Gli italiani e l’Europa: tra sfiducia e paura dell’isolamento

Come noto, per la prima volta nella sua storia elettorale, le recenti consultazioni europee hanno fatto registrare a livello complessivo un significativo incremento del turnout. Da quando sono nate, nel 1979, il tasso di partecipazione era infatti andato progressivamente calando, dal 62% della sua prima edizione fino ad arrivare al misero 42,6% del 2014, quasi 20 punti in meno. Un regresso costante, in buona parte causato dalla scarsa affluenza registratasi dai nuovi ingressi nella UE, la cui rotta è stata invertita (paura dei sovranisti?) proprio quest’anno, con un incremento medio di oltre otto punti percentuali, determinato da un aumento dei votanti in quasi tutti i 28 paesi con le sole eccezioni, statisticamente significative, di Bulgaria (-5%), Italia e Irlanda (-3%), oltre ad altri 4-5 paesi con un decremento minimo.

L’Italia dunque è in negativa contro-tendenza, e l’emorragia partecipativa non si arresta nemmeno in questa occasione. Il dato italiano appare in linea con quanto registratosi nelle numerose indagini demoscopiche dell’ultimo anno, che hanno infatti puntualizzato come il gradimento nella propria presenza nella UE fosse per l’appunto nel nostro paese tra i livelli più bassi (di fatto il più basso, se non si tiene in considerazione l’UK, già in Brexit), sebbene con una marcata opinione prevalente di due terzi (43% a 23%) a favore del “remain”.

La campagna comunicativa dei due partner di governo, piuttosto euroscettici benché non più – come nel corso delle politiche 2018 – velatamente indirizzati verso il “leave” almeno per la moneta, pare aver dato qualche frutto, nell’atteggiamento degli italiani, in particolare per quanto riguarda il loro giudizio verso l’Unione Europea.

Non sono ovviamente più i tempi delle grandi speranze di fine Millennio, quando l’obiettivo di entrare in Europa fece le fortune del governo Prodi-Ciampi, con convinta adesione anche di ampie fette della popolazione, disposte a fare i sacrifici economici necessari per non essere tagliata fuori dal mondo che contava. Allora (nel 1997) il livello di fiducia per la Comunità Europea, come in quel periodo veniva chiamata, arrivava a valori poco inferiori al 70%, e per più di un decennio, pur tra alti e bassi, la UE ha rappresentato per gli italiani il “luogo” più importante in cui confidare, per mantenere un equilibrio di fondo a fronte dei sommovimenti politici-elettorali interni, nell’eterna battaglia tra centro-sinistra e centro-destra.

Il punto decisamente più elevato della fiducia (70%) è stato il 2011, annus horribilis del governo Berlusconi, quando in seguito all’incontrollabile incremento dello spread, la Ue impose un deciso cambiamento di rotta nella gestione economico-finanziaria del nostro paese, facilitando l’ingresso di Mario Monti in un governo tecnico che aveva come obiettivo principale il risanamento dei conti pubblici. Ma da allora inizia una inesorabile parabola discendente, con una diminuzione media della fiducia di circa 5 punti all’anno, fino ad approdare al valore attuale del 40%: una perdita secca di 30 punti in soli otto anni.

Fonte: Abacus (1996-2002) – Ipsos (2003-2019)

Da super-garante a costante oggetto di critiche, provenienti non soltanto dagli elettori dei cosiddetti partiti “euroscettici”, ma anche da una quota significativa degli altri elettorati più “europeisti”, che per la maggior parte condivide l’idea che la Ue sia diventata nel tempo più l’Europa delle banche che quella dei popoli, fallendo la sua missione unificatrice cui si era guardato alla nascita con grandi speranze.

Cresce dunque costantemente il disamore verso l’istituzione europea, dopo la messa in discussione a cavallo delle politiche del 2018, da parte di Lega e M5s, sia della permanenza nella Ue sia, soprattutto, del mantenimento dell’Euro come moneta corrente nel nostro paese. Peraltro, una volta formatosi il nuovo governo giallo-verde, i due partner dell’esecutivo retto da Conte tendono lentamente ad ammorbidire le proprie posizioni su entrambi i punti di rottura. Si passa dunque dall’abbandono tout-court di Euro e di UE ad una conflittualità, che resta certo accesa, ma maggiormente finalizzata ad una ridiscussione dei termini dei rapporti tra Bruxelles e l’Italia, con la pressante richiesta di maggior autonomia decisionale sui programmi economico-finanziari interni.

Una decisa svolta rispetto al recente passato, che accompagna la stessa opinione pubblica più euroscettica verso un ripensamento delle proprie posizioni sulla possibile uscita dal treno europeo, facilitato anche dai problemi riscontrati dalla complicata Brexit inglese e dalla paura dell’isolamento che ne potrebbe generare negli anni futuri.

Così, le opinioni degli italiani cominciano progressivamente a mutare, a favore del mantenimento dello status quo su entrambi i temi. Le ultime rilevazioni demoscopiche disponibili ci parlano oggi di una quota pari a tre quarti degli elettori che si dichiara favorevole al mantenimento dell’Euro come moneta corrente, con punte massime tra chi ha votato Pd (la quasi totalità) e punte minime tra i votanti di centro-destra. Allo stesso modo, e con quote pressoché identiche, l’opinione nei confronti dell’uscita dell’Italia dalla UE, che vede ridursi sensibilmente, rispetto allo scorso anno, coloro che si dichiarano a favore di una Ita-exit.

Se ancora qualcuno avesse dei dubbi sulla forza e l’impatto della comunicazione per forgiare le opinioni dei cittadini, questi risultati dovrebbero fugare ogni loro tipo di incertezza.




Sondaggi, exit-polls e proiezioni: perché tanti errori

Ci risiamo. Come lo scorso anno alle politiche, come nelle precedenti amministrative, come (quasi) sempre in tutti i tipi di consultazione elettorale dell’ultimo decennio almeno, conoscere in anticipo le tendenze del voto degli italiani è una chimera.

La serata del 26 maggio scorso è parsa a tutti una riedizione dell’incubo dell’anno precedente. Exit-polls che non avevano nulla a che vedere con i risultati reali, come avremmo scoperto qualche ora dopo, solamente grazie ai costanti – ma comunque sempre lenti – aggiornamenti del sito Eligendo, del Viminale. Prime proiezioni che si allontanavano, poco alla volta, dai precedenti exit-polls, ma con stime che restavano ancora molto distanti, pur con qualche meritoria eccezione, dalle percentuali di voto che avremmo saputo solo alle prime ore del mattino seguente.

Passi per le televisioni private, Sky o La7, ma se il servizio pubblico della Rai, con i soldi dei contribuenti, mette in scena uno spettacolo politico-giornalistico basato sulle stime di voto, e queste stime sono del tutto erronee, ci troviamo a chiederci: perché dobbiamo buttare i nostri soldi in questo modo? Perchè non seguire invece l’evoluzione dello scrutinio reale dei voti fornitoci del Ministero degli Interni che, oltretutto, è molto più divertente.

Tanto da assomigliare quasi ad un campionato di calcio: dopo le prime giornate è in testa il Partito Democratico, tallonato dal Movimento 5 stelle; ma ecco che nel girone di ritorno torna a farsi avanti la Lega di Salvini, che domina le ultime 10 partite e arriva trionfante ad aggiudicarsi la prima piazza, con un distacco piuttosto sensibile sugli altri contendenti. Scudetto aggiudicato, mentre sono relegate in serie B +Europa e La sinistra, capitanate da Bonino e Fratoianni, che non raggiungono il quorum necessario per restare nella massima serie. Un divertimento puro, anziché la rabbia di non capire se stiamo assistendo a reali anticipazioni di ciò che poi accadrà davvero, oppure a semplici numeri casuali, con beneficio di inventario.

Ora, sappiamo ormai molto bene che le stime prodotte dai sondaggi sono abbastanza deboli, abbastanza aleatorie, sempre più difficilmente veritiere. L’ho scritto qualche settimana fa proprio su questo sito: dieci buone ragioni per cui non credere (troppo) ai sondaggi. In particolare quelli sulle stime sul voto, perché questo è sempre più volatile, meno ancorato all’appartenenza socio-politica (la fedeltà pesante), meno determinato dalla vicinanza ideologica tipico della fedeltà leggera (berlusconiani contro anti-berlusconiani) e sempre più pragmatico ed emozionale. Il tradimento non genera più sensi di colpa, nella vita come nelle urne. Si può fare tutto, come già profetizzava Giorgio Gaber 40 anni fa.

I sondaggi dovrebbero essere in grado di capire dunque, più dell’elettore, quello che lui ancora non sa, cioè per quale partito voterà, anticipando le sue scelte finali: un compito quasi impossibile. Ma se gli errori nei sondaggi sono comprensibili, entro certi limitati, quelli negli exit-polls certamente un po’ meno, soprattutto perché la scelta finale l’elettore l’ha appena fatta, e dunque l’incertezza precedente è stata già risolta. Qui i problemi da superare sono di tre tipi: la desiderabilità sociale, il numero di sedi-campione esiguo e il sistema di rilevazione.

La desiderabilità sociale, vale a dire la scarsa volontà di dichiarare un partito non troppo ben visto dall’opinione pubblica, antica distorsione dei tempi della Democrazia Cristiana o del Berlusconi in crisi, pare essere ormai superata quasi del tutto. Sdoganata ogni possibile scelta politica, non ci si “vergogna” più di nulla, nemmeno del voto per Casa Pound, in sospetto neo-fascismo. E dunque, trovarsi con exit-polls dove la Lega veniva data da tutti con una forchetta tra il 27 ed il 30 per cento, come hanno fatto praticamente tutti gli Istituti di ricerca, sotto-stimandola di una quota compresa tra i 4 e i 7 punti, è un deciso errore che andrebbe sanzionato. Così come le stime del M5s, sovra-stimato in egual misura.

Le cause potrebbero essere individuate nella scarsa numerosità dei punti di campionamento. Se intervisto gli elettori di sole 30-40 sedi di voto, è possibile che i miei risultati saranno ampiamente distorti. Meglio non effettuare nulla in quel caso. E se così si fa perché i committenti non danno abbastanza soldi, ancor meglio astenersi, indicando loro il numero minimo di interviste da effettuare all’uscita dei seggi, altrimenti si declina l’incarico. Ma così non si fa. Si prendono i graditi compensi, sbagliando nettamente le previsioni, tanto chi ci rimette è il cittadino; il ricordo dell’errore sfumerà qualche ora dopo, quando i risultati reali verranno diffusi dal Viminale.

Ultimo possibile errore, il sistema di rilevazione o il modello di stima che non funziona. E in questo caso, inutile sottolinearlo, quegli Istituti dovrebbero chiudere definitivamente i battenti, almeno in questo campo, dopo almeno 30 anni di exit-poll, in Italia e nel mondo.

Infine, le proiezioni. In questo caso, l’errore è quasi “impossibile”, se si hanno a disposizione un numero di sezioni-campione minimamente affidabile, poiché si tratta unicamente di rilevare, attraverso appunto questo campione di sezioni, ciò che è accaduto nella popolazione elettorale nel suo complesso. E a chiusura dei seggi, domenica 26 maggio, ci siamo trovati sul video tre stime del tutto differenti: la Lega, il cui risultato finale è stato come noto del 34,3%, veniva data al 27%, al 29% e al 31%, nelle prime proiezioni. Errori di stima tra il 7,3% e il 3,3%: inammissibile.

Gli Istituti di ricerca che si esibiscono in queste performance dovrebbero venir valutati sulla base della loro efficienza. Se si sbagliano in maniera a volte clamorosa le stime degli exit-polls e, soprattutto, quelle delle proiezioni, si dovrebbe essere squalificati, come con il cartellino rosso nel calcio, almeno per un turno. Ma questo non accade.

Perché? Molto semplice. Si vincono le gare grazie al ribasso dei costi, e questo inevitabilmente porta ad un abbassamento della numerosità campionaria e ad una minor capacità previsiva dei campioni utilizzati, troppo ridotti. Gli errori devono (e possono) venir contenuti, fin dalla prima proiezione, ad un massimo dell’1-1,5%, e non possono essere superiori allo 0,5-0,8% all’ultima proiezione. Ma da anni questa efficienza non si raggiunge più. E non si incorre in nessuna “sanzione”, se non quella economica, forse.

E’ una sorta di “spirale dell’inefficienza”: i committenti (e se sono pubblici è altamente riprovevole) spendono meno e danno un servizio pessimo, con un risparmio ulteriore se tagliano i compensi in caso di errore; gli Istituti risparmiano sui propri costi, fornendo un servizio inutile, ma rientrano delle proprie spese, con un parallelo investimento pubblicitario sostanzialmente gratuito. E così continuerà, se qualcuno non fermerà la macchina.




Perché non credere ai sondaggi

Da anni, da quando ho iniziato ad occuparmi di sondaggi, soprattutto politici ma non solo, ho sempre fatto riferimento ad uno strano decalogo, quasi un decalogo all’incontrario: 10 buoni motivi per cui è opportuno non credere ai sondaggi, o meglio, ai risultati di un sondaggio. Gli errori insiti nel procedimento demoscopico sono così numerosi che, anche a cercare di far le cose in maniera il più corretta possibile, è quasi impossibile arrivare ad una soluzione che rispecchi esattamente il pensiero della popolazione di riferimento. Ci si può avvicinare, certo, ma con grandi margini di imprecisione.

Pensate soltanto ai quotidiani sondaggi sulle intenzioni di voto. Si utilizzano campioni di un migliaio di casi, quando va bene, per stimare partiti che a volte stanno attorno al 4%, e che con il classico “errore di campionamento” del 2-3% potrebbero valere dall’1% al 7%. Senza senso. Ma anche per le forze politiche più robuste le stime rimangono parecchio aleatorie. Su 1000 persone che rispondono, almeno 350-400 sono indecisi o astensionisti, e già qui il campione si riduce a 600 casi, con un margine di errore che sale a +/- 4%. Quindi, se ottengo una percentuale di consensi per la Lega, ad esempio, pari al 32%, vorrà dire che sono quasi certo che la Lega viaggia tra il 28% ed il 36%. Tutto e il contrario di tutto: se fosse al 28%, sarebbe in crisi, al 34% sarebbe in gran spolvero. Sostanzialmente, quel sondaggio non mi serve a niente, non mi dice nulla di più di quanto non sapessi già.

E questo per limitarci al solo errore statistico “misurabile”. Mentre nulla sappiamo di tutte le altre distorsioni non quantificabili: le sostituzioni del campione, l’auto-selezione dei rispondenti, l’errore di rilevazione, le bugie consapevoli e inconsapevoli, gli “auto-inganni”, l’influenza del mezzo di rilevazione, la desiderabilità sociale, la ristrutturazione del ricordo di voto, le risposte acquiescenti, l’impatto dell’intervistatore, l’aleatorietà delle opinioni e così via.

Last ma non certo least, il cosiddetto “wording”, vale a dire la scelta delle parole utilizzate per porre una certa domanda, che ha una influenza a volte così decisiva sui risultati dei sondaggi che in alcune occasioni le opinioni di campioni della popolazione, interrogati nello stesso giorno da due istituti di ricerca differenti, divergevano nettamente le une dalle altre.

Il caso più noto ci riporta a quanto avveniva negli USA durante la guerra del Vietnam: i quotidiani pro-intervento pubblicavano sondaggi in cui emergeva come la maggioranza degli americani fosse favorevole a “proteggere il popolo vietnamita (e americano) dall’influenza sovietica”; i quotidiani anti-interventisti pubblicavano viceversa sondaggi dove la maggioranza si dichiarava contraria a “mandare i propri figli a combattere e a morire in Vietnam”. Ma tutti i giornali titolavano semplicemente: “Gli americani sono a favore (oppure contro) il ritiro delle truppe”.

Questo esempio, unitamente a molti altri dello stesso tenore, ci induce infine a porci la cruciale domanda: fino a che punto è possibile “manipolare” un sondaggio, indirizzare cioè già dalla formulazione delle domande gli esiti delle interviste, ancora da realizzare? Per tentare di rispondere a questo quesito ho condotto un esperimento, in un mio recente laboratorio universitario. Ho redatto due questionari sulla qualità della vita a Milano, uno mirato ad ottenere un esito “positivo” e l’altro “negativo” su numerosi aspetti della vita milanese, e in particolare sulla accoglienza del programmato incremento di 50 centesimi del biglietto dei trasporti pubblici, deciso dal Comune.

Ho mandato poi gli studenti del laboratorio ad effettuare 600 interviste a due campioni gemelli con i due diversi questionari. I risultati hanno certificato, almeno in parte, le aspettative. I giudizi sugli aspetti considerati differiscono di quasi 20 punti percentuali tra il “positivo” e il “negativo”, con differenze piuttosto significative (oltre il 30%) per quanto riguarda soprattutto la dotazione commerciale, la manutenzione stradale e, come c’era da aspettarsi, il tema dell’immigrazione e dell’integrazione. Meno evidente, inaspettatamente, il “distacco” sul problema della sicurezza percepita.

In generale, peraltro, la buona percezione della qualità della vita a Milano è stata ribadita in entrambi gli approcci, con un livello di soddisfazione comunque elevato, costantemente superiore al 70% di giudizi positivi. Segno evidente che, se la gente è abbastanza soddisfatta, risulta difficile indurla alla negatività, anche con strumenti manipolatori.

C’è però un dato, infine, che getta una luce obliqua sulle capacità manipolatorie del “wording”, ed è quello che riguarda il giudizio sull’incremento del biglietto dei mezzi di trasporto. In questo caso, le differenze sono davvero molto sensibili: con l’approccio “positivo” l’opinione favorevole all’aumento del costo è pari al 69%, con quello “negativo” si riduce ad un misero 22%. Un abisso.

Che cosa farà dunque un’Amministrazione comunale “perversa” per far accettare ai suoi cittadini una qualsiasi propria iniziativa? Semplicemente, diffonderà con molta enfasi risultati di sondaggi manipolati, in cui risulta che la popolazione è particolarmente favorevole a quella iniziativa. Attenzione, dunque, quando appaiono sui giornali titoli evocativi di sondaggi effettuati: è opportuno, in ogni occasione, non fidarsi. Meglio andare a verificare “come” sono state poste le domande.




Elezioni europee: dai socialisti ai sovranisti?

Le recenti analisi sul rapporto tra italiani ed Europa, pubblicate nelle ultime settimane a partire da varie indagini demoscopiche (Censis, Eurobarometro e diversi Istituti di ricerca), ci proiettano automaticamente verso il prossimo futuro, verso l’importante (forse decisiva) scadenza delle elezioni europee del maggio del prossimo anno. Quando i destini della UE saranno messi in discussione dall’ondata “sovranista” che ribolle in maniera ormai evidente in tutti i territori dell’Unione.

Secondo l’ultimo Eurobarometro, tra i sostenitori del “remain” gli italiani (con circa il 66%) sono quasi in ultima posizione tra i cittadini europei, battuti solamente dai britannici (attestati oggi al 60%, una decina di punti in più rispetto al passato referendum). L’opinione dei nostri connazionali non fa certo scalpore, nonostante tanti commentatori abbiano espresso preoccupazione per questo risultato. Che inaspettato certo non è, in primo luogo per il noto trend decrescente dell’ultimo decennio nella fiducia nella UE, in secondo luogo a causa dei costanti richiami negativi dei nostri attuali governanti che, rispetto al passato, non fanno che enfatizzare ancora più la natura quasi perversa della conduzione dei vertici europei, così poco attenti ai popoli – a loro dire – per privilegiare unicamente gli aspetti economico-finanziari. Ma su questo tema così controverso e con risultati spesso ambivalenti, cercherò di fare il punto in maniera un po’ più approfondita, al di là degli “strilli” giornalistici, nei prossimi giorni.

Nonostante dunque il generale plebiscito a favore della permanenza nella UE, da parte di tutti gli elettori dei paesi membri, sappiamo molto bene come stia crescendo in molti di quegli stessi paesi un ampio fronte di partiti e movimenti dichiaratamente a favore della riduzione dell’influenza europea sulle singole Nazioni. Si vuole dunque restare in Europa, certo, ma nel contempo si vogliono mutare sensibilmente i confini di questa permanenza, ridando forza agli impianti legati alla sovranità nazionale.

Il rischio, di qui a qualche mese, è che il ruolo di questa UE possa cambiare in maniera drastica, che il cammino di progressiva indifferenziazione dei diversi Stati, in nome di un bene comune sovra-nazionale, faccia importanti passi indietro. Se non nella moneta unica, che rimane solidamente ancorata nella testa dei cittadini, quanto meno in numerosi degli altri aspetti che ci vedono oggi “schiavi” delle direttive europee, in materia non solo economica, ma anche ambientale, nella vita civile, nella gestione delle risorse, eccetera.

Che una maggioranza “sovranista” possa prendere piede a livello politico nel parlamento europeo non è ovviamente una certezza, ma è comunque uno dei possibili risultati delle prossime consultazioni europee. Il parlamento attuale, definito dal voto del 2014, vede i gruppi tradizionalmente riconducibili alla sinistra (verdi, socialdemocratici e sinistra radicale) attestati poco sotto il 40% dei deputati complessivi, una quota molto simile a quelli facenti capo al centro-destra (popolari+conservatori), con i liberal-democratici vicini al 9%. Gli euro-scettici hanno invece una rappresentanza parlamentare piuttosto insignificante, al di sotto del 7%.

Una situazione che verrà sicuramente rivoluzionata dalle prossime elezioni del 2019. Oggi i rappresentanti dei partiti che fanno parte dell’alleanza socialista-democratica nel parlamento sono in disarmo pressoché ovunque: nei paesi più popolosi e dunque con il maggior numero di parlamentari (Italia, Germania, Francia e Spagna) socialisti e social-democratici sono ridotti ad una quota di elettori compresa tra il 10% e il 20%, considerando oltretutto che non sarà presente l’UK, il solo luogo dove l’area socialista, con il Labour, è ancora altamente competitiva. Per tacere del cosiddetto “gruppo di Visegràd”, dove sono praticamente scomparsi, rimangono ancora competitivi nei paesi scandinavi, ma il loro buon risultato non sarà certo sufficiente per ambire ad un tasso di rappresentanza europea superiore al 15% complessivo, circa 10 punti in meno di quelli attuali. La sinistra dovrebbe viceversa confermare il risultato del 2014 (intorno al 6-7%).

Nell’area di centro-destra, gli stessi popolari non godono di buona salute, e sarà per loro molto dura riuscire a ribadire il risultato vicino al 30% di quattro anni fa, considerando l’assenza dei conservatori inglesi ed il fatto che alcune delle forze politiche di centro-destra (come già fece la Lega) potrebbero alle prossime elezioni uscire dal gruppo dei Popolari europei, polacchi ed ungheresi in particolare. Arrivare al 25% sarebbe per loro un successo, se l’appeal della Merkel reggerà, in attesa di comprendere a quale gruppo farà invece riferimento En Marche.

E’ probabile che Macron, peraltro anche lui in deciso regresso di consensi, vada ad alimentare le fila dei Liberal-Democratici, che arriverebbero così più o meno al 10% dei suffragi. Calcolando che le altre forze (conservatori e Verdi) prenderanno poco meno del 15% dei voti, la parte rimanente, un ulteriore 30% dei suffragi, se non di più, andrà molto probabilmente appannaggio dei partiti o dei movimenti o apertamente anti-europeisti o quanto meno euro-scettici, come il nostrano Movimento 5 stelle e la stessa Lega di Salvini, il Front National francese o Ciudadanos in Spagna.

L’attuale governo europeo, come è noto, è composto da una sorta di Grande Coalizione, tra socialisti, popolari e liberal-democratici, che detengono una forte maggioranza vicina ai due terzi dell’assemblea. Se i risultati saranno quelli qui ipotizzati, un po’ meno ottimistici per il governo in carica di quelli citati sul Sole 24 ore di domenica scorsa da Roberto D’Alimonte, quella maggioranza potrebbe ridursi al 50% dell’assemblea, o magari non raggiungerla affatto. Sarebbe certo possibile riproporla, ma con molte difficoltà di tenuta, soprattutto se, come si è detto, alcune delle forze politiche dei paesi dell’est abbandonassero l’area dei popolari per aderire a quella degli euro-scettici.

Sarebbe forse più semplice la formazione di un governo più compatto composto dal centro-destra più classico, con i conservatori, i popolari e i liberali, magari con l’appoggio dei verdi. Assisteremmo dunque in questo caso ad una competizione serrata tra il centro-destra, da una parte, e l’area euro-scettica (i “sovranisti”) dall’altra. E se questi ultimi uscissero vincitori della contesa, difficile ma non impossibile, molto arduo sarà immaginare quale Europa avremo di fronte di qui ad un anno.

*Una precedente versione ridotta di questo scritto è uscita sul sito “Gli Stati Generali”



Tutta colpa di Renzi?

Da mesi, se non da anni, il ritornello è sempre il medesimo: se il Pd va male, se il Partito Democratico è uscito dalla scena politica e dall’immaginario collettivo del “popolo della sinistra”, la colpa è soprattutto del suo ultimo segretario Matteo Renzi. Lui è il principale imputato di un trend che ha visto il suo partito passare dal 33.2% del 2008 al misero 18.7% delle ultime consultazioni legislative. La crisi della sinistra e del suo principale referente politico sarebbe addebitabile, quasi in toto, all’ex-sindaco di Firenze, che l’ha portata su posizioni totalmente aliene dalla mainstream della tradizione post-comunista, verso tratti decisamente liberali, se non evidentemente conservatori.

Giorni fa. Intervista televisiva. Un operaio licenziato perché la sua fabbrica è stata acquisita da una multinazionale francese e trasferita nel nord della Francia: è stata colpa di Renzi e del Pd! Ora, dopo anni in cui ho votato Pci e la sinistra, ho scelto la Lega di Salvini. L’unico che può invertire la rotta che ha preso il nostro paese.

Sardegna. Agosto 2018. Festa del porceddu. Tra un discorso e l’altro, un anziano contadino: ho votato Lega, è il vero partito del cambiamento. Renzi ci ha ridotto proprio male, a noi sardi, ci ha ridotto in miseria. E sì che gli avevo pure dato il mio voto, la volta precedente. Purtroppo.

Renzi, Renzi, Renzi. Un fantasma si aggirerebbe dunque per l’Italia, il fantasma di colui che, a dispetto del glorioso partito che tentava di costruire il volto nuovo del paese, l’ha portato sostanzialmente alla rovina. Ma sarà vero? Sarà realmente tutta sua la colpa?

Osserviamo intanto per un attimo il trend dei consensi dell’area vicina al centro-sinistra in questo nuovo secolo, dal 2001 ad oggi (fig.1). Come si può notare, nei primi anni del decennio Ds e Margherita, separati o sotto il simbolo unitario dell’Ulivo, hanno costantemente ottenuto un successo elettorale di poco inferiore ad un terzo dei votanti. L’exploit di Veltroni del 2008, che correva per la prima volta con il neonato Partito Democratico, in realtà non è che sia stato un vero exploit: ha migliorato soltanto di poco, un paio di punti percentuali, il retaggio delle formazioni politiche aggregatisi nel Pd e, considerando  inoltre il fatto che il resto della sinistra (Rifondazione & soci) sia praticamente scomparsa, non si può che giungere alla conclusione che il bacino elettorale di quell’area non riuscisse ad andare molto oltre il 35-36% della popolazione italiana.

Fig 1. Consensi elettorali. Politiche + Europee

Una storia non inedita, peraltro. Una storia che ci riporta agli anni della prima repubblica, quando quell’area (sommando il Pci con le altre piccole formazioni di sinistra, come Democrazia Proletaria) anche allora non otteneva una quantità di consensi molto differente da quella di Pd e Rifondazione. Forse era inutile illudersi: gli italiani favorevoli alla sinistra di allora (o al centro-sinistra odierno) non sono mai stati nemmeno lontanamente prossimi al 40% della popolazione.

Il Partito Democratico, per certi versi, aveva scommesso sull’allargamento di quella base elettorale, tentando di attirare a sé anche una parte inedita di elettori, che avrebbe potuto guardare alla proposta del Pd con occhi nuovi, diversi dal passato. Il Pd, per riuscirci avrebbe dovuto partire dal quel 33% di Veltroni, incrementando anno dopo anno il suo bacino di consenso.

Ma così non è stato. Anzi. Dal 2008 in poi, in tutte le consultazioni legislative (fig.2) il Pd è costantemente retrocesso nel favore degli italiani, prima con Bersani (-8% rispetto a Veltroni) e poi con lo stesso Renzi (un ulteriore -6.5% rispetto a Bersani), in una costante e continuativa incapacità di intercettare quei settori sociali cui puntava per accrescere il proprio appeal. Tutti “colpevoli”, dunque, parrebbe di dover dire. Non soltanto infatti il Pd non è riuscito a diventare il referente di un nuovo elettorato, ma poco alla volta ha perso sia una parte dei suoi antichi estimatori ex-Pci, con Bersani, che anche dei nuovi, di quelli che avevano sperato in un cambio di prospettiva con Renzi.

Fig.2 Consensi elettorali. Solo Politiche – Camera

Perché, se torniamo ad osservare il primo grafico, si può chiaramente individuare un momento in cui, all’interno di questo cammino da gambero, il Partito Democratico ha vissuto una situazione così anomala che oggi molti stentano a credere che sia davvero accaduto. Nelle europee del 2014, pochi mesi dopo il suo insediamento, Matteo Renzi ha davvero compiuto un mezzo miracolo, andando a superare per la prima volta nella storia l’asticella del 40%. Certo, con un numero di votanti inferiore a quelli di Veltroni, ma comunque un risultato simbolicamente significativo.

Renzi era stato dunque capace di convincere una fetta importante di elettori che, con lui, sarebbe iniziato realmente un nuovo corso, un nuovo partito di centro-sinistra che si smarcava dai retaggi del passato, per guardare ad un futuro diverso. Inedito. La sua colpa, forse, è stata proprio quella di candidarsi ad un modo nuovo di governare, ad una modalità politica inedita per un partito di sinistra, senza averne realmente le capacità “politiche”. Il suo fulgore è durato poco, lo sappiamo, e presto è rientrato nei consueti parametri, inimicandosi inoltre con il suo comportamento gran parte di chi aveva per un attimo creduto in lui. Ma probabilmente la vera anomalia è stata proprio quel suo grande successo, che ha fermato per un attimo il declino inevitabile del Pd. Che poi è ripreso in maniera ineluttabile, con o senza Renzi.