Il Projeto Portinari…

Un riferimento sicuro per gli appassionati di cultura brasiliana che desiderano familiarizzarsi con le tradizioni di una terra meravigliosa. Forse una scuola di samba? No. Il Projeto Portinari, piuttosto. Un enorme archivio multimediale dedicato alla storia brasiliana del Novecento, nato quasi in sordina con l’intento ad un tempo modesto, quello di preservare, e ambizioso, quello di promuovere la diffusione, dell’arte di Candido Portinari (Brodowski 1903 – Rio de Janeiro 1962).

Di origini venete (plausibilmente ricollegabili alla nota famiglia di Firenze che diede i natali alla Beatrice cantata da Dante), Candido Portinari è indubbiamente una figura di spicco dell’arte sudamericana. Forse non bastano poche pennellate per completare il suo ritratto ma sono certamente meno di quelle che gli occorsero per dipingere Guerra e Pace, coppia di affreschi commissionata dalle Nazioni Unite per il Palazzo di Vetro che, pare, presto potremo ammirare anche in Italia grazie ad una sorprendente iniziativa del Projeto Portinari, annunciata dalla fondazione stessa.

Candido Portinari fu attivista per la pace, pittore e letterato, predecessore di quella corrente culturale oggi conosciuta col nome di Modernismo Brasiliano, nella quale ha militato il famoso gruppo dei cinque (Anita Malfatti, Mário de Andrade, Menotti del Picchia, Oswald de Andrade e Tarsila do Amaral), sui quali varrà la pena di tornare in un prossimo intervento. Si è distinto soprattutto per uno stile innovativo, pregno di multiculturalismo e al tempo stesso custode delle tradizioni artistiche anteriori al XX secolo. I suoi quadri, che paiono essere il frutto di una singolare mediazione tra astrattismo, cubismo, arte indigena ed elementi di stile quattrocentesco, sono sempre intrisi di cultura brasiliana.

Ci troviamo di fronte ad un uomo che, a pareri di ammiratori e detrattori, ha creato la prima arte genuinamente sudamericana. Al punto da rendere quasi impossibile immaginare un artista che abbia raffigurato la propria terra più di quanto Portinari non abbia saputo fare con il suo Brasile. Un’arte che attinge ad uno sterminato bacino di temi sociali e umani, i cui protagonisti sono attori di un dramma che oscillano tra la gioia infantile e la sofferenza estrema.

Un pittore che ha conciliato l’arte di Piero della Francesca (si vedano Guerra e Pace) con quella di Picasso (San Francesco d’Assisi) e di Modigliani (Ritratto di Maria Portinari). Un artista che è riuscito a dissotterrare il dolore universale partendo dalla quotidianità di Brodowski, il suo paese natale. Un vero e proprio tesoro artistico che ha purtroppo rischiato di perdersi e disperdersi.

Dopo la sua morte, nel 1962, Portinari è quasi caduto nell’oblio. Più del novanta per cento delle sue opere erano custodite in collezioni private inaccessibili al pubblico. Di qui l’idea, nel 1979, del Projeto Portinari, fondato, e fino ad oggi coordinato, dal figlio João Candido che, con certosina pazienza, nel tempo ha accumulato oltre 5.000 opere del padre e 30.000 documenti che ritraggono plasticamente le attività culturali e artistiche del Novecento. Fotografie storiche, articoli di giornale, lettere, critiche, commenti, 130 ore di registrazioni animate dalla voce (fra tutti) di Oscar Niemeyer e Jorge Amado che ci orientano nel dedalo creativo della mente visionaria di un grande pittore. Il Projeto è sostenuto dalla Pontifícia Universidade Católica di Rio de Janeiro, da “Ceramicas Portinari”, da “Banco Itaù”, dalla Segreteria Speciale della Cultura brasiliana, dal Ministero brasiliano della Cittadinanza e dal Ministero delle Comunicazioni brasiliano.

Tra i numerosi traguardi raggiunti possiamo menzionare il “Museu Casa de Portinari” a Brodowski, mostre ed esposizioni allestite in tutto il mondo nonché coinvolgimento attivo e capillare della rete di educazione scolastica brasiliana. Ma l’ambizione non si è ancora fermata.

I dipinti di Portinari stanno continuando a conquistare popolarità e a diffondere il proprio messaggio anche in Europa. La prossima iniziativa (non ancora ufficializzata e che diamo qui come notizia in anteprima e il cui successo dipende ormai solo dalla dinamica pandemica) vede come protagonista l’Italia e la città di Padova, dove saranno esposti Guerra e Pace. Ormai il Projeto Portinari può girarsi indietro e guardare con orgoglio al proprio passato. La maggior parte delle opere di Portinari sono state digitalizzate e sono alla portata di tutti, integrate da migliaia di documenti e di studi interpretativi.

Difficile dire quale sia esattamente il principale traguardo raggiunto dall’iniziativa di João Candido. Una nuova consapevolezza artistica? Una visione ampliata di tematiche sociali e culturali? La riscoperta e formazione dell’identità nazionale brasiliana? Non ha importanza.

Raggiungendo successi forse insperati in termini di divulgazione artistica, il Projeto Portinari ha riconosciuto che l’importanza e il valore di legare una nazione alle proprie tradizioni non è in contraddizione con quella di costruire, attraverso il dialogo, uno stabile equilibrio tra le diverse realtà culturali che convivono, e con le quali occorre imparare a convivere, nella complessa società odierna.

 

Notizie su Candido Portinari e il progetto Portinari

(Projeto Portinari) http://www.portinari.org.br/
(Candido Portinari) http://www.portinari.org.br/#/pagina/candido-portinari/apresentacao?idioma=en
(Guerra) http://www.portinari.org.br/#/acervo/obra/3799
(Pace) http://www.portinari.org.br/#/acervo/obra/3798
(San Francesco d’Assisi) http://www.portinari.org.br/#/acervo/obra/2474
(Ritratto di Maria Portinari) http://www.portinari.org.br/#/acervo/obra/3782
(Museu Casa de Portinari) http://www.museucasadeportinari.org.br/
(Progetti realizzati) http://www.portinari.org.br/#/pagina/projeto-portinari/realizacoes?idioma=en




Riflessioni su deferenza e rispetto

Mi folgora la parola deferenza. Non la incontravo da decenni e ora mi arriva da un libro di Kenneth Minogue, che mi passeggiava per casa e ho aperto per curiosità, al capitolo 2, “Il progetto di livellare il mondo”.

Il libro è uscito nel 2012 per IBL Libri, s’intitola La mente servile.

Leggo: “Il rango generava autorità e comportava deferenza. In quell’epoca (l’Europa del XV-XVI secolo) la deferenza era la chiave dei rapporti sociali perché implicava un rispetto più o meno automatico”.

La deferenza è ossequio, riverenza, rispetto. È un movimento, in un certo senso, verso il basso (de-ferre), è un abbassarsi, dovuto, doveroso, davanti a qualcuno riconosciuto come superiore.

Intanto c’è l’idea che qualcuno sia superiore. Che esista un sopra e un sotto, un alto e un basso. Può essere un grado socialmente elevato, o una funzione, un ruolo, un’autorità riconosciuta, o anche soltanto una maggiore esperienza, o l’età.

E poi c’è l’idea di un automatismo: il “rispetto automatico” è il rispetto dovuto a qualcuno a priori, non per i suoi meriti personali, ma per la sua funzione, o ruolo, o posto nella società, a cui tutti riconoscono un valore di per sé. Un anziano, un insegnante, un preside, un ufficiale dell’esercito, un vescovo, un direttore di banca.

Minogue dice che nell’Inghilterra dei secoli passati la deferenza era dovuta ai “rappresentanti di una classe che includeva non solo gli aristocratici e i nobili di campagna, ma anche i datori di lavoro, i padroni di servi, i maestri e i docenti universitari, le gentildonne, i preti, i giudici, le donne di una certa età e molti altri”.

Il rispetto non automatico sarebbe invece quello che ognuno di noi sente di dovere a qualcuno, perché gli riconosce dei meriti speciali, a esempio un talento artistico, una genialità, una grandezza d’animo, una nobiltà di sentimenti. Un rispetto che ci verrebbe naturale, e avrebbe molto a che fare con l’ammirazione, persino con la riverenza.

Molti della mia generazione provavano riverenza verso i propri insegnanti, i maestri, i grandi scrittori, artisti, scienziati, registi.

Ricordo che a vent’anni mi capitava di chiudere certe lettere (non so ora dire rivolte a chi) con l’espressione: Deferenti saluti. Mi chiedo se si usi ancora, o sia ritenuta una formula ridicola.

Deferenza oggi? Potrebbe significare non dire parole volgari, non fare gesti triviali, vestirsi in modo acconcio (non andare dal Preside con gli infradito, per esempio), usare il lei, e anche le maiuscole (tipo Professore, Ingegnere, Direttore).

Mantenere distanza. Una certa distanza.

Minogue: “La deferenza richiedeva formalità nei rapporti, il cui scopo era di mantenere la distanza tra le persone. Dietro questo formalismo c’era la convinzione che la distanza fosse una condizione necessaria del rispetto”.

Oggi non vogliamo deferenza anche perché non vogliamo distanza, ma il più possibile vicinanza, contiguità. Non facciamo altro che “abbattere le distanze”. Ci fa sentire più uniti, più fratelli.

Non vogliamo mostrare deferenza verso altri, ma non vogliamo nemmeno essere noi oggetto di deferenza. Ci metterebbe fortemente a disagio. Così come ci mette a disagio ogni forma che sia segnale di una qualche superiorità che noi attribuiamo ad altri o che altri attribuiscono a noi. Sarebbe la crisi del nostro credo egualitario.

Oggi una donna anziana potrebbe anche offendersi se un giovane sul tram le cedesse il posto. Lei sta facendo di tutto per apparire giovane, va in palestra, fa dieta, prende gli integratori giusti, si veste alla moda, e un giovane che le cedesse il posto la smaschererebbe, rendendo vano il suo duro lavoro.

Anche una donna, di fronte alla cavalleria di un uomo, oggi potrebbe sentirsi offesa. Ma come? Mi apri la portiera, mi offri il pranzo? Magari mi prendi anche in braccio, in una gita in montagna, per attraversare un torrentello, in modo che io non mi bagni le scarpe? Ma sei matto? E dove starebbe l’uguaglianza? Io sono uguale a te, quindi dividiamo il conto, io mi apro la portiera, io vado a piedi sulle pietre del ruscello perché sono perfettamente in grado di farlo, almeno quanto te. Se poi mi mandi dei fiori, attento! Ti denuncio per molestie.

Non voglio dire, con tutto ciò, che c’è un abisso tra il 1500 e oggi, o anche solo tra i nostri anni ’60 e oggi, o addirittura rispetto a quand’ero giovane io, cioè quarant’anni fa. Sarebbe piuttosto ovvio. Mi sto solo chiedendo se dobbiamo davvero, oggi, lasciar cadere tutto ciò, se davvero parole come rispetto e deferenza debbano farci venire l’orticaria e le vogliamo espellere per sempre dal nostro lessico, e soprattutto dalla nostra vita.

D’altronde, se i politici vanno in felpa, se appaiono in tivù in camicia con le maniche arrotolate e il colletto slacciato (perché è estate e sì, in estate fa caldo); se le condizioni atmosferiche dunque prevalgono sul concetto di rispetto e formalità; se odiamo la parola forma e connessi (formalità, formalismo) perché ci paiono irredimibilmente lontani da quella autenticità-spontaneità-naturalezza che è  attualmente il nostro mito da aspiranti neoselvaggi; se “mettere distanza” ci fa orrore e non facciamo altro che “ridurre le distanze”, abbracciandoci tra sconosciuti in un amplesso selfico (voglio dire “da selfie”);  se mantenere la nostra posizione eretta difronte a un bambino ci fa problema e sentiamo subito l’esigenza di metterci in ginocchio per essere alla sua altezza; se l’idea di una predella in classe, che sopraelevi la cattedra, ci fa vergognare perché ci sembrerebbe ignobile anche solo immaginarlo.

Se tutto ciò è vero, non vedo come potremmo auspicare la presenza, nella nostra vita sociale, di deferenza e rispetto.

In realtà noi usiamo molto, oggi, la parola rispetto. Aleggia ovunque. È una delle parole più gettonate. Anzi, ne abbiamo fatto una stucchevole litania. Ma è sempre e soltanto il rispetto in relazione a ciò che è diverso, straniero, in qualche modo vulnerabile. Sempre e dovunque predichiamo il rispetto per le minoranze etniche, per i migranti, i profughi, i disabili, i poveri, e ogni sorta di sventurati e svantaggiati. Sacrosanto, ci mancherebbe! Quel che però non ci viene nemmeno in mente è il rispetto per chi è di più, per chi è più in alto e sta meglio, o è più bravo in qualcosa, o ne sa di più: per chi insomma è superiore, come abbiamo detto, in grado, funzione, talento o altro. Questo non ci piace. Non ci pare dovuto. Anzi, ci pare indebito e scorretto. Perché contraddice il principio di uguaglianza. Sarebbe come ammettere che no, non siamo tutti uguali, tu sei meglio di me, o sei più in alto. Quindi, il rispetto che ti dovrei sarebbe la prova di una insopportabile, inaccettabile, disuguaglianza tra me e te.

Lo dico meglio con Minogue: “La democrazia ha concepito la deferenza come una forma di servilismo (…). Non c’è qualcosa di degradante, o di servile, nel mostrare deferenza verso un altro essere umano? Non siamo sostanzialmente tutti uguali? Non accade spesso che molti personaggi altolocati non ci siano affatto superiori per saggezza, sapere o competenza? La deferenza si potrebbe estendere al concetto di saper stare al proprio posto e saper stare al proprio posto è diventato un problema nel momento in cui la società è ormai sempre meno un insieme di posti”.

E ancora: i politologi hanno concettualizzato la deferenza “come un residuo irrazionale del feudalesimo e, di conseguenza, anche come un insulto alla democrazia”.

Ecco. Ma allora, se rispetto e deferenza portano in sé il virus di un’antidemocraticità, se implicano un’ammissione di non uguaglianza; se, quindi, in nome dei valori democratici, umanitari, solidali, siamo convinti che il rispetto e la deferenza siano un male, non dovremmo mai indignarci né protestare di fronte al genitore che va a picchiare l’insegnante perché ha dato un quattro a suo figlio. In fondo, sta dimostrando una condizione paritetica: lui, l’insegnante e il figlio studente sono finalmente – e a dispetto del ruolo, dell’età, dell’esperienza (e magari anche dell’intelligenza, sapienza, e altre innominabili doti) – tre entità perfettamente uguali, che non si devono niente l’un l’altro, meno che mai deferenza. Non è così?

Fine.

Era solo un inizio di riflessione, pensieri errabondi di inizio estate, su parole molto complesse, e molto desuete.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 1 luglio 2019



Punire quanto ci fa soffrire!

Giorni fa (2 maggio 2019 ndr), è comparsa la notizia che si abolivano le note e le sospensioni alle scuole elementari. Pare fosse un semplice adattamento alla normativa già vigente alle superiori, ma ha scatenato un ripullulare di opinioni e dibattiti sul tema punizioni a scuola, e più in generale teorie educative. Ben venga, non mi sottraggo.

Punizione è una parola che oggi non ci piace per niente e pronunciamo malvolentieri. Bizzarro che invece la tolleriamo benissimo nel mondo calcistico: pare normale che ai giocatori l’arbitro affibbi punizioni, ad esempio in presenza di un fallo. Ma a parte lo sport che, si sa, è un altro mondo, non credo di generalizzare dicendo che la posizione della stragrande maggioranza è contraria a ogni sanzione che abbia anche il più tenue sentore punitivo. “Non credo alle punizioni” è frase consueta, ripetuta. Quante volte l’abbiamo sentita pronunciare intorno a noi?

L’ultima volta mi è capitato, appunto, pochi giorni fa proprio in riferimento all’abolizione delle note a scuola. Una mia lettrice, madre di due figli, mi comunica il suo entusiastico accordo, e scrive esattamente la frase: non credo alle punizioni. Per la prima volta mi sono fermata. Mi sono chiesta cosa vogliano dire davvero le parole non credo alle punizioni. Naturalmente è implicito un verbo, una frase subordinata, un’oggettiva: non credo che le punizioni servano a qualcosa. Ecco, così è più chiaro il senso.

Ma in che cosa dovremmo credere? E a che cosa dovrebbero servire le punizioni? Be’, è piuttosto evidente, vorremmo che si producessero due effetti. Il primo, esterno, oggettivo e immediato: che tu non ripeta il “fallo” per cui sei stato punito; il secondo, soggettivo, a lento rilascio, e pertinente alla sfera dell’anima: che dentro di te avvenga una riflessione che ti condurrà a essere una persona migliore.

A nessuno, però, piace infliggere punizioni. Punendo ci si prende un rischio, e si paga un prezzo. La persona punita infatti potrebbe arrivare a odiare il suo punitore. E la prospettiva dell’odio altrui ovviamente ci disturba.

Ogni volta che anche solo imponiamo qualcosa, o che ci imponiamo all’altro (contrapponendogli la nostra opinione, o facendo valere una regola, un diritto) ci esponiamo all’altrui disapprovazione. Diventiamo antipatici, odiosi. Creiamo fastidio.

Faccio tre esempi. Al ristorante, mandiamo indietro una bottiglia perché il vino sa di tappo. Per strada, vediamo una persona che butta una cicca in terra e le diciamo per favore di raccoglierla (possiamo anche aggiungere un rimprovero esplicito). In casa nostra, alle nove di sera ordiniamo a nostro figlio di smetterla coi videogiochi e andare a dormire.

Tre esempi in cui è chiaro che ci imponiamo. Imponiamo la nostra presenza nel mondo, la nostra azione (vorrei dire la nostra autorità, ma so che la parola creerebbe ulteriore disagio). In tutti e tre i casi dimostriamo di non essere passivi, indifferenti, apatici, sornioni, inattivi, silenti. Diciamo, facciamo. Esprimiamo con forza il nostro parere e esigiamo un certo comportamento dagli altri. Cioè, interveniamo (interferiamo?).

Opinione personale: credo che tutto ciò migliori il mondo. Ad esempio se avessimo richiesto con forza all’umanità intera (sanzionandola o anche punendola) di non buttare bottiglie di plastica in mare, adesso l’isola galleggiante d’immondizia nel Pacifico, il Pacific Trash Vortex, non esisterebbe.

Non voglio, con ciò, in nessun modo esortare alle punizioni. Direi soltanto che forse dovremmo avere il coraggio, ove occorra, di sobbarcarci l’onere di punire. In fondo non è che il gesto successivo alla esposizione di una regola, di una legge, di un divieto. Un gesto ulteriore, comparativo di oltre; o ancor meglio il suo superlativo, ultimo. La punizione come ultimo, “più lontano” gesto…

Mi spiego meglio, torniamo all’esempio del bambino a cui diciamo di andare a letto alle nove. Glielo ripetiamo una volta, due. Alla terza, se lui ancora si ostina a non obbedire (altra parola tabù), che si fa? In genere il genitore di oggi apre allo spazio di una contrattazione infinita, convinto che si debbano educare i figli attraverso l’uso della ragione e della logica più stringente (e questo è il lato positivo: stiamo insegnando ai nostri ragazzi la sublime e raffinata arte oratoria delle suasoriae e controversiae). D’accordo. Ma come ne usciamo? Il ragazzino otterrà di non andare a dormire alle nove? Molto probabilmente si concluderà con un compromesso: lui proponeva le dieci, noi le nove, dunque andrà a letto alle nove e mezza. Mezzora in più, niente di tragico. L’unico tarlo è che, così facendo, affermiamo indubitabilmente il concetto che non c’è mai legge definita, ovvero che ogni legge è discutibile, controvertibile, di fatto aggirabile. Non sarebbe meglio affermare una regola (si va a letto ogni sera alle nove), e poi applicare una (lieve) punizione (domani non andrai a giocare da Francesco) nel caso il figlio non la rispetti?

Vietando di punire, accettiamo di rinunciare alle richieste che abbiamo appena fatto, più in generale ai principi, alle regole che enunciamo e che ameremmo veder rispettate. È come dichiarare che non ci teniamo abbastanza, che forse non ci crediamo nemmeno noi: sì, figlio mio, ti ho appena detto di andare a dormire alle nove (perché è per il tuo bene, hai bisogno di dormire molto, domani ti sveglio presto perché devi andare a scuola), ma, visto che tu non sei d’accordo e non cambi idea nemmeno di fronte alle ragioni che ti espongo con rigore logico adamantino, va bene, allora recedo dalle mie convinzioni, annullo la regola che ti ho appena esposto, mi contraddico, calpesto la mia stessa autorità, vengo a compromessi, accetto il tuo punto di vista e le tue preferenze. Preferisci andare a dormire più tardi? E va bene, fai come vuoi.

Che fatica! Mi affatico anche solo a scriverla, una scena simile, figuriamoci a viverla! La punizione sarebbe anche un modo per tagliar corto: ultimo gesto, basta con le sceneggiate estenuanti: io ti punisco (non ti mando a giocare da Francesco), tu patisci questo (piccolo) dolore, ne tieni memoria, impari il concetto e non ripeti il comportamento: vai a dormire alle nove. Semplice. E riposante. Cosa c’è che non va?

C’è che punire ci fa molto soffrire. È entrare in uno stato di conflitto che non siamo capaci di sostenere. Dopo aver inflitto una punizione, siamo scontenti di noi, pensiamo a come deve sentirsi l’altro, al male che gli abbiamo fatto e ci chiediamo perché abbiamo agito così, e se non era evitabile. Sapere che il colpevole soffre a causa nostra ci è insopportabile. Non punire, dunque, è pensare (soprattutto) al nostro bene. È un gesto egoistico e salvifico, salva noi stessi da un abisso di domande, dubbi, pentimenti e insoddisfazioni.

Inoltre punendo ci sentiamo immediatamente dalla parte sbagliata dell’umanità, gli unici che ancora persistono in questa pratica ignobile e datata. Ecco un ulteriore aspetto negativo: la punizione ai nostri occhi appartiene al passato, a un tempo remoto che viene automaticamente bollato come incivile. In effetti, noi degli anni ’50 siamo stati, a volte, puniti. Abbiamo preso qualche schiaffetto o sculacciata. Ma, a una rapida e superficiale occhiata ai miei coetanei, non mi pare che questo abbia prodotto “guasti” rilevanti, scatenato odi profondi, disagio psichico o difficoltà nelle relazioni interpersonali.

Il malessere che proviamo punendo è dunque il segno che è sbagliato punire? O è la spia che oggi rifuggiamo da tutto ciò che ci fa provare malessere?

Benessere è la parola clou dei nostri tempi. Abbiamo eretto i più svariati templi alla religione del benessere, fisico e mentale: centri massaggio, terme, palestre, corsi di meditazione, spa. Abbiamo imparato a vivere meglio pensando di più a noi stessi: lavorare meno, fare più viaggi, mangiar fuori, prendere l’aperitivo. Specularmente, sappiamo di dover evitare il male-essere, tutto ciò che ci fa vivere male: stress, ansia, superlavoro, solitudine. Il proprio piacere innanzi tutto, il dovere meno che mai. Punire è un dovere (sociale, innanzi tutto), che produce malessere.

Quand’ero insegnante ho dato poche note, direi soltanto quando mi sentivo impotente e disperata di fronte a comportamenti intollerabili dei miei allievi: sapevo che niente e nessuno sarebbe venuto in mio aiuto, quindi brandivo la spuntata arma della nota. Dare note è avvilente, e svilente: svilisce il nostro operato, intacca la nostra fiducia nel potere della parola persuasiva e nella capacità umana di capire gli sbagli. Ma è anche l’unico strumento rimasto, l’unico modo visibile di reagire, di non subire, di mostrare al resto della classe (e alle famiglie) che esiste ancora un barlume di ordine morale, con regole definite.

So che molti pensano che dare una nota sia come ammettere il proprio fallimento di educatore. Ma non sono d’accordo. Penso che dovremmo prenderla in un modo più tranquillo e sereno, più sul tecnico-oggettivo: ispirandoci davvero alla semplice chiarezza del regolamentato mondo del calcio. La nota è molto simile a una ammonizione: è il cartellino giallo mostrato al calciatore colpevole di un fallo. Gesto chiaro e immediato. Direi un rito abbreviato. E anche indolore: nessuno muore, nessuno si offende. Al massimo, se per due volte un calciatore viene ammonito, il cartellino giallo diventa rosso ed egli verrà espulso dal campo. Tutto lì, poi a un certo punto rientra… D’altronde, ce lo immaginiamo un arbitro che in piena partita, invece di ammonire, convoca il giocatore e per un quarto d’ora gli spiega dove e perché ha sbagliato?

Una volta, alle medie, mi capitò di prendere una nota. Avevo dimenticato a casa un quaderno. Uscii da scuola quel giorno provando una enorme vergogna. Mi chiedo se oggi un ragazzo che prende una nota vada a casa con un po’ di quella vergogna. Mi auguro di sì, ma non ci giurerei. Una nota oggi sortisce il seguente, unico effetto: che il genitore si precipiti immediatamente al “colloquio parenti” e, molto risentito, esiga una spiegazione dall’insegnante (non certo dal figlio). E, a meno che il suddetto allievo non prenda un numero spropositato di note, tutto finisce lì.

Alla fine, cara signora che mi scrive, la vera domanda che mi sta a cuore è la seguente: siamo sicuri di voler esimere i nostri figli dal sentimento, certo sgradevole e doloroso ma anche molto benefico, della vergogna di sé, di quella insoddisfazione del proprio operato, da cui però poi sgorga il desiderio di riscattarsi, comportarsi bene, presentare agli altri la parte buona di sé? Siamo sicuri che provare almeno un po’ questo sentimento di – come possiamo dire? – contrizione, non li potrebbe aiutare a migliorare, come studenti, come cittadini, come esseri umani nel mondo?

Non so. Per quel che mi riguarda, non sono sicura di niente. Ma se ancora facessi l’insegnante, qualche nota ogni tanto la metterei.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 26 maggio 2019



Autenticità o cultura?

Ho riletto L’immoralista di Gide.

Tempo di riletture, da qualche anno. Si rivede la vita, alla mia età, quindi, perché no?, si rivedono anche i libri letti. Spesso non si ricorda d’averli letti e si scopre a un certo punto, magari dopo pagina 100, una sottolineatura, un appunto in margine a matita. E allora s’infila in noi l’orrendo sospetto d’aver già compiuto la lettura di quel libro; sospetto che non sarebbe di per sé orrendo, se non equivalesse al pensare che la lettura ora ci appare del tutto nuova, come se mai si fosse prodotto il fatto d’aver già letto, e annotato, e sottolineato quel libro. Mai. O almeno non nella nostra vita, forse in quella di un altro. Ecco allora che ci esercitiamo caparbiamente nell’arte di non riconoscere la nostra calligrafia a margine, così che ci venga consentita l’opzione che forse qualcun altro, un amico, un familiare, abbia letto prima di noi e annotato. Ma qualcosa ci riporta sempre inesorabilmente a noi, la svirgolettatura di una a, il modo tutto nostro di mettere l’accento sulla e…

Dell’Immoralista non ricordavo nulla; non la trama, non il protagonista, l’ambiente, i luoghi, gli altri personaggi. Nulla. Ma ricordavo benissimo d’averlo letto e molto amato.

Ho amato tutto Gide, in quell’età avida dei quattordici-quindici anni quando il mondo dei libri ci si apre davanti immenso, misterioso e foriero di un’avventura mentale che, lo intuiamo, ci renderà adulti e ci forgerà la vita intera futura. Il mondo dei libri francesi, in particolare, per quel che mi riguarda. Leggevo solo i francesi, a quell’età. Casualmente. E il caso – un destino! – era che la mia insegnante di francese fosse una donna eccezionale. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei, anche buttarmi nel fuoco. In mancanza del fuoco, leggevo i libri della sua letteratura e me ne innamoravo. Come ci sono amori per interposta persona, così ci sono amori per interposizione di libri: voglio dire, ovvio che mi ero innamorata della mia insegnante di francese…

L’immoralista è un libro bellissimo. Molto francese. Molto decadente. Molto intriso di Nietzsche, anche. E molto moderno. È assolutamente necessario leggerlo – o rileggerlo – oggi. Fin dal titolo: nessuno oggi intitolerebbe un romanzo così. Immoralista è una parola che oggi non si usa, una parola che, direi, si è spenta. Che le parole si spengano e si riaccendano è un dato di fatto incontestabile, mi pare, visto che le parole hanno una loro storia millenaria che, come la nostra, è fatta di cicli e ricicli. Dimenticanze e improvvise e lancinanti memorie. La parola immoralista ha dentro un che di battagliero: è un’opposizione. È andare contro una morale. Amorale invece è prescindere da ogni morale, è indifferenza.

Michel, il protagonista del romanzo di Gide, è a suo modo uno che si oppone al mondo, va contro. È un giovane che ha ricevuto una rigida educazione puritana e si è dato agli studi della filologia classica. Sposa Marceline, pur non amandola, per compiacere il padre, per conformarsi ai modelli comuni, studiare, lavorare, sposarsi. Nel viaggio di nozze si ammala di tubercolosi. E attraverso il male che mina la sua vita, impara ad amare la vita. O meglio, scopre un altro possibile modo di vivere, più naturale, tutto sensoriale. Arrivato a Tunisi, s’inebria della terra d’Africa, assapora i profumi dei giardini, i paesaggi notturni rubati al sonno, le infinite mutazioni dell’attimo, il contatto dell’essere con la natura, la bellezza in tutte le sue forme, anche la bellezza irresistibile dei fanciulli africani. Rinnega i libri, la cultura, l’educazione severa, la dedizione al passato, la memoria. Lo studio, l’insegnamento, la frivolezza dei salotti parigini ormai lo annoiano. I colleghi archeologi e filologi, gli amici poeti, romanzieri e filosofi, che considerano la vita “un fastidioso impedimento allo scrivere”, gli appaiono estranei e stucchevoli: “Nessuno di loro ha saputo essere malato. Vivono, danno l’impressione di vivere e di non sapere che vivono”.

Michel rifiuta ogni forma di conformismo, di adeguamento a modelli. Rincorre la parte unica di sé, originale, solitaria, libera, e quindi indifferente al bene degli altri. Non è più disposto a sopprimere quel che sente essere la sua vera natura. E rinasce. Resuscita a una “vita più aperta e libera, meno costretta e legata agli altri”. Scopre “l’essere autentico, quello che tutto intorno a me, libri, maestri, genitori e io stesso, ci eravamo sempre sforzati di sopprimere”. Inizia a disprezzare l’altro se stesso, “l’essere secondario, costruito, che l’istruzione aveva formato al di sopra”. E sente di voler “scuotersi di dosso quelle sovrapposizioni”.

E in questa forma di assoluta dedizione al nuovo se stesso, in un parossismo di egocentrico piacere, dimentica ogni dovere e cura verso l’altro: quando Marceline si ammalerà anche lei di tubercolosi, invece di dedicarsi a curarla come lei aveva fatto con lui, le impone un viaggio estenuante dalla Svizzera, dove stava lentamente ritrovando la salute, verso il sud, i climi caldi, il sole, i profumi, verso l’Italia e poi di nuovo l’Africa, la sua Africa, la luce di Tunisi dove “l’aria stessa è come un fluido luminoso in cui tutto affonda, dove ci si immerge, si nuota”, dove “la terra voluttuosa seconda il desiderio ma non lo placa, ed ogni piacere lo esalta”. Fino a Biskra, dove Michel aveva iniziato a guarire e aveva scoperto il suo essere autentico. Lì cerca quei fanciulli bellissimi che allora lo avevano incantato, e li ritrova inevitabilmente cresciuti. Mentre matura la sua delusione e impara dal vivo una delle lezioni che già gli aveva impartito il collega Ménalque: “non c’è niente che ostacola la felicità quanto il ricordo della felicità”, Marceline peggiora, fino a soccombere. Michel l’ha uccisa, col suo forsennato egoismo, inseguendo il suo bene, il richiamo di una libertà che lo porta sempre più lontano.

Non credo che oggi definiremmo Michel un immoralista. Non ci verrebbe neanche in mente. Lo iscriveremmo normalmente all’ambito di quella cultura dei diritti che oggi ci pervade.

È per questo che dovremmo rileggere il romanzo di Gide, per essere messi di fronte a quell’eterno conflitto, che mi pare ora molto obnubilato, tra natura e cultura, tra libertà e doveri. Tra il rigore delle leggi che c’incarcera nella fedeltà ai modelli ma anche ci regala la pace di una vita morale, e la sfrenatezza imperiosa dell’io che si dedica solo a se stesso e ci getta nell’abisso di un bieco self interest.

L’aspetto rilevante è che qui l’essere autentico viene contrapposto all’essere “costruito” dalla civiltà e dalla cultura. Mi chiedo se oggi in tale conflitto non si stia dibattendo l’intera nostra civiltà occidentale, e non soltanto il singolo individuo. Mi sembra di scorgere, in molte manifestazioni del nostro vivere attuale, proprio questa ricerca di un’autenticità che, per essere tale, vuole spogliarsi di ogni memoria, di ogni patina anche solo vagamente culturale. Penso a una certa aspirazione a tutto ciò che sembri spontaneo, naturale, primitivo. Penso al fastidio che oggi molti provano verso tutto quel che riveli una cultura, una patina di tradizione, una sostanza profonda, qualcosa che si sia sedimentato e abbia fatto di noi quel che siamo, attraverso i millenni; alla voglia di liberarsi dello studio, della fatica, del sapere; al disprezzo verso chi di quello studio si sia nutrito e abbia perseguito, per esempio attraverso i libri, una forma di conoscenza.

Vagheggiamo forse un novello stato di natura. Propendiamo pericolosamente per una certa rozzezza dei modi, dei gesti, del linguaggio credendo che sia sinonimo di autenticità, libertà, apertura. Ma potrebbe essere soltanto l’espressione selvaggia di una civiltà che sta cercando di rinnegare se stessa.

È possibile che, in nome di una fittizia autenticità, ci stiamo privando di quella cultura che ci ha reso grandi. E mi viene da farmi qualche domanda. Autentico deve per forza contrapporsi a cultura? Si può essere colti e allo stesso tempo autentici? Studiare e vivere contemporaneamente? Oppure scrivere (e leggere) non è mai vivere? Il mito di quale umanità stiamo rincorrendo? Cos’è questo nostro tendere al ruspante, al viscerale, a un vivere “di pancia” (orrenda espressione che sento ormai ovunque) che si contrappone al pensiero, all’analisi, e anche alle buone maniere, allo stile, a un’eleganza del vivere? La cultura è davvero una “costruzione” di cui è bene liberarsi?

La cultura sarebbe dunque un limite, qualcosa che ci “riduce”? O non è piuttosto la chance di averli, dei benedetti limiti, l’ultimo baluardo che ci protegge dall’arroganza della hybris?

E infine, fino a che punto ci è lecito perseguire il nostro personale piacere, ottemperare alla parte più vera e libera di noi, perseguire la nostra autorealizzazione? Anche a discapito dell’altro? Quanto limitiamo la libertà dell’altro, cercando la nostra? Ci spingeremmo fino al punto, anche, di produrre la sua rovina?

Potrebbe essere un nuovo immoralismo, il nostro. Lavarsi la coscienza proclamando astrattamente il dovere planetario di una bontà sempre più s-confinata e un “diritto ad avere diritti” (per dirla con Rodotà) sempre più universale, e intanto coltivare indisturbati ognuno il proprio sfrenato e immarcescente individualismo.

Era il 1902 quando Gide scriveva L’immoralista. Sono passati centodiciassette anni, ma le domande che riguardano l’uomo sono sempre le stesse.

Il romanzo di Gide, come tutti i grandi romanzi, per fortuna non dà risposte. Non indica una via, non giudica, non prende posizione. Ci mette semplicemente davanti a un’idea, e la spinge, narrandola attraverso la storia dei personaggi, fino al limite estremo.

Stare a guardare quell’abisso è oggi, almeno come lettori, l’ultimo dovere che ci resta.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 28 aprile 2019



Marciapiedi da passeggiare

I romanzi che abbiamo scritto ce li dimentichiamo. Non pensiamo più a loro perché siamo presi, tirati, da nuove storie. I libri che abbiamo scritto, quindi, viaggiano da soli, staccati per sempre da noi che dopo averli creati, di loro non ci occupiamo più. Sono i nostri figli abbandonati.

In realtà non va esattamente così: i libri che abbiamo scritto covano sempre dentro di noi, esattamente come covavano prima di uscire. Erano, allora, una specie di brace sotto la cenere; e riprendono ad essere quella brace, una volta scritti e abbandonati.

Così, può capitare che a volte si riaccendano. Qualche giorno fa mi si è riacceso Non so niente di te, un mio romanzo del 2013, che amo molto e a cui penso troppo poco. C’è un giovane eroe dei nostri tempi, in quel libro: Filippo Cantirami, Fil, un giovane bravissimo economista che vince un dottorato a Standford e non ci va, preferisce stare in campagna a pascolare pecore, perché capisce, a un tratto, che fare l’economista di successo non è la vita che vorrebbe.

So che un autore non è bene che citi i suoi libri, ma Fil mi è tornato in mente di colpo una settimana fa quando ho letto, con grande felicità, questa frase: “Voglio apparire il meno possibile perché è il modo migliore per non scomparire”.

L’ha detta in un’intervista Anastasio, il rapper che ha appena vinto XFactor. Nell’intervista che ha rilasciato per “La Stampa” il 23 marzo confessa di avere non poche difficoltà a sopportare il successo, ovvero tutti gli infiniti impegni che il successo comporta, ospitate, comparsate, tour e “apparizioni di vario genere”. “Sogno un mondo dove scrivo canzoni e basta”, dice. Ma non riesce più a scrivere, da quando è famoso.

Dunque, la fama oscurerebbe l’opera. Il ruolo pubblico affonderebbe la creazione. E nel gioco di prestigio del successo, apparire equivarrebbe a scomparire.  Grande lezione. Chi ha anche solo una minima vita creativa sa che è così: per creare bisogna stare molto fermi, soli e nascosti. Possibilmente invisibili. Anonimi sarebbe il meglio (felici coloro che si occultano dietro pseudonimo…?).

Non so se questo discorso riguarda solo i lavori creativi, artistici. Penso di no. Penso che riguardi ogni nostra attività che abbia a che fare con l’anima, con la parte più spirituale di noi. Il pensiero, lo stare soli con noi stessi e lasciarsi portare dai pensieri, guardare i nostri pensieri mentre scorrono. Che i pensieri scorrano mi è molto chiaro: siamo costantemente attraversati da un fiume, se stiamo attenti possiamo percepirne la lenta e sinuosa corrente, a volte un balzello tra i massi, una cascatella.

Ecco, in certi momenti può capitare che in alcuni di noi si insinui la necessità di fermare la corrente di quei pensieri, di condurla da qualche parte e farne qualcosa di solido, meno acquoreo. Consolidare i pensieri in un’opera. Può essere scrivere una canzone o un romanzo, fare una scultura, un disegno. Ma anche costruire una casa, arredare una stanza, confezionare un abito. Leggere un libro. Studiare… Lo studio è già un’opera, è un’opera in fieri e ha molto a che fare con l’anima, e solo per uno sconsiderato – spero transitorio – errore di prospettiva noi oggi lo leghiamo soltanto alla realizzazione professionale, ne facciamo uno strumento concreto e finalizzato, un mezzo di trasporto che ci dovrebbe condurre dritti dritti al mondo del lavoro e basta.  Una visione molto riduttiva.

Dicevo, quando qualcuno di noi vuole consolidare i pensieri in un’opera, deve allontanarsi almeno un po’ dal frastuono, dalle sirene degli impegni e delle ambizioni: Fil rinuncia a fare un dottorato, per poter studiare! A un certo punto s’accorge che, se vuole veramente fare ricerca, deve abbandonare proprio gli studi. Sembra paradossale. Ma se gli studi sono diventati un mondo caotico e competitivo, egli deve fare proprio questo: andarsene. Isolarsi. Costruirsi una vita più consona. E la vita consona a studiare, pensare, creare, è una vita il più possibile vuota.  Vuota di impegni e di ruoli, e anche di cose e di persone. Soprattutto vuota di ambizioni.

A proposito… Siamo soliti dare un valore positivo all’ambizione, guai non averne almeno un po’; l’ambizione ci porta avanti, ci aiuta a migliorare. Certo. Ma ambire vuol dire “andare attorno”. Girare in qua e in là, darsi un gran daffare presso “le persone utili”, per acquisire una posizione. In origine gli ambiziosi erano i candidati che andavano in giro a procacciarsi i voti. Ci piace così tanto? L’ambizione ci assorbe totalmente, finisce per diventare lo scopo di se stessa. Ci impedisce di creare, ci annebbia i pensieri, ci toglie il tempo, e la libertà. Ambizione è desiderio di potere. E arte e potere non sono mai andati bene insieme. Perché dovrebbero farlo oggi?

Se Fil vuole lasciare una traccia del suo ingegno, se vuole creare qualcosa di solido nell’ambito dei suoi studi, deve ambire a… non avere ambizioni. Deve diventare… nessuno. Rinunciare a impegni pubblici, cariche, prestigio. Astenersi da ogni “apparire”. E, così, riprendersi l’anima. Solo a quel punto, proprio come dice Anastasio, non scomparirà: la sua ricerca di Economia sfocerà in un’idea nuova, rivoluzionaria, che resterà nel tempo.

Creare presuppone sempre un rinunciare.

Mi verrebbe da dire che il lavoro stesso ci distoglie dalle attività creative, da quella condizione dell’anima che non saprei come chiamare. E che quindi certe apatie e rilassatezze, certe pigrizie, certi impulsi a dire anche noi, sulla esemplare scia di Bartleby, “Avrei preferenza di no”, siano dovuti a improvvise e ribelli lucidità, in virtù delle quali ci rifiutiamo di obbedire agli onerosi diktat del mondo e ci riprendiamo per così dire i “nostri momenti”, quei bagliori dell’anima di cui sentiamo il bisogno.

Il lavoro, se non è lavoro consono alla nostra anima, ci distoglie, ci frastorna e ci estrania da noi stessi. È in qualche misura il nostro più acerrimo nemico. E va combattuto. Anche per poco, non solo per opere imperiture. Anche solo per fumarsi un sigaro sul balcone, andare a passeggio alle tre del pomeriggio, guardarsi alla sera un film. Anche per cose che son ritenute marginali, banali o sciocche.

Lo dice molto più mirabilmente Cesare Pavese, in una lettera del 14 aprile 1942, che la mia amica Giovanna Ioli chissà perché mi manda, oggi, su whatsapp, proprio mentre sto scrivendo queste Paginette, ignara, ma come sempre fatidica. Pavese scrive al suo editore Giulio Einaudi di lasciarlo in pace, di non caricarlo come sempre di lavoretti estenuanti di revisione e altro, perché, dice, “c’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere”. Quella vita che è già, ovviamente, scrittura. Solitaria, im-potente, e autoappagante.