analisi che indicavano che alcune regioni del Nord non erano pronte per la riapertura. Recepita con mesi di ritardo la proposta di un’indagine sierologica nazionale. Completamente disattesa la richiesta, non solo nostra ma di tutta l’opinione pubblica, di indicazioni chiare e ragionevolmente stabili su mascherine, distanziamento, assembramenti. Indifferenza alle proteste per le incredibili incongruenze delle norme sul distanziamento (rigorosamente distanziati a teatro, nei musei, sui Freccia Rossa; appiccicati come sardine sui bus, sui treni ordinari, sui vaporetti, sugli aerei). Incomprensibile sordità agli inviti a tenere chiuse le discoteche, nonché alle denunce sulla violazione delle regole nei luoghi della movida e del divertimento. Snobbata ogni critica sulla disastrosa gestione degli sbarchi. Demonizzata ogni idea di limitazione e regolazione dei flussi turistici (un errore che la Sardegna sta pagando a caro prezzo proprio in questi giorni). Del tutto ignorate le richieste degli studiosi di accedere ai dati analitici dell’epidemia.

E’ solo un piccolo campionario della guerra che abbiamo rovinosamente perso. Dunque, veniamo al punto: perché il “partito della prudenza” ha perso tutte le sue battaglie?

Io credo che la risposta, se vogliamo andare subito al succo, sia essenzialmente una: la stella polare della politica, di tutta la politica (non solo del governo), è solo il consenso di breve, brevissimo periodo. Non c’è altro, nelle scelte che fanno i nostri politici, anche se c’è molto altro nelle chiacchiere con cui le accompagnano. Se governo e Regioni avessero agito con maggiore prudenza avrebbero avuto contro almeno tre poteri fondamentali: il mondo dell’economia, interessato alla riapertura persino quando (fine febbraio) era palesemente una follia; l’opinione pubblica, assetata di risarcimenti economici (sussidi) ed esistenziali (vacanze senza restrizioni) dopo il lockdown; l’opposizione politica, schierata dal lato della ripartenza ancora più accanitamente del governo.

Certo, è stato il governo a non avere il coraggio di tenere chiuse le discoteche, e a perseverare in quell’errore nei giorni (Ferragosto) in cui tutti avevano capito che era un errore fatale. Ma non si può dimenticare che, di fronte a una scelta così irresponsabile, Salvini non trovava di meglio che dichiarare: “L’unico problema legato al virus non sono i ragazzi che ballano ma quelli che sbarcano”. Difficile pensare che un governo imprudente possa cambiare rotta se il maggiore partito di opposizione è su una linea ancora meno prudente.

Lo stesso discorso vale per gli altri attori in campo. Se la gente non ha capito quanto erano pericolosi i comportamenti di cui ora constatiamo le conseguenze, è perché il governo, dopo il lockdown (e in particolare dopo la chiusura delle scuole e l’inizio delle vacanze), non ha mai veramente provato a far rispettare le regole. Ma è altrettanto vero che se ci avesse provato, come era suo preciso dovere, avrebbe perso molto del consenso accumulato nei mesi precedenti. Gli attori economici si sarebbero ribellati, le famiglie e i giovani si sarebbero sentiti ingiustamente deprivati dei loro sacrosanti, inalienabili, diritti a vacanze, spiagge, divertimento, movida ecc. (resta naturalmente da vedere se il calcolo del governo non sia stato miope: se le scuole riaprissero a singhiozzo, se dovessimo essere costretti a un nuovo lockdown, se i nuovi danni all’economia risultassero superiori ai vecchi benefici dell’apertura precoce, la gente si arrabbierebbe molto).

E’ questa la logica di quel che è successo. E’ per questo che noi “prudenti” abbiamo perso tutte le nostre battaglie. Siamo stati ingenui, ora non ci resta che sperare di aver avuto torto, e che a settembre si verifichi il miracolo: le scuole riaprono, le elezioni hanno luogo in sicurezza, gli oltre 1000 focolai attuali diminuiscono drasticamente di numero, ci sono abbastanza tamponi per tutti i bambini e i ragazzi messi in isolamento, pochi insegnanti si ammalano, nessuno di loro muore, la stagione fredda e lo smog della pianura padana non alimentano una seconda ondata, l’economia riprende vigore, gli ospedali si svuotano, non ci sono nuovi lockdown.

E’ un atto di fede, ma è tutto quel che ci resta.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 agosto 2020




La grande ipocrisia

“Mi preoccupa il senso di onnipotenza dei giovani”. Così, in un’intervista al “Corriere della Sera”, ha dichiarato Agostino Miozzo, medico e coordinatore del Comitato tecnico Scientifico.

Non discuto certo la fondatezza delle sue preoccupazioni, semmai trovo un po’ tardiva questa uscita (come Fondazione Hume abbiamo segnalato la svolta dei dati del contagio fin dal 18 giugno, quasi 2 mesi fa). Quel che mi stupisce, invece, è questa improvvisa concentrazione delle critiche sui giovani, come se il probabile arrivo di una seconda ondata potesse essere attributo alla irresponsabilità dei giovani stessi.

Questo è estremamente ipocrita. I giovani sarebbero plausibilmente criticabili se le autorità avessero enunciato regole chiare e coerenti, non le avessero cambiate continuamente, e soprattutto non avessero quasi del tutto rinunciato a farle rispettare nei luoghi che contano. Come è possibile che nei teatri, nei musei, nei treni ad alta velocità si debba rispettare il distanziamento, e sui treni normali e nelle discoteche ci si possa assembrare senza che nessuno intervenga? Come è possibile che appiccicarsi uno all’altro sugli aerei non desti alcuna preoccupazione nelle autorità, mentre appiccicarsi in discoteca sì? Che senso ha vietare gli assembramenti, se poi li si tollera ovunque, per strada come in spiaggia?

In realtà una spiegazione esiste. Le autorità avevano paura di fermare l’economia, e quindi hanno permesso che ci contagiassimo a vicenda. Sapevano che così l’epidemia avrebbe rialzato la testa, ma hanno preferito chiudere un occhio, per non rovinarci le vacanze (e non perdere consenso). Ora che il carnevale sta finendo, minacciano di proclamare la Quaresima (nuovi lockdown), e hanno pure il becco di dare la colpa a noi, che non avremmo mostrato sufficiente senso di responsabilità. Poi, quando la seconda ondata si farà minacciosa, ci diranno che loro l’avevano detto, che noi non siamo stati abbastanza attenti, e ora ci becchiamo quel che con i nostri comportamenti avventati ci siamo meritati.

Ma è troppo comodo fingere di non sapere come funziona la catena comunicativa. Se le autorità enunciano regole incoerenti, il pubblico si attiene alla regola meno severa (il non-distanziamento sui mezzi pubblici). Se poi enunciano regole anti-assembramento, ma non muovono un dito quando le regole vengono patentemente infrante, il pubblico capisce che la regola è finta, e quindi non in vigore. Qualcuno può stupirsi che i giovani, che già di per sé hanno una propensione al rischio (e al divertimento) più alta degli adulti, se ne infischino di regole che gli adulti non fanno lo sforzo di far rispettare?

C’è qualcosa che non torna, come ha fatto notare pochi giorni fa in tv la giornalista Marianna Aprile con un ragionamento folgorante (cito a memoria): perché ci scandalizziamo per gli assembramenti in discoteca e per quelli sui mezzi pubblici no?  Qual è la ratio? Forse è perché in discoteca ci si diverte, e ad andare al lavoro no?

La realtà, temo, è che il governo ha fatto, sulla nostra pelle, una scommessa rischiosa: lasciare che la macchina dell’economia e quella delle vacanze ripartissero senza eccessivi ostacoli, sperando che alla fine, quando a settembre torneremo a scuola e al lavoro, il disastro sanitario sia ancora contenibile.

E’ ben fondata questa speranza?

Sinceramente non lo so. Ci sono dati che inducono a un certo ottimismo, e altri che decisamente preoccupano.

Il dato più confortante è che il numero di soggetti positivi (e quindi potenzialmente contagiosi) per milione di abitanti è molto basso, anche se non così basso come ci è stato raccontato nei giorni scorsi con le cartine che mostrano un’Italia isola felice, accerchiata da paesi che hanno più casi di noi. Se anziché fidarsi del numero di casi diagnosticati (che dipende pesantemente dal numero di tamponi), si fa una stima del numero effettivo di casi contagiosi di ogni paese, si vede immediatamente che la situazione non è esattamente di accerchiamento (vedi mappa): stanno peggio di noi il Regno Unito, i paesi a ovest (Francia e Spagna) e i paesi balcanici, ma stanno meglio di noi quasi tutti i paesi a Nord dell’Italia: Germania, Austria, Svizzera, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Olanda, Repubbliche baltiche, Norvegia, Finlandia, Islanda.

Impossibile dare una stima accurata del numero di persone contagiose in Italia, ma quel che si può dire è che nel momento peggiore dell’epidemia (fine marzo) il numero di persone contagiose era almeno 100 volte superiore a quello di oggi. Questo dato, in sé positivo, ha però anche una faccia negativa: il fatto che, in questo momento, la base dei contagiosi sia dell’ordine di poche decine di migliaia di persone, rende temporaneamente non percepibili le conseguenze catastrofiche del mancato rispetto delle regole. Se la “base” fosse 100, o anche solo 10 volte superiore, le corsie degli ospedali sarebbero già sotto stress.

A proposito di ospedali, l’andamento dei ricoveri ci fornisce il dato più preoccupante. Nelle ultime due settimane si è completamente interrotto il trend di diminuzione dei ricoveri per Covid, che hanno ripreso a salire sia nella componente ordinaria (+10% dal 1° agosto) sia in quella delle terapie intensive (+30% nell’ultima settimana).

E non è tutto. Preoccupante è anche l’andamento dei tamponi, che ormai da più di un mese fluttuano intorno ai minimi. Come preoccupante è l’andamento del rapporto fra nuovi casi diagnosticati e numero di persone testate, più che raddoppiato dai primi di luglio a oggi.

Ma il dato forse più meritevole di attenzione è l’andamento del numero totale di soggetti positivi. Questo dato aveva toccato il massimo alla fine di aprile, ma da allora era sempre sceso, fine un paio di settimane fa, quando ha ricominciato a salire. Ora, nonostante le guarigioni e i decessi, il numero totale di diagnosticati positivi è in aumento, e sfiora le 14 mila unità. Se si considera che, in Italia, il moltiplicatore che fa passare dai casi ufficiali a quelli effettivi è vicino a 6, è immediato concludere che il numero di persone positive (fortunatamente non tutte contagiose) è probabilmente non lontano da 100 mila.

Ecco perché l’allarme del Comitato tecnico-scientifico è pienamente giustificato. Resta solo la domanda: perché avete aspettato tanto a prendere atto di una realtà che era già chiara un mese fa?

Pubblicato su Il Messaggero del 14 agosto 2020

Nota tecnica

La stima del numero di contagiosi si basa sul numero di nuovi contagi e di nuovi decessi avvenuti nelle ultime tre settimane rapportato alla popolazione del paese.
I dati utilizzati provengono dal database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 12 agosto.




La curva dei contagi: l’Italia e gli altri paesi

Da almeno una settimana il termometro dell’epidemia mostra una leggera tendenza all’aumento dovuta soprattutto all’incremento dei nuovi casi diagnosticati. Ciò che preoccupa è che la crescita dei nuovi contagi si è verificata nonostante si siano effettuati meno tamponi (l’andamento dei tamponi settimanali è in calo dai primi giorni di agosto).
L’incremento dei nuovi casi registrato in Italia (fra il 6 – 12 agosto rispetto al 30 luglio – 5 agosto) è comunque contenuto (+1.5 per 100 mila abitanti) se lo si raffronta con quello osservato in altri paesi come la Francia (+12.1), i Paesi Bassi (+8.7) o la Macedonia (+6.8). Ma i numeri in progressivo rialzo non sono confortanti.

Per capire come l’epidemia sta avanzando in Italia e in altri 49 paesi avanzati o relativamente avanzati possiamo considerare, come nei precedenti contributi, l’andamento dei nuovi casi settimanali per abitante in base alle informazioni disponibili il 12 agosto.

Dei 50 paesi considerati, 7 (Spagna, Albania, Moldova, Belgio, Paesi Bassi, Ucraina e Francia) presentano numeri in progressivo aumento con incrementi superiori al valore mediano (calcolato sull’insieme dei paesi esaminati).
Colpisce soprattutto la situazione della Spagna che in poco meno di un mese è passata da 14 a circa 50 nuovi casi per 100 mila abitanti, anche se negli ultimi giorni la diffusione del contagio sembra aver leggermente rallentato.

In altri 6 paesi (Romania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Repubblica Ceca, Brasile e Macedonia) la tendenza dell’ultimo periodo è quella dell’aumento, ma da almeno sette giorni si registra una sostanziale stabilità degli incrementi settimanali.

Una più leggera tendenza all’aumento si osserva in altri 10 paesi. In questo gruppo troviamo la Grecia, passata in poco più di due settimane da 2 a 11.5 nuovi casi per 100 mila abitanti, e la Germania con 8.1 nuovi positivi (al 12 agosto) contro i 3 di metà luglio.

Da segnalare sono anche Croazia, Svezia e Israele. Qui la curva epidemica, dopo una prima fase di rallentamento, ha ripreso a puntare leggermente verso l’alto.

Il trend appare invece stabile in Austria, Canada, Slovenia e Turchia.

Sono invece 12 i paesi in cui si registrano segnali di miglioramento. Qui troviamo non solo Bulgaria e Serbia, due paesi sotto osservazione per il balzo dei contagi registrato nelle ultime settimane, ma anche Stati Uniti e Portogallo.

A questi 12 se ne aggiungono altri 8 in cui il numero di nuovi casi settimanali per abitante risulta relativamente contenuto. L’Italia continua a far parte di questo gruppo.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi provengono dal database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 12 agosto.

I dati della Spagna devono essere interpretati cautela perché presentano interruzioni di serie: i primi giorni di giugno le autorità spagnole hanno sospeso l’aggiornamento delle serie per effettuare un ricalcolo della mortalità. In più, nel mese di luglio, il numero dei nuovi contagi non è stato aggiornato quotidianamente.




Modello italiano?

Il New York Times si è prodotto, giusto una settimana fa, in un (ennesimo) elogio dell’Italia e del suo governo per la saggezza del suo approccio al coronavirus, che ci avrebbe consentito di ottenere risultati straordinari, meritevoli di essere imitati da altri paesi.

Ho trovato molto consolante l’articolo del New York Times, perché mostra che, almeno in fatto di faziosità della libera stampa, c’è chi sta peggio di noi. Il meraviglioso modello di gestione dell’epidemia elogiato dal New York Times è costato all’Italia 58 morti ogni 100 mila abitanti (trascurando il numero oscuro dei decessi non registrati), contro i 46 degli Stati Uniti. Fra i paesi europei solo Belgio, Regno Unito e Spagna hanno avuto più morti per abitante dell’Italia. La Germania ne ha avuti meno di un quinto dell’Italia (11 per 100 mila abitanti, contro i nostri 58), e i suoi ospedali non hanno visto le scene apocalittiche che hanno visto i nostri. E anche Francia, Svizzera, Austria, Slovenia, per stare ai paesi con cui confiniamo, hanno avuto meno morti per abitante di quelli che abbiamo avuto noi.

Dove sta il primato del modello italiano? Qual è la lezione che dovremmo impartire ad altri paesi? Perché, ogni sera, i media ci mostrano scene terrificanti su quel che succede in Brasile e negli Stati Uniti, come se noi (che abbiamo avuto più morti per abitante) fossimo una specie di isola felice, o addirittura un modello da imitare? Mah, forse perché quei due paesi sono governati da personaggi inquietanti, e quindi – vien da pensare – non possono che stare peggio di noi, che siamo governati dal quieto Conte. Evidentemente, anche negli Stati Uniti, persino sul loro giornale più autorevole, succede quello che non di rado succede in Italia: le vicende degli altri paesi vengono raccontate non per farle conoscere, ma per usarle a fini di politica interna.

Ma l’articolo del New York Times non si ferma qui. Anche se già da tempo si sa che non è così, il New York Time scrive, sempre elogiativamente, che l’azione del governo italiano “è stata guidata da comitati scientifici e tecnici”. Strano, già due mesi fa, ai tempi dell’inchiesta della procura di Brescia sulle mancate chiusure di Nembro e Alzano, si era appreso che il Comitato tecnico-scientifico aveva consigliato la chiusura di quei due comuni, e che il governo aveva fatto di testa sua, ignorando quel consiglio.

Ora, grazie alla desecretazione dei verbali del Comitato tecnico-scientifico, sappiamo che non solo non venne seguito il consiglio di chiudere Nembro e Alzano, ma che l’intera strategia del governo fu adottata in contrasto con il Comitato tecnico-scientifico. Più che agire “in scienza e coscienza”, il premier pare aver agito di testa propria, contro l’opinione della scienza, non certo guidato da essa. Avesse ascoltato il Comitato tecnico-scientifico, il lockdown dell’11 marzo avrebbe riguardato solo una porzione del Nord, e il Sud ne sarebbe stato risparmiato, con grande sollievo delle sue attività economiche.

Credo nessuno possa dire, con certezza, che sarebbe stato meglio seguire l’opinione del Comitato tecnico-scientifico (anche se tendo a pensare di sì). La controprova manca, e mancherà sempre. Quel che però possiamo ricavare da questa vicenda è la conferma che, in materia di trasparenza e di informazione, la conduzione di questa crisi è stata disdicevole, e non casuale.

Ora sappiamo perché i verbali del Comitato tecnico-scientifico, ripetutamente richiesti dai giornalisti nelle conferenze stampa, sono sempre rimasti secretati. Ora è ancora più chiaro di prima perché le richieste del mondo scientifico di accedere ai dati dell’epidemia (a partire da quel che succede nei singoli comuni) non sono mai state prese nella benché minima considerazione. Il muro di opacità eretto contro giornalisti e studiosi aveva una funzione precisa: nascondere che le scelte del governo erano in contrasto con le opinioni degli esperti, e lasciare al governo le mani completamente libere. Se i verbali del Comitato tecnico-scientifico fossero stati pubblici, se i dati analitici sull’epidemia fossero stati disponibili, molte scelte del governo sarebbero apparse irrazionali, o quanto meno assai discutibili. Il premier non avrebbe avuto carta bianca su tutto. E forse il Parlamento non gli avrebbe così facilmente conferito i pieni poteri.

Ma lo sconcertante esito della desecretazione mi dà anche l’occasione di una riflessione autocritica. Ho spesso pensato, e anche scritto, che meglio avrebbe fatto il governo se si fosse circondato di scienziati indipendenti, anziché dalle alte cariche della sanità pubblica, troppo inclini a compiacere il potere politico e ad assecondarne le scelte. Un giudizio che, in me, era alimentato da due circostanze: l’esclusione dal comitato scientifico del nostro maggiore esperto, il prof. Andrea Crisanti, che a me pareva immotivata e sorprendente; e l’apparente armonia fra le opinioni del Comitato scientifico e le decisioni del governo, sistematicamente alimentata dalle dichiarazioni di concordia di tecnici e politici.

Devo ammettere che mi sbagliavo. A quanto pare, il Comitato tecnico-scientifico aveva scelto di dissentire in silenzio, non so se per senso dello Stato o per timore della Politica. Oggi, riconoscendo che – fortunatamente – avevo torto, e che gli esperti scelti dal governo erano più indipendenti di quanto paressero a me, non posso non porre la domanda: ma può, un paese democratico, conferire (e iterare) i pieni poteri a un premier che, per avere le mani libere, è costretto a nascondere i dati e secretare le opinioni degli esperti?