Le elezioni dell’incertezza

Non tutte le elezioni sono eguali. Ci sono elezioni in cui il voto è carico di tensioni, perché le alternative sembrano radicali e drammatiche. E ci sono elezioni di routine, in cui partiti e media amano drammatizzare, ma pochi elettori ci cascano. Rientrano nel primo gruppo le elezioni del 1948, ai tempi del Fronte popolare comunisti-socialisti; quelle del 1976, quando molti si attendevano il crollo della Dc e l’avanzata del partito comunista; o quelle del 1994, sotto il ciclone di Mani pulite. Mentre rientrano nel secondo gruppo, quello delle elezioni tranquille, molti appuntamenti degli anni ’50, ’60 e ’80, ma anche degli anni ’2000. E le prossime elezioni?

A mio parere le elezioni del 2018 sono un unicum nella storia elettorale del nostro Paese. Ma questo non perché lo scontro politico sia incendiato dalle passioni, bensì per la ragione opposta: scetticismo, disincanto, sfiducia nella politica e disistima dei suoi protagonisti hanno raggiunto livelli senza precedenti.

Non è tutto, però. La vera cifra di questo appuntamento non è né la passione, né il suo contrario, ovvero l’apatia: la sua vera cifra è l’incertezza. Uno stato d’animo che ha due volti distinti.

Il primo volto dell’incertezza è il futuro governo del paese. Non solo non sappiamo da chi saremo governati (questo è normale), ma non sappiamo quali alleanze i partiti che siamo chiamati a votare potrebbero stringere in futuro. Certo anche in passato si poteva nutrire qualche dubbio, ma i dubbi riguardavano alternative tutto sommato simili (1963: la Dc governerà con i socialisti o con i liberali?). Oggi è diverso: nessuno può escludere con sicurezza un governo Pd-Forza Italia, né un governo Cinque Stelle-Lega, e neppure un governo Cinque Stelle-Pd (con un Pd de-renzizzato, naturalmente).

C’è anche un secondo volto dell’incertezza, però, e forse è il più importante. In passato, quando a contendersi la vittoria erano il centro-destra e il centro-sinistra, non era difficilissimo immaginare che cosa ciascuno di essi avrebbe fatto una volta al governo. Oggi, invece, esiste una forza politica, il partito di Grillo, che l’elettore non ha ancora messo alla prova a livello nazionale, e di cui non è facile immaginare che cosa effettivamente farebbe una volta al potere. E’ innanzitutto per questo che le dichiarazioni e le gaffe degli esponenti Cinque Stelle sono al centro dell’attenzione. Ci stiamo attenti perché cerchiamo di capire che cosa succederebbe nel caso dovessero vincere le elezioni (eventualità improbabile), o diventare il primo partito e ottenere l’incarico di provare a formare un governo (eventualità tutt’altro che esclusa).

In attesa di un vero programma, che per ora non esiste, possiamo solo basarci su frammenti: le proposte di legge (come quella sul reddito di cittadinanza), i testi pubblicati sul sito del movimento, le dichiarazioni degli esponenti politici.

Da questi frammenti, possiamo tentare di ridurre l’incertezza su ciò che potrebbe attenderci.

Ma qual è il quadro che, per ora, emerge da questi frammenti?

Il primo elemento che salta agli occhi è uno strano cocktail di reticenza e di confusione. Nei giorni scorsi abbiamo sentito in tv una esponente del movimento dire che non saprebbe se votare no o sì in un referendum sull’euro, dichiarare che la Germania si permette un deficit del 9%, che i Cinque Stelle sono pronti a fare deficit pubblico al 3% se non oltre, nonché a spendere 150 miliardi di euro in 5 anni. Quanto al candidato premier lo abbiamo sentito parlare di 12 miliardi da recuperare tagliando le “pensioni d’oro”, salvo poi fare marcia indietro, qualche giorno dopo, e accontentarsi di colpire la componente retributiva degli assegni pensionistici, contrapponendo chi ha una pensione veramente elevata (8 mila euro, se ricordo bene) al povero pensionato a 300 euro al mese (una figura sociale inesistente, posto che sia la pensione minima sia l’assegno sociale superano ampiamente questa cifra).

Né le cose vanno meglio se, dalle dichiarazioni in tv, si passa a esaminare il piatto forte dei Cinque Stelle, il reddito minimo (erroneamente chiamato “reddito di cittadinanza”, nonostante non sia affatto destinato a tutti i cittadini). Qui sono almeno tre le cose che mi colpiscono. La prima è la sua profonda iniquità: essendo basato sul reddito nominale anziché sul potere di acquisto, esso è destinato a favorire i poveri che abitano nel Sud e/o in realtà rurali (dove i prezzi sono bassi), a danno dei poveri che abitano al Nord e/o in realtà urbane (dove i prezzi sono alti). La seconda è la sua totale incapacità di affrontare il problema che, in tutta Europa, affligge le misure di sostegno al reddito: come evitare che esso si trasformi in un disincentivo al lavoro, ossia in una misura puramente assistenziale. La terza è la scelta delle cosiddette coperture: se si analizzano attentamente, si scopre che la maggior parte di esse sono nuove tasse.

E qui veniamo al succo della visione politica dei Cinque Stelle. Nonostante qualche sparata contro gli sprechi della Pubblica Amministrazione, a me pare che il vero tratto distintivo dei Cinque Stelle rispetto alla maggior parte delle altre forze politiche (eccetto il neonato partito di Grasso), è la loro disponibilità ad aumentare sia il deficit e il debito pubblico sia le tasse, naturalmente specificando che i colpiti saranno i soliti pochi, ricchi e cattivi: finanzieri, banchieri, speculatori, corrotti, grandi evasori. Del resto non è una peculiarità dei Cinque Stelle, né in Italia né in Europa: se il populismo è, innanzitutto, domanda di protezione, non stupisce che esso si accompagni a una forte rivalutazione del ruolo dello Stato, come ombrello protettivo rispetto alle ingiustizie, alle diseguaglianze, alle ingerenze delle autorità sovranazionali (si pensi alle reiterate promesse di rinegoziare i trattati, a partire dall’odiato Fiscal compact).

Questa visione dell’economia e della società italiana, fortemente impregnata di dirigismo e di assistenzialismo, non è necessariamente catastrofica, ma non per questo è meno preoccupante.

Ci sono due scenari principali, infatti. Il primo è che, con l’esaurirsi del quantitative easing e la fine del mandato di Draghi, e in presenza di un governo che pratica con una certa disinvoltura la spesa in deficit, l’Italia torni nel mirino della speculazione internazionale come nel 2011. In questo caso, effettivamente, la finanza allegra dei Cinque Stelle potrebbe rivelarsi catastrofica.

C’è anche un secondo scenario, tuttavia, non catastrofico ma non per questo rassicurante. Una politica fatta di più tasse e, soprattutto, di più spese, potrebbe, molto semplicemente, sospingere più risolutamente l’Italia sul sentiero di declino che ha imboccato un quarto di secolo fa, all’inizio degli anni ’90. È da allora, infatti, che la nostra posizione relativa in Europa, e più in generale fra i paesi sviluppati, non ha fatto che deteriorarsi, in termini di crescita del Pil, tasso di occupazione, produttività del lavoro. E lo ha fatto per una ragione di fondo: sia prima sia dopo la crisi nessun governo è riuscito a invertire stabilmente la corsa delle tasse e delle spese correnti. Un’incapacità che, alla lunga, ha finito per soffocare l’economia, e relegare l’Italia agli ultimi posti in Europa. Non è certo un caso che, dopo la grande recessione del 2009, il ritorno alla crescita abbia interessato innanzitutto i paesi che, come Germania, Regno Unito, Irlanda, sono stati in grado di ridurre l’interposizione pubblica.

Certo, a tutto ciò si può obiettare, come spesso si sente ripetere nel mondo che ruota intorno ai Cinque Stelle, che l’importante è la redistribuzione, che il consumismo si è spinto un po’ troppo in là, che dopotutto la frugalità è un valore, che la decrescita può essere “felice”, o “serena”, come non si stanca di ripetere l’economista Serge Latouche, ascoltato guru dei grillini. Temo però che questa saggia visione del mondo, oggi sponsorizzata anche da economisti e filosofi di valore come Robert e Edward Skidelski (“Quanto è abbastanza” è un bellissimo libro: Mondadori 2013), si adatti di più agli individui e ai paesi ricchi, i quali dall’alto del loro conquistato benessere possono pensare tranquillamente a tagliare qualche consumo superfluo, che non agli individui e ai paesi che sono ancora lontani dai traguardi di benessere raggiunti dai primi.

Pubblicato su Il Messaggero il 23 dicembre 2017



La verità sulla crescita dell’occupazione in Italia

Luca Ricolfi  sul «Messaggero» di oggi riconosce che il numero totale di occupati in Italia ha avuto una crescita importante dal 2013 al 2016. Ma, per provare la sua tesi che non è detto che il Jobs Act abbia avuto rilevanti effetti positivi, egli aggiunge che il numero totale di occupati in Italia è cresciuto assai meno che negli altri grandi Paesi europei. La conclusione di Ricolfi è ingannevole: non perché dice una cosa falsa, ma perché racconta solo una parte della verità. Ciò è facilmente dimostrabile affidandoci ai dati ufficiali Eurostat.

Il numero totale di occupati, tra il 2013 e il 2016, è cresciuto del 2% in Italia, 1,3% in Francia, 6,3% Spagna, 3,1% Germania, 5,6% Regno Unito. Quindi è vero: l’occupazione da noi è cresciuta meno che altrove. Ma se si vuol tracciare una valutazione seria degli effetti delle riforme del lavoro realizzate nel nostro Paese, non è corretto fornire solo questo dato. Questo dato va paragonato a quanto è cresciuto il pil reale dei vari Paesi nel periodo considerato: tra il 2013 e il 2016 il pil reale è salito del 2,1% in Italia, 3,2% Francia, 8,3% Spagna, 5,7% Germania, 7,4% Regno Unito.

Confrontando queste due serie di dati, emerge chiaramente un fatto di non poco conto: l’Italia è di gran lunga, tra i grandi Paesi europei, quello col miglior rapporto tra crescita del pil reale e crescita dell’occupazione. In altri termini, il “contenuto occupazionale della crescita” è stato da noi più alto che negli altri Paesi esaminati. Perché è stato più alto? Perché, è evidente, le riforme del mercato del lavoro fatte hanno dato risultati significativi, pur in presenza di una crescita del pil ancora contenuta.

Certo, siamo ancora indietro, specialmente per quanto riguarda la crescita (su cui pesano fortemente l’elevato debito pubblico e l’alto carico fiscale che di esso è conseguenza) e il tasso di occupazione giovanile (da noi è il 60%, in Francia 75%, Spagna 68%, Germania 80%, Regno Unito 82%). Pertanto è indubbio che resta tantissimo da fare. Ma, se si vuol dare un giudizio equo sulle riforme del lavoro degli ultimi anni, l’andamento del contenuto occupazionale della crescita è una variabile da cui non si può prescindere.

La risposta di Luca Ricolfi all’Onorevole Parrini

Grazie, innanzitutto, per le sue riflessioni, sicuramente utili per arricchire la discussione sul mercato del lavoro.

Lei ha perfettamente ragione a sottolineare che non conta solo quanti posti di lavoro nuovi si formano, ma anche quanto è grande il loro “contenuto occupazionale”. Da questo punto di vista l’Italia ha fatto meglio di quasi tutti gli altri paesi europei: solo la Grecia ha fatto ancora meglio di noi.

La Grecia?

Sì, proprio la Grecia. Questo dovrebbe fare riflettere sul significato dell’indicatore che lei propone di utilizzare. Il numero di posti di lavoro (o di ore lavorate) per unità di Pil, infatti, non è altro che l’inverso della produttività del sistema-paese. Un paese che aumenta il “contenuto occupazionale” del Pil sta semplicemente riducendo la sua produttività.

        Fonte: elaborazioni FDH su dati Oecd

Come si può vedere dal grafico qui sopra, l’intensità di lavoro e la produttività del lavoro sono semplicemente le due facce, speculari ed entrambe veritiere, della medesima medaglia: se aumenta l’una non può che diminuire l’altra, e viceversa.

Naturalmente possiamo discutere (è una vecchia ma sempre attuale controversia) se sia meglio una crescita ad alto o a basso contenuto di occupazione, ma il problema, a mio parere, si pone in modo effettivo solo per i paesi che, avendo una crescita della produttività elevata (o quantomeno vicina alla media degli altri paesi), possono scegliere se puntare le loro carte su politiche di sostegno dell’occupazione o su politiche che promuovano la competitività sui mercati internazionali.

La mia opinione è che, sfortunatamente, l’Italia non possa permettersi di scegliere: siamo, insieme al Belgio, l’unico paese avanzato la cui produttività ristagna da vent’anni.  E questo è, insieme a quello del debito pubblico, uno dei problemi capitali del sistema-Italia. Ecco perché, pur rallegrandoci dei nuovi posti di lavoro, non possiamo considerare una buona notizia il fatto che la dinamica dell’occupazione ecceda quella del Pil.

La buona notizia sarebbe che, pur crescendo i posti di lavoro a un ritmo soddisfacente, il Pil crescesse a un ritmo ancora maggiore, rafforzando la nostra competitività.

 

 

 




Mercato del lavoro, l’eredità della crisi

Come spesso succede nei divorzi fra coniugi, anche nell’imminente, e a quanto pare ineluttabile, divorzio fra il Pd e le tre sigle della Sinistra Purosangue (Mdp, Si, Possibile), le ragioni vere, le ragioni ultime della separazione, non si conoscono con certezza: antipatie personali? disaccordi sulla suddivisione dei seggi in Parlamento? dissensi politici sui programmi?

Una cosa però la sappiamo con sicurezza: le ragioni dichiarate, quelle che riempiono i telegiornali e le pagine dei quotidiani, vertono essenzialmente sul mercato del lavoro. La Sinistra Purosangue attacca frontalmente le politiche occupazionali di questi anni, a partire dal Jobs Act; il Pd non solo non si sogna di rinnegare quelle politiche, ma attribuisce ad esse il merito di aver creato un milione di posti di lavoro.

Temo che nessuna di queste due posizioni regga a un’analisi fredda. Tuttavia penso che vi sia un’asimmetria: il punto debole della Sinistra Purosangue sono le proposte, quasi tutte penalizzanti per le imprese e melanconicamente ispirate a un mondo che non c’è più; il punto debole della sinistra riformista, invece, è la descrizione, il racconto di questi anni. Un racconto che, con il comprensibile obiettivo di difendere quel che si è fatto, rischia di non vedere né quel che realmente è accaduto, né quel che si sarebbe potuto fare, di più e di meglio.

Che cosa è accaduto, fra il 2014 e oggi?

Sì, è vero, i posti di lavoro dipendente sono aumentati di circa 1 milione. Ma questo non prova che ciò sia avvenuto grazie alle politiche del governo: senza un’analisi statistica accurata, che al momento manca (e probabilmente è inattuabile, con i dati di cui si dispone), si potrebbe altrettanto bene sostenere che il merito è della ripresa dell’economia europea, che a sua volta sarebbe merito della Bce e del Quantitative Easing. Giusto qualche giorno fa Draghi è sembrato dire proprio questo, quando ha messo in relazione la politica monetaria e i 7 milioni di nuovi posti di lavoro creati nell’Eurozona negli ultimi 4 anni.  E se proprio volessimo farci un’idea, rozza e approssimativa, degli eventuali meriti delle politiche attuate in Italia, quel che dovremmo fare non è certo confrontare gli ultimi quattro anni (di lenta ripresa) con i precedenti quattro (di crisi profonda), ma semmai chiederci come è andata nel resto d’Europa. Ebbene, se lo facciamo, il risultato è desolante: fra il 2013 e il 2016 gli occupati sono cresciuti del 2.2% in Italia, ma del 3.8% (quasi il doppio) in Europa. A fronte del +2.2% dell’Italia, la Francia ha fatto +2.7, la Germania +3.9%, il Regno Unito +5.2, la Spagna: +6.9. Solo 8 paesi (fra cui Grecia e Cipro) hanno fatto peggio di noi, mentre ben 24 su 33 hanno fatto meglio.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Se poi andiamo a vedere la composizione di questi nuovi posti di lavoro, il quadro si fa ancora più allarmante. Il tasso di occupazione precaria era all’11% a metà degli anni ’90, è cresciuto di un paio di punti nel ventennio successivo, ma poi, in soli tre anni, fra il 2014 e il 2017, ha fatto un ulteriore balzo di altri 2 punti: oggi è al massimo storico, oltre la soglia del 15%. E questo record si mantiene anche se teniamo conto della riduzione del numero delle collaborazioni, ossia del tipo di contratti che il Jobs Act e la decontribuzione si preoccupavano di disincentivare.

Fonte dati ISTAT-Elaborazioni Fondazione David Hume

Questo dato sembra contrastare con le cifre che vengono spesso presentate a difesa delle politiche di questi anni, cifre da cui risulta che l’incremento di posti di lavoro è equidistribuito: mezzo milione di posti di lavoro permanenti (stabili), mezzo milione di posti di lavoro temporanei (precari). Ma è una trappola statistica, e non è un buon argomento a favore delle politiche che si vogliono difendere. La realtà è che il tasso di occupazione precaria in Italia, anche dopo i record negativi macinati nel triennio 2015-2016-2017, resta relativamente contenuto: il 15% è più o meno la media europea, un dato analogo a quello della Germania, e migliore di quelli di Francia e Spagna.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Ma un paese che ha “solo” il 15% di lavoratori a termine, se vuole evitare che il tasso di precarietà salga, è costretto ad assumere a tempo indeterminato almeno l’85% dei nuovi dipendenti. Se ne assume a tempo indeterminato solo il 50%, inevitabilmente registrerà un aumento del tasso di occupazione precaria. Ecco perché hanno ragione sia quanti si rallegrano che metà dei nuovi posti di lavoro siano stabili, sia quanti deplorano che il tasso di precarietà sia in continua ascesa.

Parlando di record negativi, ce n’è purtroppo anche un altro che abbiamo conquistato in questi anni: nel 2016 l’Italia è diventata il paese con il tasso occupazione giovanile più basso d’Europa. E’ vero che è da molti anni che siamo agli ultimi posti, ma non era mai successo che fossimo il fanalino di coda.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Quanto al tasso di occupazione complessivo, nonostante i progressi degli ultimi anni, siamo ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, ma anche qui è importante distinguere: il tasso di occupazione degli italiani è ancora sotto di un punto, quello degli stranieri di quasi 10. E questo non perché gli stranieri abbiano conquistato più posti degli italiani, ma per la ragione opposta: nel decennio della crisi gli italiani hanno perso più di 1 milione di posti di lavoro, gli stranieri ne hanno conquistati quasi 800 mila, ma il loro tasso di occupazione è crollato lo stesso perché l’afflusso di stranieri è stato eccessivo rispetto alle capacità di assorbimento del mercato del lavoro.

Fonte dati Istat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Qual è il bilancio, dunque?

Se proviamo a sgombrare il campo dalle controversie ideologiche mi pare piuttosto semplice. In questi ultimi quattro anni, sul versante del lavoro, le cose sono andate meglio di prima, ma peggio che nella maggior parte degli altri paesi europei. Ed è normale che sia così, perché noi non abbiamo ancora risolto il problema del debito pubblico (che anzi si è un po’ aggravato), né rimosso le grandi strozzature, tasse e burocrazia innanzitutto, che impediscono al Pil di crescere a un ritmo sufficiente. Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo per regolare o deregolare il mercato del lavoro, ma il problema di fondo resta sempre quello: se il Pil non cresce almeno a un ritmo del 2-3% l’anno, è impossibile garantire sia un flusso cospicuo di nuovi posti di lavoro, unico modo sano di dare un po’ di ossigeno alle famiglie, sia un aumento della produttività, unico modo per essere competitivi sui mercati internazionali. Anche il problema del tasso di precarietà dipende in modo cruciale dalla dinamica del Pil: finché il Pil ristagna, o cresce poco, è normale che le imprese temano che la domanda che oggi c’è domani non ci sia più, e si cautelino con i contratti a termine. Pensare che il trend si possa invertire aumentando i vincoli e i costi delle imprese è semplicemente ingenuo.

Questo, mettere le imprese in grado di creare posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, è il nodo vero. Ma è un nodo che, in quanto passa per una significativa riduzione del debito pubblico, nessuna forza politica è in grado di affrontare sul serio.

Pubblicato su Il Messaggero



La battaglia delle tasse

Un tempo era l’Irpef. Negli anni ’90 la sinistra si preoccupava di ridisegnare la curva delle aliquote dell’imposta sulle persone fisiche. Poi vennero Berlusconi e il suo “Contratto con gli italiani”, che al primo punto prometteva due sole aliquote Irpef, una al 23%, l’altra al 33%. E poi venne Renzi, che nel dubbio fra ridurre l’Irap o ridurre l’Irpef, alla fine scelse l’Irpef anche lui: meglio mettere 80 euro in busta paga ai ceti medio-bassi che alleggerire le tasse sulle imprese (Irap e Ires).

Oggi la stagione dell’Irpef, vista come imposta super-star da cui tutto dipende, sembra perdere un po’ dello smalto di un tempo. Un po’ perché tutte le forze politiche si stanno rendendo conto che è sul sistema fiscale e contributivo nel suo insieme che occorre agire, anziché su una singola imposta. Ma un po’, anche, perché le uniche proposte abbastanza precise in campo sono quelle basate su qualche forma di flat tax, o “aliquota unica”, che tenderebbe a unificare, in tempi più o meno rapidi, le principali imposte vigenti, ovvero Irpef (persone), Iva (valore aggiunto), Ires (imposta sulle imprese), nonché le tasse sulle rendite finanziarie. Per non parlare di un ulteriore elemento che spinge verso un approccio sistemico: la crescente consapevolezza che il costo del lavoro è gravato, in Italia, da contributi sociali eccessivi, che fanno lievitare i costi delle imprese e scoraggiano le assunzioni.

In questo quadro in movimento, mi pare si stiano perdendo di vista alcuni elementi di criticità.

Il primo è che qualsiasi proposta di riduzione delle tasse che non abbia potenti coperture dal lato della spesa o da quello delle privatizzazioni significa solo, in buona sostanza, proseguire sul cammino su cui l’Italia è avviata dal lontano 1964, quando, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, nel bilancio pubblico si aprirono le prime crepe: spostare l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni future. Su questo l’unica forza politica che sembra avere le idee chiare (o, se preferite, che ha avuto l’onestà di dichiarare le proprie intenzioni) è il Pd: al partito di Renzi va bene fermare la discesa del rapporto deficit/Pil e riportarlo in prossimità del 3% per diversi anni, il che, in concreto, significa che a pagare i nuovi debiti che faremo saranno le future generazioni. Quanto al centro-destra e al Movimento Cinque Stelle è difficile decifrare le loro intenzioni, ma tutto fa pensare che, al momento buono, anch’essi cercheranno di ottenere dall’Europa il massimo della “flessibilità” possibile, dove la parla flessibilità è solo un eufemismo per più deficit e più debito pubblico.

Un secondo elemento di criticità è l’impatto della flat tax, ovvero di un’imposta unica su tutti i tipi di redditi. L’idea che essa sia incostituzionale (perché la nostra Carta fondamentale prevede la progressività) è una scempiaggine, dal momento che tutte le proposte di flat tax in campo sono progressive (grazie a no tax area, deduzioni, scaglioni, ecc.). Ma il timore che essa, in assenza di una adeguata emersione del sommerso, possa allargare la voragine del debito pubblico o costringere a tagli della spesa pubblica assai dolorosi, è tutt’altro che infondato.  Specie se, anziché adottare la già audace (ma ben articolata) proposta dell’Istituto Bruno Leoni, che prevede un’aliquota unica al 25%, ci si spingesse verso un’aliquota del 23% (Forza Italia) o addirittura del 15% (Lega).

Una terza criticità riguarda il sostegno delle famiglie al di sotto della soglia di povertà, un tema che non può essere eluso da una riforma complessiva del sistema fiscale. Ebbene su questo nessuna forza politica pare aver fatto i conti con un gravissimo problema di giustizia distributiva: calcolare la soglia di povertà in modo nominale, ovvero senza tenere conto del livello dei prezzi (più alto al Nord e nelle città), significa discriminare i poveri delle regioni settentrionali rispetto a quelli delle regioni meridionali, gli abitanti delle città a favore di quelli delle campagne. Fra le proposte in campo, mi pare che solo quella dell’Istituto Bruno Leoni prenda sul serio il problema, ma sfortunatamente il think tank guidato da Nicola Rossi e Alberto Mingardi non è una forza politica.

Ci sarebbe, infine, un’ultima criticità da segnalare. Le proposte fiscali, in Italia, sembrano avere un unico vero scopo: massimizzare il consenso di breve periodo. Non è sempre e ovunque così, nel resto delle economie avanzate. Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, stanno puntano molto su una riduzione della pressione fiscale sui produttori, a partire dall’abbattimento dell’imposta societaria (Ires e Irap, nel nostro ordinamento). E lo stanno facendo per una ragione molto semplice: solo così, in un mondo in cui la concorrenza internazionale è sempre più agguerrita, possono pensare di attrarre investimenti esteri e dare una spinta significativa al Pil.

Credo che dovremmo pensarci anche noi, perché l’anomalia degli ultimi 20 anni è che il tasso di crescita del Pil e quello dell’occupazione sono rimasti sostanzialmente appaiati, un fatto che significa una cosa soltanto: la produttività media del sistema Italia è sostanzialmente ferma dalla fine degli anni ’90. Forse, anziché incentivare direttamente le assunzioni, dovremmo chiederci se non sarebbe meglio mettere le imprese nelle condizioni di crescere abbastanza in fretta da costringerle ad assumere. Il risultato, verosimilmente, non sarebbe solo una dinamica dell’occupazione più vivace, ma anche un aumento della quota di assunzioni a tempo indeterminato: che non dipende dalla benevolenza degli imprenditori, ma dalla ragionevole convinzione che domani si dovrà produrre più di oggi.

Pubblicato su Il Messaggero




Conti pubblici, una farsa che dura da molti anni

La Commissione europea non è soddisfatta dei nostri conti pubblici. Nel linguaggio paludato e un po’ criptico che caratterizza gli scambi fra gli uffici del ministero dell’Economia e quelli della Commissione, ci ha fatto sapere che i nostri conti non la convincono, né sul 2017 né per il 2018.

Una prima lettera è partita alla fine di ottobre. Ma la risposta del ministro Padoan non ha convinto. Lo ha detto chiaramente il vicepresidente della Commissione, il finlandese Jyrki Katainen, la settimana scorsa: “Tutti possono vedere che la situazione in Italia non migliora”.

Quindi un’altra lettera è in corso di preparazione, e sarà inviata a breve al nostro Governo. Ma il giudizio finale della Commissione sui conti pubblici dell’Italia arriverà solo a maggio 2018, quando i buoi della spesa pubblica saranno già scappati dalle stalle.

Questo rituale, che si ripete tutti gli anni, è curioso. In autunno il Governo vara la cosiddetta Finanziaria, con relativo assalto alla diligenza da parte di sindacati e gruppi di pressione. La Commissione europea esprime dubbi e richieste di chiarimento, ma poi lascia fare, rimandando il giudizio definitivo alla primavera dell’anno dopo. Quando la primavera arriva si comincia a capire che i numeri dei conti pubblici non potranno mai essere quelli promessi perché l’economia, quella birichina, vuol fare tutto di testa sua e non si adegua alle previsioni dei governanti italiani. A quel punto però è tardi, e tutto quel che la Commissione Ue può fare è raccomandare una “manovrina” correttiva, e di comportarsi meglio l’anno successivo. Il nostro governo risponde che sì, si impegnerà molto (da un po’ di tempo però preferisce parlare di “sforzi” messi in atto, o da mettere in atto), e che gli obiettivi mancati quest’anno saranno raggiunti l’anno prossimo. L’anno prossimo arriva, le cifre non sono quelle messe nero su bianco l’anno prima, e la commedia ricomincia.

Poiché si tratta di una commedia, è abbastanza inutile rileggersi il copione nei minimi dettagli, entrando nelle infinite diatribe che caratterizzano questi balletti di cifre, apparentemente tecnici ma in realtà tutti politici: con quale modello statistico calcolare il PIL potenziale e l’output gap, come determinare l’avanzo primario strutturale, quali sono i margini di flessibilità cui l’Italia ha diritto.

Meglio andare direttamente al punto: come stanno evolvendo i conti pubblici dell’Italia?

Per rispondere a questa domanda occorre, a mio parere, distinguere due aspetti del problema. Il primo aspetto è la salute delle nostre finanze pubbliche, il secondo è la loro capacità di resistere ad un’eventuale impennata dei tassi di interesse. Anche se, nel lungo periodo, si tratta di due facce della stessa medaglia, nel breve periodo possono divergere un po’: un paese come il nostro, con conti in cattiva salute, può risultare più o meno vulnerabile a seconda dell’andamento di altri aspetti della sua economia.

Se ragioniamo sulla salute, quel che dobbiamo chiederci è come stanno evolvendo i due fondamentali indicatori di malattia, ovvero il rapporto debito/PIL e l’avanzo primario strutturale (corretto per il ciclo e le una tantum). Ebbene, su entrambi i fronti le cose non vanno bene, come ha mostrato in modo inoppugnabile Veronica De Romanis usando serie storiche prodotte da organismi internazionali (dati e grafici reperibili sul nostro sito). Nonostante le promesse renziane di ridurlo, il rapporto debito/PIL è oggi più alto che nel 2013-2014, e presumibilmente non inizierà a scendere in modo apprezzabile neanche quest’anno (anzi, secondo la Commissione europea aumenterà leggermente). Ancora più grave la situazione dell’avanzo primario corretto per il ciclo, che negli ultimi anni è sempre peggiorato, e presumibilmente continuerà a farlo quest’anno.

Se dalla salute dei conti pubblici passiamo alla capacità di resistenza (o al suo opposto: la vulnerabilità), il quadro si fa un po’ meno scoraggiante. La vulnerabilità dei conti pubblici, ovvero il rischio che una nuova crisi finanziaria faccia schizzare in alto lo spread (come nel 2011-2012), non dipende solo dall’ampiezza del debito pubblico ma anche da altri fattori, come il debito privato, l’andamento del Pil e quello dell’inflazione. Se, per misurare la vulnerabilità, usiamo l’indice di vulnerabilità strutturale elaborato dalla Fondazione David Hume, possiamo notare che la vulnerabilità dei nostri conti pubblici è leggermente aumentata nel triennio 2014-2016, ma nel corso del 2017 risulta in diminuzione, cioè in sensibile miglioramento (dati e grafici sul nostro sito). La ragione è molto semplice: grazie alla ripresa in atto in tutta Europa, anche l’economia italiana sta andando meglio, e questo rende i nostri conti pubblici un po’ meno vulnerabili di quanto lo fossero negli anni scorsi.

Possiamo stare tranquilli, dunque?

Direi proprio di no. Sfortunatamente stiamo per entrare in un periodo di forti rischi finanziari, non solo perché lo scudo del Quantitative Easing della Bce sta per venir meno, ma perché è piuttosto probabile che, in futuro, cambino le regole che oggi consentono alle banche di contabilizzare fra gli attivi i titoli di Stato del proprio Paese, anche se quest’ultimo è fortemente indebitato. Se queste regole venissero cambiate, e i titoli del debito pubblico venissero svalutati in base al grado di deterioramento dei conti pubblici di ogni paese, l’Italia correrebbe rischi molto seri. E, forse, qualche politico si pentirebbe amaramente di aver sciupato questi anni, in cui – grazie alla riduzione dei tassi di interesse – qualcosa si poteva fare e invece così poco è stato fatto.

Articolo pubblicato su Panorama