Calabresi story e la generazione Z

Ansiosi, asociali ma anche straordinariamente benestanti rispetto a tutte le generazioni che li hanno preceduti. Ecco l’identikit degli “Zoomers”, i nati tra il 1997 e il 2012, secondo l’Economist, uno dei più importanti settimanali anglosassoni.

Gli Zoomers hanno meno di 27 anni. Che mondo lavorativo si trovano di fronte? Una vasta prateria dal punto di vista occupazionale rispetto alle generazioni che li hanno preceduti. Dal 1991 la disoccupazione giovanile nel mondo ricco non è mai stata così bassa. 

Il reddito spendibile della Generazione Z è più alto di quello delle generazioni che li hanno preceduti: l’Economist cita oltre a una marea di dati corroboranti la tesi, un esempio “pop”. Il concerto di una beniamina degli Zoomers, la 21enne Oliva Rodrigo. Non solo il costo del biglietto costava centinaia di dollari. Ma c’erano code per accaparrarsi magliette per la modica cifra di 50 dollari.

Gli Zoomers sono la generazione più ricca di sempre. Parliamo di 250 milioni di persone: stanno superando nel mondo del lavoro i baby boomers che essendo ultra sessantenni si stanno avviando verso la pensione. Sono anche la generazione a cui chi finanzia le imprese sta guardando di più. 

In una conferenza al Salone del Risparmio, l’ex direttore de La Stampa e de La Repubblica, Mario Calabresi, figlio dell’ex Commissario Luigi Calabresi ucciso da militanti di Lotta continua, lo ha candidamente confessato.

Perchè uno come lui con un lavoro sicuro lascia tutto per andare a lavorare in una start-up diventando imprenditore? Calabresi, oggi Ceo di Chora Media, la regina in Europa dei podcast, lo spiega così durante la conferenza Selfie: che investitore sei? organizzata da UBS con ospiti davvero uno più interessante dell’altro.

Dopo 10 anni passati a dirigere giornali, avevo visto molto deteriorarsi il business model dell’editoria tradizionale e soprattutto avevo visto che l’età media di chi leggeva i giornali era sempre più alta e non parlava più con chi aveva vent’anni e chi aveva trent’anni”. Insomma, di chi parla Calabresi? Degli Zoomers, gli stessi di cui parla l’Economist. E fa autocritica.

​Non puoi pensare – se sei un giornalista o il direttore di un giornale – che non stai parlando alla parte più attiva della società. “Soprattutto perché quando avevi a che fare con gli sponsor pubblicitari – ricorda Calabresi – ti chiedevano: trentenni e quarantenni quanti ne abbiamo? Io rispondevo: pochissimi, però abbiamo un sacco di settantenni e ottantenni.

Calabresi teme di essere sulla lunghezza d’onda della generazione sbagliata e a quel punto si prende un anno sabbatico. Ha cinquant’anni e ancora vent’anni prima della pensione. Viaggia in Europa e negli Stati Uniti. Cerca di capire nell’editoria cosa è in crescita, quali sono i trend di lungo periodo. Scopre che nel mondo, dalla Gran Bretagna al Brasile alla Spagna, sono i contenuti audio che stanno crescendo. In Italia però i contenuti audio non sembrano essere così popolari.

Calabresi si chiede “È un problema di domanda o di offerta?” Sono gli italiani gli unici a cui in tutto il mondo non interessano i contenuti audio o non li ascoltano perché i contenuti non sono all’altezza? Diventa imprenditore. Nel 2021 ricorda Calabresi Chora Media faceva 1 milione di ascolti, negli ultimi 12 mesi la società di cui Calabresi è diventato CEO lasciando un lavoro sicuro per fare l’imprenditore ha fatto 100 milioni di ascolti.

Chi ascolta i podcast di Chora Media? Gli Zoomers (quelli con meno di trent’anni) e i 40 enni, il pubblico per cui Calabresi voleva rendersi appetibile con contenuti editoriali.

La fascia di lavoratori, la generazione Z, che in America sta diventando come abbiamo visto più numerosa. Quella con il reddito spendibile più alto di tutte le generazioni che l’hanno preceduta. E quella con lo stipendio più in crescita ricorda l’Economist: “in America la crescita della retribuzione oraria tra i giovani di età compresa tra i 16 e i 24 anni ha recentemente raggiunto il 13% su base annua” racconta il quotidiano anglosassone “rispetto al 6% per i lavoratori di età compresa tra 25 e 54 anni.

La generazione Z è anche quella più richiesta dal mondo del lavoro come racconta il settimanale Economist parlandoci della Grecia “Il tasso di disoccupazione giovanile della Grecia è diminuito della metà rispetto al suo picco. Gli albergatori di Kalamata, destinazione turistica, lamentano una carenza di manodopera, qualcosa di impensabile solo pochi anni fa.”

Certo anche questa generazione ha i suoi problemi: asociali e ansiosi, secondo Jonathan Haidt, uno psicologo sociale della New York University, che ha dedicato loro un libro in cui li ha dipinti come una generazione un po’ triste, mi verrebbe da dire. “I giovani di oggi hanno meno probabilità di formare relazioni rispetto a quelli di ieri – scrive Haidt nel libro “The Anxious Generation” – Hanno maggiori probabilità di essere depressi o di dire che alla nascita gli è stato assegnato il sesso sbagliato. Hanno meno probabilità di bere, fare sesso, avere una relazione, anzi, di fare qualcosa di eccitante e trascorrono in media solo 38 minuti al giorno a socializzare di persona.”​

Però, hanno un sacco di soldi, di possibilità di lavoro e sono così potenti da convincere un professionista “arrivato” come l’ex direttore de La Stampa e Repubblica Mario Calabresi a confezionare qualcosa di “adatto” per loro.

Può essere che qualcosa, in pochi anni, sia cambiato così velocemente e non ce ne siamo accorti?

Se avete figli o nipoti di 12, 14, 16, 20, 25 anni pensate a cosa possono permettersi loro e quale capacità di spesa hanno, a quali consumi attingono e fate un confronto con i soldi, i consumi e le cose che noi cinquantenni, sessantenni e settantenni ci permettevamo alla loro stessa età.

È un confronto impietoso.




Investire sui figli: meglio un delinquente in meno che 50 studenti preparati in più?

Martin Luther King diceva: “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla.

La scorsa settimana io e mio marito Salvatore, d’accordo con nostro figlio Federico, abbiamo deciso che doveva cambiare scuola. L’argomento è stato fonte di molte discussioni. E non so come la pensate sul tema e se siamo noi i “dissidenti” e i rompi scatole. E non solo nel mondo della consulenza finanziaria.

inizio anno avevamo scelto di comune accordo dopo le Medie un Istituto Tecnico con specializzazione Amministrazione Finanza e Marketing, perché Federico aveva dimostrato “curiosamente” questa inclinazione, forse anche perché ha due genitori che parlano mattina e sera di questi argomenti.

Da quando poi Salvatore a 10 anni gli aveva regalato 1000 euro (poi quasi raddoppiati di valore) di azioni della Walt Disney, nostro figlio era andato su Google e aveva capito (da solo) che esistevano gli analisti, che le notizie e i bilanci potevano avere un impatto significativo sui corsi dei titoli e che c’è un circo di analisti finanziari che sparano target price ogni settimana.

Quando parlavamo di economia e finanza, mentre sua sorella ci guardava annoiata, lui era incuriosito, quindi spinti anche dall’endorsement del Sole 24 Ore di iscrivere i ragazzi agli istituti tecnici, e non volendo ricadere nel cliché per cui i ragazzi di buona famiglia vanno tutti al liceo, lo abbiamo iscritto a un istituto tecnico commerciale versione 2.0.

Anche perché Salvatore ha frequentato un I.T.C. a Torino fra i migliori d’Italia, il Germano Sommeiller (che ha avuto illustrissimi docenti e allievi tranne naturalmente alcune eccezioni) e ne parla solo bene. E speriamo che la nostra esperienza complicata in un istituto tecnico non sia lo standard.

Il primo giorno di scuola di nostro figlio Federico si è rivelato in verità subito un delirio, tanto da meritarsi una nota di classe collettiva per il comportamento “selvaggio” di numerosi suoi compagni.

Dopo poco più di un mese, la scorsa settimana, la scuola convoca tutti i genitori nell’auditorium e schiera mezzo corpo docente e il dirigente dell’istituto: “mai vista una classe così rumorosa, indisciplinata, sregolata in quarant’anni di insegnamento. Su quasi 30 ragazzi quasi la metà ha problemi anche certificati di deficit dell’attenzione”.

I professori, sostanzialmente, dicono che non solo non è possibile fare lezione, ma è quasi impossibile anche fare l’appello. È una corsa a ostacoli e una guerra di nervi. Un papà chiede un esempio pratico, l’insegnante spiega e lui se ne esce con una frase che rende bene l’idea “Ma questi ragazzi sono usciti da Scampia?” (e grande rispetto naturalmente per i ragazzi e i genitori di Scampia). Una madre al mio fianco (un’insegnante) dice che fra gli “indisciplinati” c’è sicuramente suo figlio e che lei e suo marito non sanno cosa fare nemmeno a casa.

Alcuni genitori invitano a usare le maniere forti (note e sospensioni) e il dirigente dice che apposta hanno convocato la riunione, per avvertire tutti i genitori, quasi a chiedere il permesso che da domani si cambia.

Poi però all’invito di un genitore di usare tutte le misure consentite per assicurare competenze a quelli che la voglia di studiare e imparare ce l’hanno, punendo, sospendendo e, in qualche modo, contingentando i ragazzi difficili, interviene una coordinatrice della scuola, che forte di decenni di insegnamento, intima: “noi dobbiamo favorire l’inclusione, non dobbiamo lasciare indietro nessuno. Perché domani così avremo forse un delinquente in meno. Peraltro, è anche un obbligo di legge e un dovere della scuola: l’inclusione“.

Interviene la psicologa “la collega ha ragione. Mi metto a disposizione delle famiglie in difficoltà“.

Sullo sfondo poi c’è un altro argomento che io e Salvatore (che abbiamo avuto, peraltro, due madri insegnanti vecchia scuola) abbiamo conosciuto in questi anni da genitori quando ci si relaziona con la scuola: la mitica “autonomia scolastica”. Che in pratica vuol dire che gli insegnanti e il preside possono prendere anche una direzione ostinata e contraria al buon senso e non affrontare di petto nulla.

Lo scopo, quindi, oggi della scuola moderna e del politicamente corretto – per il poco che capisco io – è avere (forse) un delinquente in meno. E gli altri 50 che avrebbero potuto imparare qualcosa in più che fanno mi chiedo? E penso che tra cinque anni mio figlio non avrà imparato niente, o meglio non così tanto come quelli con cui nel mondo dovrà competere per un posto di lavoro. Ma magari il suo vicino di banco non finirà in carcere.

Mi spiace, non ci sto. Con mio marito decidiamo che non c’è via di uscita (anche se in questa scuola il corpo docente non è certo male e abbiamo trovato grande sensibilità, compreso il fatto che hanno convocato un’assemblea sul tema) e Salvatore che è nato problem solver “inside” dice : “Si fa come in Borsa, si vota con i piedi (traduzione: in Borsa se un titolo non ti piace lo vendi e vai da un’altra parte”). E poi il nostro lavoro porta a prendere decisioni veloci e sotto stress, questo contesto non è diverso“. In effetti io sono un po’ stressata.

Ri-esaminiamo tutte le scuole della provincia (siamo nel nord ovest fra Liguria e Toscana) nel fine settimana con nostro figlio Federico e guardiamo decine di video di presentazione. Troviamo un liceo a indirizzo Economico (dopo la riforma Gelmini ci sono più indirizzi di studio che professori) che ha materie simili anche se non è uguale uguale (Salvatore storce solo un po’ il naso: “la partita doppia non la fanno”.)

Eh pazienza la prendono più dall’alto, dico io, sono un liceo e la partita doppia (il dare e l’avere come il conto economico) un giorno la capirà anche lui come funziona nella Borsa come nella Vita.

Lo scorso giovedì Federico ha fatto la sua prima lezione in questo gineceo scolastico in cui ci sono 9 donne per ogni uomo. Mai viste tante ragazze in vita mia (Salvatore è già molto preoccupato).

E abbiamo trovato nel dirigente scolastico di questo istituto una persona super valida che ha compreso il nostro smarrimento.

Mamma a scuola i ragazzi sono silenziosi – racconta Federico al suo primo giorno – e nel pomeriggio ho chiesto i compiti nella chat dei miei compagni e in due minuti me li hanno mandati. È un altro mondo“.

Io e mio marito tiriamo un sospiro di sollievo e incrociamo le dita. Non siamo responsabili per la situazione in cui ci siamo trovati, ma lo saremmo diventati se non avessimo fatto nulla per cambiarla.

Per consolarmi, Salvatore mi regala un libro “Il danno scolastico” di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, edito da “La Nave di Teseo”. In questo libro i due autori, lui uno dei più importanti sociologi italiani e docente universitario, lei scrittrice, finalista al Premio Strega, articolista de Il Sole 24 Ore, ma anche insegnante nei licei per tanti anni, dicono che in nome dell’uguaglianza e dei diritti dei deboli, la scuola italiana è diventata una gigantesca macchina della disuguaglianza. Perché?

I figli di chi ha di più in tutti i sensi, ovvero benessere economico, migliore preparazione culturale, trovano sempre il modo di trovare una soluzione attingendo alle proprie risorse. E ricorrendo a lezioni private, per esempio, o potendo accedere a scuole più selezionate e magari più distanti o costose, i loro figli proseguiranno gli studi e ce la faranno anche se non sono particolarmente dotati. Ma i capaci e i meritevoli, si chiedono gli autori, se privi di mezzi, come potranno farcela ad acquisire i più alti gradi di istruzione? Secondo gli autori, per come è strutturata oggi la scuola italiana, non ce la faranno.

E consiglio per chi avesse un’oretta di tempo di ascoltare l’intervista sempre attuale che avevamo fatto con Salvatore al professor Ricolfi su Radioborsa sul suo libro precedente “La società signorile di massa” in cui si parlava anche della scuola e del perché da tempo in Italia l’ascensore sociale non funziona più. Povera patria.

Stai bene, investi bene