Ci sono eventi che mostrano e amplificano le distanze tra popolazioni apparentemente vicine, come il rifiuto di ratificare la costituzione europea. Ci sono episodi che, al contrario, avvicinano cittadini e nazioni anche molto diversi, accomunati da uguali sensibilità o da comuni interessi rispetto a temi umanitari, ecologici e, soprattutto, economici: la Carta dei diritti di Nizza, i protocolli di Kyoto e la conferenza di Parigi sul clima o l’istituzione di una moneta unica europea1.
Ci sono poi accadimenti che impediscono ogni ragionamento, non si capiscono, al più si cum patiscono. Gli attentati terroristici di Parigi a gennaio (7/1, Charlie Hebdo) e novembre 2015 (13/11, Stadio, Bistrot e Teatro) – e, prima ancora, l’abbattimento dell’aereo di turisti russi in rientro dall’Egitto (31/10/2015), la carneficina sulla spiaggia di Susa (26/6/2015) e l’incursione al museo Bardo (18/3/2015) in Tunisia, le bombe negli stabilimenti turistici di Sharm El Sheik (23/7/2005), nella metropolitana di Londra (7/7/2005) o alla stazione di Madrid (11/3/2004) – creano un clima emotivo condiviso di sgomento, tristezza e paura. E’ l’empatia verso le vittime, che sono come noi, anzi siamo noi. La sensazione di avere un destino comune, o meglio, un nemico comune da cui difendersi può unire i cittadini più di qualsiasi accordo economico o abolizione di frontiere. È quanto sta accadendo a tutto l’occidente, e alle nazioni filo-occidentali, dall’11 settembre 2001 e che gli ultimi attentati europei hanno ribadito con forza. Quale via razionale prenderà l’onda emotiva conseguente agli attentati lo scopriremo effettivamente nei prossimi mesi e anni. Certamente prevarrà un qualche accordo contro l’Isis, ma come il recente passato (forse nemmeno così passato) della guerra in Iraq e in Afghanistan ci insegna, questo assunto difensivo, oltre a conseguenze difficilmente prevedibili proprio in termini di sicurezza e sviluppo del terrorismo, con buone probabilità creerà un’alleanza a intensità variabile, con governi e opinioni pubbliche più interventiste e, viceversa, nazioni e cittadini refrattari all’intervento militare, al più inclini a sostenere o non ostacolare le operazioni militari altrui. Anche perché intervenire significa investire nella guerra anziché, ad esempio, nello stato sociale, e bombardare implica avere la garanzia di diventare uno dei bersagli prioritari del terrorismo, argomento di non poco conto per i cittadini, soprattutto per quelli che si apprestano a vivere il Giubileo dei popoli voluto da Papa Francesco.
D’altronde, gli ultimi accadimenti hanno soltanto evidenziato quanto, per ragioni storiche, politiche e persino geografiche, il livello di nazionalismo dei popoli dell’Unione sia molto diverso. Prima degli ultimi attentati c’era chi progettava muri per fermare le ondate di immigrati dall’Africa e dal Medioriente e, viceversa, chi chiedeva politiche e azioni integrate a livello europeo per gestire quanto ormai accade da anni nel Mediterraneo. Ai militari, medici e semplici civili che da anni raccolgono naufraghi, e purtroppo cadaveri, nei nostri mari la recente proposta di candidare il sindaco di Lampedusa al Nobel per la pace non sarà sembrata una provocazione peregrina, come può invece aver pensato qualche Presidente o Primo ministro del centro-nord Europa.
Oggi sono nuovamente a tema le libertà politiche e civili negli stati membri dell’Unione. Quanto siamo disponibili ad estenderle ad altri? A chi? A quanti? Inoltre, all’interno dell’Unione qualcuno possiede libertà politiche e civili da circa un secolo ed è disposto a sacrificarle per avere maggiore protezione, mentre altri le rivendicano con orgoglio e ostentata sicurezza in opposizione a chi le vorrebbe negate, e altri ancora hanno iniziato davvero ad assaporarle da appena qualche decennio. Riusciremo a far collimare queste profonde divergenze culturali, che con meno ipocrisia possiamo riconoscere come vere e proprie differenze identitarie?
Questo Dossier è stato concepito, ben prima degli ultimi tragici eventi di Parigi, su una domanda fondamentale: Quanto è unita l’Unione Europea?
Anche abbandonate le risposte congetturali in favore di quelle basate sui dati, si può rispondere a questo interrogativo in molti modi, proprio perché è molto (troppo) generale. Nel Dossier si è deciso di specificarlo in tre sottodomande più puntuali, che ne chiariscono le finalità conoscitive: L’Unione Europea è un patchwork di nazioni cucite assieme seppure difficilmente conciliabili? Ossia, quanto sono dissimili oggi le nazioni che compongono l’Unione?
Lungo il processo di costituzione e allargamento, l’Unione Europea è stata vissuta come un rischio, un’opportunità o una strada obbligata?
Quanto i cittadini delle varie nazioni che la compongono sentono di appartenere all’Unione? E cioè quanto, oltre ad essere lituani, portoghesi, svedesi, croati, italiani, ecc., si sentono cittadini europei? Nel Dossier si è deciso di rispondere ai tre quesiti combinando dati ufficiali e dati di sondaggio, scegliendo nell’ormai imponente universo di database disponibili sui paesi europei.
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