Il Gender gap negli anni della crisi

Questa crisi economica che ormai dura da molti anni ha lasciato segni evidenti sul sistema economico del nostro paese. Il forte calo del potere d’acquisto (-9,1% fra il 2008-2014) si è accompagnato ad una caduta dei consumi delle famiglie (-5,7%). Il Pil è sceso dell’8,1% e il numero dei lavoratori in Italia è complessivamente calato di circa 800mila unità.

Il rallentamento dell’economia ha avuto un impatto molto forte, riducendo dal punto di vista quantitativo il potenziale produttivo dell’Italia. Ciò che però questi soli dati non ci consentono di capire è se questa lunga recessione abbia modificato il sistema anche da un punto di vista qualitativo.

In questo rapporto cercheremo dunque di capire se la crisi abbia contribuito a modificare alcuni squilibri del nostro paese, in due settori chiave per la crescita economica: l’istruzione (scuola e università) e il mercato del lavoro.

Valuteremo l’evoluzione del gender gap prima (2004-2008) e dopo (2008-2014) l’inizio della fase recessiva. Il calcolo di questa “doppia differenza”, una differenza nel tempo (pre-post) e una differenza di genere, ci permetterà di capire se la crisi abbia contribuito o meno ad accentuare i divari di genere.

Gender gap.pdf




La Terza Società

Quando si parla del sistema sociale e delle sue divisioni si fa per lo più riferimento a due tipi di fratture sociali fondamentali.

La prima è quella dei livelli di reddito, che permette di suddividere la popolazione in strati più o meno numerosi, dai poveri assoluti fino all’élite dei super-ricchi, passando per la vasta area dei ceti medi. E’ in questo filone che si collocano le indagini campionarie sui bilanci familiari, come quelle dell’Istat e della Banca d’Italia.

Il secondo tipo di frattura riguarda i rapporti sociali, e conduce a suddividere la popolazione in grandi classi sociali. Un filone che nel mondo anglosassone deve molto agli studi di Golthorpe, e che in Italia era stato inaugurato da Sylos Labini, con il suo famoso Saggio sulle classi sociali.

Oggi entrambi gli approcci precedenti mostrano limiti piuttosto severi. L’approccio in termini di livelli di reddito, inevitabilmente condotto a partire dalle condizioni economiche della famiglia, finisce per cancellare le differenze, storicamente sempre più importanti, fra percettori di reddito e membri mantenuti o sussidiati. L’approccio in termini di grandi classi sociali, a sua volta, deve fare i conti con lo svuotamento tendenziale delle grandi classi sociali del passato, come la classe operaia e i contadini.

Ma la difficoltà fondamentale di un’analisi attuale delle divisioni sociali sta nel fatto che oggi nel luogo centrale che genera le differenze sociali, ossia il mercato del lavoro, opera ormai una minoranza della popolazione (circa 25 milioni di persone su 60, nel caso italiano), minoranza al cui interno i capifamiglia che lavorano costituiscono, a loro volta, una ancor più esigua minoranza (circa 12 milioni di persone su 60).

Il fenomeno centrale del nostro tempo, almeno in un paese come l’Italia, è la formazione di un segmento sociale che, pur facendo parte della popolazione potenzialmente attiva (in quanto disponibile a lavorare) vive nondimeno una condizione di grave e radicale esclusione dal circuito del lavoro regolare. In un precedente Rapporto della Fondazione David Hume abbiamo denominato questo segmento “Terza società”, in contrapposizione alla “Prima società” (la società dei garantiti) e alla “Seconda società” (o società del rischio” (Vedi FDH 2005, Ricolfi 2007).

In questo Dossier approfondiamo l’analisi di questo segmento di esclusi, o outsider, da tre prospettive:

  1. la sua evoluzione nel tempo;
  2. la sua ampiezza in Italia, in confronto ad altri paesi avanzati;
  3. il suo orientamento politico.

Per ricostruire gli orientamenti politici dei membri della Terza Società abbiamo commissionato un’apposita indagine demoscopica alla Società Ipsos.

Terza società




Eurofilia & euroscettici

Ci sono eventi che mostrano e amplificano le distanze tra popolazioni apparentemente vicine, come il rifiuto di ratificare la costituzione europea. Ci sono episodi che, al contrario, avvicinano cittadini e nazioni anche molto diversi, accomunati da uguali sensibilità o da comuni interessi rispetto a temi umanitari, ecologici e, soprattutto, economici: la Carta dei diritti di Nizza, i protocolli di Kyoto e la conferenza di Parigi sul clima o l’istituzione di una moneta unica europea1.

Ci sono poi accadimenti che impediscono ogni ragionamento, non si capiscono, al più si cum patiscono. Gli attentati terroristici di Parigi a gennaio (7/1, Charlie Hebdo) e novembre 2015 (13/11, Stadio, Bistrot e Teatro) – e, prima ancora, l’abbattimento dell’aereo di turisti russi in rientro dall’Egitto (31/10/2015), la carneficina sulla spiaggia di Susa (26/6/2015) e l’incursione al museo Bardo (18/3/2015) in Tunisia, le bombe negli stabilimenti turistici di Sharm El Sheik (23/7/2005), nella metropolitana di Londra (7/7/2005) o alla stazione di Madrid (11/3/2004) – creano un clima emotivo condiviso di sgomento, tristezza e paura. E’ l’empatia verso le vittime, che sono come noi, anzi siamo noi. La sensazione di avere un destino comune, o meglio, un nemico comune da cui difendersi può unire i cittadini più di qualsiasi accordo economico o abolizione di frontiere. È quanto sta accadendo a tutto l’occidente, e alle nazioni filo-occidentali, dall’11 settembre 2001 e che gli ultimi attentati europei hanno ribadito con forza. Quale via razionale prenderà l’onda emotiva conseguente agli attentati lo scopriremo effettivamente nei prossimi mesi e anni. Certamente prevarrà un qualche accordo contro l’Isis, ma come il recente passato (forse nemmeno così passato) della guerra in Iraq e in Afghanistan ci insegna, questo assunto difensivo, oltre a conseguenze difficilmente prevedibili proprio in termini di sicurezza e sviluppo del terrorismo, con buone probabilità creerà un’alleanza a intensità variabile, con governi e opinioni pubbliche più interventiste e, viceversa, nazioni e cittadini refrattari all’intervento militare, al più inclini a sostenere o non ostacolare le operazioni militari altrui. Anche perché intervenire significa investire nella guerra anziché, ad esempio, nello stato sociale, e bombardare implica avere la garanzia di diventare uno dei bersagli prioritari del terrorismo, argomento di non poco conto per i cittadini, soprattutto per quelli che si apprestano a vivere il Giubileo dei popoli voluto da Papa Francesco.

D’altronde, gli ultimi accadimenti hanno soltanto evidenziato quanto, per ragioni storiche, politiche e persino geografiche, il livello di nazionalismo dei popoli dell’Unione sia molto diverso. Prima degli ultimi attentati c’era chi progettava muri per fermare le ondate di immigrati dall’Africa e dal Medioriente e, viceversa, chi chiedeva politiche e azioni integrate a livello europeo per gestire quanto ormai accade da anni nel Mediterraneo. Ai militari, medici e semplici civili che da anni raccolgono naufraghi, e purtroppo cadaveri, nei nostri mari la recente proposta di candidare il sindaco di Lampedusa al Nobel per la pace non sarà sembrata una provocazione peregrina, come può invece aver pensato qualche Presidente o Primo ministro del centro-nord Europa.

Oggi sono nuovamente a tema le libertà politiche e civili negli stati membri dell’Unione. Quanto siamo disponibili ad estenderle ad altri? A chi? A quanti? Inoltre, all’interno dell’Unione qualcuno possiede libertà politiche e civili da circa un secolo ed è disposto a sacrificarle per avere maggiore protezione, mentre altri le rivendicano con orgoglio e ostentata sicurezza in opposizione a chi le vorrebbe negate, e altri ancora hanno iniziato davvero ad assaporarle da appena qualche decennio. Riusciremo a far collimare queste profonde divergenze culturali, che con meno ipocrisia possiamo riconoscere come vere e proprie differenze identitarie?

Questo Dossier è stato concepito, ben prima degli ultimi tragici eventi di Parigi, su una domanda fondamentale: Quanto è unita l’Unione Europea?

Anche abbandonate le risposte congetturali in favore di quelle basate sui dati, si può rispondere a questo interrogativo in molti modi, proprio perché è molto (troppo) generale. Nel Dossier si è deciso di specificarlo in tre sottodomande più puntuali, che ne chiariscono le finalità conoscitive: L’Unione Europea è un patchwork di nazioni cucite assieme seppure difficilmente conciliabili? Ossia, quanto sono dissimili oggi le nazioni che compongono l’Unione?

Lungo il processo di costituzione e allargamento, l’Unione Europea è stata vissuta come un rischio, un’opportunità o una strada obbligata?

Quanto i cittadini delle varie nazioni che la compongono sentono di appartenere all’Unione? E cioè quanto, oltre ad essere lituani, portoghesi, svedesi, croati, italiani, ecc., si sentono cittadini europei? Nel Dossier si è deciso di rispondere ai tre quesiti combinando dati ufficiali e dati di sondaggio, scegliendo nell’ormai imponente universo di database disponibili sui paesi europei.

Eurofilia e euroscettici.pdf




Luci ed ombre del Mezzogiorno

L’analisi delle cause del ritardo del Mezzogiorno va avanti da molto tempo. Di “questione meridionale” si parla ormai dalla seconda metà dell’Ottocento (Ricolfi, 2010), dai tempi l’Unità d’Italia.

Che nel nostro Paese ci siano ancora oggi differenze territoriali evidenti è indubbio. Basta dare uno sguardo al tenore di vita della popolazione misurato in termini di Pil pro-capite: quello del Centro-Nord è circa una volta e mezzo quello del Mezzogiorno. E questo rapporto di svantaggio si ripresenta anche quando si passa ad osservare il tasso di occupazione. Lo sviluppo del Sud, dunque, continua a rappresentare un nodo strategico per lo sviluppo del Paese.

In una fase di crisi economica come quella che ancora oggi stiamo vivendo, diventa interessante chiedersi come ha reagito il Mezzogiorno alla lunga fase recessiva. Il divario territoriale si è forse allargato o il Sud ha seguito le dinamiche del Centro-Nord?

Possiamo fare un primo e sintetico bilancio, considerando alcuni indicatori chiave non soltanto economici.

Mezzogiorno