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Sui limiti della libertà di espressione – Le parole sono importanti

23 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Non ricordo un periodo in cui si sia parlato così tanto, e così costantemente, di libertà di espressione. Il caso di Tony Effe, di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi, è infatti solo l’ultimo episodio di una serie di controversie che, in un modo o nell’altro, hanno coinvolto ogni sorta di soggetti: politici, ministri, scrittori, docenti, giornalisti, comuni cittadini. Giusto per fare alcuni esempi: la presidente della Camera Laura Boldrini che denuncia i suoi detrattori in rete; l’università di Milano che sospende il prof. Marco Bassani per aver condiviso (su Facebook) una vignetta sarcastica su Kamala Harris; Giorgia Meloni che querela il prof. Canfora per averla definita “neo-nazista nell’animo”; gli scrittori sgraditi silenziati dai contestatori al Salone del Libro di Torino; lo scrittore Saviano disinvitato da un programma Rai per i contenuti anti-governativi di un suo discorso sul 25 aprile. Eccetera.

Apparentemente, in molti di questi casi, ci troviamo di fronte a un dilemma: da una parte la libertà di espressione, dall’altra qualche principio altrettanto alto (la dignità umana, l’anti-fascismo, ecc.), che però confligge con la prima. È questo il motivo per cui, in ultima analisi, è praticamente impossibile stabilire in modo chiaro, univoco e condiviso i limiti della libertà di espressione.

E tuttavia…

Tuttavia c’è almeno una cosa che potremmo fare per regolare in modo ragionevole queste controversie: non forzare il senso delle parole. Morettianamente, ricordarci sempre che “le parole sono importanti”. Usarle a sproposito porta a fraintendimenti e inutili conflitti.

La parola censura, ad esempio. Censura è quando un’autorità vieta la circolazione di un testo, o impedisce a un cittadino di esprimere le sui opinioni, non quando un autore o un artista (o persona che tale si sente), non viene invitato a un evento, o a una trasmissione, o a esprimersi su una piattaforma. Il potere culturale, editoriale, letterario esiste, talora favorisce gli autori di destra, talora (più di frequente) quelli di sinistra, ma quella non è censura. È esercizio, più o meno partigiano, più o meno illuminato, di un potere costitutivamente arbitrario. San Remo non è un concorso universitario, e il direttore artistico ha tutto il diritto di invitare chi vuole, perché a lui è staro delegato quel potere. Possiamo criticare Carlo Conti se esclude Patty Pravo o Al Bano, ma non gridare alla censura. Lo stesso vale per i tanti che si sentono esclusi dalla programmazione Rai, o da un talk show, o da un concorso letterario. Possiamo parlare di “amichettismo”, circuiti privilegiati, cerchie che escludono e cerchi magici che includono. Ma di censura no, se non altro per rispetto verso i veri censurati sotto le dittature e i regimi dittatoriali.

Un altro esempio è la parola pensiero. Gli insulti, le offese, le ingiurie, non sono manifestazioni della libertà di pensiero, anche quando usate nell’ambito di un ragionamento politico. Si può discutere, caso per caso, dell’opportunità di querelare per diffamazione (un reato che è stato rilanciato dalla depenalizzazione dell’ingiuria), ma non si può invocare la libertà di pensiero per giustificare un’offesa, o teorizzare che le querele vanno ritirate se c’è squilibrio di potere fra querelante e querelato.

Soprattutto non si possono usare due pesi e due misure: se Laura Boldrini faceva bene a denunciare i suoi odiatori (per lo più anonimi), altrettanto bene fa Giorgia Meloni con i propri detrattori (per lo più ben protetti dall’establishment culturale).

Un altro esempio ancora sono le parole dissenso, contestazione, critica usate per giustificare chi impedisce materialmente lo svolgimento di una manifestazione, di un incontro, di un convegno, di un evento culturale. Qui gli esempi – in parte già richiamati – sono tantissimi e molto diversi fra loro. Studenti che, in diverse università, impediscono di parlare a Maurizio Molinari e David Parenzo in quanto ebrei. Contestatori che impediscono a Eugenia Roccella di parlare al Salone del libro e agli Stati generali della natalità. Attivisti che impediscono il volantinaggio ad attivisti di diverso credo politico. Manifestazioni di piazza per impedire altre manifestazioni. Presentazioni di libri soppresse per l’argomento del libro (l’ebrea Golda Meir). Sempre ogni volta in nome del sacrosanto diritto al dissenso e alla manifestazione del pensiero, tutelati dagli articoli 17 e 21 della Costituzione. È il caso di notare che quel che questi esempi hanno in comune non è l’uso della violenza, perché in diversi casi si tratta di manifestazioni pacifiche, che ottengono il risultato voluto (il silenzio altrui) senza ricorrere all’uso della forza, talora anzi adoperando mezzi creativi: liberare decine di migliaia di grilli in una sala per impedire un evento culturale sgradito (è successo anche questo) può essere più efficace di un picchettaggio o di un’irruzione di massa.

Ebbene, anche in questi casi le parole sono usate a sproposito. Impedire a qualcuno di parlare non è né dissenso, né contestazione, né critica. Semmai è privare qualcuno di un suo diritto, quello di manifestare il proprio pensiero in pubblico. Ma come si chiama questa cosa?

Ed ecco il problema: per questa cosa, in particolare quando non è violenta, non solo non abbiamo un reato, ma nemmeno una parola. Anzi, forse non abbiamo il reato precisamente perché ci manca la parola per dire la cosa. Usiamo la parola dissenso, ma il dissenso è il motivo dell’azione, non l’azione stessa. Per quest’ultima abbiamo solo concetti approssimativi: silenziare, zittire, oscurare, sopraffare (grillare?).

Peccato, perché “le parole sono importanti”.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 dicembre 2024]

Feste civili e giornate della memoria che dividono

23 Dicembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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I lettori non me ne vogliano se dico di comprendere i magistrati, i giustizialisti e la sacra corona delle sinistre unite che si oppongono ferocemente al giorno della memoria delle vittime delle sentenze giudiziarie. Nel nostro paese, infatti, le feste nazionali e le giornate della memoria non sono momenti di rinnovata concordia nazionale ma sceneggiate di guerre civili che si vogliono far rivivere, carnevalate di cui nessuno sembra vergognarsi. Nelle marce, nei moniti minacciosi—‘non passeranno!’—nella demonizzazione dei vinti (‘Vae victis!’), non si gode insieme la riconquistata libertà, la ritrovata indipendenza, la fine di una tragedia nazionale, ma ci si compiace quasi per la violenza erogata contro i nemici interni ed esterni, fino ad esaltare le macellerie messicane (per citare Ferruccio Parri) di Piazzale Loreto e dei triangoli della morte. Un comunista d’antan, Gian Carlo Pajetta, in una trasmissione televisiva, disse a Giorgio Almirante: “abbiamo riconquistato la democrazia anche per voi”. E il leader missino, qualche tempo dopo, dichiarò pubblicamente, non senza una certa ironia, “se antifascismo vuol dire libertà per tutti, elezioni democratiche, rispetto di tutte le opinioni sono antifascista anch’io”. E’ superfluo rilevare che non è questo lo spirito del 25 aprile in cui, alle sfilate partigiane stricto sensu, non sono tollerati, non dico gli ex fascisti (pentiti o dissociati), ma neppure i liberali non di sinistra. I più vecchi ricorderanno che al padre di Letizia Moratti, in carrozzella, si vietò di prendere parte al corteo che, nella sua Milano, rievocava la Resistenza e la Liberazione. Una delle figure più nobili della Resistenza e della Prima Repubblica, Randolfo Pacciardi, fu demonizzato per aver collaborato con Giano Accame – un politico intellettuale di elevata cifra morale – in un movimento inteso al superamento del fascismo e dell’antifascismo e a una riconciliazione nazionale. Nel 1974, come ricorda Luca Polese Remaggi nel ‘Dizionario Biografico degli Italiani’ (2014) venne persino “raggiunto da una comunicazione giudiziaria, inviata dal giudice istruttore di Torino Luciano Violante. Era accusato insieme a Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, a diversi funzionari dello Stato e a neofascisti di Ordine Nuovo e del Fronte Nazionale di Valerio Borghese di aver cospirato per un colpo di Stato”. Cose e’ pazze!, si direbbe a Napoli.

Nel 1945, nella grande manifestazione svoltasi nella Parigi liberata, Charles De Gaulle intonò ‘La Marsigliese’ “Contre nous de la tyrannie/ L’étendard sanglant est enlevé” . (‘Contro di noi si è levato lo stendardo insanguinato della tirannia’). Lo stendardo (cattivo) era quello dei suoi antenati giacché il generale veniva da una famiglia cattolica e nazionalista di origine aristocratica (fondata da Thébault de Gaulle nel XVI secolo) e, da giovane, era stato vicino ai monarchici dell’’Action Française’ ma anche per lui la Festa della Bastiglia (il 14 luglio) e la ‘Marsigliese’ erano simboli di unione, oltre i partiti e le classi sociali, come nel bellissimo film di Michael Curtiz Casablanca (1942). Lo stesso dicasi del 4 luglio in America dove non si sfila contro nessuno ma ci si unisce in un embrassons-nous universale a testimoniare un patriottismo naturale, spontaneo e non prescritto dal potere. Sulle grandi avenue di New York e delle altre metropoli americane, nelle cittadine del Middle West e in quelli che un tempo erano i villaggi della frontiera, tutti gli americani si ritrovano a cantare in coro “O say, does that star-spangled banner yet wave/ Over the land of the free and the home of the brave” (Oh dimmi, sventola ancora quello stendardo stellato/ Sulla terra dei liberi e sulla casa dei coraggiosi).

‘The Star-Spangled Banner’ – a differenza di Bella ciao – è un simbolo di identità e di unione che va oltre le classi sociali, le razze, le etnie culturali. Non è un inno di battaglia ma un Te Deum laudamus come sono le note che esprimono lo ‘spirito comunitario’.
In Italia tutto ciò sarebbe impensabile. Da noi le feste civili o sono roba di guelfi o sono roba di ghibellini: a caratterizzarle sono i simboli belligeni non i ramoscelli d’ulivo dell’albero della pace. E lo stesso dicasi delle giornate della memoria: se si ricordano le foibe, le sinistre si mettono a lutto. Nessun gesto simbolico di riparazione da parte di quanti erano dalla parte di Tito. Indifferenti alla perdita delle nostre province orientali – del resto, nell’immediato secondo dopoguerra, l’unico film dedicato alla tragedia degli Italiani d’Istria è La città dolente di Mario Bonnard del 1949 – sindacalisti, militanti socialcomunisti e portuali, a Genova, non volevano far sbarcare i ‘fascisti’ istriani in fuga dal Paradiso comunista. Analogamente è impensabile che la magistratura chieda perdono agli italiani per le tante vittime innocenti finite nelle carceri statali. Si comprende bene l’indignazione di Gaia Tortora: non solo nessuno ha pagato per la morte del padre ma i magistrati responsabili della pazzesca sentenza che distrusse la vita di Enzo Tortora hanno fatto carriera come se non avessero commesso alcuna manchevolezza.

Se il giorno della memoria delle vittime dei tribunali si facesse davvero e vedesse la partecipazione di magistrati seri e responsabili (ce ne sono) pronti a salire sul palco ad abbracciare i parenti degli innocenti ingiustamente condannati, se dessero prova di civismo i più alti gradi del potere giudiziario facendo il classico ‘esame di coscienza’ e impegnandosi solennemente a una maggiore vigilanza sulle indagini e sulla raccolta delle prove a carico degli imputati, l’Italia potrebbe dimostrare al mondo di non essere inferiore alla Francia o agli Stati Uniti nel creare occasioni di incontro e di riconciliazione tra parti politiche e sociali un tempo in conflitto. Temo, però, che nel caso il progetto andasse in porto, e per di più se si scegliesse proprio la giornata dell’arresto di Enzo Tortora per ricordare le vittime dei tribunali, i giustizialisti rimarrebbero chiusi in casa, a guardare dalla finestra i cortei con risentimento ed astio. Gli ipergarantisti (ovvero gli anti-giustizialisti ideologici per i quali ogni sentenza di condanna è sospetta ed ogni prova portata dai PM è artefatta), dal canto loro, ne trarrebbero motivo per una nuova cruenta (almeno simbolicamente) prova di forza: sarebbero loro a sfilare sotto le finestre dei giudici e davanti alle corti di giustizia al grido Vergogna! Col risultato che il paese, ancora una volta, mostrerebbe che solo le guerre civili lo tengono in vita, gli procurano emozioni, procurano ai cittadini forti identità etico-sociali. Da noi la guerra civile non è una parentesi ma una pianta che va innaffiata ogni giorno: e guai ai tiepidi o ai ‘renitenti alla leva’!

A ben riflettere è, questa, una delle eredità più negative del fascismo: l’abito della mente e del cuore che porta a riguardare i “panciafichisti”, i pacifisti che non amano battersi e cercano l’accordo con quanti hanno interessi e valori diversi dai loro, come vigliacchi “che mai non fur vivi”. E’ non poco emblematico, d’altronde, che il termine inglese bargaining, che designa la quintessenza della democrazia liberale ovvero la disposizione a venire a patti con l’altro nel disarmo degli animi, in Italia venga tradotto come ‘compromesso’, parola che non ha nessuna valenza positiva e che, quando non è completamente negativa, rimane sempre associata a qualcosa di spiacevole – ad es., una ‘pace di compromesso’ non è una pace giusta e soddisfacente, ma una triste necessità alla quale è difficile sottrarsi, intervenendo cause di forza maggiore.

Sui nuovi dati del Ministero dell’Interno – Criminalità e immigrazione irregolare

18 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Stanno suscitando un discreto sconcerto i dati sulla criminalità che, da alcuni giorni, filtrano dal Ministero dell’Interno. Da essi, infatti, si deduce che la percentuale di reati presumibilmente commessi (persone denunciate o arrestate) da stranieri irregolari (circa il 28%), è enormemente superiore al peso degli irregolari stessi (meno dell’1% della popolazione presente in Italia). Ancora più sconcerto suscitano i dati su uno dei reati più odiosi, ossia le violenze sessuali: nei primi 9 mesi del 2024 quasi la metà (il 44%) sono state perpetrate da stranieri (regolari e non), che costituiscono appena il 10% della popolazione. E ancora più preoccupanti appaiono i dati delle violenze sessuali commesse da giovani, che vedono un’incidenza degli stranieri che sfiora il 60%, circa 6 volte il loro peso sulla popolazione.

Ci vorrà tempo e pazienza per ponderare bene questi dati, confrontandoli con quelli rilasciati in passato, anche per capire se la pericolosità relativa degli stranieri irregolari è aumentata o diminuita nel tempo (a una prima analisi pare aumentata).

Quello che per ora i dati ministeriali sembrano suggerire sono almeno due cose. Primo, la pericolosità relativa degli stranieri irregolari è circa 50 volte superiore a quella dei cittadini comunitari (italiani e stranieri). Secondo, quasi un terzo dei posti occupati in carcere è imputabile a cittadini stranieri, in buona parte irregolari (con i
dati disponibili, la percentuale esatta può solo essere stimata). Si può tranquillamente affermare che senza questi detenuti non vi sarebbe alcun sovraffollamento carcerario, anche se – ovviamente – resterebbero i gravissimi problemi di degrado, trattamenti
disumani, carenza di servizi giustamente (e inutilmente) denunciati da alcune associazioni (a partire da Antigone) e da alcune forze politiche (a partire dai Radicali).

Che fare, dunque?

Molte cose si potrebbero fare, sia di sinistra sia di destra, ma ve ne è una preliminare a qualsiasi soluzione: non negare l’esistenza del problema. Perché già lo so che, a partire dai prossimi giorni, vedremo rispolverare le due obiezioni – entrambe fallaci – che vengono sollevate ogniqualvolta il Ministero o l’Istat forniscono dati disaggregati per nazionalità degli autori di reati.

La prima è: ma la maggior parte dei reati li commettono gli italiani, non gli stranieri. Questa obiezione è ingenua, perché è ovvio che – essendo gli italiani 10 volte più numerosi degli stranieri e 100 volte più numerosi degli stranieri irregolari – il loro apporto alla criminalità complessiva non può essere trascurabile. Il punto è che, da soli, gli stranieri (regolari e non) commettono circa 1/3 dei reati, e gli stranieri irregolari, spesso concentrati in spazi circoscritti, costituiscono una minaccia intollerabile per la gente comune. E questo non perché quest’ultima sia preda di paure irrazionali, ma semplicemente perché – in certi quartieri o isolati – il rischio di aggressione per km quadrato è di 10, 100, anche 1000 volte superiore a quello di un quartiere normale. Né si trascuri il fatto, già accennato, che cancellare anche solo 1/4 o 1/3 dei reati allevierebbe in modo significativo le condizioni di vita dei detenuti.

La seconda obiezione fallace è: gli stranieri sembrano più pericolosi degli italiani perché la propensione a denunciare è maggiore, molto maggiore, quando l’autore è straniero. Detto in altre parole, il “numero oscuro” (ossia il numero di reati non denunciati) sarebbe diverso a seconda che l’autore sia italiano o straniero.

Questa obiezione è debole per due motivi distinti. Innanzitutto, ci sono reati – in particolare gli omicidi e i femminicidi – per cui il numero oscuro è vicino a zero, e ciononostante la propensione degli stranieri risulta 2 o 3 volte superiore a quella degli italiani. Tutto fa supporre che, ove disponessimo della distinzione fra stranieri regolari e irregolari, la forbice fra le propensioni degli stranieri irregolari e quella degli italiani (o degli stranieri regolari), sarebbe ancora più pronunciata.

La seconda debolezza sta nel fatto che, anche ammettendo che la propensione alla denuncia possa essere più alta quando l’autore è straniero (ipotesi più che ragionevole), non vi è alcuna prova che la differenza fra le due propensioni possa essere così ampia da spiegare l’enorme gap che separa i tassi di criminalità degli stranieri irregolari da quelli di tutti gli altri (italiani e stranieri regolari). L’unica stima fornita a sostegno dell’ipotesi di tassi di denuncia differenziati si basa su una ricerca vecchia, che riguarda solo le violenze sessuali, e ignora il fatto che i tassi di denuncia delle giovani generazioni sono presumibilmente assai più alti e allineati (ossia indipendenti dalla nazionalità dell’autore) di quelli delle generazioni precedenti.

In conclusione. I nuovi dati del Ministero dell’Interno gettano luce su un problema drammatico. Ci sarà modo di analizzarli, discuterli, forse anche criticarli o richiedere chiarimenti. Ma la cosa peggiore che potremmo fare è rispolverare l’armamentario
negazionista con cui, ogni volta che vengono fuori numeri e statistiche, più o meno improvvisati fact-checker cercano di occultare l’amara realtà dell’immigrazione irregolare.

[articolo uscito sul Messaggero il 17 dicembre 2024]

In margine alla festa di Atreju – Elettori oltre la destra e la sinistra

18 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Forse è un po’ presto per fantasticare di nuove creature politiche, visto che – salvo incidenti – si voterà nel 2027. Però è quello che sta succedendo nelle ultime settimane, prima con la cacciata di Beppe Grillo e la “contizzazione totale” dei Cinque Stelle, poi con le manovre al centro per la dar vita a un partito liberal-democratico, o con quelle per la (ri)nascita di un partito cattolico di sinistra, sulla scia della Margherita di rutelliana memoria. Per non parlare degli smottamenti interni a Forza Italia, sempre più tentata di accentuare i suoi tratti moderati, se non di “partito di destra che guarda a sinistra”, cavalcando alcuni temi indigesti per la destra-destra: ius scholae, diritti delle minoranze sessuali, multe ai No Vax.

Quello che accomuna tutti questi sommovimenti è lo sforzo di aggirare la dicotomia secca destra-sinistra, in cui tanti non riescono più a riconoscersi. In effetti, a giudicare dai sondaggi (penso in particolare a una recente indagine di Renato Mannheimer) gli
elettori che non se la sentono né di dichiararsi di destra né di dichiararsi di sinistra non sono certo pochi: il 33% dell’elettorato, ossia 1 elettore su 3, rifiuta entrambe le etichette.

Allora è vero che una forza di centro, né di destra né di sinistra, avrebbe a disposizione praterie di potenziali elettori?

No, è un’illusione. Se infatti andiamo a vedere come è composto l’insieme degli elettori che non si riconoscono né nella destra né nella sinistra, scopriamo che solo il 9.1% dell’elettorato si autodefinisce di centro. È una percentuale di poco superiore a quella che, prima del divorzio fra Renzi e Calenda, dava il suo voto al cosiddetto Terzo Polo. Nulla suggerisce che siano più del 10% gli italiani disposti a dare fiducia a un partito che non dichiara se, dopo il voto, si alleerà con la destra-destra o con la sinistra-sinistra. Sono invece il 20-25%, cioè circa 1 su 4, gli italiani che non si riconoscono né nell’attuale sinistra, né nell’attuale destra, né in un generico partito di centro, o partito dei moderati.

Ma perché sono così tanti? E che cosa pensano? Che cosa li trattiene dall’auto-collocarsi a destra o a sinistra?

Una ragione può essere lo scarso interesse per la politica, o l’insoddisfazione per le politiche di entrambi gli schieramenti. Ma una ragione alternativa, a mio parere più importante, è che – non solo in Italia – sono sempre più numerosi i cittadini che esprimono istanze che, lungi dall’essere né di destra né di sinistra, sono sia di destra sia di sinistra.

Prendiamo, a titolo di esempio, la classica frattura fra ceti medi e ceti popolari. Nell’universo politico classico un operaio votava a sinistra, un impiegato o libero professionista votavano a destra. Oggi, invece, può capitare che un operaio guardi a destra perché vede il degrado delle periferie indotto dalla presenza degli immigrati, o semplicemente perché non capisce l’ostinazione del mondo progressista nella difesa delle minoranze sessuali, o nel sostegno alle politiche green, o nella promozione del linguaggio “follemente corretto”. Simmetricamente, un insegnante, un magistrato, un impiegato può guardare a sinistra semplicemente perché la sua condizione è abbastanza agiata da consentirgli il lusso di pensare ai diritti civili piuttosto che ai diritti sociali, o di occuparsi del futuro del pianeta anziché del bilancio famigliare.

Di qui il dilemma di tanti elettori, che si sentono di sinistra su certi temi, e di destra su altri. Di qui, anche, lo spazio che (in teoria) si sta aprendo ai Cinque Stelle, che sono l’unica formazione politica che è strutturalmente sia di sinistra (in economia) sia
di destra (in materia di immigrazione). È quello che, neanche tanto fra le righe, è andato a dire Conte ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, quando ha affermato di essere progressista, ma non di sinistra: “se sinistra significa contrastare il governo attuale solo nel segno dell’antifascismo, io non ci sto”; “se sinistra significa accogliere tutti indiscriminatamente, io non ci sto”; “se sinistra significa occuparsi solo di quelli nei quartieri residenziali, nelle Ztl, io non ci sto”.

Applausi, ogni volta, degli spettatori presenti. Tutti di destra.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 dicembre 2024]

La nuova crociata contro gli affitti brevi

18 Dicembre 2024 - di Matteo Repetti

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Ovvero: se l’economia si muove, tassala. Se continua a muoversi,
regolamentala. Se smette di muoversi, sussidiala (Ronald Reagan)

Il Rapporto Censis 2024 presentato qualche giorno fa fotografa un Paese, il nostro, che si limita a galleggiare, in cui dal 2003 al 2023 il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali addirittura del 7 per cento. Stando così le cose, si legge nel Rapporto, il tema della crescita economica diventa centrale e il nodo di come sostenere il progresso della società italiana non può più essere rinviato.

Siamo intrappolati – continua il Censis – nella sindrome italiana, ripiegati su noi stessi, in un mondo in cui sempre meno famiglie e imprese competono, mentre lo sviluppo economico e sociale è possibile solo nelle società capaci di aprirsi al nuovo e di correre dei rischi. Difficile non convenire.

Tutti d’accordo? Non proprio. Esattamente negli stessi giorni in cui è uscito il Rapporto Censis, il Governo ha previsto regole più restrittive per i cd. affitti brevi in nome della sicurezza. In particolare, è stato disposto che in Italia non si potranno più identificare da remoto gli ospiti di una struttura ricettiva. I titolari, o chi per loro, saranno tenuti a identificare di persona gli ospiti, e non più solo con documenti inviati per via telematica. Quindi addio alle ormai famigerate keybox, la cui comparsa
ha accompagnato l’arrivo nelle nostre città delle piattaforme di affitto online come Airbnb.

La giustificazione? La sicurezza. Spiega in una circolare il Capo della Polizia alle Prefetture che “alla luce dell’intensificazione del fenomeno locazioni brevi, legate ai numerosi eventi politici, culturali e religiosi in programma nel paese, anche in vista del Giubileo a Roma a partire dal 24 dicembre, e tenuto conto dell’evoluzione della difficile situazione internazionale, emerge la necessità di attuare stringenti misure per prevenire rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica in relazione all’eventuale
alloggiamento di persone pericolose, legate ad organizzazioni criminali o terroristiche”. Niente di meno.

Sembra di essere su Scherzi a parte ma è invece tutto drammaticamente vero.

E’ appena il caso di sottolineare come i sistemi di identificazione da remoto che vengono sorprendentemente banditi utilizzino tecnologie di riconoscimento degli ospiti con tracciamento biometrico e codici OTP (con password da utilizzare una sola volta) del tutto analoghe allo Spid, agli accessi agli autonoleggi e ai conti correnti bancari: di fatto, le nuove anacronistiche disposizioni riportano le lancette indietro di vent’anni.

Dovrebbe poi entrare in vigore a breve l’obbligo per i proprietari di immobili da utilizzare per gli affitti brevi di dotarsi del fantomatico CIN (Codice Identificativo Nazionale), anche se a fronte della estrema farraginosità burocratica e delle inefficienze degli ultimi mesi (tra portali dedicati, differenti regolamentazioni regionali, doppie procedure, ecc.) l’obbligo in questione è ora slittato al prossimo 1° gennaio.

Insomma, destreggiarsi nel nuovo settore degli affitti brevi sta diventando sempre più complicato.

Questo, quando in Italia ci sono quasi 10 milioni di case sfitte, e poco più di 500 mila immobili adibiti ad affitti brevi. Se mancano le abitazioni per i residenti probabilmente la responsabilità non è da imputare ad Airbnb e al nuovo settore degli affitti brevi, quanto semmai alla normativa vincolistica in materia di locazioni urbane e a un ordinamento incapace di garantire il rispetto dei contratti. Nel nostro Paese, è bene ricordarlo, per riottenere la disponibilità del proprio immobile occupato da un inquilino moroso sono necessari, se tutto va bene, sfinenti procedure in giudizio e almeno due o tre anni. Piuttosto che aggiungere ulteriore burocrazia e nuove limitazioni con finalità evidentemente ostruzionistiche, si dovrebbe invece agevolare un sistema che rispetti il diritto di proprietà e valorizzi le nuove forme di utilizzo degli immobili. In altre parole, sarebbero auspicabili soluzioni innovative, non la caccia alle streghe.

La proprietà immobiliare intesa in senso tradizionale è infatti per diversi aspetti superata: è cambiata la struttura della famiglia; il mondo va più veloce, e ci si sposta molto di più che in passato per lavoro o per turismo; e anche le esigenze per l’utilizzo degli immobili urbani sono cambiate: servono meno metri quadri ma più servizi.

Se viene generalmente invocata l’introduzione di limitazioni normative da introdurre per contenere i ritenuti effetti negativi del fenomeno degli affitti brevi – tra tutti l’aumento del prezzo degli immobili e il progressivo allontanamento da parte dei
residenti dai centri urbani – appare invece ragionevole ipotizzare che lo sviluppo di piattaforme come Airbnb abbia apportato benefici, sia dal punto di vista dell’utilizzo e della remuneratività delle proprietà immobiliari, che per quanto riguarda la
differenziazione dell’offerta turistica; oltre che dal punto di vista fiscale, contribuendo alla visibilità e tracciabilità di transazioni che diversamente cadrebbero facilmente nell’irregolarità.

Il settore degli affitti brevi può poi rappresentare un laboratorio di idee nuove anche sul tema della cd. rigenerazione urbana (senza oneri a carico del contribuente e della fiscalità generale).

Il nostro patrimonio immobiliare è vecchio e ha bisogno di essere riqualificato e riconvertito, in base alle nuove esigenze. E ci sono soggetti imprenditoriali che hanno l’interesse a recuperare e ristrutturare complessi immobiliari sottoutilizzati, copiando
l’esperienza di altri Paesi. La remuneratività che gli affitti brevi e le nuove forme di utilizzo degli immobili urbani garantiscono possono contribuire ad una riqualificazione intelligente delle nostre città.

Ma, come sottolineato dal Censis, lo sviluppo economico e sociale è possibile solo nelle società capaci di aprirsi al nuovo e di correre dei rischi.

L’alternativa è rappresentata dalla logica assistenziale del superbonus edilizio e della difesa corporativa di interessi e settori che rifiutano la competizione e la concorrenza, a scapito della crescita economica e del progresso civile.

Genova, 11 dicembre 2024

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