Due stati

Di una frattura fra Nord e Sud si parla da quando esiste lo Stato italiano, dunque dal 1861. Il modo in cui se ne parla, le modalità con cui la si declina, le linee lungo le quali se ne tracciano i confini, sono invece piuttosto mutevoli.

Fino agli anni ’50 del Novecento, fondamentalmente, il problema è stato pensato come “questione meridionale”, una grande sfida politica che ha appassionato legioni di meridionalisti, fin dalla fine dell’800: da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti, da Antonio Gramsci a Pasquale Villari, da Gaetano Salvemini a Pasquale Saraceno. Nel meridionalismo classico il Sud da sostenere e sviluppare coincideva con l’intero Mezzogiorno statistico (inclusi Abruzzo e Sardegna), e arrivava talora ad includere le aree più depresse del Lazio, oggetto anch’esse di attenzione da parte della Cassa del Mezzogiorno. Questo confine fra le due italie sarà poi ribadito e precisato dagli studiosi di scienza politica, che sulla scorta del famoso libro di Robert Putnam sulla “tradizione civica” delle regioni italiane (1993), fisseranno la linea di demarcazione fra l’Italia arretrata, che non ha avuto la civiltà comunale e perciò scarseggia di fiducia interpersonale, e l’Italia civica, in cui la civiltà comunale ha creato le condizioni dello sviluppo, lungo la linea che va dalla foce della Fiora (sud della Toscana) alla foce del Tronto (sud delle Marche). E sarà un politologo italiano, Roberto Cartocci, a mostrare che quel confine coincide con impressionante precisione con quello del voto di scambio, o clientelare, che si concentra a Sud di quella linea ideale.

Questa visione di un’Italia divisa in due, con il Sud (più o meno allargato) da un lato, e il Centro-Nord (più o meno ristretto) dall’altro non è mai venuta meno. Il problema, per gli studiosi, riguardava solo la questione dei confini esatti fra le due italie, perché due regioni, Lazio e Marche, si venivano spesso a trovare “a cavallo” fra il Centro-Nord e il Sud.

Accanto a questo filone di pensiero, sostanzialmente dualista, a partire dagli anni ’60 si è sempre più irrobustito un altro modo di descrivere l’Italia, più legato agli esiti elettorali. Secondo questo modo di vedere l’Italia elettorale era suddivisa in più di due aree relativamente omogenee: almeno quattro secondo alcuni, tre secondo altri. L’elemento comune di queste analisi, dovute soprattutto all’Istituto Cattaneo, ad Arnaldo Bagnasco e a Giorgio Fuà, era di vedere il centro-Nord come un luogo relativamente eterogeneo, suddiviso fra regioni di antica industrializzazione (Piemonte, Lombardia, Liguria), dominate dalla grande impresa, e regioni della terza Italia, dominate dalla piccola impresa, e divise quasi esclusivamente dalla cultura politica, con il Triveneto cattolico contrapposto alle Regioni rosse.

Nel 1992-1994, con la fine della prima Repubblica e la netta vittoria del centro-destra nelle regioni settentrionali, lo schema delle molte italie subisce una nuova e ulteriore torsione: ora la frattura fondamentale pare innanzitutto fra il Nord, produttivo e insofferente per l’oppressione fiscale, e il resto del Paese. E infatti da allora, e per molti anni, si parlerà di “questione settentrionale”, e il federalismo fiscale diventerà nel giro di pochi anni una specie di tema fisso della politica italiana.

Ma che cosa accade il 4 marzo 2018? Che tipo di paese è quello che esce dalle urne?

A mio parere è un paese che torna ad essere spaccato essenzialmente in due, fra il Sud e il resto della penisola, come era risultato nitidamente nel 1992, ultime elezioni della prima Repubblica. Allora il Sud si distingueva dal resto d’Italia perché vi resisteva la Democrazia cristiana, esattamente come oggi il Sud si distingue dal resto d’Italia per l’insediamento dei Cinque Stelle. Ed è impressionante la precisione con cui la carta geopolitica di oggi riflette quella di allora, regione per regione, provincia per provincia: i Cinque Stelle hanno sfondato là dove maggiore era la forza della Dc. L’unica differenza significativa è che oggi le Marche sono, per così dire, annesse al Mezzogiorno grillino, mentre il Lazio è annesso al centro-nord presidiato dal centro-destra e dal Pd.

Abbiamo provato a metterle a confronto, queste due italie che il voto del cinque marzo ci ha consegnato, e l’esito non potrebbe essere più nitido: un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà, evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno appare più avanti del resto del Paese.

*Lazio: valore stimato (dati non definitivi)
Fonte: elaborazioni Fondazione Hume su dati Istat, RGS, Ministero della Giustizia, Ministero dell’Interno, Mise – Piano strategico Banda Ultra Larga,
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ferrovie dello Stato e CGIA di Mestre

È come se, in Italia, coesistessero due Stati, che in oltre 150 anni non sono riusciti in alcun modo a raggiungere un accettabile livello di convergenza.

Ma se siamo di fronte a due Stati, con economie e strutture sociali radicalmente diverse, forse sarebbe giunto il momento di prenderne atto nel solo modo conseguente, ovvero pensando a due politiche economiche radicalmente diverse per queste due italie. Proprio perché tutto è profondamente diverso, risulta difficile pensare che un’unica ricetta vada bene per tutto il paese. Prendiamo il tema delle tasse. Qualcuno si può stupire che la flat tax non abbia sedotto gli elettori meridionali? Quel problema il Mezzogiorno l’ha risolto da sempre autoriducendosele, le tasse. Il problema, semmai, sono le “condizioni al contorno” dell’attività economica: infrastrutture precarie o incomplete, mancanza di asili nido, una sanità disastrata, una scuola di bassa qualità, una burocrazia inefficiente nonostante l’eccesso di personale. Forse è di qui che una politica per il Mezzogiorno dovrebbe prendere le mosse. Naturalmente il Mezzogiorno ha anche bisogno, e da subito, di più posti di lavoro, proprio per far sì che il reddito minimo (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) sia l’unica prospettiva. Ma come fare?

Un’idea potrebbe essere di riprendere, magari solo per il Mezzogiorno, la proposta del maxi-job che la Fondazione David Hume aveva lanciato nel 2014, e che era stata raccolta sia da Susanna Camusso sia da Giorgia Meloni: azzerare tutti i contributi sociali non già per chi, genericamente, assume, ma per quelle imprese che aumentano l’occupazione e lo fanno con lavori veri, a tempo pieno o quasi pieno (di qui il prefisso maxi, che si contrappone ai mini-job della Germania). Un’altra idea, e in un certo senso una misura complementare ai maxi-job, potrebbe essere di favorire l’occupazione femminile nel Mezzogiorno (dove è a livelli bassissimi) con un grande piano di costruzione di asili nido, che oggi sono drammaticamente scarsi (1 bambino su 9).

Un ragionamento analogo e speculare, probabilmente, meriterebbe di essere fatto per il Centro-Nord. Qui una misura chiave sarebbe disboscare la selva degli adempimenti burocratici, e rendere più rapido il rilascio di permessi e autorizzazioni, specie in ambito edilizio e nel commercio. Quanto ai bilanci delle imprese, più che sul contenimento del costo del lavoro, forse sarebbe meglio puntare direttamente sulla riduzione dell’imposta societaria (Ires e Irap). L’evidenza econometrica suggerisce che, se si vuol accelerare la crescita del Pil, è molto più efficiente puntare sulla riduzione delle tasse sui profitti che ridurre la pressione contributiva, o la pressione fiscale in generale.

Con le risorse degli 80 euro e della decontribuzione (circa 20 miliardi l’anno), anziché sostenere gli stipendi di chi un lavoro già ce l’ha, forse sarebbe stato meglio pensare a una più drastica riduzione dell’imposta societaria, e a un sostegno ai veri poveri, ossia a chi guadagna così poco da non poter usufruire di alcuno sgravio fiscale. Certo, lo si sarebbe dovuto fare mirando alla povertà assoluta, anziché alla povertà relativa, e tenendo conto del livello dei prezzi, come proposto a suo tempo dall’Istituto Bruno Leoni: un sussidio di 500 euro a Caltanissetta pesa molto di più, in termini di potere di acquisto, di un sussidio di 500 euro a Milano.

Se il Pd lo avesse fatto, probabilmente l’economia italiana e l’occupazione avrebbero ricevuto una spinta maggiore, e il Sud, in cui si concentrano la maggior parte dei poveri assoluti, si sarebbe sentito meno solo. Il successo dei Cinque Stelle è anche il frutto di anni di superficialità, omissioni, e slogan vuoti nelle politiche per il Mezzogiorno.

Pubblicato su Panorama il 15 marzo 2018 con il titolo “Le due Italie”.



Abolire “la Fornero” ?

Wanted, o “ricercata”. Un marziano che sbarcasse in Italia e posasse gli occhi su slogan e manifesti di questa avvilente campagna elettorale sarebbe indotto a pensare che la professoressa Elsa Fornero sia uno dei principali pericoli pubblici di questo paese. Quel che colpisce, della caccia alla Fornero, non è tanto l’animosità degli attacchi cui la docente torinese è sottoposta da ben sei anni, bensì la loro universalità: ad essere risolutamente (eufemismo) contro la Fornero e la sua riforma delle pensioni troviamo infatti nientemeno che la Cgil, ossia il più grande sindacato italiano (peraltro zeppo di pensionati), il Movimento Cinque Stelle (ossia il più grande partito italiano), la Lega (il più radicale partito di destra), Liberi e uguali (il più radicale partito di sinistra). Tenuto conto che queste forze rappresentano gruppi di elettori scarsamente sovrapposti, è facile concludere che “abolire la Fornero” è probabilmente l’unico obiettivo su cui esiste una larga, larghissima, convergenza politica. Una sensazione, questa, rafforzata dalle dichiarazioni di Salvini, che giusto pochi giorni fa, in una intervista al Corriere della Sera, ha riconosciuto la vicinanza fra Lega e Cinque Stelle su questo punto; e pochi giorni prima, aveva pubblicamente annunciato che “la legge sulla pensioni sarà la prima cosa che cancelleremo se andremo al governo”.

Fuori dal fronte anti-Fornero l’unica forza politica importante è il Pd, visto che Forza Italia, stante la sua alleanza con la Lega, non può che barcamenarsi fra gli slogan radicali (“abrogare la legge Fornero”, Brunetta) e le formule più prudenti (“eliminare gli effetti negativi”, Berlusconi).

Da che cosa deriva tanto interesse per il tema delle pensioni e tanto accanimento verso la riforma Fornero? Essenzialmente dal fatto che i pensionati sono un gruppo sociale amplissimo, in continua crescita, e con una propensione al voto relativamente alta. L’esatto contrario dei giovani, che sono un gruppo sociale ristretto, in continua diminuzione, e fortemente tentato dall’astensione.  Il fatto che le statistiche dimostrino che anziani e pensionati siano il gruppo sociale che meno ha risentito della crisi, o la circostanza che l’Italia sia il paese europeo in cui più si spende per le pensioni, nonché uno dei paesi in cui l’età effettiva di andata in pensione è più bassa, non impressiona minimamente i nostri politici: a loro interessano i voti dei pensionati, e per acchiapparli sono disposti a tutto. Lo strumento principe di questa “acchiappanza” è la demonizzazione della legge Fornero, e in particolare del principio dell’adeguamento automatico dell’età della pensione all’allungamento della vita.

Tutto questo non significa, naturalmente, che la riforma Fornero non abbia limiti e difetti, oltre a quello ben noto di non aver previsto e gestito il problema degli “esodati” (persone che si sono improvvisamente venute a trovare senza lavoro e senza pensione): fra questi il modo, attuarialmente ingenuo, di calcolare la speranza di vita, o la filosofia dirigista che la ispira, due punti su cui ha di recente attirato l’attenzione Francesco Forte, stimato docente di Scienza delle finanze, e più volte ministro in governi del passato.

Il punto, però, è che tutto il dibattito sulla riforma Fornero è drammaticamente sprovvisto di lealtà e di concretezza. E, cosa interessante, a truccare le carte sono sia i difensori che i critici della riforma Fornero.

L’argomento principe dei difensori, per lo più fondato su conteggi della Ragioneria generale dello Stato, è che abolire la riforma Fornero costerebbe una cifra enorme, dell’ordine di 25 miliardi l’anno. Questa argomentazione finge di credere che i nemici della legge Fornero, una volta al governo, si limiterebbero ad abrogarla, tornando al sistema precedente: solo questo presupposto, infatti, consente di affermare che il costo dell’abolizione sarebbe di una determinata entità.

A questo argomento i critici obiettano, non senza ragione, che essi non intendono tornare al sistema precedente, ma cambiare le regole introdotte dalla Fornero, un compito che alcuni (Berlusconi) paiono intendere nel senso di “correggere alcuni difetti”, altri (Salvini, Di Maio) nel senso di “cambiare radicalmente”, ad esempio eliminando l’aumento automatico dell’età della pensione, o colpendo le pensioni più elevate.

Il difetto di questa posizione, tuttavia, è che non solo si guarda bene dallo scendere nei dettagli, ma si rifiuta ostinatamente di rispondere alla domanda cruciale, che dovrebbe precedere qualsiasi esposizione approfondita di come le cose dovrebbero funzionare “se vinciamo noi”. La domanda è questa: stante che la legge Fornero, rispetto alla disciplina precedente, comporta un risparmio ingente (dell’ordine di un paio di decine di miliardi l’anno), la vostra riforma farebbe aumentare, farebbe diminuire o lascerebbe invariata la spesa pensionistica? E se non la lascerebbe invariata, di quanti miliardi la farebbe aumentare o diminuire rispetto alla situazione di oggi?

A questa basilare domanda gli acerrimi nemici della legge Fornero non hanno, per ora, saputo fornire alcuna risposta. Io stesso, qualche tempo fa, ho avuto occasione di constatarlo in un dibattito televisivo con l’on. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Quando ho posto quella domanda, ne ho ricevuto la seguente, a suo modo geniale, risposta: “non condivido la domanda”.

Ecco perché, di fronte al pomo della discordia costituito dalla legge Fornero, penso non si possa che assumere un atteggiamento scettico. Nessuna legge è perfetta, e quella legge ha sicuramente dei difetti. Ma almeno non è a scatola chiusa, come lo sono quelle dei suoi critici: nulla, al momento, ci garantisce che essi la sostituirebbero con una legge migliore, e che, nella ricerca del meglio, non metterebbero a repentaglio i conti dello Stato.

Speriamo che, di qui al 4 marzo, almeno una delle forze politiche che vogliono disfarsi della legge Fornero abbia il coraggio di scoprire le carte, e di rispondere perlomeno alla domanda preliminare: quanti miliardi in più o in meno all’anno ci costerà la nuova legge?




Mezzogiorno “dimenticato”? forse no…

Le campagne elettorali degli ultimi trent’anni si somigliano un po’ tutte. Solite promesse, soliti slogan, solite analisi dei mali del Paese. Soliti temi: lavoro, tasse, sicurezza, pensioni. E solite omissioni: debito pubblico, debito pensionistico, parametri europei, pareggio di bilancio.

C’è una differenza, tuttavia. Dal novembre del 2012, ossia dal repentino cambio di governo da Berlusconi a Monti, è calato il silenzio più totale sul federalismo, sui problemi del Mezzogiorno, sugli squilibri fra Nord e Sud. Mi colpì molto, allora, non sentire una sola parola sui grandi temi che, almeno sul piano della propaganda, sono sempre stati al centro del dibattito politico italiano, sia nella prima Repubblica, quando il nodo era la “questione meridionale”, sia nella seconda, quando il nodo era diventato la “questione settentrionale”, risolutamente posta all’ordine del giorno dalla Lega Nord ma anche da importanti settori della classe dirigente industriale (uno dei primi studi sul “residuo fiscale”, ossia sulla penalizzazione delle regioni del Nord, fu condotto dalla Fondazione Agnelli, nei primi anni ’90). E altrettanto mi colpisce, in queste settimane, la perdurante marginalità dei classici temi dello “svantaggio” del Sud e, specularmente,  della “spoliazione” del Nord.

Di questa virtuale scomparsa del tema del Mezzogiorno esistono naturalmente ragioni abbastanza precise. La prima è che la crisi del 2007-2014 ha oscurato quasi tutto il resto. La seconda è che, dopo l’approvazione della legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale, non è occorso molto tempo per capire che quella legge era un compromesso assai difficile da tradurre in pratica, e che la Lega stessa, attaccatissima al potere locale di recente conquistato, era ormai divenuta più un elemento di freno che un fattore di stimolo del federalismo.

Il fatto che poco si parli del Mezzogiorno, tuttavia, non significa affatto che esso conti poco in questa campagna elettorale. La realtà è che esso conta moltissimo, ma lo fa in modo silente. Anzi, tendo a pensare che, come quasi sempre è stato nella storia elettorale italiana, saranno le ondivaghe regioni del Sud ad assegnare la vittoria, o perlomeno a fare la differenza.

Perché dico che lo fa in modo silente?

La ragione è presto detta. Il problema fondamentale del Mezzogiorno resta, oggi come ieri, la mancanza di lavoro, un problema che, negli ultimi dieci anni, ha assunto il volto inquietante della povertà (le famiglie sotto la soglia di povertà assoluta sono oggi il doppio che nel 2007). E, di fronte a questo problema, che riguarda innanzitutto il Mezzogiorno, tutti e tre gli schieramenti politici hanno sfoderato una delle loro armi più efficaci, ovvero la proposta di un sussidio universale (rivolto a tutti), una novità assoluta per un paese come l’Italia. Ecco perché, anche quando non parlano esplicitamente di Mezzogiorno, tutte le forze politiche, di fatto, se ne stanno occupando.

Tutte e tre le proposte in campo sono, in buona sostanza, misure di reddito minimo per coloro che lavorano o sono disposti a lavorare, sia pur denominate in modi diversi: reddito di cittadinanza (Cinque Stelle), reddito di dignità (Centro-destra), reddito di inclusione (Pd).

La proposta più demagogica è quella dei Cinque Stelle, sia per il suo importo (che può superare i 1500 euro per famiglia), sia per le condizioni di concessione (e di conservazione) del sussidio, che rendono estremamente conveniente non lavorare o lavorare in nero. La proposta più realistica è quella del Pd, che si limita ad ampliare progressivamente il reddito di inclusione (già in vigore), ed è rivolta solo alla frazione più povera delle famiglie in condizione di povertà assoluta. Una via di mezzo, per quel che se ne sa finora, è quella del centro-destra, che dovrebbe essere basata sulla cosiddetta imposta negativa (colmare, ma solo in parte, in parte lo scostamento fra reddito effettivo e soglia di povertà), e il cui principale pregio è di non far venire meno l’incentivo a lavorare.

Chi conquisterà i voti delle popolazioni meridionali?

La mia impressione è che, nella battaglia per acquisirne il consenso, il Pd si trovi nella posizione più difficile, e i Cinque Stelle in quella più favorevole. Il partito di Renzi sconta infatti una doppia debolezza: primo, “offre” troppo poco sul piatto dell’assistenza; secondo, punta su una carta, la creazione di nuova occupazione, che inevitabilmente si scontra con l’atavico, e perfettamente giustificato, scetticismo meridionale sulla possibilità di assorbire la disoccupazione con posti di lavoro veri. Quanto al centro-destra, è vero che sia l’imposta negativa sul reddito, sia la flat tax (aliquota unica su tutti i redditi) che la accompagna, sono proposte razionali, per molti versi le più interessanti fra le molte in campo. Esse tuttavia, a mio modesto parere, risultano vincenti su quelle dei Cinque Stelle nelle regioni settentrionali, ma non in quelle meridionali. E questo per due ragioni di fondo.

La prima è che l’attrazione per le misure di matrice assistenziale, come è il reddito di cittadinanza, è da sempre più forte nel Sud, dove il lavoro scarseggia, che nel centro-Nord, dove i tassi di occupazione sono vicini ai livelli europei. Un’attrazione che, nel caso di tutte le proposte in campo (eccetto quella dell’istituto Bruno Leoni), è rafforzata dal fatto che la soglia di povertà è definita in termini di reddito nominale, anziché di potere di acquisto: ciò fa sì che il grosso del sussidio previsto dal Movimento Cinque Stelle finirà al Sud, ben al di là del numero di poveri residenti in tali regioni, mentre la maggior parte dei poveri del centro Nord non ne potrà usufruire.

Ma la ragione più importante è la seconda. Il piatto forte del menu elettorale del centro destra è la flat tax, con la sua promessa di forte riduzione delle aliquote sia sul reddito personale, sia sul reddito di impresa: 23% all’inizio, 15% come obiettivo finale. Ora, basta un’occhiata alle statistiche dell’evasione fiscale per capire che il cavallo di battaglia del centro-destra non potrà avere, al Sud, lo stesso appeal che ha al Nord. Perché la riduzione delle aliquote convinca gli elettori, infatti, occorre partire da una base di alto adempimento fiscale, che al Sud è sostanzialmente assente: una flat tax al 15% difficilmente può convincere chi le tasse se le è già autoridotte.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 25 gennaio 2018



Luci e ombre della flat tax

Flat tax. È una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, anche se qualche precedente non manca: Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%).

Prima di ragionare su questa proposta, forse non è inutile illustrare il principio della flat tax con un esempio. Supponiamo, per fissare le idee, che la flat tax venga applicata solo ai redditi delle persone fisiche e che l’aliquota sia del 20%, con una no tax area (nessuna imposta) da zero a 10 mila euro. Supponiamo anche che, come spesso accade, la proposta sia affiancata da un’imposta negativa del 50% (imposta negativa significa: se guadagni meno di 10 mila euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a 10.000 euro).

Risultato: chi guadagna 5000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro. Chi guadagna 10 mila euro non paga nulla. Chi guadagna 20 mila euro paga zero tasse sui primi 10 mila euro, e 2000 euro (il 20% di 10 mila) sui successivi 10 mila, il che significa che per lui l’aliquota media è del 10%. Chi guadagna 30 mila euro paga anch’egli zero tasse sui primi 10 mila euro, e 4000 euro (il 20% di 20 mila) sui 20 mila successivi, il che significa che per lui l’aliquota è del 14.3%. Chi guadagna 50 mila euro ne paga 8000, e dunque ha un’aliquota media del 16%. Nessuno arriva a pagare il 20% (perché i primi 10 mila euro sono esentasse), ma chi è molto ricco si avvicina notevolmente all’aliquota piena, ovvero a pagare il 20% del suo reddito. Un Paperon de Paperoni che guadagnasse 1 milione di euro trasferirebbe il 19.8% del suo reddito al fisco, ossia quasi il 20%.

Dunque ricapitolando: i poveri riceverebbero soldi, i ceti bassi pagherebbero solo il 10%, il ceto medio intorno al 15%, i molto ricchi quasi il 20%. Scusate l’esempio terra-terra, ma serve a sgombrare il campo dalla più sciocca fra le obiezioni che vengono rivolte alla flat tax, quella secondo cui sarebbe un sistema non progressivo e quindi incostituzionale (in quanto violerebbe l’articolo 53, sui criteri di progressività che dovrebbero informare il sistema tributario). Chi fa questa obiezione o, peggio ancora, parla di un sistema che toglie ai poveri per dare ai ricchi, una sorta di “Robin Hood al contrario”, semplicemente non ha capito come funziona la flat tax. Dunque lasciamo perdere e passiamo oltre.

Dal nostro esempio possiamo dedurre che la proposta del centro-destra di introdurre la flat tax sui redditi personali, ed eventualmente su quelli di impresa, è una buona proposta?

Per certi versi lo è senz’altro, perché ha un enorme, inestimabile pregio: quello di essere un sistema semplicissimo che, se accompagnato dalla soppressione integrale delle innumerevoli norme e disposizioni particolari che infestano le nostre dichiarazioni dei redditi, sarebbe alla portata di un bambino di quinta elementare.

Ma per altri versi la flat tax è invece una proposta estremamente velleitaria, perché aprirebbe una voragine nel gettito che, per ora, nessuno ci ha ancora spiegato in modo persuasivo come potrebbe essere coperta. Le due idee principali in circolazione, ossia varare una super-rottamazione delle cartelle esattoriali e puntare su una drastica riduzione dell’evasione fiscale, sono entrambe fragilissime, anche se per ragioni diverse. L’idea di fare cassa con l’ennesima sanatoria fiscale (maxi-sconto agli evasori) è debole perché si tratta di una misura una tantum, che anche se andasse in porto potrebbe compensare il mancato gettito per uno o due anni, non certo in modo permanente. L’idea che aliquote più basse ridurrebbero drasticamente l’evasione fiscale è quantomeno ingenua (sempre che non si voglia instaurare un regime di terrore fiscale): l’elevata evasione fiscale che caratterizza l’Italia non dipende solo da aliquote troppo alte, ma dalla natura del nostro tessuto produttivo, in cui lavoro autonomo, piccole imprese, economia sommersa hanno un peso abnorme (un’anomalia che è aggravata dalla scarsità dei controlli, specie nel mezzogiorno e nelle realtà periferiche). Ve lo vedete l’idraulico emettere fattura solo perché, ferma restando l’Iva, la sua aliquota marginale è del 15% anziché del 27%? Qualcuno pensa che gli insegnanti, che attualmente evadono massicciamente il fisco con le lezioni private, improvvisamente si metterebbero in regola, rilasciando regolare ricevuta ai loro studenti? Per non parlare del mondo dell’edilizia, dove sottofatturazione e salari in nero sono piuttosto diffusi, almeno sui lavori per cui non è previsto un robusto credito di imposta.

Insomma, è perfettamente ragionevole pensare che aliquote più basse ridurrebbero l’entità dell’evasione, ma è irragionevole pensare che lo farebbero in modo così massiccio da rendere sostenibile una flat tax al 15%, o anche al 23%.

È un’idea da buttar via, dunque?

Forse no. Probabilmente la strada giusta è quella di una introduzione graduale (magari prevedendo all’inizio due aliquote, di cui una destinata a scomparire), eliminando però fin da subito la giungla delle agevolazioni e tutti i bizantinismi della dichiarazione dei redditi (salvo il meccanismo delle deduzioni, con il quale è possibile imprimere ulteriore progressività al sistema). Un sistema fiscale semplice, in cui chiunque potesse raccapezzarsi senza un commercialista, sarebbe già, di per sé, una grande conquista.

Alternativamente, si potrebbe iniziare, come di recente ha suggerito Giorgia Meloni, da una introduzione immediata dell’aliquota secca del 15% non su tutto il reddito, ma sui suoi incrementi, una scelta che sarebbe perfettamente sostenibile e fornirebbe un forte incentivo a lavorare di più.

Quale che sia la strada prescelta, il punto resta il medesimo. Se si vuole criticare la flat tax, è inutile accanirsi contro la non progressività, perché la flat tax è progressiva, e per certi versi lo è più del sistema attuale, che nulla riconosce ai cosiddetti incapienti, ossia a chi non guadagna abbastanza da dover pagare le tasse; che la flat tax non sia il demonio, del resto, lo ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia, che  in una recente intervista al Corriere della Sera, dando prova di notevole onestà intellettuale ha dichiarato: “una riforma fiscale che preveda la semplificazione delle aliquote sino a una sola, meglio due, la esplorerei”. In breve: se si vuole criticare la flat tax, l’argomento principe è la sostenibilità, non certo la presunta “ingiustizia”, o addirittura la incostituzionalità, dell’aliquota unica.

Simmetricamente, se la flat tax la si vuole difendere, la via maestra è delineare un credibile percorso di introduzione graduale, lasciando perdere le narrazioni semplicistiche e miracolistiche, che anziché convincerci non fanno che aumentare il nostro scetticismo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 27 gennaio 2018



Ripensare all’egualitarismo nel XXI secolo

Di seguito le Slide dell’intervento del Professor Ricolfi al Festival della Cultura della Libertà di Piacenza 27/28 gennaio 2018.

L’egualitarismo nel XXI secolo