Il rispetto – vincolante – del precedente giurisprudenziale: solo una provocazione?

Negli ultimi tempi nel nostro Paese è avvertita, da molti se non da tutti, la necessità di procedere alla riforma – tra le altre – della giustizia. Ed in effetti, le ultime vicissitudini del Csm, la per lo più generalizzata constatazione dell’enorme potere esercitato dalle Procure, il perdurante circuito mediatico-giudiziario, a cui fa da contraltare l’intollerabile lungaggine dei processi civili e la frequente invasione di campo dei TAR, deporrebbero a favore dell’improcrastinabilità della riforma.

Dopo di che, in quale direzione si debba effettivamente andare, al di là di generiche prese di posizione riguardo alla necessità di moralizzare e rendere più efficiente il sistema, oltre all’immancabile litania sulla digitalizzazione, non è dato sapere.

Sospetto che la questione sia purtroppo ancora un po’ più complicata di come viene generalmente posta. Ritengo – ma pare che si tratti di un’opinione non troppo condivisa – che il problema investa la stessa natura del potere giudiziario e la tradizionale teoria della divisione dei poteri: se si parte dalla premessa che il potere giudiziario – seppur privo di ogni forma di investitura e legittimazione popolare – è potere del tutto autonomo, in particolare da quello politico e legislativo, è evidente come per giustificare le decisioni assunte dal Csm quale organo di autogoverno dei giudici bisogna appellarsi a criteri vaghi orientati al moralismo. Analogo discorso vale per le decisioni prese dai giudici nello svolgimento delle loro funzioni istituzionali: a chi rispondono?

Ma forse c’è ancora di più. Dalle nostre parti, vale per la cultura giuridica accademica ma anche per il sentire comune, per l’opinione dell’uomo della strada, per governare una collettività è condizione essenziale – si pensa – produrre regole, che saranno evidentemente nuove, emanare leggi, legiferare.

E’ quello che gli addetti ai lavori chiamano giuspositivismo, che è un tratto comune della storia giuridica dell’Europa continentale e che risale al processo di codificazione degli stati nazionali ed ha poi trovato nuovo impulso nei principi della rivoluzione francese: il diritto è il prodotto dell’attività legislativa, la legge e i codici. Nulla preesiste, di giuridicamente vincolante, alla produzione legislativa, che interviene a disporre quello che è giusto o sbagliato facendo tabula rasa dell’assetto precedente, ipotizzando e presumendo di poter di volta in volta illuministicamente plasmare una società nuova e migliore. Chi la pensa diversamente è un ingenuo, che ancora non ha capito la differenza tra il diritto, che solo ha validità ed efficacia vincolante erga omnes, e le convinzioni morali e personali di ciascuno.

Ma è realistico pensare che per governare una comunità, con la sua storia, le sue tradizioni, il suo senso di appartenenza, si possa ogni volta tirare una riga su comportamenti ritenuti leciti fino ad un istante prima, modificare repentinamente e bruscamente convinzioni ed abitudini, disattendere affidamenti?

Forse non è necessariamente così. Le persone sanno in genere cosa è giusto e cosa è sbagliato, quello che si deve o non si deve fare: nelle famiglie non ci sono disposizioni scritte per regolare i comportamenti dei propri membri (se mia figlia non vuole fare i compiti probabilmente devo evitare di fornirle un accurato decalogo con l’indicazione delle punizioni conseguenti); nei posti di lavoro, se il clima è buono e produttivo non c’è bisogno di regole di condotta dettagliate; sull’autobus, la buona educazione è forse più importante delle minuziose condizioni generali del contratto di trasporto; la pedante normativa anticorruzione – che sostanzialmente si risolve nella richiesta agli interessati di una sorta di autocertificazione di virtuosità – garantisce effettivamente dai comportamenti illeciti?

Probabilmente è allora arrivato il momento di provare a fare qualche riflessione più generale. Storicamente, la stessa nozione di diritto per come la intendiamo noi oggi è un’invenzione degli antichi romani. Ebbene, per i romani, le norme che disciplinano una comunità, una città, non vengono create dal legislatore, ma preesistono e vengono in qualche modo rinvenute dai giudici così come un linguista codifica le regole grammaticali dall’effettivo uso che ne fa chi parla e scrive una certa lingua. Le collettività, per funzionare, hanno bisogno di comportamenti reiterati e regole potremmo dire immanenti, che si creano e perfezionano nel tempo in una sorta di moto browniano di tutti i soggetti che fanno parte di quella comunità (che ricomprende gli antenati, i presenti e quelli ancora non nati), sulla base di senso di appartenenza, convinzioni religiose e morali, aspettative di reciprocità, timori di riprovazione sociale.

Non è forse un caso che, a distanza di tempo, la modernità, per come la conosciamo oggi, abbia la forma degli ordinamenti anglosassoni.

Anche da quelle parti il diritto, le regole, ciò che è giusto o sbagliato, è per buona parte consuetudinario e prescinde dalla contingenza dell’attività legislativa. Così come per i prati all’inglese – per cui serve prendere un terreno, dissodarlo ed irrigarlo per qualche centinaio d’anni -, allo stesso modo la convivenza sociale si basa su principi secolari, sul rispetto delle libertà individuali fondamentali e dei principi di correttezza e buona fede nei contratti e negli affari – la fairness – che spesso prescinde dalla formalizzazione scritta, realizzandosi invece una lenta e costante opera di rinvenimento e sistematizzazione da parte dei giudici in ossequio al fondamentale rispetto del precedente.

Ecco, il rispetto del precedente. E’ un principio generale dei sistemi di common law, in forza del quale il giudice è obbligato a conformarsi alla decisione adottata in una fattispecie precedente, nel caso in cui la vicenda portata al suo esame sia identica o simile a quella già trattata.

In fondo, non è un meccanismo troppo dissimile da quello – a cui si accennava sopra – utilizzato dal linguista: sul dizionario Devoto – Oli una certa definizione di un dato termine viene censita quando ne viene registrato un uso costante da parte degli utilizzatori; analogamente, le regole grammaticali altro non fanno che recepire gli usi (una certa costruzione sintattica è corretta perché consolidata nel parlare comune). Ebbene, esattamente allo stesso modo nei repertori giurisprudenziali vengono catalogate le pronunce dei giudici che di fatto recepiscono le valutazioni – in termini di liceità o meno – su determinati comportamenti (se una data condotta è giusta, se una certa violazione determina un obbligo di risarcimento, ecc.), ed a cui quindi riferirsi per le definizioni di liti future.

Nella mia esperienza di giurista pratico, capita regolarmente che il cliente chieda se un dato comportamento è lecito e/o consentito o meno, se una certa cosa si può o meno fare. E’ in definitiva la – fondamentale – domanda che le persone si pongono. Solo che, a differenza che altrove, nel nostro ordinamento per lo più non si riesce a rispondere, se non illustrando una serie infinita di distinguo (a Genova per il Tribunale questa cosa si può fare, ma la Corte d’Appello è di diverso avviso, il dato Giudice ha una posizione particolare, bisogna poi vedere cosa dice la Cassazione, però c’è un orientamento minoritario che …, ecc.): è insomma il regno del latinoroum dell’azzeccagarbugli.

Vige in particolare nel nostro ordinamento l’idea (che ha un fondamento costituzionale: il giudice è soggetto soltanto alla legge in base all’art. 101 Cost.) che la soluzione della controversia e la conseguente pronuncia giurisdizionale – la cui fondamentale qualità dovrebbe consistere nella sua prevedibilità (oltre che celerità), per garantire giustizia sostanziale ed efficienza del sistema – debba invece essere originale, riconoscere sempre nuovi (asseriti) diritti e percorrere strade ancora non battute.

Dalle nostre parti il precedente giurisprudenziale è uno solo tra i tanti argomenti che vengono utilizzati (lo spirito della legge, la volontà del legislatore, l’argomento sistematico, quello teleologico, ecc.) e – in ogni caso – il rispetto di tale principio non è assolutamente ritenuto vincolante: ogni giudice è libero di interpretare il dato normativo e di risolvere la controversia a lui assegnata come ritiene più opportuno, con una decisione di fatto scarsamente verificabile.

Insomma, tirando le fila del ragionamento, nell’Europa continentale, ed in particolare nel nostro Paese, assistiamo a due fenomeni che si sovrappongono e concorrono nel determinare una complessiva arbitrarietà e frammentarietà del sistema giudiziario: da una parte il potere giudiziario è considerato potere costituzionale autonomo, seppur privo di ogni forma di investitura e legittimazione popolare, e non si capisce bene a chi debba rispondere; dall’altro, anche in ragione dell’idea giuspositivistica per cui il diritto è il prodotto dell’attività legislativa, la legge e i codici, e nulla preesiste, di giuridicamente vincolante, alla produzione legislativa (sovrabbondante e spesso schizofrenica), ogni singolo giudice è soggetto soltanto alla legge e non è obbligato a conformarsi alla decisione adottata in una fattispecie precedente (in definitiva, alle convinzioni e alle abitudini della comunità), nel caso in cui la vicenda portata al suo esame sia identica o simile a quella già trattata.

Siamo sicuri che, con queste premesse, i problemi della giustizia in Italia si risolvano con la sempre auspicata digitalizzazione?

Sarebbe invece opportuno fare qualche riflessione di carattere più generale e si potrebbe ad esempio iniziare dal considerare il rispetto vincolante del precedente giurisprudenziale non più come un taboo.




Le possibili ragioni dell’insistenza del Ministero della Salute sulla questione dei protocolli di cura domiciliare del Covid.

Ha destato un certo scalpore sui social media la notizia che AIFA e Ministero della Salute hanno impugnato – con esito positivo – la sospensiva concessa dal TAR sul famoso protocollo “Tachipirina e vigile attesa” per il trattamento dei casi di Covid. Il TAR, sospendendo il protocollo in via provvisoria con una decisione d’urgenza, aveva infatti in prima battuta lasciato liberi i medici di trattare simili casi in scienza e coscienza senza rischiare l’aggravio in termini di possibile responsabilità professionale derivante dal fatto di essersi discostati dai protocolli indicati dal Ministero. Tutto sommato, la sospensiva poteva essere considerata un risultato accettabile per il Ministero, che avrebbe potuto lasciar fare, sostenendo di voler rispettare la decisione dei giudici, lavandosi in tal modo le mani dall’accusa di voler mantenere a tutti i cosi un protocollo assai criticato. E invece Ministero e AIFA hanno insistito, impugnando la sospensiva dinanzi al Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso, con l’effetto di rimettere Speranza sul banco dei “cattivi” che non vogliono curare la gente. Perché dunque tutta questa insistenza, quando la decisione del TAR avrebbe in certo modo levato le castagne dal fuoco anche al Ministro?

A prima vista si potrebbe pensare che tratti dell’ennesimo esempio della inveterata tendenza dei nostri politici, quando si rendono conto di aver commesso un errore, a perseverare nell’errore (in modo da sostenere di non aver sbagliato) invece che assumersene la responsabilità dinanzi agli elettori, tentando di rimediare. Speranza avrebbe insomma semplicemente difeso il suo operato passato per non indebolirsi politicamente. Esiste tuttavia una lettura alternativa della vicenda, nel senso che l’insistenza nella difesa dei protocolli di “non cura” potrebbe in realtà dipendere dalla necessità di tutelare interessi assai più importanti rispetto alla “tenuta politica” di un ministro. Ma per capire quali potrebbero essere questi interessi occorre partire dall’analisi del contenuto della decisione del Consiglio di Stato che ha annullato la sospensiva del TAR. In particolare va sottolineato che il Consiglio di Stato ha espressamente affermato che va in ogni caso salvaguardata la liberta dei medici di curare in scienza e coscienza il Covid, di guisa che l’unico vero effetto della decisione di annullare la sospensiva è quello di non far venire meno l’efficacia giuridica del protocollo “tachipirina e vigile attesa”. Quel protocollo, dunque, oggi esiste e non esiste allo stesso tempo: esiste formalmente in quanto non ne è stata sospesa l’efficacia, ma non esiste sul piano degli effetti sostanziali perché il Consiglio di Stato ha anche sostenuto che non deve considerarsi vincolante per i medici. Perché dunque questo bizantinismo? Per capirlo occorre guardare altrove, in particolare al contenuto dei regolamenti relativi alle autorizzazioni al commercio dei farmaci (e dunque dei vaccini), per capire che in realtà l’effetto del protocollo che il Consiglio di Stato ha “salvato” si colloca su un piano differente rispetto a quello della responsabilità medica.

Come è noto, le autorizzazioni all’immissione in commercio dei vaccini Covid (di tutti i vaccini Covid attualmente presenti sul mercato dei paesi UE) sono autorizzazioni cosiddette “condizionate”. Per quanto la vulgata sostenga che si tratti di vaccini “sperimentali”, in realtà i vaccini in questione sono stati sperimentati, ma in misura non sufficiente per generare la documentazione ritenuta idonea – in condizioni normali – perché l’EMA (ossia l’agenzia europea del farmaco) conceda l’autorizzazione al commercio. Diciamo dunque che si tratta di vaccini sperimentati, ma non abbastanza per gli standard dei tempi ordinari. I regolamenti comunitari prevedono tuttavia che si possa comunque autorizzare la commercializzazione di farmaci (e dunque di vaccini) per i quali il fascicolo sperimentale non è ancora completo, a patto che vengano rispettate una serie di condizioni, tra le quali vi è quella della necessità e urgenza del trattamento sanitario corrispondente. L’autorizzazione subordinata a condizioni serve in altre parole a rendere prioritaria una procedura di autorizzazione, in modo da sveltire l’approvazione di trattamenti e vaccini ad esempio durante situazioni di emergenza per la salute pubblica. In particolare il regolamento UE sulle autorizzazioni dei medicinali prevede che una autorizzazione condizionata possa essere concessa – sulla base di dati meno completi di quelli normalmente richiesti – per farmaci che rispondono a una esigenza medica non soddisfatta adeguatamente da altre terapie.

Il concetto di “esigenza medica non soddisfatta” ovviamente significa – in parole povere – che non deve esistere già una cura alternativa ritenuta efficace per la malattia. Se dunque una cura alternativa efficace esistesse per il Covid – e, in particolare, se il Ministero della salute o l’AIFA riconoscessero ufficialmente che una cura efficace esiste, ecco che metterebbero a rischio la validità delle autorizzazioni condizionate all’immissione al commercio dei vaccini, per mancanza di una condizione essenziale, rappresentata appunto dall’esigenza medica non soddisfatta. E, si badi, anche se AIFA e Ministero non ritirassero le autorizzazioni in questione (eventualmente sostenendo che solo l’Agenzia Europea del Farmaco abbia il potere di farlo), da un lato avrebbero creato un imbarazzo all’EMA e, dall’altro, permarrebbe il rischio che qualunque soggetto interessato potrebbe agire dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per far dichiarare nulle le determinazioni AIFA che hanno rese efficaci in Italia le autorizzazioni (condizionate) concesse a dall’Agenzia Europea del Farmaco sui vari vaccini. Per farla breve: se si trovasse davvero una cura per il Covid certificata come efficace da qualche Ministero della salute di uno stato membro dell’UE, potrebbe venire giù tutto il castello costruito sulla ricetta europea “lockdown fino ai vaccini” – verosimilmente decisa nell’aprile del 2020 in un incontro dei governi dei maggiori paesi UE – che tanti disastri (economici e forse non solo) ha sinora provocato nel vecchio continente. Il che sarebbe uno smacco clamoroso per l’UE e per le forze politiche che tanto si sono spese per appoggiare l’approccio vaccinale (e dunque chiusurista) di reazione al Covid. Ma non basta ancora: se venissero meno per quella ragione le autorizzazioni al commercio dei vaccini, gli stati si troverebbero anche nella scomoda situazione di dover pagare miliardi di euro alle case farmaceutiche per l’acquisto di vaccini che non potrebbero poi neppure somministrare ai loro cittadini. E qui sarebbe la Commissione Europea a finire inevitabilmente sulla graticola, accusata dagli stati membri di aver fatto loro spendere un mucchio di danaro per nulla.

Questa lettura spiegherebbe del resto bene anche perché il Ministero – nell’accingersi a rivedere il protocollo della tachipirina e vigile attesa – si sia premurato, a quanto pare, di chiamare solo esperti contrari alle cure domiciliari e dunque favorevoli al vecchio schema. Anche qui – infatti – la ragione per l’adozione di un nuovo protocollo potrebbe non essere quella di verificare se davvero, e come, si può curare la malattia precocemente in modo efficace (con l’effetto di sgravare le strutture ospedaliere della pressione generata dai ricoveri dei malati di Covid), ma semmai poter continuare a sostenere ufficialmente che le varie cure domiciliari sinora proposte non sarebbero efficaci, in modo da poter continuare a sostenere che rappresenti ancora una “necessità medica” la somministrazione di massa di vaccini autorizzati solamente in via condizionata.

Sotto questo profilo l’azione del Ministero – e dell’AIFA – appare particolarmente ben congegnata. Il semplice fatto di adottare un nuovo protocollo di cure consentirebbe infatti di far decadere l’azione di annullamento già pendente davanti al TAR: se viene adottato un nuovo protocollo, il vecchio decade. E se decade il vecchio protocollo, viene meno automaticamente – per sopravvenuto ritiro dell’atto amministrativo – il procedimento di annullamento di quell’atto già pendente davanti al TAR. In questo modo cesserebbe il rischio che un giudice, rendendo la sentenza definitiva, sostenga “ufficialmente” che esistono delle cure efficaci per il Covid. Dunque, la direzione in cui si stanno muovendo sia il Ministero che l’AIFA è verosimilmente quella di ottenere una sospensiva dell’ordinanza cautelare del TAR, in modo da avere il tempo – prima della fine del processo di merito davanti allo stesso TAR – di adottare un nuovo protocollo che, per il semplice fatto di essere adottato in sostituzione del vecchio, faccia decadere l’azione pendente contro il vecchio protocollo. Il tutto facendo al contempo in modo che il contenuto del nuovo protocollo adottato dal Ministero sia tale da consentire ancora di sostenere che “ufficialmente” non esistono terapie efficaci contro il Covid, così da non creare i presupposti giuridici perché terzi possano attaccare dinanzi al TAR (o all’EMA) le autorizzazioni al commercio condizionate dei vaccini. Tutto questo sino al momento in cui le case farmaceutiche non avranno completato le sperimentazioni necessarie per presentare all’EMA la documentazione completa per ottenere una autorizzazione ordinaria al commercio dei vaccini.

Questa potrebbe dunque essere la vera ragione per cui il nostro Ministero della salute si è tanto speso in passato (e ancora oggi insiste) per non curarci dal Covid. La prova del nove – del resto – potrebbe arrivare appunto quando, a test clinici ultimati, saranno concesse dall’EMA le autorizzazioni definitive al commercio dei vaccini. Se a partire da quel momento il Ministero inizierà a dire che invece è possibile curare efficacemente il Covid, sarà chiara la ragione per cui in precedenza non l’ha mai voluto ammettere.




Il Csm, la sovranità popolare e la rule of law

Siete mai riusciti a spiegare ai vostri figli, quando studiano educazione civica alle medie, in che cosa consiste esattamente il principio costituzionale della separazione dei poteri dello Stato? Che cosa vuol dire, ad esempio, che il Governo, il potere esecutivo, “esegue” le leggi? E poi, se – com’è naturale – la sovranità appartiene al popolo, che si esprime tramite le elezioni ed elegge i propri rappresentanti in Parlamento, com’è possibile che i giudici, il potere giudiziario, tragga la propria legittimazione in maniera autonoma e svincolata dalla sovranità popolare?

Se le cose non si riescono a spiegare probabilmente è perché non sono chiare.

Ed infatti, ci sono fondamentalmente due modi di intendere la cd. dottrina della separazione dei poteri.

La prima è quella che riconosce come opportuno e saggio – per prevenire abusi e derive autoritarie – che il potere politico sia sottoposto a reciproci condizionamenti.

Si tratta di considerazioni di carattere antropologico ancor prima che di ordine politico e tecnico-giuridico, diffuse già a partire dalla Grecia classica (Platone aveva teorizzato la necessità di forme di indipendenza dei giudici). Sono temi poi ripresi dalla tradizione anglosassone, dalla Magna Charta alla Gloriosa rivoluzione inglese e a John Locke, fino ai checks and balances dell’esperienza costituzionale statunitense; insomma, parliamo del fondamento stesso degli ordinamenti liberali occidentali.

Altra cosa è la sclerotizzazione del principio della separazione dei poteri, tradizionalmente fatto risalire all’opera di Montesquieu e al suo Spirito delle leggi e alla Rivoluzione francese.

Ed infatti, se anche per Montesquieu il potere giudiziario sarebbe concettualmente neutro (i giudici intesi come “bocca della legge”), in realtà fin da subito si assiste negli ordinamenti continentali ad una sorta di autolegittimazione da parte della classe giudiziaria – in origine costituita dai nobili – di fatto contrapposta al corpo elettorale e ai suoi organismi rappresentativi.

Il fenomeno è abbastanza stupefacente e, almeno nel dibattito italiano, non sufficientemente – se non per nulla – analizzato.

Tornando ai manuali di educazione civica su cui studia mia figlia alle medie, i tre poteri costituzionali, legislativo, esecutivo e giudiziario, sono – si dice – pariordinati e reciprocamente autonomi. Ma come ciò si concili con la generale affermazione (art. 1 cost.) secondo cui la sovranità appartiene al popolo non è dato sapere.

Non così succede, invece, nell’ordinamento britannico, dove è fondamentale la cd. rule of law, intesa come assoluta prevalenza della legge, del diritto comune, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario. Ciò è tanto vero che da quelle parti, pur essendo avvertita la necessità di contenere e contemperare i pubblici poteri (i famosi checks and balances), la dottrina della necessità costituzionale della separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – ritenuta immanente negli ordinamenti continentali, è sostanzialmente sconosciuta.

Per intenderci, in Inghilterra i giudici (storicamente distinti dalla pubblica accusa) sono tradizionalmente nominati da parte del Lord Cancelliere tra i migliori avvocati del regno, e non esiste qualcosa di comparabile alla classe giudiziaria come la conosciamo ad esempio in Italia con organi di autogoverno e rappresentanze sindacali.

E non è un caso che il sistema britannico non conosca neppure un sindacato di legittimità costituzionale operato da un organo giudiziario, che rappresenta invece la normalità nell’Europa continentale. Insomma, la volontà popolare, che si esprime tramite i propri organi rappresentativi, non è messa sotto tutela da un organismo giudiziario, a cui spetta di dire se un tale provvedimento legislativo è costituzionalmente legittimo, ovvero – in soldoni – se è giusto o meno.

Allo stesso modo, in America i giudici e i magistrati o sono eletti dal popolo o sono nominati dal presidente federale eletto. C’è sempre una relazione tra la politica e la loro scelta.

Che cosa c’entra tutta questa pappardella con le vicissitudini del Consiglio Superiore della Magistratura di queste ultimi tempi? Beh, se si parte dalla premessa che il potere giudiziario in Italia – seppur privo di ogni forma di legittimazione ed investitura popolare – è potere del tutto autonomo, in particolare da quello politico e legislativo, è evidente come per giustificare le decisioni assunte dall’organo di autogoverno dei giudici bisogna far riferimento a forze tradizionalmente fuori dagli abituali settori di indagine del diritto costituzionale quali lo spirito santo e la cicogna.

Invece, come si dovrebbe sapere, il potere terzo ed autonomo è un po’ come lo sporco impossibile: non esiste.

Sarebbe forse il momento di provare a dire anche da noi che una collettività, una comunità si governa ed amministra – anche per quanto riguarda le decisioni riguardanti la nomina dei giudici – attraverso la proiezione di comportamenti, interessi e valori sufficientemente condivisi che trovano rappresentanza e sintesi attraverso la formazione e selezione di una classe politica, tramite elezioni ed organismi rappresentativi: è, appunto, la rule of law, intesa come prevalenza della legge, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario.

Scorciatoie – al di fuori di derive corporative e di condizionamenti opachi – non ce ne sono.




Brevetti su standard essenziali e shortage di vaccini Covid.

Per questo contributo al sito della Fondazione torno a parlare di diritto, anche se di questioni legali che hanno a che fare col covid. Parto dalla considerazione che l’Italia ha pochi vaccini, in sostanza c’è (ma il discorso vale forse anche per il resto dell’Europa) un surplus di domanda rispetto all’offerta; il che – ovviamente – favorisce l’offerta. Di qui la stipulazione di contratti troppo favorevoli ai titolari dei vari brevetti sui vaccini (che, ovviamente, sono tutti brevettati). Sennonché l’Italia è uno dei principali fabbricanti di farmaci generici d’Europa, dunque avrebbe tutte le potenzialità per produrre da sé i vaccini che gli servono. Ovviamente, per farlo servirebbe il consenso dei titolari del brevetti. Ma siamo davvero sicuri che sia così?

Forse no. I giudici di tutta Europa – Corte di Giustizia UE inclusa – conoscono infatti l’istituto dei brevetti sui cosiddetti standard essenziali (standard essential patents o SEP). Il SEP è un brevetto che copre una tecnologia che è stata inserita, da un ente certificatore, nell’elenco di quelle necessarie per realizzare un certo tipo di prodotto (ad esempio di telefonia mobile). Questa situazione attribuisce al titolare del brevetto un potere di mercato assai maggiore – dunque sproporzionato – rispetto all’effettivo valore della singola tecnologia brevettata. L’esistenza dello standard e l’essenzialità delle tecnologie brevettate necessarie per realizzare prodotti conformi, in altre parole, crea un posizione dominante collettiva di cui beneficiano tutti quanti i titolari dei SEP necessari per realizzare un prodotto che rientri nello standard medesimo. E delle posizioni dominanti, anche se derivano da legittimi diritti esclusivi di proprietà industriale o intellettuale, non si può mai abusare, altrimenti si violano le norme antitrust.

Proprio per questa ragione le corti degli stati europei hanno iniziato a sostenere che – per i SEP – non vale il normale diritto di esclusiva brevettuale “pieno”, bensì un diritto “attenuato”, nel senso che chi intende utilizzare un SEP per realizzare un prodotto che rientri nello standard, ha la facoltà di chiedere al titolare una licenza non esclusiva a condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie (fair, reasonable and non-discriminatory, di qui – appunto – l’acronimo FRAND). Se il titolare del brevetto rifiuta una offerta che rispetta i criteri FRAND, il giudice di fatto ha il potere di “paralizzare” il diritto esclusivo del titolare, in quanto abuso di posizione dominante, non emettendo provvedimenti restrittivi che impediscano al terzo di attuare il brevetto e, nella causa relativa ai danni, condannerà il terzo solo a pagare il canone FRAND, evitando di gravarlo di spese processuali o di costi ulteriori. Inutile dire che, in una simile situazione, il titolare non avrà interesse a continuare a litigare con il possibile licenziatario, ma concederà una licenza a condizioni ragionevoli. Questo schema è stato avallato anche dalla Corte di Giustizia UE, dunque può dirsi ormai acquisito come fonte di principi generali validi sia in Italia che negli altri paesi UE.

Lasciando per un attimo sullo sfondo la questione – peraltro assai importante – della individuazione dei criteri per definire la equità e ragionevolezza del canone di licenza (questione su cui sia la dottrina che i giudici non sono ancora unanimi), possiamo concentrarci sul principio ispiratore di questo genere di licenze, per verificare che si tratta di strumento che intende rimediare ad un problema che presenta una stretta analogia con la situazione dei vaccini Covid. Anche per i vaccini, infatti, abbiamo a che fare con imprese (oltretutto grandi imprese) che – a causa dell’emergenza pandemica – sono titolari di brevetti il cui oggetto ha un valore di mercato assai maggiore (e dunque sproporzionato) rispetto all’oggettivo contenuto tecnologico di quello che, in fin dei conti, è un vaccino contro una nuova variante influenzale. I titolari dei brevetti sui vaccini in questione sono dunque in posizione (contingentemente) dominante rispetto alla domanda di vaccino da parte degli stati. Il che potrebbe giustificare l’applicazione per analogia della dottrina dei SEP anche ai brevetti sui vaccini covid, con conseguente possibilità per chiunque intendesse realizzare quei vaccini, di farlo alla sola condizione di essere disposto ad offrire ai titolari dei brevetti di accettare una licenza non esclusiva con canone e a condizioni FRAND.

Siccome, come si diceva, in Italia abbiamo tanti fabbricanti di farmaci generici, lo stato (o eventualmente anche le regioni, da cui dipende la sanità pubblica) potrebbe allora commissionare alle imprese nazionali che hanno le capacità tecnologiche e produttive la realizzazione dei vaccini covid, al fine di acquistarli e distribuirli alla popolazione, dichiarandosi al contempo disposto a corrispondere ai titolari dei relativi brevetti – in luogo dei fabbricanti – una royalty FRAND. Ovviamente far ciò significherebbe scavalcare l’UE nella gestione dei vaccini, però – se davvero, come in tanti dicono, siamo “in guerra” – lo stato di eccezione dovrebbe poter valere anche per derogare “verso l’alto” alle norme unioniste e non solo per derogare alle regole (anche costituzionali) che, verso il basso, tutelano le libertà fondamentali dei cittadini. E tutto questo a maggior ragione tenendo conto del fatto che la gestione dei contratti di fornitura dei vaccini tra UE e case farmaceutiche è stata, non solo poco trasparente, ma anche assai deludente.




Il Covid come otto settembre del liberalismo italiano

Non serve il comitato tecnico scientifico per capire che il tasso di mortalità causato dal virus tra i liberali è prossimo al 100%.

Quello che mi ha più colpito nel “fenomeno covid”, considerato nel suo complesso (vale a dire come fenomeno sociale), è la pressoché totale assenza, in Italia, di intellettuali o commentatori capaci di mettere in dubbio l’opportunità delle limitazioni di libertà personale imposte dal Governo per rimediare all’emergenza sanitaria per il solo fatto che, appunto, i poteri pubblici abbiano imposto dei forti limiti ad alcune libertà fondamentali dei cittadini. E se dico in Italia è perché ad esempio in Svizzera è stato addirittura lo stesso Consiglio Federale (il massimo potere esecutivo a livello nazionale) a chiarire all’inizio della pandemia – verosimilmente per evitare che i Cantoni procedessero con lockdown locali in ordine sparso – che si potevano sì limitare le attività economiche entro certi limiti e con certi criteri, ma che non era possibile ad esempio limitare la libertà di circolazione dei cittadini, in quanto si trattava di un diritto garantito dalla Costituzione svizzera (che, è bene ricordarlo, è una delle ultime costituzioni autenticamente liberali esistenti nel vecchio continente).

Nell’UE, in compenso, nello stesso momento in cui volavano gli stracci sullo stato di diritto che sarebbe stato violato da Polonia e Ungheria, era (ed è) tutta una gara a chi chiude di più (sia saracinesche che gente in casa). Una gara in cui l’Italia, secondo quel che ci raccontano in numeri, sta riuscendo a guadagnarsi un poco ambito podio sia per la mortalità che per il calo di PIL, essenzialmente per il fatto di aver preteso di affrontare il problema senza potenziare in estate i presidi di cura e le strutture sanitarie, obbligando le imprese a dotarsi di misure di sicurezza per poi spargere lockdown estemporanei – a singhiozzo e di varia intensità – con preavvisi di un paio di giorni. A settembre il Presidente del Consiglio annunciava solennemente che escludeva ogni lockdown, per poi invece disporlo a ottobre. A ottobre raccontava che chiudevano in autunno per lasciarci liberi a Natale e capodanno, per poi chiudere tutto da Natale all’epifania. A Natale ci hanno raccontato la nuova favola che chiudevano per poter ripartire a Gennaio ed invece le restrizioni “a colori” stanno proseguendo, anzi mettendo dei criteri più restrittivi di prima. Pochi giorni fa il ministro Speranza ha parlato addirittura di “alcuni mesi” di misure restrittive e qualche esperto televisivo (spero in vena di battute) prevedeva “anni” di mascherina obbligatoria.

Il tutto sulla base di criteri definiti come “scientifici” ma assai poco chiari e ancor meno chiaramente illustrati, con decisioni prese a distanza di qualche giorno in un crescendo rossiniano, dunque forse più sull’onda delle continue gufate televisive o sulla carta stampata dei soliti tre o quattro virologi da passerella che non sulla base di una oggettiva e fredda valutazione dei risultati delle misure precedenti. E come non menzionare i verbali secretati e il clima generale di opacità che fa a pugni con l’obbligo di motivazione degli atti amministrativi e con l’esigenza di trasparenza dell’azione di governo. Se c’è insomma un modo per riuscire – in sol colpo – a maltrattare la costituzione, a stendere l’economia del paese e a far venire l’esaurimento nervoso ad un popolo, senza in compenso ottenere risultati apprezzabili sotto il profilo sanitario, credo che il governo Conte secondo lo abbia trovato. Anzi, a Caporetto in corso era tutto un vantare il “modello Italia” (che in realtà è un modello sì, ma forse di cosa non fare), aggiungendo dunque anche la beffa ai danni recati al paese.

La Germania invece – stato che, anche quando si imbarca in scelte opinabili, è noto che si impegna a perseguirle con grande zelo – ha pensato bene addirittura di mettere in cantiere in parlamento una legge in forza della quale – per “proteggere il popolo” contro i rischi sanitari – il Governo può legittimamente derogare alle libertà fondamentali, di guisa che – per esempio – la polizia potrebbe violare il domicilio personale al fine di verificare il rispetto delle norme di reazione al Covid. In Francia, paese il cui popolo da sempre reagisce con forza e in piazza contro le leggi che considera ingiuste, il governo si accinge a emanare una legge (“sulla sicurezza globale”, titolo da brivido) che consentirebbe alle forze di polizia di agire travisate nell’espletamento di compiti di ordine pubblico e che vieterebbe di filmarne l’azione in luoghi pubblici. Insomma, in un’Europa che si dichiara a parole la paladina dei diritti umani e del già citato stato di diritto (per lo più però quando si tratta di dar fastidio a governi considerati “sovranisti” o “populisti”), i fatti sembrano indicare che stiamo attraversando una deriva decisamente poco liberale, che appare più accentuata proprio negli stati in cui governano le grandi coalizioni identificabili come di centrosinistra europeista.

La ragione ultima di questo fenomeno potrebbe consistere nel fatto che tanti stati europei sono condotti da governi che – a causa delle loro politiche sbilanciate sulla tutela di interessi cari all’UE e che dunque non hanno tenuto in conto le specifiche esigenze dei rispettivi elettorati nazionali – non godono più un radicato consenso popolare e dunque difettano dell’autorevolezza politica sufficiente per adottare soluzioni autenticamente liberali (che ovviamente implicano dei costi sociali e sanitari), trovandosi costretti a ricorrere ai metodi autoritari per nascondere – dopo decenni di austerità e tagli al servizio sanitario pubblico spacciati come la sola ricetta per renderlo efficiente – la conclamata incapacità di tutti questi sistemi sanitari “efficientati” di fornire assistenza adeguata alla popolazione di fronte all’epidemia di una malattia neppure particolarmente grave, ma assai contagiosa e che soprattutto – nei soggetti a rischio – richiede trattamenti sanitari rapidi e capillari sul territorio per non degenerare in quadri clinici gravi. Le socialdemocrazie europee, in altre parole, dopo aver tagliato a man bassa la sanità pubblica in nome dei sacri verbi rigoristi (dunque creando la situazione per cui basta una influenza particolarmente cattiva per mandare in tilt i pronto soccorso di tutta Europa), si sono trovate costrette a imporre serrate di stato a interi settori economici e a mandare variamente agli arresti domiciliari (o al confino o in consegna notturna) i cittadini che non erano più in grado di curare. E così gli europei, dopo il danno causato dalla devastazione della sanità pubblica, stanno subendo pure la beffa dell’autoritarismo di stato “per il loro bene” come rimedio a quel danno.

Se dunque i politici europei – anche quelli liberal-liberisti – hanno le loro valide (quanto meno dal loro punto di vista) ragioni per ricorrere all’autoritarismo sanitario nell’affrontare l’epidemia, più difficile da decifrare è l’atteggiamento conformista assunto da pressoché tutti quanti gli intellettuali di casa nostra (salva qualche lodevole ma isolatissima eccezione). Qui da noi, ben più che all’estero dove il dibattito è più acceso, è infatti stato un coro unanime di “la salute prima di tutto” e “le regole vanno rispettate” e “occorrono sacrifici per il bene comune” e via luogocomuneggiando. Che a sinistra si sostenga che lo stato, in nome di esigenze collettive, ha il potere di limitare anche i diritti fondamentali di cittadini che devono solo tacere e ubbidire (e che anche chi si rifà alle idee di una certa destra dica questo) invero non mi stupisce più di tanto, considerando le culture politiche e le ideologie storiche di cui simili intellettuali hanno raccolto in vario modo l’eredità. Il silenzio che sconcerta è infatti quello di chi – pure in diverso modo e a vario titolo – in passato si è dichiarato (e magari ha anche ora il coraggio di dichiararsi) di area o di idee “liberali”.

Che cosa è infatti il liberalismo se non l’idea secondo cui certe libertà individuali del cittadino (libertà personale, di assemblea, di circolazione, di manifestazione del pensiero etc.) devono essere messe davanti a qualunque pretesa dello stato di conculcarle, per qualunque ragione? E si badi che il comodo espediente di sostituire le libertà coi “diritti” è – appunto – un comodo espediente di chi liberale non è più, giacché il liberalismo predica che certi diritti di libertà non possono mai e per nessuna ragione essere limitati dallo stato, perché lo stato è tenuto semmai a “riconoscerli” e non ha dunque il potere di decidere a sua discrezione se “concederli” o meno. Basta del resto passare in rassegna la storia del novecento per capire che gli stati autoritari di ogni colore e genere trovavano sempre almeno un “diritto” (e primo fra tutti quello alla “sicurezza” del popolo) per giustificare norme liberticide. Che non ci si possa nascondere dietro al diritto positivo per comprimere le libertà fondamentali è insomma cosa che chi vuole definirsi liberale dovrebbe sapere come le tabelline.

La mia impressione è peraltro che la mutazione del liberalismo di ieri nel “dirittismo” sia un aspetto del complessivo mutamento culturale che ha segnato – a livello di Zeitgeist – il passaggio da una narrazione incentrata sul potere veritativo della ragione dialettica (che rappresenta la vera anima ideologica – di ascendenza illuminista – del liberalismo classico) verso l’agnosticismo postmoderno nichilista del pensiero debole (che rappresenta il vero tratto dominante trasversale della cultura odierna, oltre che la perfetta scusa che consente agli ignoranti di apparire colti). In altre parole: il sedicente liberale di oggi, non trovando più a sua disposizione i vecchi diritti naturali e una razionalità “forte” cui riferirsi per costruire la propria gerarchia dei valori, si trova costretto a rifugiarsi nel giuspositivismo, cercando nel diritto positivo la fonte dei diritti naturali. Inutile dire che – in questo modo – ha però già smesso di essere liberale: i diritti naturali sono stati a loro tempo creati infatti al preciso scopo di limitare il potere dello stato, di guisa che una volta che sia ammetta che lo stato stesso può ridefinirli liberamente (dunque in sostanza una volta ammesso che lo stato “concede” i diritti fondamentali ai cittadini), si è ammesso anche che quei diritti non limitano più un bel nulla e che lo stato fa quel che vuole delle libertà dei cittadini. E con questo, ovviamente, si esce dal perimetro del liberalismo.

Il sedicente liberale di oggi pensa allora di risolvere il problema sostenendo che la “giustizia in sé” dei diritti deriverebbe in re ipsa dalla procedura democratica di adozione delle leggi che quei diritti tutelano. Che la democrazia non sia garanzia di giustizia, però, non ce lo raccontano solo la storia e l’attualità, ma lo conferma soprattutto il fatto che, se così davvero fosse, non esisterebbero le costituzioni, la cui funzione è appunto quella di porre dei limiti al legislatore anche nei sistemi democratici. Ecco allora che il nostro liberale – un po’ in spiazzato – ripiega ulteriormente, individuando il surrogato del diritto naturale, appunto, nella costituzione, dimenticando che quasi tutte le costituzioni – anche la nostra – possono comunque essere modificate, seppure con maggioranze qualificate, dallo stesso parlamento che, se davvero si trattasse di costituzioni che “riconoscono” diritti naturali, dovrebbe invece esserne vincolato in modo assoluto. Morale della favola: il liberale di oggi si è trasformato in un giuspositivista, senza accorgersi che il prezzo del cambiamento di pelle è stata la perdita della sua identità.

Risultato ultimo di questo processo metamorfico è che in Italia non si trova più un liberale (salvo un paio di casi isolati e comunque nessuno tra i sedicenti liberali che vanno per la maggiore nel circuito informativo mainstream) che abbia il coraggio (non dico di sostenere, ma anche solo) di riconoscere agibilità nel discorso pubblico delle opinioni per cui la tutela di vita e salute potrebbe anche non venire “sempre” prima di alcune libertà fondamentali dell’individuo. Anzi: quei pochi che si azzardano a sostenere una simile (liberalissima) tesi in pubblico vengono apostrofati – anche da alcuni di quelli che amano definire sé stessi come liberali – come negazionisti, se non peggio.

In sostanza nessun “liberale” ha sinora avuto nulla da eccepire in pubblico circa il fatto che è da diversi mesi che il nostro paese si trova nella situazione per cui i cittadini non sanno oggi se il governo nella notte ha deciso che li lascerà uscire di casa domani, o se dovranno restare agli arresti domiciliari o al confino coatto, ed in cui gli imprenditori non sanno oggi se il governo nella notte ha deciso di lasciargli aprire l’azienda domani (e in quali ore e con quali modalità) o se deve tenerla chiusa. Lo stesso governo, si badi, che a questi imprenditori impedisce di licenziare nonostante la crisi e attribuisce ristori ridicoli in rapporto al danno che stanno subendo per le serrate di stato: tutte misure che sono quanto di meno liberale si possa immaginare. Per non parlare della questione dell’obbligo vaccinale, in cui sembra che – anche per certi liberali – la vaccinazione sia divenuta una specie di nuovo battesimo laico per la salvezza universale. In un panorama – che per un liberale dovrebbe essere urticante – accade insomma che quasi tutti quelli che, prima dell’avvento del Covid, strombazzavano a destra e a manca fede e proclami liberali, se ne stanno ben zitti e coperti.

E a me, sinceramente parlando, è proprio quest’ultima cosa a spaventare di più. Ben più dell’epidemia stessa e pure dei balzani rimedi inventati sinora dai nostri governanti per (non) risolverla. E mi spaventa, si badi, perché invece noto che parecchi liberali – su temi come aborto e fine vita – stanno continuando a dire proprio l’opposto di quel che dicono sul Covid, ossia che, in nome della libertà di scelta di una persona o dei costi delle cure per la società, un’altra persona ben può essere mandata a stendere (e non per dormire), con tanto di autorizzazione e timbri dei pubblici uffici. Occorre allora chiedersi – o ancora meglio chiedere loro – perché mai vita e salute del potenziale contagiato di Covid valgono di più di quelle di un “normale” malato terminale o della futura vita e salute di un figlio non desiderato. A voler essere malevoli, viene da pensare che la differenza stia nel fatto che tra i potenziali malati di covid ve ne sono tanti (specie persone in là con gli anni, dato che siamo un paese anagraficamente anziano) che ancora compreranno il giornale, guarderanno la TV e/o voteranno alle prossime elezioni, mentre feti e moribondi sono dei senza letture né suffragio (e – anzi – a votare e leggere sono semmai proprio quelli che potrebbero avere un qualche interesse a disfarsene). Ma noi non siamo malevoli, dunque non crediamo possibile che degli intellettuali liberi – anzi, liberali – siano disposti a piegarsi certe logiche piccine. Dunque stiano tranquilli i veri liberali: le nostre insinuazioni sono dirette solo ai liberali finti, e – in genere – agli intellettuali asserviti alle logiche del potere o, peggio, dello stipendio a fine mese.

Che gli intellettuali possano avere delle ragioni di convenienza a seguire le narrazioni dominanti è cosa nota. Che lo facciano tutti quanti è in compenso cosa grave. Come dicevo c’è infatti da aver paura quando il tema delle libertà personali non viene più sollevato pubblicamente, neppure dai liberali, di fronte alla pretesa dello stato di “proteggere il popolo” (tanto per citare la già citata legge tedesca sulle emergenze sanitarie, che dice esattamente questo, riprendendo sul punto la ben più celebre legge fatta emanare tra le due guerre mondiali da Hitler, al tempo legittimo cancelliere a capo di una maggioranza eletta, in seguito all’incendio del Reichstag e con cui ebbe inizio la “vera” dittatura nazista). La storia del vecchio continente ci insegna infatti che le fasi di emergenza sono state quasi sempre l’anticamera di una qualche forma di deriva autoritaria. Questo perché quella stessa limitazione delle libertà fondamentali che viene affermata come “giustificata” oggi (ad esempio, nel caso del covid, in presenza di un’emergenza sanitaria) diventa un precedente che renderà più facile invocare domani limitazioni analoghe per vere o supposte emergenze di diverso genere. Si chiama “legge del piano inclinato” e, purtroppo, fa scorrere le cose sempre verso il basso.

Tanto per fare qualche esempio io ho sempre contestato tutti quelli che liquidavano con un semplice “ma cosa sarà mai!” le famose “domeniche a piedi” causa inquinamento. E non certo perché usassi la macchina nel fine settimana, ma proprio perché avevo il sentore che si trattasse di un precedente che avrebbe abituato il popolo a subire limitazioni della libertà di spostamento “per il suo bene”, e che dunque – secondo la legge del piano inclinato – avrebbe potuto portare altrove. Per queste stesse ragioni non mi sono mai piaciute le crociate contro il fumo anche nei luoghi aperti o pubblici (e non sono neppure un fumatore). Ma non diversamente pensavo (e penso) male del fatto che – in nome della sacra lotta all’evasione fiscale – lo stato ormai si arroga il diritto, senza alcun controllo della magistratura, di andare a ficcare il naso in ogni rapporto economico dei cittadini, declassandoli al rango di presunti evasori sotto perenne indagine patrimoniale. Ma anche la questione della moneta elettronica e della lotta al contante – sempre portata avanti in nome della mistica della lotta all’evasione per il bene di tutti – mi paiono altrettanti attentati alle libertà (in questo caso economiche) dei cittadini. E che dire della tematica dei vaccini obbligatori, che non è affatto una questione di “vax” contro “no vax” (e tanto meno è una questione che riguarda solo l’emergenza covid), ma il terreno che consente di capire davvero se la salute si può ancora considerare un diritto che lo stato deve riconoscere e garantire ai cittadini o se è diventato una specie di dovere dei cittadini verso lo stato. In sintesi: in questi ultimi anni mi pare di assistere, specie in Europa, al tentativo dei pubblici poteri di mitridatizzare i popoli, assuefacendoli progressivamente – con piccole ma crescenti dosi di restrizioni alle loro libertà – all’autoritarismo di stato.

E il risultato iniziamo a vederlo proprio col covid: proprio grazie alla paziente e costante mitridatizzazione delle maggioranze all’autoritarismo legalitario “per il bene di tutti”, l’intera popolazione dei maggiori paesi europei sta sperimentando un anno di arresti domiciliari a singhiozzo e di serrate di stato di interi settori produttivi per causa di un’epidemia influenzale non particolarmente grave, ma resa pericolosa piuttosto dal fatto che è assai contagiosa e che – quanto meno in Italia, ma non diversamente accade altrove nell’UE – la sanità pubblica è stata resa così economicamente efficiente da non essere in grado di curare adeguatamente gli ammalati, né sul territorio coi medici di base né negli ospedali (che sono stati ridotti di numero). Ma la domanda che mi pongo io è un’altra: visto che col covid gli stati hanno verificato che quasi nessuno protesta, quale sarà il prossimo “diritto” in nome del quale – nel silenzio degli intellettuali liberali – i poteri pubblici provvederanno a toglierci un’altra fetta delle nostre libertà individuali? Magari domani ci diranno che – per ridurre i costi per la sanità – dovremmo sottoporci obbligatoriamente a screening genetici o di altri esami di vario genere? E dopodomani che cosa potrebbero inventarsi, sempre a fin di bene, si intende! La domanda, ovviamente, la giro soprattutto ai liberali, così magari ci pensano e iniziano a dire qualcosa di liberale.

 

I giuristi liberali e lo strano caso dei diritti “diversamente fondamentali” nella gerarchia costituzionale.

Per poter parlare davvero male dei (finti) liberali di casa nostra, non mi limiterò a denunciarne la scomparsa: scenderò sul loro stesso terreno, quello del diritto positivo. Il che significa entrare nel merito della questione costituzionale relativa alla domanda: il diritto alla salute/vita viene realmente sempre prima di qualunque libertà civile? Molti – anche giuristi liberali – liquidano la questione sostenendo che la risposta è certamente sì, perché la vita è il presupposto dell’esercizio di qualunque libertà dell’individuo. Tutto vero e tutto giusto. Ma come si spiega allora l’aborto legale e le disposizioni sul fine vita che ammettono la soppressione di persone (o di future tali) senza il loro espresso e contestuale consenso? La questione è insomma più ben complessa di così e merita approfondimento, partendo magari proprio dal testo quella costituzione che – a giudicare da certe prese si posizione – viene più invocata che letta.

Si deve osservare infatti che il diritto alla salute (ossia il fatto che lo stato deve occuparsi delle malattie, consentendo ai cittadini di curarsi o agendo per prevenirle) è soggetto – ai sensi dell’art. 32 Cost. – a (sola) riserva di legge, laddove il diritto alla libertà personale e all’inviolabilità del domicilio è soggetto, oltre che a riserva di legge, anche a riserva di giurisdizione. Questo significa che, mentre una legge dello stato è sufficiente per prescrivere ad esempio un vaccino obbligatorio, se per inoculare il vaccino occorresse usare la forza (dunque occorresse fare un vero e proprio TSO) o se servisse entrare nel domicilio di un cittadino senza il suo consenso (sfondando la porta o entrando dalla finestra del balcone come Batman), allora la legge che volesse autorizzare simili procedure dovrebbe prevedere anche l’autorizzazione di un Magistrato che emani un provvedimento ad hoc per ogni singolo caso. Analogamente: se per prevenire il contagio epidemico si mettono agli arresti domiciliari i cittadini di intere regioni del paese, occorre (anzi, vista la situazione, occorrerebbe) prevedere l’autorizzazione di un giudice. Ma se alcuni diritti (libertà personale e inviolabilità del domicilio) godono di tutele costituzionali maggiori contro l’intervento dei pubblici poteri rispetto ad un altro diritto (salute), logica giuridica – e buon senso – inducono a supporre che quei diritti siano stati a suo tempo considerati dai costituenti più importanti di questo. Ed invece un sacco di giuristi – anche liberali – dicono cose diverse.

Ma fingiamo per un momento che nella costituzione non ci sia scritto quel che invece sta scritto (o, più semplicemente, riconosciamo candidamente che nel dibattito culturale odierno la logica non sia più di moda). Dunque, ipotizziamo pure che si tratti di diritti di pari rango costituzionale. In una simile situazione – per capire entro che limiti è legittima la compressione di un diritto in nome della tutela di un altro diritto di analogo rango – soccorre il principio di proporzione e ragionevolezza nel contemperamento degli interessi sottostanti ai diritti tutelati. Dunque la domanda che un liberale – che abbia letto un po’ distrattamente la costituzione – potrebbe e dovrebbe farsi è se sia proporzionato e ragionevole limitare ad intermittenza la libertà personale di tutti i cittadini per un anno intero al fine di ridurre la mortalità causata da una malattia epidemica in determinate fasce minoritarie della popolazione che si trovano ad essere particolarmente esposte alla malattia. La risposta, ovviamente, dipende dal complesso delle conseguenze sociali provocate dalle limitazioni di libertà individuale adottare per tutelare il diritto alla salute.

Ma se questa è la prospettiva, purtroppo, ad un giurista liberale che osservi la situazione oggettivamente dovrebbero rizzarsi i capelli in testa: a fronte di una mortalità tra le più alte al mondo, ci sta cascando in testa un disastro economico immane, che provocherà, stando alle stime della Cerved, quasi una mezza milionata di attività imprenditoriali che non riapriranno mai più e quasi due milioni di disoccupati (non appena verrà meno il divieto di licenziamento). Il tutto come antipasto di una stagnazione economica che andrà avanti verosimilmente per qualche decennio prima di recuperare i numeri precedenti al Covid. E questo senza contare la possibilità che – grazie al fatto che abbiamo accettato un regolamento sul recovery fund che include espressamente la restaurazione del patto di stabilità nella versione più antica (e dunque rigorosa) – dovremo dichiarare default (o ammazzare definitivamente l’economia del paese con una bordata di nuove tasse e tagli che andranno a colpire il risparmio di un popolo di senza lavoro e dunque senza reddito) quando, tra un paio di anni, l’Unione Europea sancirà la fine della crisi sanitaria e tornerà al rigore di bilancio e noi ci troveremo con un debito colossale ed in più con le rate del recovery fund da rimborsare a colpi di austerità (quella che ai liberali piace tanto).

Ma è proprio in relazione a questo secondo aspetto della questione che entra in campo un altro “peso massimo” della gerarchia costituzionale, rappresentato dal diritto al lavoro, che l’art. 1 della Costituzione identifica niente meno che come uno dei fondamenti, insieme al principio democratico, della stessa repubblica. Se c’è infatti un diritto che può essere catalogato senza tema di smentita come diritto “fondamentale” nel nostro quadro costituzionale è proprio quello al lavoro. Il che consente di sostenere che abbiamo a che fare con un diritto che “pesa” in termini costituzionali almeno quanto il diritto alla salute e alla vita. E dunque: se per tutelare un solo diritto fondamentale (salute) ne comprimiamo in modo significativo altri due (libertà personale e lavoro) che “pesano” almeno uguale al primo, qualcosa parrebbe non funzionare nell’artimetica (costituzionale) del modo in cui il nostro Governo ha scelto di affrontare l’emergenza.

Dunque, davvero non se ne esce: o si è disposti ad ammettere – ma questo un liberale vero non può farlo – che la salute pubblica da sola vale di più della libertà personale e del diritto al lavoro dei cittadini messi insieme (ma la Costituzione questo non consente di farlo con troppa sicurezza, anzi fornendo indicazioni in senso differente) oppure un liberale avrebbe degli ottimi argomenti a sua disposizione per obiettare che qualcosa non va nel modo in cui si è impostata la reazione al Covid in Italia.

 

Per il disastro del “modello Italia” dobbiamo ringraziare anche l’assenza – a livelli di dibattito politico – di voci autenticamente e radicalmente liberali.

La mancanza di ragionevolezza e proporzionalità nelle misure di reazione al covid di cui si è detto poc’anzi (al di là dei possibili risvolti giuridici) assume rilievo anche a livello politico. Per capire i termini della questione occorre tuttavia riassumere per sommi capi in cosa consiste il “modello Italia” (che a questo punto, vista la piega della crisi, potremmo definire “modello Conte bis” o “modello giallorosso”). E non mi riferisco tanto alle forme giuridiche con cui le istituzioni hanno scelto di agire (su cui pure ci sarebbe molto da dire, come ho avuto modo di segnalare in alcuni articoli pubblicati in passato su questo sito e relativi ai profili di possibile incostituzionalità di alcune misure restrittive disposte dal Governo), ma soprattutto alla sostanza delle cose.

Questo “modello” consiste nel disporre una raffica di lockdown domiciliari e di coprifuoco a intermittenza e senza alcun preavviso, conditi da chiusure di attività a casaccio (dopo averle obbligate a spender soldi per mettersi in sicurezza) senza alcuna programmazione né possibilità di previsione e senza in compenso investire a tempo debito – ossia questa estate – risorse per potenziare cure domiciliari e strutture sanitarie. Il tutto nascondendosi dietro alle valutazioni di comitati tecnici di cui non è dato conoscere gli atti né i dati utilizzati per decidere. Quanto ai “ristori”, al di là del fatto che si tratta di briciole in confronto al danno economico subito da certe categorie costrette ad una serrata totale per mesi, è evidente che un’economia ferma o rallentata non può essere sanata con il trasferimento continuo di risorse pubbliche: se fosse così tutti gli stati pagherebbero i cittadini solo per esistere e lo stesso problema economico (ossia della gestione delle risorse di un paese) non esisterebbe neppure come oggetto di dibattito politico.

Le risorse straordinarie vanno usate per riavviare l’economia azzoppata, non per evitare che una ferita ancora sanguinante sporchi troppo in giro. L’idea dei ristori è insomma solo lo specchietto per le allodole (o l’esca per gli allocchi) con cui si tenta di illudere la gente che lo stato stia aiutando anche le persone che invece sta distruggendo a colpi di lockdown. La brutta verità è che l’Italia – ma lo stesso vale per quasi tutti gli altri paesi dell’UE – ha semplicemente scelto la soluzione più facile e meno responsabilizzante per chi governa (la più comoda ma anche la meno liberale), evitando di investire subito ingenti risorse sulla sanità (sia mai che la “liberalissima” UE avvii qualche procedura di infrazione per aiuti di stato) e dunque scaricando la gran parte del costo sociale ed economico dell’epidemia sui cittadini che lavorano, curandosi – qui da noi – di mantenere caldi e al sicuro (i voti del)le categorie già più protette (dunque anziani pensionati, dipendenti pubblici, lavoratori dipendenti delle grandi imprese sindacalizzate), mandano invece più o meno allo sbaraglio gli altri, specie il ceto medio produttivo (quello degli evasori/kulaki che, anzi, ben gli sta!).

Del resto, va pure riconosciuto che il recovery fund (dipinto come una specie di “vaccino economico” capace di sanare tutti i mali del mondo) deve essere usato – dato che così sta scritto nelle regole europee – per finanziare anzitutto transizione green, digitalizzazione e parità di genere, mentre solo circa un 10% può essere usato per la sanità. Per quella al massimo c’è il MES sanitario (ossia un diverso genere di prestiti, ma sempre condizionati, tanto convenienti che in UE nessuno stato se li è filati). Siccome è l’UE che detta l’agenda ai governi su come usare questi fondi, non si può neppure dire che la mancanza di investimenti sanitari sia tutta colpa di Conte e di tutta la maggioranza che lo sostiene. Semmai la colpa del Governo italiano è stata quella di non avere finanziato la spesa sanitaria come hanno fatto altri stati, ossia emettendo una montagna di titoli pubblici (ora che vengono acquistati dalla BCE senza limiti e che il patto di stabilità è sospeso) per finanziare aiuti di stato diretti.

La ragione di questa resistenza sarebbe che non si voleva far crescere troppo il debito. Ma il fatto è che il debito pubblico comprato dalla BCE è rinnovabile a scadenza con nuove emissioni di titoli, mentre quello del recovery fund (e del MES, se verrà attivato) deve essere rimborsato tutto quanto alla sua scadenza (si badi bene: anche per la parte definita “a fondo perduto”, che comunque viene ripagata o con tasse unioniste quali IVA e plastic e sugar tax oppure restituito mediante i contributi nazionali al bilancio UE). Dunque – al netto delle valutazioni di convenienza politica – sarebbe stato in ogni caso meglio per noi fare tanta spesa sanitaria contraendo debito nazionale rinnovabile (e pure ridenominabile in valuta nazionale in caso di italexit dalla moneta unica) e non farne poca vincolandoci con debito europeo da rimborsare a scadenza (e che non può essere neppure convertito in moneta nazionale in caso di uscita dell’Italia dall’euro). Non è dunque certo un caso che altri stati – specie la Francia, che pure a debito pubblico sta messa assai male – abbiano invece finanziato la spesa pubblica di reazione al covid emettendo quantità immense di titoli pubblici. Ma non diversamente sta facendo la Germania che – sfruttando la sospensione del patto di stabilità – ha accumulato in questi mesi emissioni di titoli pubblici che hanno finanziato aiuti di stato alle imprese per migliaia di miliardi di euro.

Se dunque a crisi finita accadrà – come alcuni (tra i quali anche il sottoscritto) sospettano – che gli stati che più hanno fatto spesa pubblica troveranno alla fine il modo di far monetizzare quel debito alla BCE (in sostanza facendo in modo che la BCE accetti che siano resi perpetui i titoli pubblici nazionali acquistati durante l’emergenza covid), noi italiani faremmo l’ennesima figura dei fessi che dovranno restituire con gli interessi (e senza poter emettere nuovo debito) quello che altri paesi non dovranno invece mai restituire a nessuno. Ma non ditelo ai liberali, per favore, altrimenti non possono scrivere sui giornali e dire in televisione che mamma Europa vuole sempre e solo aiutarci.

Ma torniamo al punto politico: un governo che riesce a mettere in piedi un simile disastro – senza riuscire a risolvere il problema sanitario, dando aiuti che non innescano la ripresa e scegliendo di finanziarli in modo assai meno conveniente rispetto ad altri stati europei, facendo cose diverse da quelle che stanno facendo Francia e Germania, dunque creando il concreto rischio di dover dichiarare default o ammazzare il paese di tasse e tagli tra un paio di anni – deve essere chiamato a risponderne (o a chiarire le ragioni delle sue scelte) di fronte all’opinione pubblica. Ed è esattamente qui che sta la colpa dei liberali: proprio loro dovrebbero essere infatti la voce principale del controcanto alla narrazione governativa. E invece questa voce è mancata del tutto. Ed è mancata perché in Italia non c’è più una vera cultura liberale.

Gran parte dei liberali di oggi sono infatti i comunisti moderati di ieri, quando non addirittura dei sessantottini invecchiati male. Questo spiega perché questi liberali sui generis si sono ridotti a predicare solo i “nuovi” diritti civili che vanno di moda a sinistra (inclusività, parità di genere, non discriminazione et similia), dimenticando invece del tutto i “vecchi” diritti fondamentali su cui si fondano le società occidentali: libertà personale, libertà di assemblea e di riunione, libertà di circolazione, libertà di manifestazione del pensiero. La gran massa dei liberali di casa nostra sono insomma solo una sbiadita copia dei liberal americani: pasdaran allevati alla scuola del politicamente corretto e – dunque – in realtà mossi da convinzioni profondamente illiberali, in quanto sotterraneamente convinti che lo stato sia lo strumento demiurgico con cui imporre il progressismo (socialdemocratico) come panacea di tutti i mali. In altre parole: tanti sedicenti liberali di oggi, essendo (a sinistra) degli ex sessantottini in pantofole o (a destra) dei teorici della sicurezza sociale come primo compito dello stato, non sono in grado di interiorizzare il tratto essenziale del vero liberalismo, rappresentato dalla naturale diffidenza nei confronti di qualunque forma di stato paternalista e in particolare verso qualunque tentativo del potere esecutivo di limitare le libertà individuale.

Per questo oggi assistiamo allo spettacolo surreale di sedicenti liberali che osannano il sistema cinese di reazione all’epidemia, forse scordando che – quando la mortalità provocata da un virus è allo 0.3% – per uno stato (con una popolazione mediamente molto giovane) che controlla totalmente sia l’informazione che i social media non è poi tanto difficile sostenere dinanzi al proprio popolo e al mondo la narrazione secondo cui l’epidemia sarebbe stata risolta, quando forse non è del tutto così. Qualcuno potrebbe invece sospettare che le autorità Cinesi abbiano ritenuto che un altro lockdown – di quelli “duri”, specie se esteso a tutto il paese e non ad una sola provincia, come era stato il primo – non sarebbe comunque servito a fermare la seconda ondata ed avrebbe soprattutto provocato eccessivi danni economici, decidendo dunque – assai pragmaticamente – di affrontare la seconda ondata facendo in modo che il popolo ne ignorasse le conseguenze (tutt’al più mettendo in campo, con poco clamore mediatico, una serie di mini-lockdown mirati nelle zone dei nuovi focolai). I cittadini cinesi non possono scegliere i loro governanti e dunque anche se lo stato non riesce a curare tutti per bene, il partito può permettersi di far spallucce, enfatizzando il fatto che l’economia cinese è l’unica economia mondiale che è riuscita a crescere in epoca covid (altro dato che dovrebbe far riflettere).

Qui da noi, invece, i governi sono troppo impegnati a chiudere in casa le persone e a terrorizzarle e confonderle allo scopo di nascondere l’inefficienza dei rispettivi sistemi sanitari (causata, non mi stancherò mai di dirlo, anche dalle politiche di rigore imposte dall’UE a tutti gli stati e sostenute dai nostri liberali). E ora che anche Germania e Francia iniziano a pagare un conto davvero salato in termini di morti, state pur certi che faranno pressioni per indurre tutti quanti gli altri stati dell’UE a chiudere tutto, sia mai che qualche stato membro possa avvantaggiarsi e riprendere a vivere e fare affari liberamente prima che possano farlo tedeschi e francesi. Ecco dunque apparire – dopo Natale e capodanno aperti al di là delle alpi – lo spettro delle zone “rosso scuro” individuate dall’UE per limitare la circolazione in Europa. E invece – quando eravamo stati noi a dover chiudere tutto a marzo 2020 – gli altri stati (e l’UE) sono andati avanti tranquilli per mesi senza imporre lockdown o altre misure rigide. Ma forse è solo un caso.

La frecciatina ai nostri fratelli europei (o, per meglio dire, a chi li rappresenta politicamente) non è una cattiveria fine a sé stessa, né il frutto di personale malevolenza, ma solo un espediente narrativo per mostrare al lettore un’altra strana coincidenza: gli pseudo-liberali di casa nostra sono infatti quasi tutti europeisti di stretta osservanza (tra l’altro l’UE è un pachiderma burocratico e dirigista che predica un singolare liberalismo fatto di mille regole e controlli, ma passiamo oltre) e dunque farebbero una certa fatica a spiegare ai loro lettori ed elettori – ai quali hanno raccontato per venti anni le res gestae dell’UE liberale impegnata a combattere gli sprechi anche sanitari degli italiani spendaccioni e statalisti che vivevano al di sopra delle proprie possibilità – perché mai proprio le politiche di taglio alla spesa pubblica sanitaria hanno finito per creare una situazione in cui esercitare le libertà fondamentali dei cittadini sarebbe stato vietato dal governo in quanto rischioso per la salute pubblica.

Ma non è che un intellettuale smette di essere liberale se trova il coraggio di ammettere serenamente che un certo livello di spesa pubblica sanitaria forse è necessaria – anche in uno stato liberale – perché solo se uno stato ha un sistema sanitario in grado di affrontare adeguatamente anche situazioni di grave emergenza, le libertà fondamentali civili ed economiche (dunque quelle che un liberale dovrebbe voler tutelare) possono essere garantite senza chiedere in cambio troppi sacrifici in termini di salute e di vite. L’epidemia di covid dovrebbe insomma aver fatto capire (ai liberali) che un robusto welfare sanitario anche pubblico è, paradossalmente, una delle condizioni che consente agli stati di essere liberali nei fatti e non solo a chiacchiera.

Ma spesso i dogmi valgono più del buon senso, specie per chi si trova ad avere una situazione economica e uno status sociale che gli consente di andare avanti a predicare dogmi che stanno facendo (e faranno) del male solamente ad altri. Il liberalismo all’italiana di tanti intellettuali – di recente – emana insomma sempre più spesso la fragranza radical chic dei croissant di Maria Antonietta. Croissant che, come sappiamo, possono però finire malamente di traverso a chi ne abusa, quando, alla fine, la maggioranza di un popolo viene messa davvero alle strette.

 

Il covid come otto settembre del pensiero autenticamente liberale.

Non resta a questo punto che trattare della posizione “etica” dei nostri liberali. Mi rendo conto di quanto sia demodé parlare di etica oggi. Eppure secondo me qui una riflessione etica è legittima proprio perché la distinzione tra “giusto” e “lecito”, di nuovo, è qualcosa che i liberali (quelli che non si sono mutati in “dirittisti”, che identificano la legge di uno stato democratico nella giustizia universale) dovrebbero riconoscere, comprendere e – magari – anche condividere. In questa sede, visti gli spazi, ci limiteremo solo a pennellate impressionistiche, intorno alla domanda fatidica: davvero la vita biologica viene prima di tutto nella gerarchia dei valori?

A ripercorrere la storia dell’occidente, dunque adottando una prospettiva empirica e storicistica, parrebbe proprio di no. Per secoli gli europei – ma anche gli americani, dopo la colonizzazione, dunque tutti i popoli che possono definirsi “occidentali” – hanno sacrificato la vita per conquistare prima, e per mantenere poi, le libertà individuali contro l’oppressione dei poteri pubblici assoluti (stranieri o domestici che fossero). Anzi, viene da dire che sia proprio la volontà di mettere la libertà civili davanti alla sicurezza e alla stessa vita fisica – dalle Termopili a Popper – a rappresentare uno dei tratti distintivi peculiari della stessa cultura occidentale. Passando dalla storia alla ragione dialettica, va detto che, a voler ragionare come fanno certi ayatollah salutisti dell’ultima ora, se dovessimo subire una dichiarazione di guerra sarebbe inevitabile arrendersi all’istante, sia mai che – quando la guerra davvero comincia ad imperversare – poi muore qualcuno. E che dire della circolazione stradale? Tali e tanti sono i morti, gli invalidi e i feriti gravi (per non parlare della pressione sul sistema sanitario) che provoca ogni anno l’andare in macchina, che un bel lockdown stradale su tutto il territorio nazionale ogni fine settimana (o magari anche durante la settimana, a giorni alterni, con incentivi statali all’acquisto di un triciclo a pedali, ma con cambio Shimano a millemila rapporti) mi pare il minimo sindacale. Ma mentre scrivo quest’ultima frase mi assale la spiacevole sensazione che quello che per me è una battuta per qualcuno potrebbe anche essere una ipotesi sensata.

Tornando all’etica, va rilevato che la nuda vita materiale come primo interesse rilevante appartiene anche alla cifra di quel mondo degli “ultimi uomini” di cui Nietzsche – che pure liberale non era affatto – parlava con disgusto misto a paura. E come non citare le preoccupazioni di un gigante della filosofia del secolo scorso come Heidegger (altro pensatore per nulla liberale) per il dilagare della tecnoscienza – di cui il paradigma che pone la vita fisica come sommo bene e a sua volta certamente manifestazione – come unico criterio ordinatore di una società occidentale ormai preda del nichilismo. Su come la pensino Popper e Habermas della questione credo non vi sia nulla da dire, se non che si tratta di altrettante icone liberali. Tutto questo per dire che nella nostra tradizione culturale e filosofica (anche in quella non liberale) non mancano certo i moniti a non cadere preda del primo leviatano che passa di lì offrendo ai cittadini sicurezza in cambio di sottomissione.

Pare però che i moniti siano stati tutti ignorati. E lo sono stati perché il covid è stato un po’ l’otto settembre della cultura liberale in Europa (escluse Svizzera, Svezia e poche altri nazioni, che hanno resistito alla tentazione di rispondere alla crisi con la soluzione del dispotismo salutista in salsa pechinese): come racconta l’omonimo romanzo di Curzio Malaparte – quando saltano tutti i riferimenti ideali e culturali che tengono unite le persone in un popolo dotata di una propria identità – alla prima vera crisi ognuno pensa per sé e dunque solo la “pelle” conta davvero. A quel punto tutto diventa lecito e legittimo alla sola condizione che io salvi la mia pelle (e magari, già che ci sono, anche il mio conto in banca e stipendio), non importando nulla quanto dovrà o potrebbe soffrire il mio prossimo. Questa reazione “di pancia” – che tutto sommato ci si poteva anche aspettare dalle masse postmoderne private di ideali forti e di identità culturali definite – invece che essere stigmatizzata è stata condivisa, legittimata (e dunque ideologicamente coperta) anche da tanti intellettuali che si definiscono liberali. L’otto settembre non è dunque tanto quello delle masse, bensì quello del liberalismo.

Gli intellettuali italiani ed europei, quegli stessi che sino a ieri tessevano le lodi di Popper e Habermas, di fatto oggi si trovano a sostenere (spesso senza rendersene neppure conto) tesi che appaiono ispirate piuttosto agli insegnamenti di due illustri discepoli eterodossi di Hegel: il nostro Gentile, che vedeva nello stato (totale e totalitario) la sola possibile fonte del vero e del giusto in un dato momento storico e contesto sociale e Marx, che leggeva il mondo solo come materia, economia e interessi collettivi che prevalgono in ogni caso sui diritti individuali. Entrambi in compenso bollavano le vecchie libertà liberali come inutili e dannose sovrastrutture borghesi. Suona dunque strano che proprio ora che i liberali hanno l’occasione perfetta di prendersi una rivincita, innalzando il vessillo delle libertà individuali contro il dispotismo in camice bianco del novello regime medical-paternalista, preferiscano tacere. Ma forse queste cose agli intellettuali liberal(i) di oggi non interessano un granché: loro adesso hanno il gender, la discriminazione razziale, l’antifascismo, il populismo e i tagli alla spesa pubblica e agli sprechi di cui occuparsi (e con cui ovviamente indignarsi). Ogni epoca ha in definitiva i liberali che si merita. E la nostra epoca parrebbe essere quella dei piccoli conformisti che – nello stesso momento in cui dicono cose vagamente fasciste o maoiste – per qualche strana ragione amano farsi chiamare liberali.

A voler trovare il lato positivo di questa paradossale situazione, si può dire che il covid ha quanto meno fatto cadere la maschera (anzi, la mascherina) di parecchia gente, consentendo alla fine di capire chi – pur dichiarandosi (o magari anche credendosi) liberale – è invece portatore di gravi forme di totalitarismo asintomatico ovvero della classica variante italica del servilismo acuto verso i potenti di turno. Sta di fatto che dopo il Covid i liberali – quelli veri – almeno potranno contarsi tra loro (e, si spera, non sulle dita in una mano). Io non mi considero un liberale, quanto meno non tour court (visto che non sono un liberista in economia e su alcuni temi etici potrei essere bollato comodamente come veteroreazionario), però so bene che i liberali duri e puri (anche se liberisti e pure se mangiapreti) sono una componente imprescindibile della dialettica culturale e politica europea. Se dunque un giorno i liberali veri scomparissero davvero dal discorso pubblico– e col Covid mi è venuto il sospetto che il processo, quanto meno qui da noi, sia in corso – quel giorno resteremmo tutti quanti più esposti al neo-dispotismo del leviatano securitario, situazione che non occorre certo essere liberali o liberisti per voler evitare.