Il taglio dei parlamentari è solo populismo?

I sondaggi più recenti ci informano che quasi il 90% degli italiani giudica favorevolmente il taglio dei parlamentari. Dunque, praticamente tutti gli elettori stanno dalla parte della riforma recentemente votata alla Camera ed al Senato; una riforma che è stata tentata per diversi decenni da tutti i governi, o le bicamerali, che si sono succeduti nel corso del tempo, a cominciare dal 1963 per finire con la riforma costituzionale proposta da Renzi, senza mai riuscirci per un motivo o per un altro. E’ curioso ricordare che la limatura approvata lunedì scorso è esattamente quella proposta dalla bicamerale guidata da Nilde Iotti e Ciriaco De Mita nel 1994, sull’onda di Tangentopoli.

Ma come si era arrivati a questo numero di 945 parlamentari (630 alla Camera e 315 al Senato, escludendo i senatori a vita) ed esiste un numero “giusto”? Il percorso, per limitarci all’Italia repubblicana, è molto semplice: la Costituzione del 1948 aveva stabilito che il numero di deputati fosse pari a 1 ogni 80mila abitanti e quello dei senatori a 1 ogni 200mila; era dunque variabile, ed aumentava con l’incremento della popolazione. Nel 1948, ad esempio, furono eletti 574 deputati e 237 senatori, mentre dieci anni dopo furono rispettivamente una ventina e una decina di più, 596 e 246. La riforma costituzionale del 1963 abolì questa variabilità, stabilendo infine la numerosità del Parlamento attuale.

Troppi? Troppo pochi? Impossibile ovviamente dare una risposta a questa domanda. Resta il fatto che l’Italia è il paese che, con quasi un migliaio, detiene oggi il record del maggior numero di parlamentari al mondo di origine elettiva, fatta eccezione della Cina che ne ha circa 3000, ma quello è certo un mondo a parte. Con la riduzione a 600, se il referendum lo confermerà, ci troveremmo invece ad un livello intermedio, in compagnia di diverse altre Nazioni e in linea con le principali democrazie nel rapporto tra eletti e popolazione elettorale.

Le motivazioni che hanno spinto alla riforma le forze politiche, ed in particolare il Movimento 5 stelle che – si sa – ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, sono di due ordini di motivi: il primo è la maggior efficienza di un Parlamento più snello, mentre il secondo, di gran lunga quello più motivante e sottolineato dai proponenti, è il risparmio nei conti pubblici. Che in realtà non è poi così eclatante: le analisi ci dicono che si risparmierebbe una cifra compresa tra gli 80 e i 100 milioni l’anno (circa 250mila euro per ognuno dei 345 parlamentari in meno), pari allo 0,006% del nostro debito pubblico.

Certo, non è molto, né lo sarebbe se si tagliassero anche gli stipendi di chi siede in Parlamento. Ma è sicuramente un segnale, che come si è visto procede nella direzione indicata dalla volontà popolare, che approva questo provvedimento. E’ un segnale di populismo, di demagogia un po’ fine a se stessa? Può darsi. Sono in molti a sottolinearlo, sia tra i politici che tra i commentatori. Le campagne e gli atteggiamenti anti-casta sono da sempre presenti nel nostro come peraltro in molti altri paesi, e i politici rappresentano forse l’emblema di ciò che si ritiene essere una “casta”, tanto che nelle periodiche rilevazioni, sono proprio loro quelli che stanno in fondo alle classifiche sulla fiducia, subito prima dei rom.

Che con questa riforma si voglia solleticare la parte più populistica della popolazione può essere vero, soprattutto se non sarà accompagnata – come promesso – da una vera riforma elettorale che renda questo “snellimento” adeguato ad un reale miglioramento delle funzioni legislative (ed esecutive) del Parlamento (e del Governo). E che, soprattutto, si apra un dibattito costruttivo sulla mai risolta diatriba tra rappresentatività e governabilità, tra sistema proporzionale e sistema maggioritario, tra turno unico e ballottaggio. Questi temi, forse, sono più decisivi per le sorti della nostra democrazia, rispetto al fatto che – magari – il Molise avrà un suo rappresentante in meno nel nostro Parlamento. Ma occorre affrontarli e risolverli. Rapidamente.




Il ritorno “emozionale” degli elettori 5 stelle

Gli umori sono dunque un po’ cambiati, da inizio estate ad oggi. Allora, il vissuto emozionale degli italiani, divenuto ormai il vero traino delle opinioni e degli orientamenti di voto, era ben saldamente ancorato al Capitano leghista. Reduce dal buon successo elettorale alle europee, con un incremento di quasi 3,5 milioni di voti in un solo anno, e dall’effetto “bandwagon” che ne era derivato, il mese di luglio aveva rappresentato per Matteo Salvini il momento più elevato del suo consenso e, di conseguenza, di quello del suo partito, che alcuni ipotizzavano prossimo al 40% dei voti validi, laddove il suo credito di fiducia personale superava addirittura la metà di tutto l’elettorato. Come dire che almeno un italiano su due, che volesse andare a votare o che volesse astenersi, giudicava positivamente l’operato del leader della Lega.

Cifre da capogiro, che potrebbero far perdere la testa a chiunque (come peraltro è capitato allo stesso Renzi) e che possono indurre in tentazione anche il più moderato uomo politico, figuriamoci uno che tanto moderato non lo è di suo. E la tentazione di monetizzare tutto e (quasi) subito gli ha forse fatto commettere un errore, sottovalutando la reazione quasi pavloviana da parte del resto della classe politica, di fronte alla insistita richiesta di “pieni poteri” per guidare il nostro paese.

Tutti gli altri si sono velocemente ribellati; Conte se ne è uscito con la miglior performance comunicativa della sua vita, attaccando Salvini in profondità e con cognizione di causa e appellandosi all’altra metà dell’Italia, quella che non stravede per il leader leghista; il Partito Democratico, insieme a molti pentastellati, ha ricominciato a pensare ad un futuro meno legato alla risoluzione dei propri litigi interni e più vicino ai bisogni del paese.

E’ bastato questo, sono bastati questi piccoli avvenimenti quotidiani per cambiare l’umore di una parte significativa della popolazione. Salvini, a giudicare dai sondaggi pubblicati recentemente, ha perso quasi il 15% di giudizi positivi nei suoi confronti; la Lega si è alienata un 5-6% dei suoi potenziali elettori di luglio; il Movimento 5 stelle ha recuperato una fetta importante dei suoi precedenti estimatori, nonostante Di Maio che invece appare ancora in sofferenza nei giudizi nei suoi confronti.

Se non è emozione pura questa, senza troppa razionalità né profondità di pensiero, quali altre occasioni dobbiamo aspettarci per prenderne definitivamente atto? Nel confronto con il voto politico dello scorso anno, il tasso di fedeltà al M5s era intorno al 30-35% fino a luglio, mentre oggi supera nettamente il 50%: come dire che l’emozione vale almeno il 20% dei consensi, il sentimento di ritrovata centralità nel gioco politico fa riacquistare fiducia in una forza politica che, fino ad un mese fa, era giudicata quasi in via di estinzione, destinata forse a non superare il 10% in caso di elezioni anticipate.

Per non pensare a cosa accadrà se l’ipotesi di governo M5s-Pd non andrà poi a buon fine. Nuove emozioni sanciranno un drastico ripensamento della fiducia in queste due forze politiche, e si ritornerà con Salvini trionfante e Giorgia Meloni in netta ascesa nei giudizi degli italiani. La volatilità di pensiero è forse ciò che più contraddistingue questi nostri tempi non propriamente felici, come giustamente sottolinea Luigi di Gregorio nel suo recente saggio “Demopatìa”.




Gli italiani e l’Europa: tra sfiducia e paura dell’isolamento

Come noto, per la prima volta nella sua storia elettorale, le recenti consultazioni europee hanno fatto registrare a livello complessivo un significativo incremento del turnout. Da quando sono nate, nel 1979, il tasso di partecipazione era infatti andato progressivamente calando, dal 62% della sua prima edizione fino ad arrivare al misero 42,6% del 2014, quasi 20 punti in meno. Un regresso costante, in buona parte causato dalla scarsa affluenza registratasi dai nuovi ingressi nella UE, la cui rotta è stata invertita (paura dei sovranisti?) proprio quest’anno, con un incremento medio di oltre otto punti percentuali, determinato da un aumento dei votanti in quasi tutti i 28 paesi con le sole eccezioni, statisticamente significative, di Bulgaria (-5%), Italia e Irlanda (-3%), oltre ad altri 4-5 paesi con un decremento minimo.

L’Italia dunque è in negativa contro-tendenza, e l’emorragia partecipativa non si arresta nemmeno in questa occasione. Il dato italiano appare in linea con quanto registratosi nelle numerose indagini demoscopiche dell’ultimo anno, che hanno infatti puntualizzato come il gradimento nella propria presenza nella UE fosse per l’appunto nel nostro paese tra i livelli più bassi (di fatto il più basso, se non si tiene in considerazione l’UK, già in Brexit), sebbene con una marcata opinione prevalente di due terzi (43% a 23%) a favore del “remain”.

La campagna comunicativa dei due partner di governo, piuttosto euroscettici benché non più – come nel corso delle politiche 2018 – velatamente indirizzati verso il “leave” almeno per la moneta, pare aver dato qualche frutto, nell’atteggiamento degli italiani, in particolare per quanto riguarda il loro giudizio verso l’Unione Europea.

Non sono ovviamente più i tempi delle grandi speranze di fine Millennio, quando l’obiettivo di entrare in Europa fece le fortune del governo Prodi-Ciampi, con convinta adesione anche di ampie fette della popolazione, disposte a fare i sacrifici economici necessari per non essere tagliata fuori dal mondo che contava. Allora (nel 1997) il livello di fiducia per la Comunità Europea, come in quel periodo veniva chiamata, arrivava a valori poco inferiori al 70%, e per più di un decennio, pur tra alti e bassi, la UE ha rappresentato per gli italiani il “luogo” più importante in cui confidare, per mantenere un equilibrio di fondo a fronte dei sommovimenti politici-elettorali interni, nell’eterna battaglia tra centro-sinistra e centro-destra.

Il punto decisamente più elevato della fiducia (70%) è stato il 2011, annus horribilis del governo Berlusconi, quando in seguito all’incontrollabile incremento dello spread, la Ue impose un deciso cambiamento di rotta nella gestione economico-finanziaria del nostro paese, facilitando l’ingresso di Mario Monti in un governo tecnico che aveva come obiettivo principale il risanamento dei conti pubblici. Ma da allora inizia una inesorabile parabola discendente, con una diminuzione media della fiducia di circa 5 punti all’anno, fino ad approdare al valore attuale del 40%: una perdita secca di 30 punti in soli otto anni.

Fonte: Abacus (1996-2002) – Ipsos (2003-2019)

Da super-garante a costante oggetto di critiche, provenienti non soltanto dagli elettori dei cosiddetti partiti “euroscettici”, ma anche da una quota significativa degli altri elettorati più “europeisti”, che per la maggior parte condivide l’idea che la Ue sia diventata nel tempo più l’Europa delle banche che quella dei popoli, fallendo la sua missione unificatrice cui si era guardato alla nascita con grandi speranze.

Cresce dunque costantemente il disamore verso l’istituzione europea, dopo la messa in discussione a cavallo delle politiche del 2018, da parte di Lega e M5s, sia della permanenza nella Ue sia, soprattutto, del mantenimento dell’Euro come moneta corrente nel nostro paese. Peraltro, una volta formatosi il nuovo governo giallo-verde, i due partner dell’esecutivo retto da Conte tendono lentamente ad ammorbidire le proprie posizioni su entrambi i punti di rottura. Si passa dunque dall’abbandono tout-court di Euro e di UE ad una conflittualità, che resta certo accesa, ma maggiormente finalizzata ad una ridiscussione dei termini dei rapporti tra Bruxelles e l’Italia, con la pressante richiesta di maggior autonomia decisionale sui programmi economico-finanziari interni.

Una decisa svolta rispetto al recente passato, che accompagna la stessa opinione pubblica più euroscettica verso un ripensamento delle proprie posizioni sulla possibile uscita dal treno europeo, facilitato anche dai problemi riscontrati dalla complicata Brexit inglese e dalla paura dell’isolamento che ne potrebbe generare negli anni futuri.

Così, le opinioni degli italiani cominciano progressivamente a mutare, a favore del mantenimento dello status quo su entrambi i temi. Le ultime rilevazioni demoscopiche disponibili ci parlano oggi di una quota pari a tre quarti degli elettori che si dichiara favorevole al mantenimento dell’Euro come moneta corrente, con punte massime tra chi ha votato Pd (la quasi totalità) e punte minime tra i votanti di centro-destra. Allo stesso modo, e con quote pressoché identiche, l’opinione nei confronti dell’uscita dell’Italia dalla UE, che vede ridursi sensibilmente, rispetto allo scorso anno, coloro che si dichiarano a favore di una Ita-exit.

Se ancora qualcuno avesse dei dubbi sulla forza e l’impatto della comunicazione per forgiare le opinioni dei cittadini, questi risultati dovrebbero fugare ogni loro tipo di incertezza.




Sondaggi, exit-polls e proiezioni: perché tanti errori

Ci risiamo. Come lo scorso anno alle politiche, come nelle precedenti amministrative, come (quasi) sempre in tutti i tipi di consultazione elettorale dell’ultimo decennio almeno, conoscere in anticipo le tendenze del voto degli italiani è una chimera.

La serata del 26 maggio scorso è parsa a tutti una riedizione dell’incubo dell’anno precedente. Exit-polls che non avevano nulla a che vedere con i risultati reali, come avremmo scoperto qualche ora dopo, solamente grazie ai costanti – ma comunque sempre lenti – aggiornamenti del sito Eligendo, del Viminale. Prime proiezioni che si allontanavano, poco alla volta, dai precedenti exit-polls, ma con stime che restavano ancora molto distanti, pur con qualche meritoria eccezione, dalle percentuali di voto che avremmo saputo solo alle prime ore del mattino seguente.

Passi per le televisioni private, Sky o La7, ma se il servizio pubblico della Rai, con i soldi dei contribuenti, mette in scena uno spettacolo politico-giornalistico basato sulle stime di voto, e queste stime sono del tutto erronee, ci troviamo a chiederci: perché dobbiamo buttare i nostri soldi in questo modo? Perchè non seguire invece l’evoluzione dello scrutinio reale dei voti fornitoci del Ministero degli Interni che, oltretutto, è molto più divertente.

Tanto da assomigliare quasi ad un campionato di calcio: dopo le prime giornate è in testa il Partito Democratico, tallonato dal Movimento 5 stelle; ma ecco che nel girone di ritorno torna a farsi avanti la Lega di Salvini, che domina le ultime 10 partite e arriva trionfante ad aggiudicarsi la prima piazza, con un distacco piuttosto sensibile sugli altri contendenti. Scudetto aggiudicato, mentre sono relegate in serie B +Europa e La sinistra, capitanate da Bonino e Fratoianni, che non raggiungono il quorum necessario per restare nella massima serie. Un divertimento puro, anziché la rabbia di non capire se stiamo assistendo a reali anticipazioni di ciò che poi accadrà davvero, oppure a semplici numeri casuali, con beneficio di inventario.

Ora, sappiamo ormai molto bene che le stime prodotte dai sondaggi sono abbastanza deboli, abbastanza aleatorie, sempre più difficilmente veritiere. L’ho scritto qualche settimana fa proprio su questo sito: dieci buone ragioni per cui non credere (troppo) ai sondaggi. In particolare quelli sulle stime sul voto, perché questo è sempre più volatile, meno ancorato all’appartenenza socio-politica (la fedeltà pesante), meno determinato dalla vicinanza ideologica tipico della fedeltà leggera (berlusconiani contro anti-berlusconiani) e sempre più pragmatico ed emozionale. Il tradimento non genera più sensi di colpa, nella vita come nelle urne. Si può fare tutto, come già profetizzava Giorgio Gaber 40 anni fa.

I sondaggi dovrebbero essere in grado di capire dunque, più dell’elettore, quello che lui ancora non sa, cioè per quale partito voterà, anticipando le sue scelte finali: un compito quasi impossibile. Ma se gli errori nei sondaggi sono comprensibili, entro certi limitati, quelli negli exit-polls certamente un po’ meno, soprattutto perché la scelta finale l’elettore l’ha appena fatta, e dunque l’incertezza precedente è stata già risolta. Qui i problemi da superare sono di tre tipi: la desiderabilità sociale, il numero di sedi-campione esiguo e il sistema di rilevazione.

La desiderabilità sociale, vale a dire la scarsa volontà di dichiarare un partito non troppo ben visto dall’opinione pubblica, antica distorsione dei tempi della Democrazia Cristiana o del Berlusconi in crisi, pare essere ormai superata quasi del tutto. Sdoganata ogni possibile scelta politica, non ci si “vergogna” più di nulla, nemmeno del voto per Casa Pound, in sospetto neo-fascismo. E dunque, trovarsi con exit-polls dove la Lega veniva data da tutti con una forchetta tra il 27 ed il 30 per cento, come hanno fatto praticamente tutti gli Istituti di ricerca, sotto-stimandola di una quota compresa tra i 4 e i 7 punti, è un deciso errore che andrebbe sanzionato. Così come le stime del M5s, sovra-stimato in egual misura.

Le cause potrebbero essere individuate nella scarsa numerosità dei punti di campionamento. Se intervisto gli elettori di sole 30-40 sedi di voto, è possibile che i miei risultati saranno ampiamente distorti. Meglio non effettuare nulla in quel caso. E se così si fa perché i committenti non danno abbastanza soldi, ancor meglio astenersi, indicando loro il numero minimo di interviste da effettuare all’uscita dei seggi, altrimenti si declina l’incarico. Ma così non si fa. Si prendono i graditi compensi, sbagliando nettamente le previsioni, tanto chi ci rimette è il cittadino; il ricordo dell’errore sfumerà qualche ora dopo, quando i risultati reali verranno diffusi dal Viminale.

Ultimo possibile errore, il sistema di rilevazione o il modello di stima che non funziona. E in questo caso, inutile sottolinearlo, quegli Istituti dovrebbero chiudere definitivamente i battenti, almeno in questo campo, dopo almeno 30 anni di exit-poll, in Italia e nel mondo.

Infine, le proiezioni. In questo caso, l’errore è quasi “impossibile”, se si hanno a disposizione un numero di sezioni-campione minimamente affidabile, poiché si tratta unicamente di rilevare, attraverso appunto questo campione di sezioni, ciò che è accaduto nella popolazione elettorale nel suo complesso. E a chiusura dei seggi, domenica 26 maggio, ci siamo trovati sul video tre stime del tutto differenti: la Lega, il cui risultato finale è stato come noto del 34,3%, veniva data al 27%, al 29% e al 31%, nelle prime proiezioni. Errori di stima tra il 7,3% e il 3,3%: inammissibile.

Gli Istituti di ricerca che si esibiscono in queste performance dovrebbero venir valutati sulla base della loro efficienza. Se si sbagliano in maniera a volte clamorosa le stime degli exit-polls e, soprattutto, quelle delle proiezioni, si dovrebbe essere squalificati, come con il cartellino rosso nel calcio, almeno per un turno. Ma questo non accade.

Perché? Molto semplice. Si vincono le gare grazie al ribasso dei costi, e questo inevitabilmente porta ad un abbassamento della numerosità campionaria e ad una minor capacità previsiva dei campioni utilizzati, troppo ridotti. Gli errori devono (e possono) venir contenuti, fin dalla prima proiezione, ad un massimo dell’1-1,5%, e non possono essere superiori allo 0,5-0,8% all’ultima proiezione. Ma da anni questa efficienza non si raggiunge più. E non si incorre in nessuna “sanzione”, se non quella economica, forse.

E’ una sorta di “spirale dell’inefficienza”: i committenti (e se sono pubblici è altamente riprovevole) spendono meno e danno un servizio pessimo, con un risparmio ulteriore se tagliano i compensi in caso di errore; gli Istituti risparmiano sui propri costi, fornendo un servizio inutile, ma rientrano delle proprie spese, con un parallelo investimento pubblicitario sostanzialmente gratuito. E così continuerà, se qualcuno non fermerà la macchina.




Perché non credere ai sondaggi

Da anni, da quando ho iniziato ad occuparmi di sondaggi, soprattutto politici ma non solo, ho sempre fatto riferimento ad uno strano decalogo, quasi un decalogo all’incontrario: 10 buoni motivi per cui è opportuno non credere ai sondaggi, o meglio, ai risultati di un sondaggio. Gli errori insiti nel procedimento demoscopico sono così numerosi che, anche a cercare di far le cose in maniera il più corretta possibile, è quasi impossibile arrivare ad una soluzione che rispecchi esattamente il pensiero della popolazione di riferimento. Ci si può avvicinare, certo, ma con grandi margini di imprecisione.

Pensate soltanto ai quotidiani sondaggi sulle intenzioni di voto. Si utilizzano campioni di un migliaio di casi, quando va bene, per stimare partiti che a volte stanno attorno al 4%, e che con il classico “errore di campionamento” del 2-3% potrebbero valere dall’1% al 7%. Senza senso. Ma anche per le forze politiche più robuste le stime rimangono parecchio aleatorie. Su 1000 persone che rispondono, almeno 350-400 sono indecisi o astensionisti, e già qui il campione si riduce a 600 casi, con un margine di errore che sale a +/- 4%. Quindi, se ottengo una percentuale di consensi per la Lega, ad esempio, pari al 32%, vorrà dire che sono quasi certo che la Lega viaggia tra il 28% ed il 36%. Tutto e il contrario di tutto: se fosse al 28%, sarebbe in crisi, al 34% sarebbe in gran spolvero. Sostanzialmente, quel sondaggio non mi serve a niente, non mi dice nulla di più di quanto non sapessi già.

E questo per limitarci al solo errore statistico “misurabile”. Mentre nulla sappiamo di tutte le altre distorsioni non quantificabili: le sostituzioni del campione, l’auto-selezione dei rispondenti, l’errore di rilevazione, le bugie consapevoli e inconsapevoli, gli “auto-inganni”, l’influenza del mezzo di rilevazione, la desiderabilità sociale, la ristrutturazione del ricordo di voto, le risposte acquiescenti, l’impatto dell’intervistatore, l’aleatorietà delle opinioni e così via.

Last ma non certo least, il cosiddetto “wording”, vale a dire la scelta delle parole utilizzate per porre una certa domanda, che ha una influenza a volte così decisiva sui risultati dei sondaggi che in alcune occasioni le opinioni di campioni della popolazione, interrogati nello stesso giorno da due istituti di ricerca differenti, divergevano nettamente le une dalle altre.

Il caso più noto ci riporta a quanto avveniva negli USA durante la guerra del Vietnam: i quotidiani pro-intervento pubblicavano sondaggi in cui emergeva come la maggioranza degli americani fosse favorevole a “proteggere il popolo vietnamita (e americano) dall’influenza sovietica”; i quotidiani anti-interventisti pubblicavano viceversa sondaggi dove la maggioranza si dichiarava contraria a “mandare i propri figli a combattere e a morire in Vietnam”. Ma tutti i giornali titolavano semplicemente: “Gli americani sono a favore (oppure contro) il ritiro delle truppe”.

Questo esempio, unitamente a molti altri dello stesso tenore, ci induce infine a porci la cruciale domanda: fino a che punto è possibile “manipolare” un sondaggio, indirizzare cioè già dalla formulazione delle domande gli esiti delle interviste, ancora da realizzare? Per tentare di rispondere a questo quesito ho condotto un esperimento, in un mio recente laboratorio universitario. Ho redatto due questionari sulla qualità della vita a Milano, uno mirato ad ottenere un esito “positivo” e l’altro “negativo” su numerosi aspetti della vita milanese, e in particolare sulla accoglienza del programmato incremento di 50 centesimi del biglietto dei trasporti pubblici, deciso dal Comune.

Ho mandato poi gli studenti del laboratorio ad effettuare 600 interviste a due campioni gemelli con i due diversi questionari. I risultati hanno certificato, almeno in parte, le aspettative. I giudizi sugli aspetti considerati differiscono di quasi 20 punti percentuali tra il “positivo” e il “negativo”, con differenze piuttosto significative (oltre il 30%) per quanto riguarda soprattutto la dotazione commerciale, la manutenzione stradale e, come c’era da aspettarsi, il tema dell’immigrazione e dell’integrazione. Meno evidente, inaspettatamente, il “distacco” sul problema della sicurezza percepita.

In generale, peraltro, la buona percezione della qualità della vita a Milano è stata ribadita in entrambi gli approcci, con un livello di soddisfazione comunque elevato, costantemente superiore al 70% di giudizi positivi. Segno evidente che, se la gente è abbastanza soddisfatta, risulta difficile indurla alla negatività, anche con strumenti manipolatori.

C’è però un dato, infine, che getta una luce obliqua sulle capacità manipolatorie del “wording”, ed è quello che riguarda il giudizio sull’incremento del biglietto dei mezzi di trasporto. In questo caso, le differenze sono davvero molto sensibili: con l’approccio “positivo” l’opinione favorevole all’aumento del costo è pari al 69%, con quello “negativo” si riduce ad un misero 22%. Un abisso.

Che cosa farà dunque un’Amministrazione comunale “perversa” per far accettare ai suoi cittadini una qualsiasi propria iniziativa? Semplicemente, diffonderà con molta enfasi risultati di sondaggi manipolati, in cui risulta che la popolazione è particolarmente favorevole a quella iniziativa. Attenzione, dunque, quando appaiono sui giornali titoli evocativi di sondaggi effettuati: è opportuno, in ogni occasione, non fidarsi. Meglio andare a verificare “come” sono state poste le domande.