Perchè i mercati ce l’hanno con l’Italia

Pubblichiamo qui di seguito un grafico che dovrebbe spiegare, almeno in parte, perché i mercati ce l’hanno con l’Italia.
Nell’ultimo triennio, ovvero fra il 2015 e il 2017, su 19 paesi che hanno adottato l’euro, ben 14 stanno riducendo il rapporto debito-Pil. Fra questi vi sono anche 3 cosiddetti PIIGS, ossia Irlanda, Spagna e Portogallo.
Cinque paesi, invece, nonostante la ripresa dell’economia, hanno aumentato il rapporto debito-Pil: Grecia, Italia, Francia, Lussemburgo, Lettonia.
Ma, fra questi, solo Italia e Grecia hanno un rapporto debito-Pil sensibilmente superiore al 100%.
Ecco perché i mercati non si fidano né della Grecia né dell’Italia.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Eurostat



L’alibi dei vincoli europei

Finora, in Europa occidentale, si era visto un solo governo populista puro, quello greco rosso-nero guidato da Tsipras, un governo di coalizione fra il principale partito di sinistra (Syriza) e un piccolo partito nazionalista e conservatore (Anel). Ora anche l’Italia ci prova: salvo imprevisti, nei prossimi giorni si insedierà un governo populista giallo-verde che, come primi “assaggi” di sé stesso, ha già dato segnali del proprio convinto anti-europeismo.

In buona sostanza: in Italia facciamo quel che ci pare, e dei vincoli europei su debito e deficit ben poco ci importa. C’è stata l’austerità fino ad oggi, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, è giunto il momento di cambiare rotta. Salvini si è spinto a dire, in polemica con il ministro francese dell’economia che aveva richiamato l’Italia al rispetto degli impegni assunti, che il nuovo governo avrebbe fatto semplicemente il contrario dei governi precedenti.

Sul rapporto con l’Europa la si può pensare in tanti modi, però – comunque la si pensi – forse una domanda dovremmo farcela: il rispetto dei vincoli europei, giusti o sbagliati che siano, è davvero il macigno che impedisce all’Italia di ripartire?

Oggi la polemica anti-europea sta diventando il biglietto da visita del nuovo governo, il cui unico vero colore politico è di non essere di sinistra, però non possiamo dimenticare alcuni fatti storici. Il 17 ottobre 2002, stiamo quindi parlando di sedici anni fa, fu lo stesso Prodi – allora presidente della Commissione europea – a definire “stupido” il patto di stabilità, un parere ribadito nel 2014, poche settimane dopo la nascita del governo Renzi. Quanto a quest’ultimo, ci ricordiamo tutti che i suoi tre anni di governo sono stati spesi a battagliare contro le regole europee, e a deridere i burocrati europei e le loro fissazioni sui decimali (del rapporto deficit-Pil). Né possiamo dimenticare che la critica delle politiche di austerità, e l’invocazione continua di investimenti pubblici anche in deroga ai vincoli di bilancio, è il leitmotiv dell’estrema sinistra in tutta Europa.

Quindi la prima cosa che vorrei dire, a chi è sbigottito di fronte all’assalto dell’ircocervo populista contro le regole europee, che se Salvini e Di Maio si muovono agevolmente sul terreno dell’antieuropeismo è perché quel terreno è stato a lungo dissodato, concimato e innaffiato dalla sinistra stessa. Ciò detto, tuttavia, la domanda resta: sono le regole europee che ci impediscono di uscire dal pantano?

Per certi versi senz’altro. Se sull’immigrazione un paese geograficamente esposto non può fare molto è anche a causa delle regole europee, peraltro liberamente sottoscritte, e qualche volta anche caldeggiate. Se il mercato europeo è troppo regolamentato all’interno, con conseguente lievitazione dei costi per le imprese, e troppo aperto verso l’esterno, senza validi strumenti di difesa nei confronti delle importazioni (e delle merci contraffatte) dalla Cina e dai paesi emergenti, sicuramente una notevole responsabilità ce l’ha l’Europa.

Per altri versi, però, no. L’Europa c’entra poco. Chi racconta che abbiamo avuto 10 anni di austerità, e che è ora di cambiare strada, non sa di che cosa parla. Se avessimo davvero avuto 10 anni di austerità, saremmo riusciti a ridurre non dico l’ammontare del debito, ma almeno il rapporto debito-Pil. Il fatto è che si continua a confondere due cose nettamente distinte: la capacità di un paese di risanare i conti pubblici, con politiche che possono essere di austerità “buona” (meno spesa pubblica) o di austerità “cattiva” (più tasse), e il cambiamento delle condizioni di vita dei suoi cittadini, che quando peggiorano fanno gridare all’austerità, ma che sono tutt’altra cosa.

Il fatto è che, nei sette anni della crisi (da 2007 al 2014), l’Italia è riuscita nella duplice impresa di non risanare i conti pubblici, e al tempo stesso non far recuperare ai cittadini il tenore di vita pre-crisi. Di qui il cortocircuito logico: dato che stiamo peggio, ci raccontiamo che sono stati anni di austerità.

La realtà, purtroppo, è che le regole europee spiegano forse perché i paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno degli altri paesi dell’Unione, o perché l’Europa nel suo insieme cresce meno del resto del mondo, o cresce meno degli Stati Uniti, ma non possono spiegare – proprio perché sono regole comuni – come mai certi paesi europei crescono a ritmi accettabili e altri, come l’Italia, la Grecia o la Finlandia, invece ristagnano. Soprattutto non spiegano perché l’Italia, in questi gloriosi anni renziani, sia scivolata all’ultimo posto come tasso di crescita del Pil, e al penultimo come tasso di occupazione.

Perciò, è vero: con altre regole potremmo (forse) crescere un po’ di più, ma non raccontiamoci che il vero ostacolo alla crescita dell’economia italiana è l’Europa. No, sfortunatamente se l’Italia cresce di meno degli altri paesi europei è solo perché ha fatto ben poco di quel che avrebbe dovuto fare per ridare fiato all’economia e risanare il bilancio pubblico, non certo perché la cattiva Europa non le ha permesso di spendere in deficit quanto le sarebbe piaciuto.

E’ questo, purtroppo, l’equivoco su cui il nascente governo giallo-verde sembra intenzionato a puntare molte delle sue carte.

Articolo pubblicato da Panorama il 24 maggio 2018



I conti pubblici vanno male, ma non è tutta colpa dei grillini

Prima ancora di insediarsi, questo governo ha già conquistato un record: ieri pomeriggio, poco dopo le 15, lo spread ha toccato i 217 punti base. Non succedeva dal 28 gennaio 2014, pochi giorni prima che il traballante governo Letta fosse dimissionato dall’assalto di Renzi. Da allora lo spread ha attraversato alti e bassi, con un solo periodo critico paragonabile a quello attuale (il trimestre febbraio-aprile 2017), ma mediamente è rimasto sempre abbondantemente al di sotto dei livelli di oggi.

Ancor più inedita è la ripidità della salita dello spread: se guardiamo alla sua velocità di crescita, bisogna risalire alla grande crisi del 2011-2012 per ritrovare degli aumenti altrettanto vertiginosi di quelli delle ultime due settimane. Per non parlare della Borsa, che fino a qualche settimane fa era una delle più dinamiche del vecchio continente, mentre nelle ultime due settimane ha perso oltre il 6%, il che corrisponde a una perdita di oltre 30 miliardi di euro. Difficile fare dei conti precisi, perché le perdite di capitale dei possessori di titoli di Stato sono molto differenziate in funzione delle scadenze (massime per chi ha titoli a lungo termine, minime per chi ha titoli a breve), ma credo che, se si sommano i miliardi bruciati in Borsa e i miliardi bruciati sul mercato dei titoli di Stato, si possa tranquillamente affermare che la cifra che risparmiatori e investitori hanno perso in queste due settimane di incubazione del nuovo governo sia dello stesso ordine di grandezza, se non superiore, a quella (50 miliardi) che il nuovo governo spera di rastrellare con l’ennesimo condono (benignamente ridenominato “pace fiscale”), dai cui proventi spera di ricavare i quattrini per flat tax e reddito di cittadinanza.

Fin qui i disastri imputabili al duo Salvini-Di Maio, di cui non si sa se pensare che siano degli sprovveduti, che non hanno la minima idea di come funzionano i mercati finanziari, o se abbiano intenzionalmente voluto far precipitare la situazione (alcuni analisti si sono spinti a ipotizzare che provocare una crisi finanziaria sia un obiettivo intermedio, coscientemente perseguito, in modo da trovarsi presto “costretti” a uscire dall’euro).

Quella che ho esposto fin qui, tuttavia, è solo una faccia della medaglia. Ce n’è un’altra, che tendiamo a non vedere, ma che a mio parere è ancora più rilevante. Quando si parla di spread, troppo spesso si dimentica che di spread ne esistono due: uno è lo spread ordinario (quello di cui si parla dal 2011), ovvero la differenza di rendimento fra titoli di Stato italiani e tedeschi, l’altro è lo spread relativo, ovvero il rapporto fra il nostro spread e quello degli altri paesi a rischio, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna (l’Irlanda è da tempo tornata nel gruppo dei paesi virtuosi). Questo secondo tipo di spread è molto più informativo, perché riflette solo le specificità dell’Italia, evitando di attribuire alle virtù o ai vizi di un singolo paese fenomeni che trascinano interi gruppi di paesi. Detto per inciso, questa è stata una obiezione giustamente sollevata nei giorni scorsi dai difensori del governo giallo-verde, che più volte hanno fatto notare che lo spread stava aumentando non solo in Italia ma anche in altri paesi. Ecco perché la storia di questi anni, vista in termini di spread relativo, potrebbe rivelarsi alquanto diversa da quella che abbiamo imparato attraverso lo spread assoluto.

E allora vediamo come sono andate le cose. Assumendo come metro lo spread dei due Paesi a noi più comparabili (Portogallo e Spagna), la storia è questa (vedi grafico seguente).

Fatto 100 lo spread di Spagna e Portogallo, il nostro spread è sempre stato inferiore a quota 100 sotto tutti i governi succedutisi fra il 2011 (anno di scoppio della crisi) e l’insediamento del governo Gentiloni. Ciò significa che i mercati si fidavano dei conti pubblici italiani più di quanto si fidassero di quelli spagnoli e portoghesi (non a caso messi sotto sorveglianza dalla Troika). Lo spread relativo era mediamente a livello 48 sotto Berlusconi, è salito a 62 sotto Monti, si è portato un po’ sopra quota 70 con Letta e Renzi. La vera svolta, però, è intervenuta nella seconda metà del 2016, con la campagna per il referendum istituzionale del 4 dicembre e in concomitanza con i molti appuntamenti elettorali critici in Europa e in America. Da allora lo spread relativo ha iniziato a crescere ininterrottamente e a un ritmo senza precedenti, fino a portarsi in prossimità della soglia critica dei 100, che indica che i nostri titoli di Stato sono considerati altrettanto rischiosi di quelli portoghesi e spagnoli. Il Rubicone del 100 punti è stato attraversato d’un balzo il 18 settembre dell’anno scorso, regnante Gentiloni. Da allora il nostro spread relativo, pur fra qualche oscillazione, non è mai sceso sotto i 100 punti, e anzi ha continuato a crescere inesorabilmente fino alla vetta attuale di 150 punti.

Ma non è tutto. Se osserviamo attentamente la curva che mostra il deterioramento della nostra posizione rispetto a quella di Spagna e Portogallo (grafico seguente), possiamo notare un paio di cose interessanti. La prima è che i mercati si sono accorti del voto del 4 marzo, perché l’andamento della curva si inverte precisamente a cavallo del 4 marzo (prima l’indice stava migliorando leggermente, poi altrettanto leggermente peggiora).

La seconda, ben più importante, è che al di là di questa piccola fluttuazione intorno alla data del voto, l’andamento generale dello spread relativo non è mutato per nulla: certo, è molto preoccupante oggi, perché siamo sopra quota 100 e la tendenza è alla crescita, ma era altrettanto preoccupante prima: dal gennaio del 2017, ossia da 15 mesi, lo spread relativo non ha fatto che crescere, e il Rubicone dei 100 punti lo ha attraversato ben 6 mesi prima delle elezioni del 4 marzo.

Questo significa che le domande con cui abbiamo a che fare sono due: perché lo spread relativo cresce oggi?, ma anche: perché cresceva pure ieri, quando eravamo saggi ed europeisti?

La mia risposta è che i mercati sono molto imperfetti ma non stupidi. I mercati si sono accorti che alcuni paesi, come Portogallo e Spagna, stanno riducendo il grado di vulnerabilità dei loro conti pubblici, se non altro perché sono tornati a crescere prima e più di noi. Ma, presumibilmente, si sono anche accorti che, dopo un periodo in cui abbiamo fatto qualcosa per risanare l’economia (soprattutto nel 2015-2016), ora il grado di vulnerabilità dei nostri conti pubblici è di nuovo in aumento. Secondo l’indice VS, elaborato dalla Fondazione David Hume, la svolta è avvenuta intorno all’aprile del 2017, circa 13 mesi fa: da allora l’indice segnala una lenta ma non per questo meno preoccupante risalita della vulnerabilità dei nostri conti. Questa circostanza, unita al fatto che, Grecia a parte, siamo giudicati il peggiore dei Piigs (paesi a rischio), dovrebbe farci molto riflettere: in caso di nuove turbolenze sui mercati finanziari, verosimilmente il paese più esposto sarebbe l’Italia.

Ecco perché le preoccupazioni per le intenzioni del nuovo governo sono più che giustificate. Con una sola postilla: se un governo Lega-Cinque Stelle costituisce un pericolo, è anche perché l’eredità che i governi della scorsa legislatura lasciano al governo entrante, al di là delle autolodi con cui essi amano raccontarsi, non è delle più rassicuranti.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Bloomberg
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 26 maggio 2018



I conti pubblici vanno male, ma non è tutta colpa del governo giallo-verde

Quando si parla di spread, troppo spesso si dimentica che di spread ne esistono due: uno è lo spread ordinario (quello di cui si parla dal 2011), ovvero la differenza di rendimento fra titoli di Stato italiani e tedeschi, l’altro è lo spread relativo, ovvero il rapporto fra il nostro spread e quello degli altri paesi a rischio, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna (l’Irlanda è da tempo tornata nel gruppo dei paesi virtuosi). Questo secondo tipo di spread è molto più informativo, perché riflette solo le specificità dell’Italia, evitando di attribuire alle virtù o ai vizi di un singolo paese fenomeni che trascinano interi gruppi di paesi. Detto per inciso, questa è stata una obiezione giustamente sollevata nei giorni scorsi dai difensori del governo giallo-verde, che più volte hanno fatto notare che lo spread stava aumentando non solo in Italia ma anche in altri paesi. Ecco perché la storia di questi anni, vista in termini di spread relativo, potrebbe rivelarsi alquanto diversa da quella che abbiamo imparato attraverso lo spread assoluto.

E allora vediamo come sono andate le cose. Assumendo come metro lo spread dei due Paesi a noi più comparabili (Portogallo e Spagna), la storia è questa (grafico 1).

Fatto 100 lo spread di Spagna e Portogallo, il nostro spread è sempre stato inferiore a quota 100 sotto tutti i governi succedutisi fra il 2011 (anno di scoppio della crisi) e l’insediamento del governo Gentiloni. Ciò significa che i mercati si fidavano dei conti pubblici italiani più di quanto si fidassero di quelli spagnoli e portoghesi (non a caso messi sotto sorveglianza dalla Troika). Lo spread relativo era mediamente a livello 48 sotto Berlusconi, è salito a 62 sotto Monti, si è portato un po’ sopra quota 70 con Letta e Renzi. La vera svolta, però, è intervenuta nella seconda metà del 2016, con la campagna per il referendum istituzionale del 4 dicembre e in concomitanza con i molti appuntamenti elettorali critici in Europa e in America. Da allora lo spread relativo ha iniziato a crescere ininterrottamente e a un ritmo senza precedenti, fino a portarsi in prossimità della soglia critica dei 100, che indica che i nostri titoli di Stato sono considerati altrettanto rischiosi di quelli portoghesi e spagnoli. Il Rubicone del 100 punti è stato attraversato d’un balzo il 18 settembre dell’anno scorso, regnante Gentiloni. Da allora il nostro spread relativo, pur fra qualche oscillazione, non è mai sceso sotto i 100 punti, e anzi ha continuato a crescere inesorabilmente fino alla vetta attuale di 150 punti.

Ma non è tutto. Se osserviamo attentamente la curva che mostra il deterioramento della nostra posizione rispetto a quella di Spagna e Portogallo (grafico 1), possiamo notare che l’andamento generale dello spread relativo prima e dopo il voto del 4 marzo è molto simile. Certo, è molto preoccupante oggi, perché siamo sopra quota 100 e la tendenza è tuttora alla crescita, ma era altrettanto preoccupante prima: dal gennaio del 2017, ossia da 15 mesi, lo spread relativo non ha fatto che crescere, e il Rubicone dei 100 punti lo ha attraversato ben 6 mesi prima delle elezioni del 4 marzo.

Questo significa che le domande con cui abbiamo a che fare sono due: perché lo spread relativo cresce oggi?, ma anche: perché cresceva pure ieri, quando eravamo saggi ed europeisti?

La mia risposta è che i mercati sono molto imperfetti ma non stupidi. I mercati si sono accorti che alcuni paesi, come Portogallo e Spagna, stanno riducendo il grado di vulnerabilità dei loro conti pubblici, se non altro perché sono tornati a crescere prima e più di noi. Ma, presumibilmente, si sono anche accorti che, dopo un periodo in cui abbiamo fatto qualcosa per risanare l’economia (soprattutto nel 2015-2016), ora il grado di vulnerabilità dei nostri conti pubblici è di nuovo in aumento. Secondo l’indice VS, elaborato dalla Fondazione David Hume, la svolta è avvenuta intorno all’aprile del 2017, circa 13 mesi fa: da allora l’indice segnala una lenta ma non per questo meno preoccupante risalita della vulnerabilità dei nostri conti (grafico 2).

Questa circostanza, unita al fatto che, Grecia a parte, siamo giudicati il peggiore dei Piigs (paesi a rischio), dovrebbe farci molto riflettere: in caso di nuove turbolenze sui mercati finanziari, verosimilmente il paese più esposto sarebbe l’Italia.

L’articolo completo esce oggi su Il Messaggero e sarà disponibile da domani sul sito della Fondazione David Hume



La spada di Damocle

Apparentemente, è calma piatta. Il 4 marzo si è votato, poi è cominciato il balletto. Un mese per non decidere nulla. Un giro di consultazioni al Quirinale in cui tutti i partiti hanno “ribadito” le rispettive posizioni. Una richiesta di ulteriore tempo al Capo dello Stato, come se di tempo non ne avessero avuto abbastanza, o come se fino a questo punto avessero dimostrato di saperlo usare proficuamente.

Però mentre la politica dorme, le autorità europee, l’economia, i mercati fingono di sonnecchiare, ma sono più vigili che mai. La autorità europee attendono al varco il nuovo governo. Entro la fine di aprile l’Italia dovrebbe comunicare a Bruxelles le sue linee programmatiche sui conti pubblici. Ma è molto improbabile che entro quella data “Lor signori” (i parlamentari neo-eletti) si siano degnati di trovare un accordo che permetta la nascita di un esecutivo. Quindi la Commissione Europea, che già l’anno scorso aveva segnalato all’Italia il mancato rispetto degli impegni presi, dovrà sì attendere che in Italia ci sia un governo, ma poi difficilmente potrà evitare di intervenire. Proprio negli ultimi giorni l’Istat non solo ha confermato gli scostamenti, ma ha dovuto correggere (in peggio) le stime del deficit e del debito pubblico, che a causa dei soldi spesi per i salvataggi bancari sono oggi ancora più preoccupanti di quel che si pensava. Il minimo che si può prevedere è che, una volta insediato il nuovo governo e rese note tutte le cifre, Bruxelles ci chieda una manovra correttiva. Fino a ieri si parlava di 3-4 miliardi, oggi non si esclude che la cifra possa essere maggiore. Una cifra cui, comunque, si dovrà aggiungere qualcosa come 12-13 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, che altrimenti scatterà inesorabilmente dal 1° gennaio 2019.

Questi probabili aumenti delle tasse, peraltro, si inseriscono in un quadro di rallentamento e soffocamento dell’economia. La stima della pressione fiscale del 2017 è stata rivista al rialzo. Fra il 2017 e il 2016 sono saliti sia l’ammontare delle imposte dirette sia, ancor più, quello delle imposte indirette. Nell’anno appena trascorso il potere di acquisto è aumentato leggermente, ma molto meno che l’anno precedente. Il numero di disoccupati resta in prossimità dei 3 milioni di unità, mentre la formazione di posti di lavoro continua a riguardare i contratti a termine assai più che i contratti a tempo indeterminato. Quanto al debito, le ultime correzioni dell’Istat non lasciano dubbi sul fatto che, nonostante gli impegni solennemente e puntualmente assunti ogni anno dal Ministro dell’Economia, il promesso percorso di riduzione del rapporto debito-Pil non sia ancora iniziato.

A fronte di questi numerosi e concordi segnali negativi, si potrebbero mettere in luce alcuni elementi relativamente rassicuranti. Ad esempio, a fine ottobre 2017 Standard & Poor’s, per la prima volta da 29 anni, ha leggermente alzato il rating dell’Italia. Ed era dal 2002, ossia da 15 anni, che nessuna agenzia di rating faceva un passo del genere. Soprattutto, sembra fornire qualche conforto la circostanza che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto il successo delle forze più anti-europee e più disinvolte sui conti pubblici (Cinque Stelle e Lega), nulla si sia mosso. Ferme le altre agenzie di rating, fermi i mercati finanziari, che hanno lasciato sostanzialmente invariato (intorno a 130 punti) lo spread fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.

Ma è una lettura ingannevole, per diverse ragioni.

Le Agenzie di rating, come la Commissione europea, semplicemente hanno deciso di aspettare le elezioni e la nascita del nuovo governo prima di esprimersi. Una delle tre agenzie principali, Moody’s, lo ha affermato esplicitamente. Il 9 febbraio una sua esponente, l’analista senior per i rating sovrani Kathrin Muehlbronner, ha dichiarato: «Moody’s risolverà l’outlook sul rating dell’Italia dopo le elezioni ma è improbabile che questo avvenga già il 16 marzo» (il 16 marzo è una delle date previste dall’Agenzia per emettere giudizi sull’Italia). E’ verosimile che la medesima linea di condotta sia adottata dalle altre Agenzie.

Una seconda ragione che dovrebbe indurre a una certa cautela è che, per ora, al governo non ci sono i barbari anti-euro e anti-Europa ma il super-rassicurante premier Gentiloni, e l’ultra-europeo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. È presumibile che anche i mercati, come i governi e le Agenzie di rating, attendano la nascita del nuovo esecutivo prima di emettere i propri giudizi.

Ma l’elemento che più dovrebbe farci riflettere è l’andamento dell’indice VS, uno strumento messo a punto dalla Fondazione David Hume per misurare la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici delle economie avanzate. Ebbene, i calcoli effettuati per il primo trimestre del 2018 (a breve disponibili su questo sito) mostrano che la vulnerabilità dei nostri conti, che era stata in leggera in diminuzione dall’inizio del 2014 all’inizio del 2017, da circa un anno mostra una pericolosa tendenza all’aumento. C’è solo da augurarsi che di tale vulnerabilità non si sia presto costretti ad accorgerci tutti quanti, quando i mercati dovessero rialzare la testa.

Articolo pubblicato su Panorama del 12 aprile 2018