Voltaire e l’illuminismo oscurato dalle catastrofi

Commentando il terremoto di Lisbona del 1755 il filosofo rifletteva sui limiti della ragione umana

Mentre nel mondo infuria il Covid19, rileggersi Voltaire, come faceva il compianto Piero Ostellino nei suoi ultimi anni, può essere un tonico per l’intelligenza e un richiamo alla virile accettazione della realtà. Voltaire, è noto, rimase, come i suoi contemporanei del resto –philosophes e uomini comuni – sconvolto dal terremoto di Lisbona che, nel 1755 provocò, vittime e macerie non solo in Europa ma, altresì, in Africa (nel regno di Fez). Nella sola capitale del Portogallo crollarono ottanta edifici su cento e morirono sessantamila persone su duecentomila. Il terribile evento ispirò al filosofo un poema di struggente bellezza, Le desastre de Lisbonne (1756) che più di altri scritti, non meno famosi, compendia la sua visione del mondo, della natura, degli uomini, di Dio.

Principe indiscusso dell’età dei Lumi, Voltaire è sempre meno letto o, almeno, se ne conoscono alcune opere teatrali (sia pure indirettamente, ad es. la “Semiramide” che ispirò il melodramma di Gioacchino Rossini o l'”Alzira” messa in musica da Giuseppe Verdi), l’ever green Trattato sulla tolleranza o il celeberrimo Dizionario filosofico. Della sua vastissima produzione filosofica e letteraria, però, si sa ormai poco. Per questo si è grati a Domenico Felice – uno dei maggiori studiosi italiani di Voltaire e di Montesquieu – per aver distillato il meglio delle riflessioni voltairiane sulla condizione umana in un voluminoso ma godibilissimo Taccuino di pensieri. Vademecum per l’uomo del terzo millennio (Ed. Mimesis con una sobria e illuminante  Prefazione di Ernesto Ferrero). Gli ideari non sostituiscono la lettura diretta delle opere di un autore ma attivano l’attenzione su quelle che interessano di più e di cui spesso non si era nemmeno sentito parlare.

In riferimento al tema della catastrofe naturale, che da mesi occupa le prime pagine dei giornali, il Taccuino può costituire un’ottima guida al Disastro di Lisbona nel senso che ci permette di inquadrarne il “messaggio” nel più vasto ambito dell’etica di Voltaire. Innanzitutto ci fa capire che il suo illuminismo non ha nulla a che vedere con “le magnifiche sorti e progressive” su cui ironizzava il nostro Leopardi. Per Voltaire la ragione non è la pietra filosofale che rende immortali, onniscienti e dominatori delle forze avverse di natura ma è il bastone che permette all’umanità sofferente di non inciampare nelle passioni perverse, nelle superstizioni, nelle tirannidi che aggiungono ai mali che già ci ritroviamo quelli dovuti alla nostra insipienza. «Se questo è il migliore dei mondi possibili, che mai saranno gli altri?» dirà Candido il più famoso dei suoi personaggi.

«Dai più piccoli insetti sino al rinoceronte e all’elefante, si legge in Prendere partito, la Terra non è altro che un vasto campo di guerre, di imboscate, di carneficina, di distruzione; non vi è animale che non abbia la sua preda e che, per catturarla, non impieghi l’equivalente dell’astuzia e della ferocia con cui l’esecrabile ragno cattura e divora l’innocente mosca». Eppure queste considerazioni, che sembrano preleopardiane non gli impediscono di prendere «il partito dell’umanità» contro quel «sublime misantropo» che è Pascal. L’uomo, obietta al filosofo, «non è un enigma. L’uomo appare al suo posto nell’ambito della natura: superiore agli animali ai quali è simile per gli organi, inferiore ad altri esseri ai quali probabilmente somiglia per il pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, un misto di bene e di male, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni. Se l’uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e i pretesi contrasti, che voi chiamate “contraddizioni”, sono gli ingredienti necessari che costituiscono quel composto che è l’uomo, il quale è ciò che deve essere». Ma come è lontano da Pascal così lo è da Rousseau che, in una lettera dell’agosto 1756, sempre parlando di Lisbona, lo accusava di ateismo e di non considerare che «questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro  di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto grazie alla sua bontà, sacrificare qualcosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto». Sembra quasi che nella lettera Rousseau anticipi i temi dell’ecologismo contemporaneo: a Lisbona «dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato minore, e forse non vi sarebbe stato». Ma Voltaire, critico implacabile sia dell’ottimismo razionalistico di Leibnitz e di Alexander Pope, sia di quello preromantico di Rousseau, non trovava nessuna ragione – dal peccato originale  al quale non credeva, all’ordine immutabile dell’universo – per consolarsi delle tante vittime innocenti del terremoto. «La natura è muta e la s’interroga invano/ si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano/ Solo lui può spiegare il suo disegno/consolare il debole, illuminare l’ingegno».

E tuttavia questa sensibilità che fa di Voltaire più il figlio di Montaigne che il padre di Condorcet si traduce in un atteggiamento stoico che lo porta – allontanandolo dal trionfalismo illuministico – ad una sorta di etica del destino. «Come voi, scrive ad Allamand nel dicembre 1755, ho pietà dei Portoghesi, ma gli uomini si procurano più male gli uni agli altri sul loro piccolo mucchio di fango di quanto faccia loro la natura. Le nostre guerre massacrano più uomini di quel che ne inghiottono i terremoti. Se a questo mondo fosse da temere soltanto la sorte di Lisbona, ci si troverebbe ancora abbastanza bene». La ragione ci serve per evitare il peggio, non certo per costruire una città dell’uomo immune da ogni imperfezione. Per questo Robespierre si oppose alla traslazione al  Pantheon dei suoi resti morali.

Pubblicato su Il Giornale dell’11 aprile 2020

 




Le risposte del Governo e la fase 2

Qualche giorno fa, dalle colonne del “Messaggero”, avevamo posto al governo 7 domande, con l’obiettivo di capire se il governo stesso, e più in generale le autorità che gestiscono l’epidemia, erano pronti per la fase due. Le risposte sono arrivate nel giro di poche ore, con una tempestività che è stata molto apprezzata da tutti, a partire dai lettori che già il giorno dopo hanno potuto leggere le valutazioni del governo.
Bisogna anche dire che alcune risposte, penso in particolare a quella sulle residenze per chi non può passare la quarantena in casa per il rischio di infettare i familiari, a quella sull’indagine campionaria sulla diffusione del Coronavirus, e a quella sulla app per il tracciamento, sono risultate relativamente rassicuranti, o lo stanno diventando di ora in ora, man mano che si apprendono nuove notizie sulle iniziative in corso.
E tuttavia credo sia giusto, avendo lanciato il sasso delle domande, non ritirare la mano a proposito delle risposte, che vorrei qui passare in rassegna ad una ad una, con l’intento di fare più chiarezza possibile.
Domanda 1. Quante mascherine al giorno, al momento, sono in grado di fornire le farmacie e le altre strutture sanitarie?
Qui la riposta è stata che sono state fornite 93 milioni di mascherine al personale sanitario, ma quanto al punto cruciale, la capacità delle farmacie di rifornire noi cittadini, la risposta è che le farmacie “devono rivolgersi al mercato” e che “presto arriverà il modo e il momento di regolarlo”. Ma adesso? Se dovesse partire la fase 2, il mercato (più o meno ben regolato) riuscirebbe a rifornire tutti? Perché lo Stato non ha avviato autonomamente, o stimolato con incentivi, la produzione di mascherine? E sulle misure di protezione dei lavoratori nel trasporto pubblico e sui luoghi di lavoro a che punto siamo? Hanno ragione i sindacati a dire che la fase 2 non può partire perché non siamo ancora in grado di mettere in sicurezza i lavoratori?
Domanda 2. Quanti tamponi al giorno è in grado di effettuare la sanità pubblica? Qui la risposta è precisa (50 mila al giorno) ma inquietante. Non solo perché il fabbisogno è di almeno il doppio, ma perché la risposta è corredata da affermazioni non veritiere o fuorvianti sulle capacità italiane rispetto ad altri paesi. La realtà, come documentato nei giorni scorsi dalla Fondazione Hume, è che l’Italia è uno dei paesi che di tamponi ne ha fatti di meno, a parità di “anzianità dell’epidemia”. Una circostanza aggravata dal fatto che non solo avremmo potuto approvvigionarci sul mercato prima che partisse la corsa degli altri paesi, ma avremmo anche potuto incentivare e potenziare la produzione interna facendo cadere le barriere normative e burocratiche che finora l’hanno ostacolata.
Domanda 3. Esiste una data a partire dalla quale potremo effettuare liberamente tamponi e test sierologici certificati, con la semplice prescrizione di un medico?
La risposta è chiara: no, una simile data non esiste. Il perché non esiste è inquietante: l’Organizzazione Mondiale della Sanità è indietro, i percorsi autorizzativi saranno ancora lunghi. E, aggiungo io: quando un imprenditore si dà da fare per sottoporre a test i suoi dipendenti, rischia una denuncia o l’intervento dei Nas (è successo alla Sbe di Monfalcone pochi giorni fa).
Va detto, però, che nelle ultime ore le cose si stanno muovendo. Almeno per quanto riguarda i lavoratori, si sta finalmente affrontando il problema di rendere possibili test sierologici certificati. A quel che si apprende, dovrebbe essere imminente la pubblicazione, sul sito della protezione Civile, del bando per raccogliere le offerte delle aziende che si candidano alla produzione del kit per gli esami sierologici. Questo è estremamente positivo.
Domanda 4. Avete una app o un software per il tracciamento dei contatti, e quante persone finora sono state reclutate a questo scopo?
Qui la sostanza della riposta è: no, non ce l’abbiamo ancora (sono passati 2 mesi dall’inizio dell’epidemia!), ma prima o poi ce l’avremo. Infatti la ministra all’innovazione tecnologica “sta lavorando – insieme a una task force di 74 esperti – a un’app su base volontaria che dovrebbe essere elaborata da una software house milanese”. Sarà perché faccio il professore universitario, e di commissioni e gruppi di lavoro un po’ ho esperienza, ma confesso che venire a sapere che ci lavora una task force di ben 74 esperti (ovviamente in smart working), che i medesimi esperti devono ancora testarla su un campione, e che a usarla saranno solo volontari, non mi rassicura per niente. Ma non potevamo comprarne subito una funzionate e collaudata dai Cinesi o dai Coreani, i quali (anche) grazie al tracciamento sono riusciti a contenere rapidamente l’epidemia?
Le notizie delle ultimissime ore, però, sono un po’ diverse, e decisamente più incoraggianti: il commissario Arcuri ha appena firmato un’ordinanza per accelerare il decollo della app, le sperimentazioni a livello regionale dovrebbero partire in tempi relativamente rapidi. Speriamo bene.
Domanda 5. Quanti posti sono attualmente disponibili per la quarantena di chi non può farla a casa?
La risposta non è precisa, ma è abbastanza rassicurante: 6800 posti nelle strutture messe a disposizione da Forze Armate e Polizia, più “decine di migliaia” negli hotel grazie ad accordi conclusi dalle Regioni. E’ verosimile che, finché si faranno pochi tamponi come adesso, questa disponibilità di posti risulterà più che sufficiente.
Domanda 6. In quale data partirà l’indagine campionaria sulla diffusione del Covid-19 e in quale data saranno disponibili i risultati?
Anche in questo caso nessuna data, né per l’inizio, né per la conoscenza dei risultati. Per fare l’indagine sul numero di cittadini previsti (150 mila), oltre a costruire il campione, occorre approvvigionarsi di test (molecolari e sierologici), che al momento non sono disponibili. Che il commissario Arcuri li stia cercando sul mercato “in queste ore” è una buona notizia, anche se inquieta un po’ il fatto che non lo abbia già fatto, visto che della necessità di fare un campione nazionale si parla da settimane.
Domanda 7. Avete intenzione di de-secretare i micro-dati sui casi positivi, i decessi, gli ospedalizzati, in particolare quelli in terapia intensiva? In quale data la comunità scientifica potrà accedere ai dati?
Qui la risposta brilla per chiarezza: mai. Le motivazioni invece brillano per oscurità, burocratese e, mi spiace dirlo, per capziosità. Si invocano “la tutela della riservatezza”, e le “valutazioni a garanzia della tutela dei dati personali e sanitari”. Mi limito ad osservare che, mentre si sospende la libertà fondamentale di spostamento, e si discute (giustamente) della possibilità di limitare le tutele alla privacy per permettere il tracciamento dei soggetti positivi, è davvero curioso che ci si preoccupi di proteggere la privacy dei malati di Covid, e persino dei morti.
Eppure, chi ha esperienza di ricerca sa benissimo che da decenni esistono collaudati sistemi di “anonimizzazione” e aggregazione dei micro-dati che permettono di trattarli nel perfetto rispetto dell’anonimato. Senza dire che, se proprio non vogliono fornire i micro-dati, le autorità potrebbero almeno rilasciare dati aggregati ma tuttora non disponibili come il numero di morti per Covid nei singoli comuni: una informazione che, incredibilmente, ancora oggi non è disponibile, e la cui conoscenza permetterebbe finalmente di tracciare la mappa delle morti nascoste.
Se devo basarmi sulle risposte ricevute fin qui, mi sembra inevitabile concludere che, nonostante alcuni importanti passi avanti, le autorità non sono pronte alla fase 2. Allo stato attuale, anche se i nostri sacrifici fossero già riusciti ad azzerare i contagi, dovremmo comunque – per evitare che l’epidemia riparta – stare ancora fermi, in attesa che le autorità forniscano un numero adeguato di tamponi, test sierologici, mascherine, dispositivi di protezione per i lavoratori.
Dobbiamo dunque pensare che la fase 2 è lontana, e che saremo costretti agli arresti domiciliari per mesi e mesi?
Niente affatto. Potrò sbagliarmi, ma la mia sensazione è che la fase 2 partirà comunque. Troppa è la pressione della gente, troppa la più che comprensibile impazienza del mondo delle imprese. Difficile che il governo riesca a tenerci tutti nel congelatore oltre la prima metà di maggio. Del resto quasi tutto il Nord sta già, più o meno incautamente, avviando la fase 2, sia pure per tappe progressive.
Dunque la domanda non è: quando partirà la fase2? La vera domanda è: quanti altri morti ci costerà la scelta di ripartire comunque per timore di un tracollo economico e sociale?
La risposta a questa domanda è che il numero di morti dipenderà molto dalla velocità con cui le autorità colmeranno i ritardi che hanno accumulato.
Per questo abbiamo fatto le 7 domande. Per questo speriamo che, con il passare del tempo, le risposte diventino sempre più rassicuranti.

Pubblicato su Il Messaggero del 18 aprile 2020




I già contagiati sono 10 milioni. Intervista di Alessandra Ricciardi a Paolo Gasparini

Riproponiamo l’intervista di Alessandra Ricciardi a Paolo Gasparini, ordinario di genetica all’Università di Trieste, pubblicata il 15 aprile 2020 su ItaliaOggi.

I già contagiati sono 10 milioni




Contagion. Come si esce vivi da un film catastrofico?

Facciamo un gioco.
“Stiamo analizzando l’efficacia di molti farmaci. Ma finora la nostra migliore difesa è il distanziamento sociale. Evitare strette di mano, stare a casa se ci si ammala, lavarsi spesso le mani”.
Chi ha detto questa frase?
Borrelli nella conferenza stampa delle 18? Franco Locatelli del CSS? Il presidente Conte?
No. L’ha detta Laurence Fishburne nel 2011, interpretando il dottor Cheever nel film “Contagion” di Steven Soderbergh.
La battuta l’ha scritta Scott Z.Burns, autore della sceneggiatura, ed è perfettamente realistica, come quasi tutto il resto.
In “Contagion”, una pandemia che arriva da un pipistrello di Hong Kong fino all’uomo miete qualche milione di vittime tutto il mondo. La dinamica di trasmissione, i dialoghi tra i medici, l’armamentario di mascherine e guanti sembra uscito dalle cronache del 2020.
Preveggenza?
Ovviamente no, solamente cinema ben fatto. All’epoca Soderbergh e Burns si sono avvalsi della consulenza di Ian Lipkin, celebre virologo del Center for Infection and Immunity della Columbia University, che si è limitato a immaginare ciò che era perfettamente immaginabile.
Qualche giorno fa Ian Lipkin ha annunciato di aver preso il Coronavirus.
Una bizzarra e crudele forma di contrappasso: è come se una fantasia fosse arrivata a vendicarsi di chi l’ha pensata.
La cosa interessante però non è notare le somiglianze tra “Contagion” e la realtà, quanto vedere le differenze.
Una su tutte. Nel film, intorno al giorno 30 dall’inizio della pandemia, esplodono violente tensioni sociali. Rivolte, incendi, saccheggi, vetri in frantumi, supermercati assaltati.
Immagino le riunioni di sceneggiatura tra Soderbergh e Burns, e ammetto che non so come dare loro torto su quella scelta. Era uno scenario perfettamente credibile.
Però nella realtà non è successo.
Fino ad ora, la risposta della comunità alla più grande emergenza degli ultimi ottanta anni è stata più composta, più pacifica, più riflessiva di come più o meno tutti avremmo potuto immaginare.
Abbiamo avuto la prova, casomai ce ne fosse bisogno, che i cattivoni da film catastrofico pronti a prendere d’assedio tutti e tutto non ci sono, o se ci sono sono pochi.
Le persone, tutte, reagiscono in funzione dei loro bisogni: assaltano i supermercati solo se non hanno più nessuna alternativa, e quindi, più che immaginare sempre le colpe degli altri, sarebbe il caso di darla, una alternativa, prima che la predizione di “Contagion” possa, alla fine, farsi reale.
Cosa vuol dire “dare un’alternativa”?
Non vuol dire riaccendere la macchina il prima possibile, rimandare tutti a lavorare prima del dovuto, questo lo abbiamo capito.
Il tempo della medicina è quello che comanda, ed è un tempo lento e tirannico, che non concede sconti nemmeno a chi è abituato a fare ciò che vuole con le vite degli altri.
E’ una occasione da cogliere, questa revisione delle priorità. Da troppi anni ci è stato raccontato che la produzione è un dogma indiscutibile, che è un valore in sé, che prescinde dalla qualità della vita di chi lavora nel nome del bene supremo dell’aumento della ricchezza.
Non ci si può fermare. E’ impossibile, impensabile.
Beh, ci si è fermati.
Il Coronavirus ha scassato il giocattolo.
E ora si chiede agli stati, che nel paradigma pre-pandemia il mercato voleva sempre più deboli e asserviti a logiche economiche, di tornare forti.
Si chiede agli stati di assistere e sostenere, di immaginare un futuro e governarlo. Si chiede insomma agli stati di fare quello che, in tempi di crisi, il mercato non riesce a fare.
Lo stesso mercato che ha rotto gli equilibri, che ha squarciato il tessuto sociale, che ha creato sacche di povertà e disparità inimmaginabili solo pochi decenni fa, ora chiede a qualcun altro di raccogliere i cocci.
Ma il danno era già lì. Se non ci si poteva fermare era perché si stava correndo troppo veloce, evidentemente.
Sarà il caso che i governi, e gli organismi sovranazionali, a cominciare dall’Europa, raccolgano questo invito.
L’alternativa è l’assalto ai supermercati, e sarebbe un assalto con delle buone ragioni.
Sarà il caso che la politica raccolga questo invito a tornare centrale nelle vite delle persone, ma per farlo deve avere una visione.
Lo stato di ansia ci spinge a sperare che tutto torni come prima il più in fretta possibile.
E’ comprensibile, perfino sano. Una normale reazione al dolore.
Ma non è a prima che bisogna tornare.
Il “prima” è ciò che ha generato tutto questo.
Se la reazione si ridurrà a prestare un po’ di soldi alle imprese perché la macchina riparta più o meno com’era, rabberciata e zoppicante, alla lunga da questa crisi usciremo soltanto tutti ancora più poveri e più fragili.
Se invece coglieremo l’occasione per creare un mondo più equo, forse, nel dramma, almeno questo maledetto morbo sarà servito a qualcosa.
Perché, vista da qui, mentre la gente muore, la realtà com’era anche solo sei mesi fa sembra meravigliosa.
Ma è una illusione ottica.
Il mondo non era un granché nemmeno prima. Non dimentichiamocelo.




7 domande senza risposta

Supponiamo che a un certo punto, speriamo presto, vi siano buoni motivi per pensare di essere vicini alla meta di nuovi contagi-zero. In sostanza significherebbe che, con i sacrifici dei cittadini, si è arrivati ad avere pochissimi nuovi contagiati ogni giorno (nessun nuovo contagiato è ovviamente impossibile, nel breve periodo).

Bene, a quel punto la pressione di tutti, famiglie e imprese, per ripartire diventerebbe fortissima. Ascolteremmo discorsi del tipo: noi abbiamo fatto il nostro dovere, adesso lasciateci tornare a vivere e a lavorare.

Supponiamo anche, giusto per stare sul concreto, che quel giorno sia fra 3 settimane, ovvero ai primi di maggio.

Ebbene, a quel punto potremmo riaprire?

La risposta è che questo non dipende da noi comuni cittadini ma dipende dai nostri governanti. Se loro avranno fatto la loro parte, i nostri sacrifici non saranno stati vani. Ma se invece non l’avranno fatta, sarà perfettamente inutile quel che abbiamo patito fin qui perché l’epidemia ripartirà. Prima a macchia di leopardo, con pochi e piccoli focolai un po’ in ogni parte d’Italia, poi alla grande, quando i nuovi focolai si espanderanno, più o meno come è già successo dalla fine di febbraio.

Ecco perché dobbiamo farci la domanda: ma loro sono pronti? Hanno fatto i compiti?

E’ una domanda che, meritoriamente, alcuni mezzi di informazione pongono, e ripropongono quotidianamente, a politici e funzionari quando li interrogano su cose come tamponi, mascherine, test sierologici, ma è anche una domanda cui seguono balbettamenti, frasi involute, vaghe intenzioni, riflessioni e valutazioni che sarebbero in corso, rivendicazioni di quel che si è fatto, ma nessuna chiara e univoca risposta, in un frastuono di voci ora confuse, ora discordanti.

Eppure è la domanda cruciale: siete pronti? Se oggi fossimo a contagi zero sareste in condizione di gestire la fase due?

Quel che si è capito fin qui è che loro non sono affatto pronti. Perché se lo fossero ci direbbero cose come quelle che seguono.

  1. Ci siamo approvvigionati, ci sono mascherine per tutti, abbiamo calcolato che ce ne vogliono 100 milioni al giorno (almeno 2 a testa), le farmacie sono rifornite.
  2. Di tamponi ne facciamo ancora pochi, ma entro la settimana prossima arriveranno tamponi e reagenti, e saremo in grado di farne 500 mila alla settimana come la Germania.
  3. Abbiamo deciso di rinunciare al monopolio pubblico dei test, da oggi chiunque lo desideri può sottoporsi a tamponi e test sierologici in una struttura privata, o mediante prelievi a domicilio; episodi come quello di Monfalcone, in cui i Nas hanno sequestrato i tamponi a un’impresa che stava facendo i test ai suoi lavoratori, non si ripeteranno più.
  4. E’ pronta una app per il tracciamento dei contatti, ed è già operativa una task force di 5000 persone che ricostruirà i contatti di ogni caso risultato positivo.
  5. Ci sono 10 mila posti, in alberghi e strutture para-ospedaliere, pronti ad accogliere chi non può passare la quarantena a casa perché rischia di infettare i familiari.
  6. L’Istat sta svolgendo un’indagine a campione in tutto il territorio nazionale, entro una settimana avremo i dati fondamentali per governare l’epidemia, a partire da quelli sul numero di asintomatici e pauci-sintomatici.
  7. Abbiamo deciso di de-secretare i micro-dati (anagrafici e clinici) dell’Istituto Superiore di Sanità sui positivi, per permettere agli studiosi di dare il loro contributo alla comprensione dell’epidemia.

Sfortunatamente, di rassicurazioni di questo tipo non v’è la minima traccia.

Ecco perché, da oggi in poi, noi ve lo chiederemo sempre. Abbiamo preparato 7 domande, una per ciascuno dei 7 punti precedenti, e le ripeteremo periodicamente, per fare il punto, e sapere se avete fatto progressi, e a che punto siete. Potete non risponderci, ma la vostra non-risposta sarà più eloquente di qualsiasi risposta.

Noi cittadini, la nostra parte la stiamo facendo. Ora tocca a voi, che vi siete presi i pieni poteri per gestire l’epidemia, dimostrarci che state facendo la vostra.

***

 

Bozza di questionario

1. Quante mascherine al giorno, al momento, sono in grado di fornire le farmacie e le altre strutture sanitarie?
2. Quanti tamponi al giorno, al momento, è in grado di effettuare la Sanità Pubblica?
3. Esiste una data a partire dalla quale potremo effettuare liberamente tamponi e test sierologici certificati, con la semplice prescrizione di un medico?
4. Avete una app o un software per il tracciamento dei contatti, e quante persone (oltre ai 74 esperti), finora, sono state reclutate a questo scopo?
5. Quanti posti sono attualmente disponibili per la quarantena di chi non può farla a casa?
6. In quale data partirà l’indagine campionaria sulla diffusione del Covid-19 e in quale data saranno disponibili i risultati?
7. Avete intenzione di de-secretare i micro-dati sui casi positivi, i decessi, gli ospedalizzati, in particolare quelli in terapia intensiva? In quale data la comunità scientifica potrà accedere ai dati?

Pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2020