Sul populismo penale

Vi è un tema che ha perso la centralità degli anni scorsi nel dibattitto pubblico, tanto da non essere strumentalizzato nella recente campagna elettorale: la riforma della giustizia.

La scorsa legislatura si è conclusa con un bilancio negativo in materia: poche riforme, non certo ispirate da principi garantisti e liberali.

L’eccezione sembra essere la riforma dell’ordinamento penitenziario che, dopo un lungo e travagliato iter, rischia di non entrare in vigore.

La prima tappa dell’iter della riforma è stata l’istituzione, da parte del Ministro della Giustizia Orlando, degli Stati generali dell’esecuzione penale (D.M. 8 maggio 2015).

I lavori degli Stati generali sono stati, in parte, alla base dell’approvazione della legge delega al Governo (legge n. 103 del 23 giugno 2017) per riformare l’ordinamento penitenziario secondo alcuni criteri direttivi.

Il Ministro (D.M. 19 luglio 2017) ha poi istituito tre commissioni per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo della riforma: una competente circa le modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza e di assistenza sanitaria; un’altra per la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile; la terza per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso.

Precedenza è stata accordata allo schema di decreto legislativo riguardante la riforma dell’ordinamento penitenziario, privato però delle parti riguardanti l’affettività ed il lavoro (quest’ultima per mancanza di copertura finanziaria), approvato da parte del Consiglio dei ministri e trasmesso per il parere alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato in febbraio.

Le Commissioni, pur approvando il decreto, hanno inviato dei pareri critici su alcuni punti della riforma, in particolare la Commissione del Senato ha sollevato dei dubbi circa un punto fondamentale della riforma (il superamento degli automatismi che impediscono l’individualizzazione del trattamento penitenziario).

Questo passaggio ha fortemente rallentato, e forse compromesso, l’iter approvativo della riforma. Il Governo, infatti, non potendo recepire le indicazioni provenienti dalla Commissione Giustizia del Senato, che avrebbero snaturato la riforma, ha approvato il decreto di riforma discostandosi da esse ma per questo motivo ha dovuto trasmetterlo alle Commissioni per un nuovo parere.

La grave colpa del Governo è stata quella di aver temporeggiato eccessivamente, approvando il decreto di riforma soltanto il 16 marzo, dopo le elezioni politiche, per paura che un’approvazione in piena campagna elettorale fosse strumentalizzata dalle forze politiche ostili alla riforma. Ciò nonostante le forti sollecitazioni ad accelerare i tempi ricevute da parte dell’Avvocatura, della Magistratura, della Dottrina, degli operatori del pianeta carcere e nonostante il Satyagraha indetto da Rita Bernardini del Partito Radicale e da oltre dieci mila detenuti.

Il risultato paradossale è stato che proprio quelle forze politiche (Lega e Movimento 5 stelle) hanno vinto le elezioni con conseguenze prevedibili sul futuro della riforma.

Il decreto di riforma, infatti, è stato trasmesso al nuovo Parlamento ma non è stato inserito nell’ordine del giorno della Commissione speciale, per decisione di centrodestra e Movimento 5 Stelle, in quanto ritenuta materia non urgente. Atteggiamento ostruzionistico che rischia di vedere sospesa la riforma fintanto che non si formeranno le Commissioni Giustizia di Camera e Senato.

Per scongiurare questa impasse sono due le strade percorribili: o la Commissione speciale esprime un parere sulla riforma o il Governo procede ugualmente all’approvazione della stessa.

La prima via è stata sollecitata dal Presidente della Camera Roberto Fico, che ha chiesto ai gruppi parlamentari una “riflessione” circa il parere della Commissione speciale di Montecitorio sul decreto di riforma, senza finora ottenere alcun risultato.

In quest’ottica si inserisce anche l’iniziativa dell’Unione delle Camere Penali Italiane che, per i giorni 2 e 3 maggio, ha indetto l’astensione dalle udienze ed una manifestazione nazionale, proprio per sollecitare l’inserimento dei Decreti Legislativi approvati dal Consiglio dei Ministri nell’ordine del giorno delle Commissioni speciali.

La seconda ipotesi è stata caldeggiata dal Guardasigilli Orlando, secondo il quale il Governo, in caso di prolungato ostruzionismo del Parlamento, sarebbe legittimato ad approvare definitivamente il decreto. Ciò in forza dell’art. 1, comma 83, della legge 103 secondo cui “i pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia (…) sono espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione” e “decorso tale termine, i decreti possono essere comunque emanati”. Poiché il decreto è stato trasmesso lo scorso 20 marzo e sono trascorsi anche i dieci giorni dall’insediamento delle Commissioni speciali, il Governo può procedere all’approvazione definitiva del decreto.

Al momento la situazione resta però sospesa, bloccata da polemiche politiche.

La riforma è fortemente contestata da Lega e Movimento 5 Stelle che la definiscono “svuota-carceri” e “salva ladri”. Ma è davvero tale? No, basta esaminarne il contenuto.

La finalità della riforma è quella di dare compiuta attuazione all’art. 27 della Costituzione, in base al quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per questo si incentivano le misure alternative alla detenzione, superando alcuni automatismi e presunzioni che limitano l’accesso ad esse.

Ad esempio, la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale viene estesa a coloro che devono scontare fino a quattro anni di pena, rispetto ai tre previsti precedentemente (misura già anticipata da una decisione della Corte Costituzionale).

Inoltre, viene modificato l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario (che esclude dalla possibilità di accesso ai benefici di legge alcune categorie di detenuti individuate sulla base del reato commesso), superando gli automatismi esclusivi previsti per alcuni reati (con esclusione dei reati di mafia e terrorismo ed altri gravi reati associativi).

Non vi sarà, quindi, alcuna estensione automatica dei benefici bensì sarà la magistratura a valutare, caso per caso, la meritevolezza della concessione del beneficio.

Gli allarmi lanciati dai critici della riforma sono, pertanto, infondati ed immotivati, rispondenti a scarsa conoscenza del testo o a finalità politiche propagandistiche.

Nonostante il numero di reati sia in costante calo, infatti, molti politici e media fomentano un presunto allarme sociale, un’insicurezza diffusa, così da indurre una richiesta di misure securitarie e carcerocentriche. L’effetto di questo populismo penale, branca del populismo politico, che strumentalizza le paure legittime dei cittadini ed il dolore delle vittime dei reati, è la diffusione di istanze giustizialiste e forcaiole per cui il carcere è l’unico rimedio. Pertanto risultano mal digesti provvedimenti atti ad incentivare le misure alternative al carcere, in quanto considerate un vulnus al principio della certezza della pena.

In realtà, quello della certezza della pena è principio strumentalizzato: secondo la nostra Costituzione la pena deve tendere al reinserimento sociale del detenuto e per far ciò deve essere individualizzata.

A meno che per pena certa si intenda soltanto quella scontata in carcere.

Proprio questo sembra essere il sentimento comune diffuso in larga parte dell’opinione pubblica, motivo per cui il Governo ha temporeggiato e tergiversato nell’approvazione della riforma e per cui la discussione sulla riforma è stata quasi assente dal dibattito pubblico.

La riforma, inoltre, è nata come risposta al più vasto problema della condizione delle carceri. Il nostro sistema penitenziario continua ad essere afflitto dal sovraffollamento e da condizioni detentive che minano la dignità dei detenuti. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani) per i trattamenti inumani e degradanti subiti dai detenuti. Il fallimento della riforma non farà che acuire tali problematiche.

Ma di questa riforma bisogna apprezzare soprattutto il metodo che si spera sia seguito in futuro. La stesura del testo ha visto il coinvolgimento di personalità dalla indiscussa competenza in materia, provenienti dall’Accademia, dall’Avvocatura e dalla Magistratura, tanto da essere sostenuta da CSM, ANM, UCPI, CNF, Magistratura di Sorveglianza.

Un rimprovero da muovere è quello di non aver osato di più, procedendo ad una riforma organica ed incisiva dell’ordinamento penitenziario, sempre più urgente e necessaria, nonostante le urla dei forcaioli di turno.




Contro il piagnisteo della crisi della democrazia rappresentativa

Tira una brutta aria sulla democrazia rappresentativa: è un mezzo di locomozione che sembra essersi inceppato per guasti tecnici, la cui identificazione non trova affatto d’accordo giuristi, scienziati politici, opinionisti, filosofi del diritto, sociologi. Il populismo che dilaga dovunque in Europa e non risparmia l’America «la “pancia” dell’America bianca e xenofoba ha portato Donald Trump alla Casa Bian­ca»: è la discutibile diagnosi di uno dei nostri più accreditati storici contemporaneisti, Valerio Castronovo nell’articolo Popolo versus élite, ‘Il Sole 24 Ore’ 25 marzo 2018—porta a rispolverare i luoghi comuni che da più di duemila anni, a partire dal vecchio Platone, si riversano sul governo del demos. Non vorrei essere equivocato: neppure a me piace sempre come vota il popolo così come non mi piacciono gli inverni troppo rigidi e le estati troppo torride: non riesco a capire, tuttavia, che cosa si abbia in mente quando si auspica un nuovo modello di rappresentanza che rispecchi davvero la volontà del cosiddetto ‘paese reale’. L’unico discorso serio da fare, a mio avviso (ma non ho la verità in tasca, giacché in politica non ci sono verità ma solo opinioni), riguarda i sistemi elettorali ovvero quelli che bloccano la locomotiva e quelli che sono in grado di garantire a una maggioranza di governare. Di questi ultimi ne conosco solo due: il proporzionale con forte sbarramento (preferibilmente al 5%) e il maggioritario (preferibilmente senza doppio turno). È il pasticcio tra i due che in Italia ha portato all’impasse in cui ci troviamo attualmente, con un Quirinale che non sa che pesci prendere dal momento che nessun partito e nessuna coalizione è in grado di formare un governo.

Paolo Becchi, il filosofo del diritto ieri vicino al M5S oggi, non senza una certa coerenza, vicino a Matteo Salvini ed editorialista di ‘Libero’, sul ‘Secolo XIX’ del 4 maggio, in un articolo su I limiti della democrazia rappresentativa, ne ha dedotto che bisogna rimeditare la lezione del grande giurista tedesco Carl Schmitt, che vedeva nel principio fondamentale su cui si fonda lo Stato democratico, quello della rappresentanza, un limite. Becchi, che può considerarsi il più fine esegeta italiano di Schmitt, ne spiega così la tesi: se due partiti in competizione raggiungono il 48%, a decidere il governo del paese sarà quel 4% che, col suo etto in più farà prevalere un piatto della bilancia sull’’altro. Sinceramente non vedo lo scandalo: nella vita degli individui, come in quella dei popoli, è sempre un qualche punto in più che assicura la salvezza o condanna alla perdizione. Non si contano nella storia le ‘buone cause’ che hanno trionfato grazie a un esiguo spostamento di voti in una situazione di stallo.
Aggiungo che il 4% può essere determinante in un sistema proporzionale—come si è visto nella Prima Repubblica quando lo spostamento delle piccole percentuali di voto dei partiti laici minori poteva segnare il destino dei governi. Nei sistemi uninominali e soprattutto in quello più affidabile—senza doppio turno—si vince o si perde nettamente e la partita si gioca, sostanzialmente, in due: saranno poco rappresentativi ma assicurano la governabilità.

Come si rimedia allora? Con l’epistocrazia, ovvero col governo degli uomini «dotati di molta saggezza per ben discernere, e molta virtù per perseguire il comune bene della società»? Tra i maestri più cari che ho avuto all’Università—storici, filosofi, letterati, giuristi—non ce n’è uno che nel 1948 non abbia votato per il Fronte popolare e furono solo le masse ignoranti, per lo più contadine, e le vecchiette terrorizzate dai preti (secondo un vieto stereotipo) ad evitarci il destino di ‘paese satellite’.

In realtà, votare significa sempre dire con la scheda se si è contenti o meno dei partiti che hanno governato il paese. È come comprare un paio di scarpe: non si richiede competenza in fatto di suole e di tomaie ma solo se calzano bene al piede.

«Se le cose stanno così», per citare Sergio Endrigo, non  si  rimedia agli errori del demos proponendo di legare—come è stato fatto da autorevoli giuristi in perenne ricerca di allori—l’ art. 48 della Costituzione, che esclude i cittadini dal voto in caso di ’incapacità civile’ o di indegnità morale (indicata dalla legge), all’art.3 secondo il quale la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono l’«effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». In sostanza, Sabino Cassese, che ha fatto questa bella pensata nell’Introduzione all’importante libro di Jason Brennan, Contro la democrazia (Ed. Luiss), propone di dare un contenuto concreto a espressioni come ‘incapacità civile’ e ‘indegnità morale’ in modo da sostituire adeguatamente quei criteri di censo e di istruzione che, in una società democratica di massa, non potrebbero venir fatti valere (e meno male! se si pensa al su ricordato 1948 quando ‘la classe dei dotti’, se avesse imposto la sua ‘superiore saggezza’, avrebbe trascinato il paese nell’abisso). Una casa confortevole, un buon lavoro, un’esistenza agiata dovrebbero essere i nuovi requisiti di competenza, garanti della epistocrazia. Siamo alle solite, all’investimento politico e morale sull’eguaglianza sostanziale—‘termine fisso d’eterno consiglio’ della sinistra anticapitalista—cui si affida il compito di assicurare l’epistocrazia. Sennonché, poiché i tempi non sono brevi, se non intervenissero le elite sagge e responsabili, correremmo il rischio di ritrovarci per chissà quanto una democrazia degli incompetenti, suscettibile di essere vampirizzata dal populismo e dal sovranismo—«brutte parole a cose più brutte», per parafrasare la definizione che del trasformismo dava il brontolone Giosuè Carducci. In altre parole, nel frattempo, ci si rassegnerà alla democrazia guidata dai sacerdoti della Resistenza e dell’antifascismo che ci ricordano come la nostra Costituzione si sia ispirata alla solidarietà sociale che la ‘libertà negativa’ pone al servizio della ‘libertà positiva’ e fa della democrazia formale l’abito che deve rivestire il corpo robusto della democrazia sostanziale.

Si racconta che l’ultimo desiderio di un napoletano condannato a morte fosse quello di imparare a suonare il pianoforte: «ce vedimm tra vint’anne!» pare che gli avesse detto Tata maccarone, il Re bonario, spietato solo con i liberali e i costituzionalisti. Se per avere nuovi competenti, nel senso di Cassese, dobbiamo aspettare la completa attuazione dell’art. 38—che poi non si sa cosa significhi giacché quell’articolo non stabilisce un diritto preciso, ad es., all’habeas corpus (peraltro incerto nella nostra Magna Carta) ma delinea un programma—‘campa cavallo’ giacché gli anni di attesa non saranno proprio venti ma qualcuno in più.

No, teniamoci, questa sgangherata e deludente democrazia rappresentativa: come diceva Maurice Chevalier della vecchiaia, una democrazia, pur se malata cronica, è una brutta cosa ma c’è di peggio…: e, in ogni caso, non sappiamo affatto con cosa sostituirla. Se un tecnico di elevato profilo (ma ce ne sono? O meglio esistono davvero tecnici neutrali au dessus de la melée politica? Lo era, forse, Mario Monti? Lo sarebbe Sabino Cassese, Summus Laudator di Gustavo Zagrebelsky?) riesce a ottenere la maggioranza in Parlamento, teniamoci pure il governo del Presidente, anche a me indigesto sotto il profilo etico-politico ma ineccepibile sotto quello giuridico e costituzionale, anche se Lega e M5S per ragioni di bottega sostengono il contrario, giacché in Parlamento i rappresentanti si contano, non si pesano, così come accade, del resto, per i voti depositati dai cittadini nelle urne elettorali. Che se poi le forze politiche dovessero accordarsi sul ritorno alle urne con un’altra, più saggia ed efficace, legge elettorale, non potremmo non intonare il Te Deum!

Postilla sul ‘Foglio’ e Sabino Cassese

Ampi stralci dell’Introduzione di Sabino Cassese al saggio di Jason Berman sono stati pubblicati non da ‘La Repubblica’ o dal ‘Fatto quotidiano’ ma dal ‘Foglio’, un periodico di area liberale. Nessuna censura, per carità: l’azionismo è un momento importante della political culture italica e, con il tramonto del marxismo, è diventato la cultura politica egemone. Ma se Giacomo Matteotti diceva ‘i socialisti coi socialisti, i comunisti coi comunisti’, i liberali–quei pochi sopravvissuti nel nostro paese–dovrebbero dire: ‘i liberali coi liberali, gli azionisti con gli azionisti’. Che un periodico spregiudicato e bucaniere come ‘Il Foglio’—e che nonostante tutto è uno dei pochi giornali italiani che valga la pena acquistare in edicola—non si renda conto che la ‘filosofia del diritto’ di Cassese è la stessa degli Zagrebelsky e dei Rodotà, ovvero è quella filosofia che, per dirla in sintesi, vorrebbe costituzionalizzare i ‘diritti sociali’, è il segno della grande confusione ideologica che da noi continua a inquinare il dibattito pubblico, politico e culturale, e che, forse, risale all’incolpevole Piero Gobetti (incolpevole perché, morto ammazzato troppo giovane, non fece a tempo a elaborare una teoria politica più organica, meno ‘impressionistica’ e più disposta a prendere in considerazione il momento totalitario del comunismo, sia sovietico e leniniano che italiano e gramsciano). Qui non si tratta di essere a destra o a sinistra. Come ho scritto e spiegato tante volte, a sinistra si può essere a favore delle più ardite leggi sociali (anche di una legge che desse gratuitamente una casa a tutti) senza per questo volerle blindare in articoli della Costituzione e, a destra, si può limitare drasticamente, per ragioni di pubblica utilità, il diritto di proprietà, senza riguardarlo come un «terribile diritto» come faceva la buonanima di Stefano Rodotà. Ma voglio spingermi oltre e riconoscere francamente che in politica ci si può alleare strategicamente con tutti anche con la pars politica che fa capo a Sabino Cassese e che lega l’art.48 all’art.3. A patto, però, di non ricadere nella betise del settimanale americano ‘Time’ che, al tempo dell’alleanza con l’URSS, pubblicò in copertina una foto rassicurante di Lavrentij Berija con la didascalia: questo è il capo della NKVD, l’equivalente sovietico dell’FBI. Certo non mi sogno neppure lontanamente di marchiare un sincero democratico come Cassese con la falce e martello ma sarei confortato se qualcuno dicesse: «il re è nudo», Cassese è uno stimato giurista e un grande conoscitore del diritto pubblico e di quello amministrativo—e consideriamolo pure una ‘risorsa della Repubblica’—ma non appartiene certo alla razza di Luigi Einaudi o di Benedetto Croce.




Retoriche istituzionali

Ogni anno il 25 aprile, in Italia, diventa l’occasione per dare fiato alle trombe (ovvero ai tromboni) della Repubblica. Riti e atmosfere sono, sostanzialmente, quelli del vecchio sabato fascista: discorsi esaltanti conditi di speranze tradite ma non tramontate, appelli alle nuove generazioni perché «portino avanti» i valori di quanti contribuirono alla cacciata dello straniero e alla caduta della dittatura fascista, moniti agli amici dei tiranni, ‘mal seme d’Adamo’ che in settant’anni non s’è ancora trovato il modo di debellare. Alla rievocazione delle «giornate del nostro riscatto» seguono sempre regolarmente, passata la festa patriottica e resistenziale, le note dolenti su quanti non sembrano essere stati commossi dalla fusione comunitaria ma soprattutto sui giovani che non sanno nulla di fascismo e di antifascismo, di repubblichini e di partigiani e, quel che è peggio, sembrano ignorare la genesi e la natura della Costituzione italiana.

Alla culture of complaint non poteva non dare il suo contributo il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese, che, da qualche tempo, non c’è giorno che non ci propini distillati di saggezza in articoli e in interviste. Liberissimo di farlo e certo nessuno può dolersi se esercita un diritto sacrosanto—e riconosciuto a tutti i cittadini—di consiglio e di predica. È un diritto, però, che hanno anche i lettori, talora francamente perplessi dinanzi ad affermazioni poco meditate—per non dire brutalmente, infarcite di equivoci e luoghi comuni. Ne è un esempio la breve intervista, È fondamentale Sbagliato non avere insegnanti ad hoc, rilasciata al ‘Corriere della Sera’ il 28 aprile u.s. «L’insegnante di educazione civica—esordisce il professore giurista—oggi potrebbe essere la chiave per aiutare i ragazzi a combattere la diffusione dell’ignoranza e l’orgoglio dell’ignoranza». Un tale insegnante dovrebbe spiegare agli allievi che cosa è stato il fascismo, come esso abbia soppresso le libertà politiche, che cosa abbia rappresentato la Resistenza, perché bisogna fare del 25 aprile il nostro 14 luglio, perché la nostra è la Costituzione più bella del mondo. «Tranne gli istituti tecnici», lamenta Cassese, «l’educazione civica nelle scuole non è stata quasi mai insegnata». Se ne deduce che sono i periti chimici e industriali nonché gli aspiranti ai diplomi di infermiere, ottico, odontoiatra etc. ad avere un alto senso delle idealità repubblicane mentre i liceali di una volta, in mancanza di docenti ad hoc, rischiano di non sapere nulla di Mussolini, Togliatti, De Gasperi etc.

I testi di educazione civica non mancano, rileva Cassese, (esemplare quello di Norberto Bobbio e Franco Pierandrei, Introduzione alla Costituzione), mancano le materie, mancano i professori. «Le persone debbono sapere da dove arriviamo, com’è nata e in quale momento la Costituzione, devono conoscere le tappe principali dell’Italia». Si capisce poco, per la verità, perché questo compito non possa venire affidato ai professori di storia (obbligandoli, semmai, nel corso dei loro studi universitari, a sostenere l’esame di ‘Istituzioni di diritto costituzionale’) e tanto meno perché debbano essere i laureati in Giurisprudenza a illustrare «le tappe principali dell’Italia», dal momento che, nel loro piano di studi, non c’è un solo insegnamento di storia moderna e contemporanea. (Come si vede da certe affermazioni di PM e giudici ordinari, in dichiarazioni alla stampa o in frenetiche interviste). «Non basta spiegare le norme, bisogna immergerle nella vita concreta |…| bisogna far capire come funziona un partito, cosa sono i sindacati, le formazioni sociali come le Ong. E lo si deve fare con i dati statistici». Giustissimo ma non sono questi i ‘saperi’ dei sociologi e degli scienziati politici assenti, come si sa, nelle scuole medie superiori tradizionali?

Un insegnante di ‘educazione civica’ che sia insieme giurista, storico, sociologo, politologo, statistico, conoscitore profondo della ‘vita concreta’ poteva solo essere un parto dell’ideologia italiana da sempre nemica dei settori di studio specifici, richiedenti competenze specifiche. Cassese, indica al suo professore il corretto cammino didattico: «Nella prima lezione li porterei ad assistere a una seduta in Parlamento. Poi li porterei dentro la Corte costituzionale». E fin qui niente da dire purché si trovino insegnanti in grado di far capire alle scolaresche, in visita alle istituzioni, gli arcana del linguaggio giuridico della Consulta e le reali poste in gioco nei dibattiti tra i politici di diverso orientamento alla Camera o al Senato. È la terza stazione di pedagogia civica, invece, a destare qualche perplessità. «Quindi inviterei un sindacalista. Affronterei con loro temi cruciali come l’immigrazione, cercando di far capire perché lo straniero che vive legalmente qui ha diritto all’assistenza, ma non può votare». (Ho cercato di spiegare, in realtà, la ratio di questa presunta contraddizione ma non credo di poter convincere chi scambia i suoi valori per principi iscritti, giusnaturalisticamente, nell’ordinamento del cosmo).

Restiamo sempre, come si vede, nel campo dei ‘massimi problemi’ e di una filosofia dell’educazione all’insegna del saper tutto, che affida al docente la missione di risvegliare le menti, in vista della formazione non del ricercatore cauto, circospetto, tormentato dal que sais je? di Montaigne e dal dubbio scettico di Hume ma del cittadino attivo, ‘impegnato nel sociale’, bene intenzionato, dopo aver conosciuto il mondo—grazie semmai a quattro filmati televisivi—, a cambiarlo.

Siamo sempre lì, la demonizzazione della weberiana Wertfreiheit e dell’illusione di una conoscenza neutrale prelude a una scienza posta al servizio dell’etica, giusta uno stile di pensiero che, dal cristianesimo all’illuminismo, dal fascismo al comunismo impronta tutto il canone occidentale. Che la musica sia questa lo prova l’invito rivolto al sindacalista. Perché solo al sindacalista e non anche all’imprenditore? Non sono entrambi ‘parti sociali’ e la Repubblica non è fondata sul ‘lavoro’—sia manuale che intellettuale—e non sui lavoratori come avrebbe voluto (subdolamente) il PCI? Il sindacalista potrà ben esporre i problemi del lavoro che rientrano nella sua sfera di competenza ma l’imprenditore non potrà fare opera analoga, mostrando di che lagrime grondi e di che sangue fondare e dirigere una fabbrica oggi, con gli enormi condizionamenti costituiti dalle pubbliche amministrazioni, dalle banche, dalle politiche fiscali dei governi? Il fatto è che, per Cassese, le parti sociali non stanno sullo stesso piano giacché i sindacati rappresentano l’interesse generale mentre gli industriali perseguono soltanto il loro utile privato. Se è così, niente da eccepire: ognuno la pensi come vuole. Purché non si finga che lo ‘stile di pensiero’ di una parte politica—quella di Cassese, di Gustavo Zagrebelsky, del compianto Stefano Rodotà e degli odierni teorici dei ‘diritti sociali’— sia quello che deve ispirare le scuole di ogni ordine e grado della Repubblica e formare i cittadini del domani.




Occupazione: cosa è imputabile alla riforma e cosa no

L’ultimo articolo di Luca Ricolfi sugli effetti della riforma del lavoro del 2015 costituisce un contributo prezioso, su di un tema spinoso, all’innalzamento del livello di un dibattito fin qui pesantemente inquinato sia dalla faziosità, sia da un uso dei dati statistici, da tutte le parti in contesa, per il quale l’aggettivo “grossolano” è un eufemismo. In questo dibattito in un paio di occasioni ho commesso anch’io, involontariamente, un errore nella lettura del dato statistico sul numero dei nuovi rapporti di lavoro stabili e di quelli a termine, creati nell’ultimo triennio: è vero che i primi sono più numerosi dei secondi, ma ha ragione Luca Ricolfi quando osserva che essi sono in percentuale inferiore rispetto allo stock che si registrava all’inizio del triennio, determinandosi così una sua sia pur modesta riduzione.

Detto questo, propongo di arricchire il quadro statistico fornito e illustrato da Luca Ricolfi con due dati ulteriori, che mi paiono importanti per una valutazione degli effetti della riforma: due dati entrambi sorprendenti, resi ancor più sorprendenti se considerati congiuntamente. Il primo è quello che vede una sostanziale invarianza, negli ultimi anni, del numero dei licenziamenti in rapporto al numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato in essere, siano essi costituiti prima dell’entrata in vigore della riforma del 2015, o dopo: un dato che obbliga a una riflessione approfondita sul peso relativo che hanno la legge da un lato, dall’altro la cultura diffusa e le relazioni sindacali, nel determinare i comportamenti degli imprenditori e in particolare la loro propensione all’esercizio della facoltà di recedere dal rapporto con i dipendenti. Parrebbe che una riduzione incisiva del vincolo al recesso produca, almeno nel breve periodo, un mutamento del comportamento degli imprenditori molto meno rilevante di quanto ci si sarebbe atteso. Resta da chiedersi se e quanto su questo mancato effetto della riforma pesi la volatilità del dato legislativo e in particolare il rischio di una controriforma a seguito delle prossime elezioni politiche, oppure a opera della Corte costituzionale; e se un mutamento più rilevante debba attendersi nel medio periodo, se la riforma supererà indenne questi due scogli.

Il secondo dato sorprendente, apparentemente contraddittorio rispetto al primo, è quello che dà conto della drastica riduzione del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 – anno nel quale è entrata in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine – e la metà del 2017. I dati forniti dal ministero della Giustizia consentono di quantificare questa riduzione intorno ai due terzi. Gli stessi dati dicono, per converso, che questa riduzione si sta verificando soltanto nel settore del lavoro privato: in quello del pubblico impiego, dove né la riforma del 2012 né quella del 2015 hanno avuto applicazione, il flusso dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo resta sostanzialmente invariato. Il che autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche rigorose, che siano proprio quelle due riforme la causa del fenomeno osservato.

Fonte pietroichino.it

La riduzione del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto di grande rilievo, non solo per l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso. Il tasso di contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama europeo: solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al giudice del lavoro e che dunque il severance cost per entrambe le parti fosse normalmente appesantito dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’orientamento personale del magistrato. Solo in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del sistema delle relazioni industriali.

Il fatto che quell’anomalia stia avviandosi a essere superata, in parallelo con l’allineamento del nostro diritto del lavoro rispetto allo standard prevalente nei grandi Paesi occidentali, costituisce un progresso non disprezzabile nella direzione di una maggiore attrattività dell’Italia per gli investitori stranieri. Che è la precondizione, insieme alla riduzione del debito pubblico e dunque della pressione fiscale, per quella crescita economica senza la quale non può crescere né il potere contrattuale né il benessere dei lavoratori.

Quanto al fatto che il superamento di quell’anomalia non si accompagni a un aumento della frequenza dei licenziamenti, esso ci autorizza forse a ritenere che l’unica categoria in qualche misura danneggiata dalla riforma dei licenziamenti del 2012-2015 sia quella degli avvocati giuslavoristi. Esso dovrebbe comunque convincere anche chi ha a cuore sopra ogni altra cosa la sicurezza e il benessere dei lavoratori dipendenti regolari dell’opportunità che la riforma del lavoro non venga manomessa prima che si siano potuti verificare in modo rigoroso e valutare pragmaticamente i suoi effetti.




Uno spregiudicato, Grasso. Un irresponsabile, Berlusconi

Grazie a Pierluigi Bersani—a mio avviso uno degli sfascisti più catastrofici della storia italiana (e della sinistra) di questi anni—una legione di pretoriani è riuscita in un’impresa che sarebbe stata impensabile nella Prima Repubblica democristiana, quella di ‘piazzare’ alle tre più alte cariche dello Stato—Quirinale, Montecitorio e Palazzo Madama—tre presidenti di parte, nessuno dei quali concordato con l’opposizione. Il fair play ormai è un lontano ricordo: il leone non si riserva la parte più grossa (quia est leo) ma prende per sé tutto il mazzo sapendo di poter contare sulla maggioranza dei voti.

Vedendo le mosse di Pietro Grasso di questi giorni, il suo grande elettore può ben  dirsi  soddisfatto. La prima performance fu l’estromissione dell’ex Cavaliere dal Parlamento grazie all’imposizione del voto palese: un’autentica vergogna giacché si è impedito il voto segreto per sfiducia nella propria base parlamentare–se nessun senatore del centro destra, infatti, avrebbe votato contro Berlusconi, non pochi senatori di sinistra avrebbero potuto obbedire alla loro coscienza e votare a suo favore, senza attenersi alle direttive dei gruppi parlamentari. Oggi si è avuta la seconda, con la scomunica pubblica del PD renziano e la restituzione della tessera. Sennonché quella tessera Grasso non avrebbe dovuto restituirla nel momento dell’elezione alla presidenza del Senato, come gesto simbolico e impegno a tenersi, nell’esercizio dell’alta carica, super partes? In passato, non tutti i titolari delle tre più alte cariche dello Stato hanno dato   prova di ‘stile’, è vero: non hanno abbandonato i rispettivi partiti né Casini, né Bertinotti, né Fini. Sennonché, a parte il fatto che, nello svolgimento delle loro funzioni, Casini, Bertinotti e Fini hanno cercato di far dimenticare le aree politiche  di provenienza (persino Gianfranco Fini–come dimostra il libro non simpatizzante che gli ha dedicato Paolo Armaroli—come Presidente della Camera  non ha demeritato), nessuno dei tre ha fatto sentire la sua voce per delegittimare pesantemente un partito, dicendo agli Italiani che il vero PD non è quello che pretende di essere tale ma quello del suo ‘benefattore’ Bersani.

 Intendiamoci, nessuno vieta a Grasso di scendere in campo—un liberale è decisamente contrario non soltanto al mandato imperativo ma anche a leggi che impediscano agli eletti del popolo di cambiare casacca—ma non può farlo senza deporre nell’armadio la giacca nera dell’arbitro per indossare la maglietta del giocatore. Mi rendo conto che a ragionare in termini di buon gusto e di correttezza etica in un periodo in cui conta solo il reato accertato dal tribunale e la colpa morale è relegata, come il peccato, nella privacy, si corre il rischio di abbaiare alla luna ma ricordare i codici del ‘mondo di ieri’ forse può configurarsi come un nuovo dovere civico.

 In questo mondo di iene e di sciacalli, è passata inosservata una notizia alla quale ha dato ampio risalto domenica scorsa il quotidiano ‘Libero’ con un articolo di Renato Farina, Sostenere Grasso per colpire Renzi. La tentazione (pericolosa) del Cav. Farina è un giornalista che non mi piace: il suo antirisorgimentismo, il suo tradizionalismo cattolico quasi lefevriano, il suo eccessivo gusto per il politicamente scorretto sono irritanti, almeno per un liberale ottocentesco come me, ma la sua denuncia di un centro-destra pronto, su ordine di Berlusconi, «a far di tutto, pur di facilitare la caduta di Renzi, allo scopo di favorire il consolidamento politico del presidente del Senato  alla testa di una sinistra di sapore comunista e giustizialista» me l’ha fatto apparire come il protagonista del Rinoceronte di Ionesco, l’unico ad essersi mantenuto lucido in una congrega politica  resa fin troppo euforica dal voto siciliano. Giustamente Farina ha ricordato il Kaiser che nel 1917 finanziò la rivoluzione bolscevica, Carter che nel 1979 armò Bin Laden per sconfiggere i sovietici in Afghanistan.« Così non va—ha rilevato—Non è roba liberale, non è lealtà, non porta bene la logica comunista del tanto peggio tanto meglio».

 Non è solo questione di lealtà, tuttavia. Ammettiamo pure che la sinistra antirenziana riesca a spaccare l’attuale PD e che, accanto al vecchio, se ne formi uno nuovo—in sostanza, una riedizione di Rifondazione comunista—di pari entità, quale vantaggio ne trarrebbe il paese? Se assieme—ipotesi dell’irrealtà—i due tronconi della sinistra ottenessero la maggioranza dei seggi parlamentari, che probabilità avrebbe il vecchio di impedire al nuovo di cancellare le poche leggi buone fatte nella breve era renziana? E se il partito antirenziano—rafforzato anche dalla desistenza berlusconiana– potesse far maggioranza col M5S, non sarebbe il trionfo del giustizialismo più disinibito e non comporterebbe per l’ex Cavaliere la ricerca di una sua Hammamet?

 Renzi gioca (malamente) la carta del riformismo socialdemocratico, il centro-destra gioca (o dovrebbe giocare) la carta del riformismo liberale: nemici oggettivi di entrambi sono gli antiriformisti della destra populista e della sinistra neo-massimalista—contro i quali potrebbero essere costretti, centro-destra e centro-sinistra, a coalizzarsi un domani non lontano, seguendo, d’altra parte, un trend europeo ben illustrato recentemente da Sergio Fabbrini sul ‘Sole-24 Ore’. La strategia che ha in mente Berlusconi–se Renato Farina non s’è inventato il foglio d’ordini partito da Arcore—non è la riprova del suo machiavellismo .Machiavelli si rivolterebbe nella tomba sapendo che un uomo politico per eliminare un competitore che gli contende il potere, favorisce l’avversario del suo avversario ovvero un estremista che una volta al governo, gli toglierebbe non solo il potere, ma anche la libertà, i beni e la vita).La strategia di Berlusconi, in realtà, è solo la riprova  della sua irresponsabilità—che rischia di rimanere l’unica caratteristica che lo accomuna ai giovani.