La quiete prima della tempesta?

Mentre i politici italiani, fra una consultazione quirinalizia e l’altra, non smettono di offrire ai cittadini lo spettacolo della loro inconcludenza, la realtà esterna al Palazzo è tutt’altro che immobile. I segnali che vengono dal mondo reale, tuttavia, non sono certo univoci. Sul versante dei consumi, nonostante la crisi e i suoi strascichi, il numero di famiglie che “non riescono ad arrivare alla fine del mese”, e quindi sono costrette a ricorrere ai risparmi o all’indebitamento, continua a diminuire. Sfioravano il 30% nel 2012-2013, al culmine della crisi dello spread, ora sono meno del 15%, il livello più basso da dieci anni. Sul versante della produzione, invece, si sente qualche scricchiolio. Giusto nei giorni scorsi l’Eurostat ha diffuso i dati della produzione industriale nell’eurozona, che per il terzo mese consecutivo segnalano un calo sia nell’eurozona stessa sia nell’Europa a 28. Anche in Italia la produzione è in calo (da 2 mesi), mentre le previsioni dei centri studi sulla dinamica del Pil nel 2018 diventano via via più caute.

Dove le cose si fanno più inquietanti, però, è sul versante finanziario. A livello europeo i timori sono legati a tre fattori fondamentali. Primo, l’inizio di guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, ma anche, se non soprattutto, fra l’Europa e gli stati con cui commerciamo. Secondo, l’attesa di un aumento dei tassi di interesse non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Terzo l’esaurimento del Quantitative Easing (già alla fine di quest’anno) e la fine del mandato di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea (alla fine del 2019).

Ai timori per le sorti dell’economia europea si aggiungono, in Italia, le incertezze e le preoccupazioni legate alla nascita del nuovo governo. Quel che inquieta non è tanto l’eventualità che il Paese stia per qualche mese senza un governo, o la facile previsione secondo cui il governo che verrà sarà debole e paralizzato dai dissensi interni, quanto il rischio che, a prescindere da quel che il nuovo governo effettivamente farà, e anche a prescindere da quel che la Commissione europea gli permetterà di fare, si riapra una fase in cui sono i mercati finanziari a dettare l’agenda politica al Paese.

Il fatto curioso è che i più acerrimi difensori della nostra sovranità, i più risoluti nemici della finanza internazionale e delle sue interferenze nella vita degli stati nazionali, sono i Cinque Stelle e la Lega, che però sono anche le forze che, con i loro programmi economici, hanno le maggiori probabilità di riconsegnare l’Italia all’arbitrio dei mercati e alla tutela delle autorità sovranazionali (la famigerata Troika, ossia Fondo Monetario, Bce e Commissione europea). Mentre i più preoccupati di una perdita di autonomia dell’Italia, se non di un vero commissariamento, paiono il Pd e Forza Italia, cioè precisamente le due forze che vengono accusate di subalternità verso i diktat dell’Europa.

Ma è reale il rischio di una nuova offensiva della speculazione verso l’Italia? Più precisamente: è realistico pensare che, di fronte a un esecutivo populista e anti-europeo, scatti una reazione a catena che, come nel 2011, possa distruggere la reputazione economica del Paese e mettere a repentaglio i suoi risparmi?

Per certi versi penso di no, soprattutto per un motivo: l’eventualità di un collasso dell’euro, profetizzata nel 2011-2012 da tanti luminari dell’economia, dopo il “whatever it takes” di Draghi (luglio 2012) sembra divenuta estremamente improbabile.

Ma per altri versi quella preoccupazione non andrebbe presa troppo sottogamba. Magari non si ripeterà il 2011, ma anche una crisi la cui entità fosse la metà di quella di allora sarebbe estremamente pericolosa. Finora abbiamo contenuto i nostri timori soprattutto sulla base di una circostanza: dopo il voto del 4 marzo lo spread dei titoli di Stato decennali dell’Italia con quelli della Germania è rimasto sostanzialmente invariato, intorno ai 130 punti base. Ma questa rassicurante staticità è altamente fuorviante. Se come termine di riferimento, anziché i titoli tedeschi, prendiamo quelli spagnoli e portoghesi (cioè quelli dei due Piigs a noi più comparabili), scopriamo che lo spread fra i nostri titoli e i loro era in miglioramento (diminuzione) fino al 2 marzo, il venerdì prima del voto, ed è in costante peggioramento (aumento) dal 5 marzo a oggi: il punto di svolta è esattamente il 4 marzo, giorno del voto. Apparentemente in sonno, i mercati di fatto hanno già reagito alla potenziale instabilità italiana.

Fonte: Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Bloomberg

Né le cose appaiono più rassicuranti se, anziché al comportamento dei mercati, guardiamo alla salute dei conti pubblici e ai fondamentali dell’economia. L’indice VS (elaborato dalla Fondazione Hume), che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese, segnala che, dopo un biennio di miglioramento, da circa 12 mesi la tendenza dei nostri fondamentali è di nuovo al peggioramento.

È vero dunque, come ha scritto qualche giorno fa Romano Prodi su questo giornale, che “ci troviamo ancora in una fase di quiete”, ma è ancora più vero (cito ancora Prodi) che “si tratta solo di un intervallo che, in quanto tale non sarà troppo lungo”. Il rischio è che, quella di oggi, sia la quiete che precede la tempesta.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2018



Quel che i mercati finanziari pensano davvero dell’Italia

Ha suscitato una certa sorpresa il fatto che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto la netta affermazione dei partiti populisti, lo spread dei titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi sia rimasto sostanzialmente immutato, intorno ai 130 punti base.

Fonte Bloomberg

L’andamento dello spread con la Germania, tuttavia, è uno strumento di valutazione molto imperfetto, e potenzialmente fuorviante. Esso non tiene conto, infatti, dell’evoluzione degli spread degli altri paesi, in particolare quelli a noi più comparabili, che possono muoversi in modo più o meno favorevole di quelli italiani.

Un indice alternativo può essere costruito facendo la differenza fra i rendimenti dell’Italia e la media dei rendimenti di Spagna e Portogallo, ovvero dei due Piigs a noi più comparabili (Irlanda e Grecia lo sono assai meno, anche se per ragioni opposte).

Fonte Bloomberg

In questo caso la traiettoria dello spread appare molto diversa: prima nettamente discendente (miglioramento dell’Italia), poi nettamente ascendente (peggioramento).

L’elemento più sorprendente, tuttavia, è il punto di svolta fra i due andamenti. Sia un’ispezione visiva sia l’analisi statistica mostrano che il punto di svolta fra le due traiettorie si colloca fra venerdì 2 marzo e lunedì 5 marzo, ovvero esattamente nel momento del voto. E ciò vale sia nel caso dello spread Italia-Spagna, sia nel caso di quello Italia-Portogallo.

Fonte Bloomberg
Fonte Bloomberg

In entrambi i casi lo spread raggiunge un minimo venerdì 2 marzo, alla vigilia del voto, e inverte la rotta, cominciando a salire, lunedì 5 marzo, primo giorno dopo il voto. Ormai il rendimento dei titoli italiani supera non solo quello dei titoli spagnoli, ma anche di quelli portoghesi.

Questo andamento non sarebbe preoccupante se, dal punto di vista obiettivo, i conti pubblici dell’Italia fossero in miglioramento. Ma non è così, sfortunatamente.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

L’indice VS, di Vulnerabilità Strutturale dei conti pubblici, messo a punto dalla Fondazione David Hume, mostra che, dopo un periodo favorevole durato circa due anni (dalla primavera del 2015 alla primavera del 2017), ora la tendenza dominante è tornata di nuovo negativa: la vulnerabilità dei nostri conti è in aumento.

[Per maggior dettagli vedi, sul sito della Fondazione David Hume

a)     il report “Conti pubblici & voto di marzo”;

b)    il saggio “La mente dei mercati: l’indice VS, una misura di vulnerabilità dei conti pubblici”.




Conti pubblici & voto di marzo

1. Tendenze di lungo periodo

La serie storica dell’indice VS dal 2009 a oggi permette di riconoscere abbastanza nitidamente alcune tendenze e processi.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

Possiamo descriverli così:

a)     nel quindicennio che va dal 2000 al 2015 la tendenza di fondo è ad un aumento della vulnerabilità;

b)    il picco di vulnerabilità del 2009, legato essenzialmente al crollo del Pil, risulta completamente riassorbito alla fine del 2011, quando scoppia la crisi dello spread;

c)     nel triennio che va dall’inizio del 2012 all’inizio del 2015 si assiste a un aumento della vulnerabilità;

d)    dalla primavera del 2015 la tendenza dominante è alla riduzione della vulnerabilità;

e)     tuttavia dalla primavera del 2017 a oggi il processo di riduzione della vulnerabilità sembra essersi arrestato, e si assiste invece a una lieve tendenza all’aumento.

Un confronto con l’andamento effettivo dei rendimenti mostra un notevole grado di incongruenza, e questo nonostante l’indice sia stato costruito per emulare la “mente dei mercati”. Questo segnala che, nel caso dell’Italia, l’orientamento della politica monetaria e i fattori contingenti e/o extraeconomici hanno avuto un ruolo molto rilevante.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

Ecco alcune osservazioni:

a)     per ben 15 anni, dal 1999 fino a tutto il 2013, i rendimenti richiesti dai mercati per i titoli di Stato italiani, salvo nel picco della recessione 2008-2009, sono sempre stati superiori a quelli suggeriti dall’indice di vulnerabilità strutturale (i mercati sono stati severi con l’Italia);

b)     dal 2014 in poi, invece, i rendimenti richiesti sono sempre stati relativamente modesti (i mercati sono stati indulgenti);

c)     solo nella primavera del 2017, per un breve periodo, rendimenti effettivi e indice VS sono risultati allineati.

d)    negli ultimi 12 mesi la tendenza principale dell’indice di vulnerabilità è all’aumento, mentre quella dei mercati è alla riduzione dei rendimenti.

Un’analisi dell’andamento degli indicatori che contribuiscono alla definizione dell’indie VS permette di individuare i meccanismi principali che hanno condotto al suo peggioramento tendenziale negli ultimi 3-4 trimestri. Essi sono essenzialmente due: un livello di inflazione ancora troppo basso, la tendenza alla contrazione delle entrate pubbliche rispetto al Pil.

2. Uno zoom sul 2018

Un’analisi più dettagliata delle tendenze degli ultimi mesi può essere condotta osservando l’andamento settimanale dello spread e confrontandolo con quello di altri paesi, in particolare i due Piigs a noi più simili, ossia Spagna e Portogallo (l’Irlanda è da tempo fuori della crisi, la Grecia ha tuttora rendimenti fuori scala).

Fonte: Bloomberg

Come si vede lo spread dell’Italia rispetto alla Germania tende a diminuire fino alla prima settimana di febbraio, per poi invertire la tendenza: negli ultimi due mesi il trend dominante è a un leggero aumento.

Un confronto con Spagna e Portogallo, tuttavia, rivela un importante punto di svolta. Se anziché lavorare sullo spread dell’Italia considerato singolarmente, lavoriamo sullo spread relativo, ovvero sulla differenza fra lo spread dell’Italia e quello di Spagna e Portogallo (il che, ovviamente, equivale a calcolare la differenza fra i rendimenti dell’Italia e quelli di Spagna e Portogallo) possiamo notare due circostanze poco rassicuranti.

Fonte: Bloomberg
Fonte: Bloomberg

Primo. A partire dai primi di marzo di quest’anno, i rendimenti dei tre paesi cessano di evolvere in parallelo, e si assiste a un aumento del differenziale fra i rendimenti italiani e quelli di Spagna e Portogallo.

Secondo. A partire dalla seconda settimana di marzo il rendimento dei titoli italiani, che in tutto il mese di febbraio era rimasto sostanzialmente allineato a quello dei titoli portoghesi, supera sistematicamente quello di questi ultimi.

La svolta è ancora più chiara se condensiamo tutto in un unico indice, calclalndo la differenza fra i rendmenti italiani e la media dei rendimenti spagnoli e portoghesi.

Fonte: Bloomberg

Uno sguardo all’evoluzione di lungo periodo dello spread dell’Italia in confronto a quelli di Spagna, Portogallo, Irlanda (con la Francia come benchmark), rende il quadro ancora più preoccupante.

Fonte: Bloomberg

Il grafico mostra che mai, prima del 2018, il rendimento dei titoli di Stato italiani aveva superato quello dei titoli portoghesi, e mai il divario con i titoli spagonli era stato alto come oggi.

Che questa recente evoluzione dello spread sia da connettere all’esito del voto del 4 marzo è difficile da stabilire, anche perché è da circa un anno (e non da un mese) che l’indice VS segnala una tendenza all’aumento della vulnerabilità.

Resta il fatto che, sui mercati, la svolta è coincisa con la settimana del voto in Italia.

Luca Ricolfi

(Responsabile scientifico Fondazione David Hume)

 

Nota metodologica

L’indice VS, messo a punto dalla Fondazione David Hume e presentato per la prima volta il 25 ottobre 2017 a un seminario presso il MISE, misura il grado di vulnerabilità dei conti pubblici di 40 economie avanzate o relativamente avanzate. Dettagli sull’indice sono disponibili sul sito della Fondazione, saggio “La mente dei mercati: indice VS e vulnerablità dei conti pubblici”).

La principale caratteristica dell’indice è di non basarsi su valutazioni soggettive, ma esclusivamente sul comportamento effettivo dei mercati nel periodo cruciale della crisi, dall’inizio del 2009 a tutto il 2016.

L’indice è espresso in punti-base e si interpreta come una stima del rendimento che i mercati richiederebbero per i titoli di Stato decennali di un paese in assenza di fattori di perturbazione quali speculazione, vicende politiche, orientamento marcatamente restrittivo o espansivo della politca monetaria.

Una relazione riservata, e più tecnica, è stata fornita alla Compagnia di San Poalo (che ha in parte sostenuto la ricerca) e al MISE.




I partiti e l’Unione Europea, il difficile impatto con le cifre

Al governo si fanno i conti con i numeri, con la dura realtà. E chi poi ottiene buoni risultati non perde voti: è avvenuto negli anni scorsi in Portogallo, dove ha avuto un ruolo decisivo il presidente della Repubblica.

Il Portogallo è uno splendido Paese. Vi risiedono migliaia di pensionati italiani ai quali della flat tax non importa un fico secco avendo l’esenzione fiscale per dieci anni. Nel 2011 era sull’orlo del crollo, un po’ come l’Italia del governo Berlusconi. Invocò l’aiuto dell’Europa che concesse un credito di 78 miliardi. Lisbona accettò tutte le condizioni dei creditori e, dopo tre anni, uscì dal programma di assistenza finanziaria. Alle elezioni del 2015, la coalizione di governo (centrodestra) arrivò prima ma senza ottenere la maggioranza. Poco davanti all’alleanza di centrosinistra, che aveva fatto dell’opposizione al rigore la propria bandiera elettorale. Ma erano stati i socialisti, con il premier Socrates, a chiedere nel 2011 l’intervento europeo. E ne pagarono subito un prezzo politico: dovettero cedere la guida del governo ai liberali e moderati di Passos Coehlo. Cambiarono poi posizione, dissero no all’austerità ma persero voti. Comunisti e verdi, da sempre contrari all’euro e persino alla Nato, ricevettero invece numerosi consensi. E divennero decisivi per la formazione del nuovo governo. Andato a vuoto il tentativo di una grande coalizione, l’allora presidente della Repubblica Cavaco Silva (si trovava in quello che noi chiameremmo il semestre bianco) diede l’incarico al socialista Costa di formare l’esecutivo con l’appoggio esterno delle due formazioni di estrema sinistra. Ma solo dopo essersi sincerato che venissero accettate alcune condizioni. La principale: non disperdere i sacrifici delle riforme e i vantaggi del consolidamento fiscale. Quindi, approvare la legge di bilancio con gli obiettivi già fissati in precedenza; rispettare i vincoli dell’eurozona, inclusa la rinuncia alla ristrutturazione del debito, sventolata in campagna elettorale come inevitabile dal Blocco di Sinistra; permanenza del Portogallo nella Nato.

Il governo Costa non ha però rinunciato, in questi anni, a rimodulare la spesa pubblica, ad aumentare le pensioni più basse e a elevare il salario minimo, un seppur pallido reddito di cittadinanza. La ripresa dell’economia del Portogallo è stata semplicemente spettacolare. Il deficit si è ridotto, la disoccupazione è scesa. Il turismo esploso, le esportazioni a gonfie vele. Dopo Irlanda e Spagna, quella del Portogallo è stata la ricetta di ristrutturazione economica europea di maggior successo. Il ministro delle Finanze, il tecnico indipendente Centeno, è ora il presidente dell’Eurogruppo. Il suo collega tedesco, il falco per antonomasia Schäuble, disse di lui che era come Cristiano Ronaldo. Per la straordinaria rovesciata (ci perdonino i tifosi juventini) impressa all’economia portoghese. La buona austerità fa bene. Si tagliano le spese improduttive e si promuovono gli investimenti nel quadro delle compatibilità di bilancio e dei vincoli europei senza i quali il Portogallo sarebbe stato abbandonato, anche dai mercati, al suo destino. Si pensava poi che il nuovo capo dello Stato portoghese, il conservatore Rebelo de Sousa, sostenuto pubblicamente anche dall’ex allenatore dell’Inter Mourinho, potesse sciogliere il Parlamento e mandare a casa gli estremisti. Si è ben guardato dal farlo.

Come si può constatare, le analogie con la situazione italiana non mancano. Certo a Lisbona non ci sono partiti formalmente populisti, ma certamente in origine euroscettici. C’è una dinamica ancora sostanzialmente bipolare fra conservatori e socialisti. Il capo dello Stato viene eletto direttamente. Il successo lusitano è stato reso possibile anche grazie al pragmatismo di alcune forze politiche radicali che hanno cambiato le loro idee. In campagna elettorale non è proibito sognare. Al governo si fanno i conti con i numeri. Con la dura realtà. E chi poi ottiene buoni risultati non perde voti. Anzi, li guadagna come dimostra l’esperienza del socialista Costa. Questa presa d’atto, nel dibattito politico italiano, non è ancora avvenuta. Si continua a discutere in assenza di gravità, sospesi nella rappresentazione fiabesca delle promesse. Nel primo giro di consultazioni il presidente Mattarella ha esercitato una preziosa funzione maieutica. E, come ha scritto sul Corriere Marzio Breda, non ha mancato di ricordare ai suoi interlocutori i vincoli europei e gli impegni internazionali dell’Italia. Immaginiamo che nel secondo, da giovedì prossimo, possa continuare nella sua opera di educazione politica, nel suo esercizio di sano realismo. L’esperienza positiva del suo omologo portoghese è certamente utile. E persino incoraggiante. Essendo il massimo garante della Costituzione, pensiamo che Mattarella non trascurerà di parlare con i propri ospiti del dettato dell’articolo 81, modificato nel 2012 per introdurre il pareggio di bilancio strutturale (cioè al netto del ciclo e delle misure una tantum). Votarono a favore quasi tutti — salvo poi in parte pentirsi — dal Pd all’allora Pdl, meno Lega e Italia dei Valori. La Lega in prima lettura si dichiarò favorevole. «L’approvazione, all’unanimità — disse il leghista Giancarlo Giorgetti, presidente della Commissione Bilancio della Camera — della proposta di legge volta a dare attuazione al principio del pareggio di bilancio, rappresenta un punto di equilibrio che testimonia, in un momento particolarmente delicato… il senso di responsabilità di tutte le forze politiche». Il senso di responsabilità, appunto. Coraggio, l’impatto con la nuda e dura terra dei numeri si avvicina.

Articolo pubblicato da Il Corriere della Sera il 9 aprile 2018



Due stati

Di una frattura fra Nord e Sud si parla da quando esiste lo Stato italiano, dunque dal 1861. Il modo in cui se ne parla, le modalità con cui la si declina, le linee lungo le quali se ne tracciano i confini, sono invece piuttosto mutevoli.

Fino agli anni ’50 del Novecento, fondamentalmente, il problema è stato pensato come “questione meridionale”, una grande sfida politica che ha appassionato legioni di meridionalisti, fin dalla fine dell’800: da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti, da Antonio Gramsci a Pasquale Villari, da Gaetano Salvemini a Pasquale Saraceno. Nel meridionalismo classico il Sud da sostenere e sviluppare coincideva con l’intero Mezzogiorno statistico (inclusi Abruzzo e Sardegna), e arrivava talora ad includere le aree più depresse del Lazio, oggetto anch’esse di attenzione da parte della Cassa del Mezzogiorno. Questo confine fra le due italie sarà poi ribadito e precisato dagli studiosi di scienza politica, che sulla scorta del famoso libro di Robert Putnam sulla “tradizione civica” delle regioni italiane (1993), fisseranno la linea di demarcazione fra l’Italia arretrata, che non ha avuto la civiltà comunale e perciò scarseggia di fiducia interpersonale, e l’Italia civica, in cui la civiltà comunale ha creato le condizioni dello sviluppo, lungo la linea che va dalla foce della Fiora (sud della Toscana) alla foce del Tronto (sud delle Marche). E sarà un politologo italiano, Roberto Cartocci, a mostrare che quel confine coincide con impressionante precisione con quello del voto di scambio, o clientelare, che si concentra a Sud di quella linea ideale.

Questa visione di un’Italia divisa in due, con il Sud (più o meno allargato) da un lato, e il Centro-Nord (più o meno ristretto) dall’altro non è mai venuta meno. Il problema, per gli studiosi, riguardava solo la questione dei confini esatti fra le due italie, perché due regioni, Lazio e Marche, si venivano spesso a trovare “a cavallo” fra il Centro-Nord e il Sud.

Accanto a questo filone di pensiero, sostanzialmente dualista, a partire dagli anni ’60 si è sempre più irrobustito un altro modo di descrivere l’Italia, più legato agli esiti elettorali. Secondo questo modo di vedere l’Italia elettorale era suddivisa in più di due aree relativamente omogenee: almeno quattro secondo alcuni, tre secondo altri. L’elemento comune di queste analisi, dovute soprattutto all’Istituto Cattaneo, ad Arnaldo Bagnasco e a Giorgio Fuà, era di vedere il centro-Nord come un luogo relativamente eterogeneo, suddiviso fra regioni di antica industrializzazione (Piemonte, Lombardia, Liguria), dominate dalla grande impresa, e regioni della terza Italia, dominate dalla piccola impresa, e divise quasi esclusivamente dalla cultura politica, con il Triveneto cattolico contrapposto alle Regioni rosse.

Nel 1992-1994, con la fine della prima Repubblica e la netta vittoria del centro-destra nelle regioni settentrionali, lo schema delle molte italie subisce una nuova e ulteriore torsione: ora la frattura fondamentale pare innanzitutto fra il Nord, produttivo e insofferente per l’oppressione fiscale, e il resto del Paese. E infatti da allora, e per molti anni, si parlerà di “questione settentrionale”, e il federalismo fiscale diventerà nel giro di pochi anni una specie di tema fisso della politica italiana.

Ma che cosa accade il 4 marzo 2018? Che tipo di paese è quello che esce dalle urne?

A mio parere è un paese che torna ad essere spaccato essenzialmente in due, fra il Sud e il resto della penisola, come era risultato nitidamente nel 1992, ultime elezioni della prima Repubblica. Allora il Sud si distingueva dal resto d’Italia perché vi resisteva la Democrazia cristiana, esattamente come oggi il Sud si distingue dal resto d’Italia per l’insediamento dei Cinque Stelle. Ed è impressionante la precisione con cui la carta geopolitica di oggi riflette quella di allora, regione per regione, provincia per provincia: i Cinque Stelle hanno sfondato là dove maggiore era la forza della Dc. L’unica differenza significativa è che oggi le Marche sono, per così dire, annesse al Mezzogiorno grillino, mentre il Lazio è annesso al centro-nord presidiato dal centro-destra e dal Pd.

Abbiamo provato a metterle a confronto, queste due italie che il voto del cinque marzo ci ha consegnato, e l’esito non potrebbe essere più nitido: un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà, evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno appare più avanti del resto del Paese.

*Lazio: valore stimato (dati non definitivi)
Fonte: elaborazioni Fondazione Hume su dati Istat, RGS, Ministero della Giustizia, Ministero dell’Interno, Mise – Piano strategico Banda Ultra Larga,
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ferrovie dello Stato e CGIA di Mestre

È come se, in Italia, coesistessero due Stati, che in oltre 150 anni non sono riusciti in alcun modo a raggiungere un accettabile livello di convergenza.

Ma se siamo di fronte a due Stati, con economie e strutture sociali radicalmente diverse, forse sarebbe giunto il momento di prenderne atto nel solo modo conseguente, ovvero pensando a due politiche economiche radicalmente diverse per queste due italie. Proprio perché tutto è profondamente diverso, risulta difficile pensare che un’unica ricetta vada bene per tutto il paese. Prendiamo il tema delle tasse. Qualcuno si può stupire che la flat tax non abbia sedotto gli elettori meridionali? Quel problema il Mezzogiorno l’ha risolto da sempre autoriducendosele, le tasse. Il problema, semmai, sono le “condizioni al contorno” dell’attività economica: infrastrutture precarie o incomplete, mancanza di asili nido, una sanità disastrata, una scuola di bassa qualità, una burocrazia inefficiente nonostante l’eccesso di personale. Forse è di qui che una politica per il Mezzogiorno dovrebbe prendere le mosse. Naturalmente il Mezzogiorno ha anche bisogno, e da subito, di più posti di lavoro, proprio per far sì che il reddito minimo (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) sia l’unica prospettiva. Ma come fare?

Un’idea potrebbe essere di riprendere, magari solo per il Mezzogiorno, la proposta del maxi-job che la Fondazione David Hume aveva lanciato nel 2014, e che era stata raccolta sia da Susanna Camusso sia da Giorgia Meloni: azzerare tutti i contributi sociali non già per chi, genericamente, assume, ma per quelle imprese che aumentano l’occupazione e lo fanno con lavori veri, a tempo pieno o quasi pieno (di qui il prefisso maxi, che si contrappone ai mini-job della Germania). Un’altra idea, e in un certo senso una misura complementare ai maxi-job, potrebbe essere di favorire l’occupazione femminile nel Mezzogiorno (dove è a livelli bassissimi) con un grande piano di costruzione di asili nido, che oggi sono drammaticamente scarsi (1 bambino su 9).

Un ragionamento analogo e speculare, probabilmente, meriterebbe di essere fatto per il Centro-Nord. Qui una misura chiave sarebbe disboscare la selva degli adempimenti burocratici, e rendere più rapido il rilascio di permessi e autorizzazioni, specie in ambito edilizio e nel commercio. Quanto ai bilanci delle imprese, più che sul contenimento del costo del lavoro, forse sarebbe meglio puntare direttamente sulla riduzione dell’imposta societaria (Ires e Irap). L’evidenza econometrica suggerisce che, se si vuol accelerare la crescita del Pil, è molto più efficiente puntare sulla riduzione delle tasse sui profitti che ridurre la pressione contributiva, o la pressione fiscale in generale.

Con le risorse degli 80 euro e della decontribuzione (circa 20 miliardi l’anno), anziché sostenere gli stipendi di chi un lavoro già ce l’ha, forse sarebbe stato meglio pensare a una più drastica riduzione dell’imposta societaria, e a un sostegno ai veri poveri, ossia a chi guadagna così poco da non poter usufruire di alcuno sgravio fiscale. Certo, lo si sarebbe dovuto fare mirando alla povertà assoluta, anziché alla povertà relativa, e tenendo conto del livello dei prezzi, come proposto a suo tempo dall’Istituto Bruno Leoni: un sussidio di 500 euro a Caltanissetta pesa molto di più, in termini di potere di acquisto, di un sussidio di 500 euro a Milano.

Se il Pd lo avesse fatto, probabilmente l’economia italiana e l’occupazione avrebbero ricevuto una spinta maggiore, e il Sud, in cui si concentrano la maggior parte dei poveri assoluti, si sarebbe sentito meno solo. Il successo dei Cinque Stelle è anche il frutto di anni di superficialità, omissioni, e slogan vuoti nelle politiche per il Mezzogiorno.

Pubblicato su Panorama il 15 marzo 2018 con il titolo “Le due Italie”.