Tre bugie “politiche” (e tre amare verità)

“Le bugie hanno le gambe corte”. Si potrebbe pensare che il detto popolare riguardi solo la vita quotidiana di noi comuni mortali, ma non quella dei politici, che paiono godere di una sorta di “licenza di mentire”.

In parte è così. E tuttavia, quando si esagera, la realtà presenta il conto anche ai politici. E’ quel che in questi mesi sta succedendo all’ex presidente del consiglio Matteo Renzi. Una dopo l’altra le sue sparate di questi tre anni si trovano a dover fare i conti con la dura, pietrosa realtà delle cose, o con la “verità effettuale”, come avrebbe detto Niccolò Machiavelli.

Tre, in particolare, sono le verità che stanno venendo inesorabilmente a galla. La prima è quella dello stato di salute del nostro sistema bancario. Dopo essere stati rassicurati innumerevoli volte sulla sua solidità, dopo essere stati avvertiti che il nostro sistema è più forte e più sano di quello tedesco, dopo aver assistito a ripetuti rinvii degli interventi sulle banche in dissesto in attesa di momenti politici più opportuni (dopo il referendum, dopo le amministrative, …), ecco che, alla fine, la soluzione trovata è stata quella di appesantire i bilanci delle banche sane (fondo di risoluzione Atlante), penalizzare gli azionisti, fare altro debito pubblico, come se quello che abbiamo non bastasse. Qualcuno ha provato a fare i conti, e la cifra totale viaggia sui 30 miliardi di euro, una parte dei quali peseranno sulle nuove generazioni, che vedono aumentare il fardello del debito pubblico. E il grave è che, secondo tutti gli osservatori, il conto sarebbe stato molto meno salato se si fosse agito prima, anziché rispolverare l’antica arte democristiana di spostare i problemi avanti nel tempo.

C’è poi una seconda verità. Ci è stato detto che le tasse sono state ridotte, e così la spesa pubblica. Il commissario alla spending review, Yoram Gutgeld, è arrivato a parlare di 29.9 miliardi di “capitoli di spesa eliminati e/o ridotti” nel 2014-2017. Un esempio da manuale di mezza verità che, a ben guardare, si rivela una bugia. Quel che si dimentica, infatti, è un particolare essenziale, e cioè che le nuove spese superano ampiamente le vecchie spese cancellate o ridotte, sicché la spesa pubblica complessiva è aumentata, non diminuita.

Di quanto? Difficile dirlo, perché ovviamente mancano ancora i dati del 2017, però qualcosa di abbastanza preciso si può desumere dal Conto Economico delle Amministrazioni Pubbliche (dati 2013-2016). Nel 2016 le spese correnti sono aumentate di 14.7 miliardi rispetto al 2014 e di 22 miliardi rispetto al 2013, il che vuol dire che, se i conti di Gutgeld sono corretti, il governo guidato da Renzi ha fatto circa 50 miliardi di spesa pubblica corrente addizionale. Quanto alle entrate totali della Pubblica Amministrazione, i dati più recenti (primo trimestre del 2017) mostrano che la pressione fiscale è leggermente più alta di quanto fosse tre anni prima (primo trimestre del 2014). Della più volte sbandierata promessa di abbattere le tasse non v’è traccia nei conti ufficiali dell’Istat.

Ci sarebbe, poi, una terza verità, che seppellisce anni di bugie sulla sostenibilità dei nostri flussi migratori. Dopo aver predicato ai quattro venti l’ impossibilità di fermare gli sbarchi, dopo aver deriso e disprezzato le tesi di quanti ritenevano eccessiva ed autolesionistica la nostra politica di accoglienza, tanto generosa nelle intenzioni quanto stracciona e disorganizzata nei fatti, ora è addirittura il ministro dell’Interno, Marco Minniti, a ipotizzare l’eventualità di un blocco navale, che fermi l’ingresso nei nostri porti delle navi straniere che raccolgono migranti in prossimità delle coste africane e li riversano in Italia. Quel che era giuridicamente impossibile (“il diritto internazionale non ce lo permette”) quando a proporlo erano gli altri, diventa improvvisamente un’opzione sul tavolo del Governo quando a ipotizzarlo è un ministro del Pd.

Strano modo di ragionare. Il numero di sbarchi ha raggiunto livelli insostenibili fin dal biennio 2013-2014, giusto ai tempi in cui Renzi disarcionava Enrico Letta ingiungendogli di star sereno. Da allora le cose non sono mai cambiate, anzi sono peggiorate un po’. Il numero di sbarchi del 2014-2017 è 10 volte quello degli anni precedenti. Ci sono persino stati, in questo triennio, momenti in cui gli sbarchi di un solo giorno hanno superato quelli di un intero anno del passato. Eppure, il problema viene scoperto solo ora. Solo ora si comincia a notare che la maggior parte dei migranti non ha diritto allo status di rifugiato. Solo ora ci si accorge che le strutture di accoglienza sono al collasso. Solo ora ci si accorge dell’enorme costo che la gestione dei migranti comporta per il bilancio pubblico. Solo ora ci si rende conto che i ceti popolari non vedono affatto bene l’ingresso continuo di migranti irregolari.

E non hanno torto. E’ strano che nessuno l’abbia ancora fatto notare, ma il bilancio economico dei flussi migratori è imbarazzante. Oggi lo Stato spende, per combattere la povertà assoluta, meno della metà di quello che spende per l’accoglienza, e circa un decimo di quel che sarebbe necessario per debellare la povertà. E, paradosso nel paradosso, più di un terzo degli stranieri residenti in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta.

Questo significa che uno degli esiti dell’immigrazione è di aumentare l’esercito dei poveri. Ma l’altro esito è di rendere impossibile una vera lotta contro la povertà, perché le politiche di accoglienza bruciano più risorse di quante i governi siano disposti a spendere per combattere la povertà.

Pubblicato su Panorama il 06 luglio 2017



Tempesta perfetta sull’Italia

Messa a punto la “manovrina” da 3.4 miliardi che ci è stata imposta dall’Europa, una operazione che ha portato con sé nuove tasse e nuovi adempimenti, nei giorni scorsi il nostro governo ha preso atto, come ogni anno, delle “raccomandazioni” della Commissione europea e, sempre come ogni anno, si appresta a fingere di volerle seguire, salvo poi chiedere clemenza, saggezza e flessibilità al momento di passare dalla parole ai fatti.

Se ci si prende la briga di confrontare le raccomandazioni puntualmente rivolte all’Italia ogni anno dell’ultimo decennio, è difficile sfuggire all’impressione di uno stanco e noiosissimo “copia e incolla”. Riformare la pubblica amministrazione, ridurre i tempi della giustizia, accelerare i pagamenti dello Stato alle imprese, deburocratizzare, ammodernare il mercato del lavoro, spostare il carico fiscale verso gli immobili e il consumo, riqualificare la spesa pubblica, risanare il sistema bancario, privatizzare, combattere la corruzione, ma soprattutto, e prima di tutto: ridurre il deficit e il debito pubblico. La litania si ripete eguale a sé stessa da almeno vent’anni, ovvero da quando Prodi e Ciampi ottenero l’ingresso dell’Italia nell’euro.

C’è un punto, tuttavia, che rende le raccomandazioni di maggio 2017 più rilevanti diquelle formulate in altre occasioni: oggi stiamo per entrare nel tritacarne delle elezioni, anticipate o meno poco cambia. O meglio: qualcosa sarebbe cambiato (in meglio, suppongo) se avessimo votato subito dopo il referendum del 4 dicembre ma, arrivati a questo punto,che si voti a settembre 2017, a ottobre, a dicembre, o a febbraio del 2018, la frittata ormai è fatta. Comunque venga scelta la data delle elezioni, un periodo di demagogia, spese allegre e promesse da marinaio non ce lo leva nessuno.

Di per sé non sarebbe né una novità né un disastro peggiore di quelli del passato. Dopotutto ci siamo abituati. Il problema è che, questa volta, la campagna elettorale coinciderà con un periodo di gravissimi rischi economici e finanziari, e non vi è alcuno scenario verosimile in cui tali rischi possano essere neutralizzati.

Vediamo perché. Occorre considerare, innanzitutto, che la politica accomodante della Banca Centrale Europea, il cosiddetto Quantitative Easing, si sta esaurendo, e il venir meno dell’ombrello-Draghi non potrà non aggravare i nostri problemi, sia sul versante bancario (problema degli NPL, o crediti deteriorati) sia, soprattutto, sul versante dei rendimenti dei titoli di Stato: il famigerato spread è già oggi vicino ai 200 punti base, un livello mai toccato negli ultimi 3 anni.

C’è poi il capitolo della manovra di fine anno. Per ora abbiamo incassato l’ennesimo gesto di benevolenza da parte della Commissione Europea che, pur rilevando i ritardi e le inadempienze dell’Italia in innumerevoli ambiti, ci ha concesso qualche mese di respiro, rimandando a ottobre la verifica sui nostri conti pubblici. Ma questo gesto, apparentemente a noi favorevole, rischia di essere più dannoso che salutare. Il vero problema dell’Italia, infatti, non è ottenere qualche bel voto in pagella da Bruxelles, ma convincere i mercati che siamo in grado di restituire i nostri debiti. E tutto fa pensare che l’ennesima dilazione che abbiamo ottenuto finirà per moltiplicare i nostri rischi quando, in autunno, verrà il momento della manovra, proprio nel cuore della campagna elettorale se di voterà dopo ottobre, proprio nel cuore delle trattative per la formazione del nuovo governo se si voterà subito dopo l’estate.

Perché il cocktail fra elezioni e manovra è così pericoloso?

La ragione di base è che, dopo due anni di promesse mancate sulla riduzione del debito pubblico, la manovra di quest’anno sconta una doppia zavorra: da un lato le richieste dell’Europa di ridurre deficit e debito, dall’altro le clausole di salvaguardia del 2018 (in particolare sull’Iva), che per essere disinnescate richiedono di “reperire risorse” per circa 15 miliardi. La somma di questi due macigni è elettoralmente insostenibile, e fa prevedere che assisteremo a un aumento più o meno mascherato dell’Iva, nonché alla solita promessa di fare domani quel che ci viene richiesto per oggi, e che avremmo dovuto fare ieri. Ma è proprio questo il punto: proprio perché, con il voto alle porte, non potremo fare quel che dovremmo per rimettere in carreggiata i nostri conti, è molto probabile che i mercati e la speculazione ci azzannino. Quando sarà chiaro che il nostro debito pubblico crescerà anche nel 2018, è difficile che l’Italia non sia chiamata a pagare un prezzo in termini di aumento dello spread e tensioni varie, dai prezzi delle obbligazioni all’andamento della borsa.

C’è solo da augurarsi che tale prezzo non sia alto come quello del 2011-2012, quando l’Italia fu a un passo dal baratro. E che, chiunque vinca le elezioni, non debbano passare mesi prima che lorsignori si decidano a darci un governo. Perché l’esperienza, anche recente, insegna che, fra i fattori che fanno levitare lo spread non ci sono solo il deficit, il debito, la mancata crescita, le cattive istituzioni economiche, ma c’è anche l’incertezza politica.

Pubblicato su Panora1ma il 1 giugno 2017



La leggenda dei 60 miliardi

Testo a cura di  Caterina Guidoni e Luca Ricolfi.

Curioso. Sulla stampa si parla ad ogni pie’ sospinto dei pregiudizi della gente, ingannata da leggende metropolitane, dalle bufale che circolano su internet, dai discorsi di demagoghi senza scrupoli. Ben poca attenzione, invece, viene riservata ai pregiudizi dei giornalisti stessi.

Quante volte, giusto per citare un esempio clamoroso e persistente, abbiamo letto che “in Italia 1 giovane su 2 è disoccupato”? (affermazione falsa, che si basa sulla semplice ignoranza di che cosa sia il tasso di disoccupazione: i giovani disoccupati sono circa 1 su 10).

Ma il caso più interessante di pregiudizio giornalistico è probabilmente quello della corruzione che “ci costa 60 miliardi l’anno”.

Questo numero rimbalza sui grandi organi di informazione italiani (ma non solo: ci sono cascati anche Reuters e Washington Post) da circa 7 anni, ovvero da quando, siamo nel giugno del 2009, la Corte dei Conti (nel Giudizio sul rendiconto generale dello Stato 2008) scrive che il fenomeno della corruzione nella P.A. può incidere sull’economia ben oltre le stime di 50/60 miliardi l’anno, che la Corte stessa (erroneamente, come vedremo) attribuisce al Servizio Anticorruzione e Trasparenza (SAeT) del Ministero della Pubblica Amministrazione.

Da dove proviene questo numero che ricorre instancabilmente da anni su quotidiani italiani e stranieri? E soprattutto, come ha fatto a durare così a lungo nonostante sia del tutto campato per aria?

Per capirlo, dobbiamo andare con ordine.

1. Nel 2004 la Banca Mondiale pubblica una ricerca riguardante governance e corruzione  (Daniel Kauffman,  World Bank) in cui si stima che il costo delle tangenti pagate da aziende e persone fisiche nel mondo sia pari a mille miliardi di dollari e cioè circa il 3-4% del PIL mondiale.

2. Dopo un po’ di tempo, in Italia comincia a circolare la stima secondo cui la corruzione ci costa 60 miliardi di euro l’anno; nessuno sa con precisione quando, dove e come questa stima sia saltata fuori; secondo ceifan.org (sito anti-bufale) questo qualcuno è un anziano signore appassionato della materia che durante un convegno tira fuori questa cifra facendo una semplice proporzione: corruzione in Italia sta a corruzione nel mondo come Pil italiano sta a Pil mondiale.

Nel produrre questa stima il nostro misterioso signore commette due grossolani errori. Primo, pare ignorare che la stima della Banca Mondiale non si riferisce ai costi della corruzione (qualsiasi cosa questa dizione indichi); secondo, dimentica che la Banca Mondiale sottolinea che il peso delle tangenti sul Pil varia molto da paese a paese.

3. Nel febbraio 2009, il Rapporto al Parlamento del SAeT (Servizio anticorruzione e Trasparenza), presentato dall’allora Ministro Brunetta, mette in guardia da questa stima che, ottenuta senza un modello scientifico, rischia soltanto di creare confusione. In teoria, ovvero se la gente leggesse i testi che cita, la storia dovrebbe finire qui.

4. Invece, pochi mesi dopo, nel giugno 2009, la Corte dei Conti sul “Giudizio sul rendiconto generale dello stato 2008” scrive che l’impatto sociale del fenomeno della corruzione nella P.A. può incidere sull’economia ben oltre le stime di 50/60 mld l’anno del Servizio Anticorruzione e Trasparenza del Ministero della P.A., senza rendersi conto che il SAeT non solo non aveva prodotto quelle stime, ma le aveva messe in dubbio. Così, grazie a questa sciatteria della Corte dei Conti, la cifra acquisisce attendibilità.

5. A questo punto il numero comincia a diffondersi sui principali quotidiani che lo riportano come cifra ufficiale attestata nel rendiconto, guardandosi bene dal controllare come la cifra sia stata ottenuta.

6. L’anno successivo  (2010) il Rapporto del SAeT torna sull’argomento : “[…]Tale ipotesi (il valore della corruzione in Italia pari a 60 mld (N.d.R.) è smentita, non solo dalla fantasiosità del procedimento usato per calcolarla, ma, prima di tutto, dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Kimoon, che […] ha ricordato come il costo della corruzione mondiale sia prossimo a one trillion dollar, cioè 700 miliardi di euro: pensare che in Italia sia localizzato l’8,5% della corruzione mondiale fa un po’ sorridere anche i più pessimisti[…]”.

7. Questo passaggio viene ripreso l’anno successivo (2011) nella “Relazione al Parlamento sullo stato della Pubblica Amministrazione” del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione (Renato Brunetta).

8. Malgrado ciò, nel 2012 la Corte dei conti torna ad attribuire la stima dei 60 mld SAeT. Nella relazione del procuratore generale si legge: “se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal SAeT […], rispetto a quanto rilevato dalla Commissione EU l’Italia deterrebbe il 50% dell’intero giro economico della corruzione in Europa!”.

9. Questa affermazione viene letta dai media come un’ulteriore prova della validità della stima. Non tenendo conto che anche sul Rapporto del SAeT si ritenesse questa cifra “esagerata”.

10. Due anni dopo, nel 2014, l’UE prende per buona la stima dei 60 miliardi come proveniente dalla Corte dei Conti, nonostante essa sia totalmente incoerente con quella fatta dalla Commissione stessa nel 2011, in cui si calcolava che la corruzione in Europa valesse 120 miliardi di euro, ossia l’1% del PIL europeo. Pare quantomeno irrealistico che l’Italia da sola contribuisca al 50% della corruzione dell’UE.

A quanto ci risulta, il primo ad accorgersi della bufala e a denunciarla è stato il blog Quattrogatti del Fatto Quotidiano, fin dal 22 ottobre 2012. Curiosamente, da allora nessuna seria autocritica è mai comparsa sui maggiori quotidiani o in Tv, e la denuncia della “leggenda dei 60 miliardi” ha continuato a vivere quasi esclusivamente nel mondo di internet. Forse a riprova del fatto che, su internet, oggi si trova il peggio e il meglio dell’informazione.

Il Pregiudizio Universale, Laterza (2016)




Italia disoccupata (ma i Robot non c’entrano)

Sono passati ormai 10 anni dallo scoppio della crisi dei mutui subprime (agosto 2007), e anche se alcuni ottimisti intravedono una luce alla fine del tunnel, non è affatto chiaro se le economie avanzate (i 35 paesi Ocse) ne siano davvero fuori. Ma soprattutto, anche ammesso che ne siano uscite, non è chiaro come, ovvero in quali condizioni e con quali futuri meccanismi di funzionamento.

Il fatto che molte economie, specie in Europa, siano ancora alle prese con stagnazione e disoccupazione, sta alimentando un grande sospetto nelle opinioni pubbliche: e se l’era della crescita fosse finita per sempre? Ma soprattutto: e se a tramontare per sempre fosse la civiltà del lavoro? Detto ancora più crudamente: e se in un futuro non troppo remoto il lavoro diventasse il privilegio (o la condanna) di una minoranza?

Il timore che i posti di lavoro non solo scarseggino oggi, ma siano destinati ad essere pochi per sempre si sta insinuando sempre più nelle menti di molti cittadini. Quando leggiamo che decine di lavori saranno automatizzati tramite il software e i robot, quando veniamo informati che già esistono stalle senza addetti (un robot si occupa di tutto, compresi i bisogni psicologici delle mucche), quando ci viene spiegato che persino il destino dei dentisti è segnato perché già oggi esistono robot-dentisti, quando ci si annuncia l’imminente ingresso sulle strade delle auto senza conducente (a quando la proibizione di guidare personalmente un’automobile?), quando constatiamo che in mille situazioni a risponderci sono nastri registrati, e che per dire la nostra tutto quel che possiamo fare è inviare una mail a un inaccessibile “sistema”, quando ci accorgiamo di tutto questo diventa difficile restare impassibili.

E infatti c’è anche chi, lungi dal restare impassibile, l’eventualità della scomparsa del lavoro umano la dà per scontata, anzi la cavalca. Vi siete mai chiesti perché, per la prima volta anche in Italia, si parla insistentemente di reddito di cittadinanza? O perché tutti i partiti abbiano qualche proposta, più o meno sensata, più o meno radicale, per dare un reddito anche a chi non lavora?

La realtà è che quasi tutti temiamo che, nei prossimi decenni, non solo non andremo verso la società della “piena occupazione” sognata da Keynes e dai suoi seguaci, ma rischiamo di non rivedere mai più neppure il regime di “quasi-piena occupazione” in cui siamo vissuti per circa mezzo secolo, ovvero dalla fine degli anni Cinquanta allo scoppio della crisi.

Certo, l’incubo-utopia di una società in cui nessuno lavora è ancora molto lontano, se non altro perché non sono pochi i lavori che è estremamente difficile automatizzare pienamente, come i lavori connessi all’edilizia, alla sanità, alla ristorazione, diversi servizi alla persona, l’amministrazione della giustizia, l’ordine pubblico, la difesa, la gestione delle catastrofi e delle emergenze, la ricerca. E tuttavia lo scenario di una drastica riduzione dei posti di lavoro, a un livello largamente al di sotto dell’attuale, è tutt’altro che implausibile.

Ma che cosa è realistico prevedere, sulla base dei dati e delle tendenze esistenti?

Per farci un’idea abbiamo ricostruito, con la collaborazione della Fondazione David Hume, l’andamento 2000-2015 di due variabili chiave, il tasso di occupazione e la produttività del lavoro, nelle 35 principali economie del pianeta, ovvero in tutti i paesi Ocse. E il risultato non è incoraggiante, ma nemmeno drammatico.

Non è incoraggiante perché nel 2015, ovvero a 8 anni dallo scoppio della crisi, il tasso di occupazione non è ancora tornato al livello che aveva raggiunto allora. Nello stesso tempo, però, un’analisi separata della storia economico-sociale di ciascuno dei 35 paesi avanzati mostra che i modi in cui i vari paesi hanno attraversato la crisi sono estremamente differenziati, e non tutti disastrosi.

Tanto per cominciare, esistono due paesi, la Polonia e Israele che, stando ai dati Ocse, nella crisi non sono mai veramente entrati. Non solo, ma esiste un gruppo di 6 paesi che, pur avendo accusato qualche shock (occupazionale e/o di produttività) nel 2008-2009, presentano due caratteristiche che paiono contraddire la visione catastrofista. La prima è di aver sperimentato una crescita parallela dell’occupazione e della produttività sia prima sia dopo la crisi. La seconda è di avere più o meno ampiamente superato i livelli di occupazione e produttività del 2007. Questi 6 paesi dinamici, in cui la crescita c’è ma è anche creatrice di posti di lavoro, sono la Slovacchia, l’Estonia, il Cile, la Repubblica Ceca, la Corea del Sud e la Germania. E’ interessante notare che in questo gruppo di paesi che paiono, per così dire, dotati di un futuro di lavoro, rientra un solo paese occidentale classico, la Germania.

Se lasciamo da parte questi otto paesi (che non sono entrati nella crisi o l’hanno brillantemente superata), il quadro si fa decisamente più preoccupante, per non dire cupo. Sono ben 18 i paesi Ocse che nel 2015 non avevano recuperato il livello di occupazione del 2007 (fra essi i 4 Pigs mediterranei, compresa l’Italia, ma anche l’Irlanda, la Francia, gli Stati Uniti). E fra questi 18 paesi ve ne sono quattro che, oltre a non avere recuperato i livelli di occupazione pre-crisi, registrano una riduzione della produttività del lavoro. Sono questi, probabilmente, i paesi nei quasi uno scenario di definitivo smantellamento della civiltà del lavoro è più probabile. Distruggere posti di lavoro, infatti, può avere un senso (ancorché doloroso) solo a condizione che il ridimensionamento dell’occupazione preluda a un rilancio della produttività e della competitività, e consenta così a un paese di tornare su un sentiero di aumento della prosperità.

Ma quali sono i quattro paesi che, almeno a giudicare dalle tendenze attuali, paiono destinati a un futuro di progressivo smantellamento della civiltà del lavoro?

La Grecia, naturalmente. Inaspettatamente, anche la Norvegia e la Finlandia, tuttora intrappolate nelle secche della crisi, ma caratterizzate da livelli di occupazione e produttività ancora molto alti, ereditati dagli anni della crescita. E poi, ahimè, l’Italia. Il nostro tasso di occupazione resta tuttora al di sotto del livello, già bassissimo, del 2007, e peggio ancora vanno le cose per la produttività: il Pil per occupato, anch’esso già bassissimo nel 2007, non mostra alcuna tendenza a risollevarsi.

A quanto pare, dalle nostre parti il futuro è già cominciato.

Pubblicato su Panorama il 13 aprile 2017



Reddito di cittadinanza, pubblicità ingannevole

Qualche tempo fa avevo scritto che, stante la completa assenza di idee politiche nuove, la prossima campagna elettorale sarebbe stata dominata dal dibattito sul cosiddetto reddito di cittadinanza, o reddito di base.

Non pensavo, però, che questo sarebbe accaduto così presto, ovvero un anno prima della data del voto. E invece basta ascoltare la radio, guardare la tv, navigare su internet o leggere i giornali per rendersi conto che ci siamo già dentro in pieno. Da alcune settimane un po’ tutti ne parlano.

L’idea di un reddito di cittadinanza, lanciata dal Movimento Cinque Stelle fin dal 2013, subito dopo le passate elezioni, ormai tiene banco un po’ in tutte le forze politiche. Ne parla il Pd, tramortito dalla scissione e alla ricerca di slogan efficaci in vista delle imminenti elezioni politiche. Ma ne parlano anche dalle parti di Forza Italia, dove circolano cifre (10 miliardi l’anno) e strumenti (la cosiddetta imposta negativa sul reddito). Né mancano le proposte provenienti dalla società civile, come quelle del Reis (Reddito di inclusione sociale), promossa dalle ACLI e da decine di altre associazioni, per lo più appartenenti al cosiddetto Terzo settore.

Tutti pazzi per il reddito di cittadinanza, dunque?

Proprio per niente. Il bello è che nessuna, ma proprio nessuna, delle proposte che partiti e forze politiche si affannano a denominare “reddito di cittadinanza” corrisponde a un vero reddito di cittadinanza. Anzi, nella maggior parte dei casi ne rappresenta l’esatto contrario.

Curioso. Se c’è un’espressione su cui tutti gli esperti e gli studiosi di scienze sociali concordano, se c’è un’espressione su cui non si assiste mai a sterili controversie terminologiche, perché tutti la intendono nello stesso modo, è proprio l’espressione reddito di cittadinanza, un’idea che risale ad oltre un secolo fa ma che è tornata di grandissima attualità fin dagli anni ’80, quando sorse un movimento di pensiero a suo favore (guidato dal filosofo belga Philippe von Parijs), e venne fondato il BIEN (Basic Income European Network, oggi ribattezzato Basic Income Earth Network).

Che cos’è il reddito di cittadinanza?

E’ un reddito che lo Stato corrisponde a tutti i suoi cittadini, ricchi e poveri, su base individuale e non familiare, dalla nascita o dalla maggiore età, senza alcuna restrizione, obbligo o contropartita. Detto in altre parole, è un sostegno permanente e incondizionato, che proprio perché viene erogato a tutti e senza chiedere nulla in cambio, non richiede di mettere in piedi un apparato di amministrazione, controllo, monitoraggio dei beneficiari.

Ebbene, molto si può discutere sui meriti e demeriti delle varie proposte messe in campo in Italia da partiti e associazioni, quasi sempre presentate come forme di “reddito di cittadinanza”, ma su tre punti c’è perfetta sintonia: in tutte le proposte il sussidio, o “sostegno” (espressione più raffinata e politicamente corretta), il reddito che si intende attribuire non è destinato a tutti (ma solo ai poveri), è determinato su base familiare (anziché individuale), e prevede precise contropartite (non è incondizionato). In breve: è l’esatto contrario del reddito di cittadinanza.

Da questo punto di vista, il massimo di bisticcio con la lingua italiana è offerto dal Movimento Cinque Stelle, che per giustificare il titolo del suo disegno di legge sul “reddito di cittadinanza” di fronte a chi giustamente  criticava la scelta di un termine così fuorviante, non ha trovato di meglio che rispondere: la nostra è una proposta di “reddito di cittadinanza condizionato”, come non sapessero che, per definizione, il reddito di cittadinanza è incondizionato, altrimenti è un’altra cosa, che in tutta Europa viene chiamata, più prosaicamente, “reddito minimo”.

Ma quali sono le differenze fra le varie proposte di reddito minimo?

Fondamentalmente sono cinque.

Primo. La quantità di risorse stanziate, che va da un minimo di 1-2 miliardi l’anno (Governo Renzi), a un massimo di 15-20 (Cinque Stelle e Sel).

Secondo. La percentuale di famiglie o di individui beneficiari, che varia ovviamente in funzione delle risorse stanziate, ma anche a seconda degli importi e della durata. A questo proposito vale la pena osservare che il concetto di povertà è così elastico che, a seconda di come lo si definisce, si può passare dal 7% degli individui (povertà “assoluta”) al 29% (“rischio di povertà o di esclusine sociale”), passando attraverso le platee intermedie del 14 % (povertà relativa) e del 20% (rischio di povertà relativa).

Terzo. Le condizioni di accesso e di mantenimento del sussidio, che possono essere più o meno severe, potendo comportare l’obbligo di cercare attivamente un lavoro, di seguire corsi di formazione, di accettare proposte di lavoro retribuito, di erogare lavoro gratis in attività “socialmente utili”.

Quarto. La complessità (e il costo) dell’apparato di amministrazione, sorveglianza, formazione messo in campo per gestire i beneficiari. Un indicatore assai significativo in proposito è la quota delle risorse stanziate che non va in tasca ai poveri, ma a coloro che dei poveri stessi dovrebbero occuparsi, tipicamente tecnici, impiegati, assistenti sociali, formatori ed esperti, tutte figure appartenenti al ceto medio. Fra le varie proposte in campo quella che meno concede agli apparati di controllo è l’imposta negativa (caldeggiata da Forza Italia), mentre quella che dirotta la quota maggiore di risorse alla macchina dell’inclusione sociale è quella dell’Alleanza contro la povertà (i proponenti del Reis), come del resto è comprensibile visto che occuparsi del disagio sociale è il mestiere, più o meno volontario e più o meno retribuito, di tante fra le associazioni che propugnano il “Reddito di inclusione sociale”.

Quinto. L’incentivo a cercare e trovare lavoro, che è fortemente compromesso dalla prospettiva di perdere in parte o in tutto il sussidio. Questo, in realtà, è il tallone di Achille di un po’ tutte le proposte, perché tutte (tranne, in parte, quella dell’imposta negativa) di fatto rendono alquanto conveniente non lavorare, o lavorare in nero, una scelta che i recenti dati sulle dichiarazioni dei redditi (straordinariamente basse rispetto a quel che ognuno di noi vede a occhio nudo) mostrano essere tutt’altro che teorica.

Che fare, dunque?

Il mio consiglio è di fare come si fa (o si dovrebbe fare), quando si fa un investimento finanziario: “leggere attentamente il prospetto informativo”, senza lasciarsi sedurre dalla pubblicità ingannevole dei proponenti.

Pubblicato su Panorama il 13 marzo 2017