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Astensioni e delusioni

22 Febbraio 2023 - di Paolo Natale

In primo pianoPolitica

Trascorso qualche giorno dalle considerazioni sorprese dei commentatori e dalle spiegazioni a caldo del fenomeno del deciso incremento dell’astensionismo, il tema è un po’ evaporato, come accade troppo sovente nel nostro paese. Possiamo e dobbiamo invece tornare a parlarne ora in maniera forse meno emotiva e più razionale, cercando di identificarne le cause più profonde, quanto meno in Italia, senza peraltro dimenticare che questa tendenza si manifesta a volte ancora più evidente in molte delle altre democrazie occidentali.

 I dati di fatto sono presto riassunti: nel Lazio e in Lombardia hanno votato alle ultime regionali tre milioni di persone in meno rispetto alle elezioni politiche di settembre, già demarcate da un forte calo di votanti rispetto alle politiche precedenti (un ulteriore milione in meno nelle due regioni), e la stessa lista di Fratelli d’Italia, ilpartito certamente vincitore anche di questa tornata, ha lasciato a casa un milione di voti in poco più di quattro mesi.

Questi dati non paiono casuali, come forse poteva essere giudicato il tracollo della partecipazione in Emilia-Romagna nel 2014, quando votò soltanto poco più del 37% degli aventi diritto, un po’ come nel Lazio di quest’anno. Cinque anni più tardi, così come cinque anni prima, la l’affluenza registrava infatti valori prossimi al 70%. Quella sorta di indicente di percorso, in una regione peraltro dove il turnout è costantemente tra i primi del paese, non fu mai chiaramente analizzato, ma è probabile fosse dovuto ad un improvviso disinteresse per una consultazione il cui risultato non era mai stato messo in dubbio, in un periodo in cui il Pd per una volta nella sua storia stava vivendo un momento di grandissimo consenso elettorale ed aveva appena trionfato, con Renzi, alle recenti Europee.

Oggi il deficit di partecipazione non pare in alcun modo casuale, o legato a circostanze contingenti, e ha bisogno di una spiegazione esaustiva; le sue cause possono essere ricondotte ad almeno cinque elementi.

Per prima cosa occorre sottolineare il fatto che il dato sull’astensionismo alle amministrative è gonfiato daun particolare tecnico: nelle elezioni regionali, come pure in quelle comunali, fanno parte del corpo elettorale diriferimento anche tutti coloro che sono residenti all’estero, cosa che non accade né alle politiche né alle europee, quando sono invece scorporati perché possono votare all’estero. Alle ultime politiche, ad esempio, gli elettori lombardi che non vivono in Italia erano mezzo milione in meno di quelli delle regionali: aumentando la “base” di riferimento per il calcolo degli astenuti, è ovvio che questi ultimi sembrino di più, alle amministrative. Il dato “vero” del voto sarebbe dunque del 45% in Lombardia e del 41% nel Lazio, circa 4 punti in più di quello che appare. Pur con questo caveat, è peraltro indubbia la sua significativa decrescita.

Un secondo elemento importante da sottolineare è che questo tipo di processo è un processo che sostanzialmente va avanti da almeno 10-12 anni; ultimamente si è certo un po’ accresciuto, anche rispetto alle politiche, ma nella realtà il fenomeno dell’astensionismo in Italia, che si sta in qualche modo avvicinando al fenomeno che si verifica anche nel resto delle democrazie occidentali, risale probabilmente al 2012-2013, gli anni cioè dell’avvento del Movimento 5 stelle. Questa nuova forza politica sia nel 2013 che nel 2018 ha drenato una quota consistente di potenziale astensionisti col suo messaggio palesemente anticasta,antipolitica e contro i partiti tradizionali (“apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno”): i 5 stelle presero il 25% nel 2013 e addirittura il 33% nel 2018, e molto probabilmente una loro quota significativa,almeno la metà, si sarebbe astenuta in mancanza della presenza del movimento di Grillo.

Nella cosiddetta prima Repubblica l’astensionismo era bassissimo, come si sa, perché il voto era legato soprattutto ad appartenenze subculturali (cattoliche o socialcomunista) e quindi ovviamente il voto diventava proprio una sorta di manifesto di appartenenza a una delle due culture prevalenti; nella seconda Repubblica la crescita di astensionismo è stata limitata da quella che ho chiamato “fedeltà leggera”, la manifestazione elettorale pro o contro Berlusconi, non più una cosa di anima ma di testa, di opinione. Con il tramonto politico di Berlusconi, dal 2011 in poi, non ci sono più né vecchie appartenenze né una certa polarizzazione berlusconiana o anti-berlusconiana; nel contempo, sempre più forte e presente si manifesta il distacco tra cittadini e politica e i suoi rappresentanti: i politici hanno come noto un indice di gradimento intorno al 15- 20%; esaurito l’innamoramento per i 5 stelle, vissuti ormai come parte del sistema che prima criticavano, l’alterità nei confronti del mondo politico si incarna nel rifiuto, nell’astensione.

La scelta di recarsi alle urne, in qualche modo, potrebbe essere vista come una sorta di scelta più matura,non più condizionata da fattori esterni, ma legata soprattutto alla propria vicinanza alle idee politiche di questo o quel partito. Per inciso, una scelta che in questo periodo favorisce maggiormente il centro-destra, i cui elettori sono oggi più interessati al voto, ma che fino a pochi anni fa favoriva al contrario il centro-sinistra.

Ma esistono infine gli ultimi tre fattori che hanno condizionato la scarsa affluenza. Il terzo elemento è paradossalmente legato ad una ritrovata fiducia nel mondo demoscopico: ultimamente i sondaggi ci azzeccano abbastanza nelle loro stime di comportamento di voto, e gli elettori “sanno” già quale sarà lo scenario principale che uscirà dalle urne; un risultato già scontato, come la vittoria delle destre alle politiche e ancor più nelle regionali, ha probabilmente dissuaso una parte significativa della popolazione elettorale dall’andare a votare.

Inoltre, un’offerta politica priva di figure di grande appeal, come in parte poteva essere stata la stessa Meloni alle politiche, non è riuscita a dare stimoli ad un elettorato che, lo sappiamo, è oggi molto più sensibile alle figure dei leader che non a quella dei partiti.

Infine, last but not least, è esistito soprattutto in quest’ultima tornata regionale un vero problema di informazione e comunicazione dell’evento elettorale, un po’ da tutti gli attori legati al rinnovo delle amministrazioni di Lazio e Lombardia, che già di per sé non suscita un interesse spasmodico. Una mancanza informativa da una parte e di specifico interesse dall’altra che può venir facilmente riassunta in questo episodio, piccolo ma simbolicamente significativo, vissuto da me in prima persona: due giorni prima del voto, mia lezione a Scienze Politiche (non Numismatica!), a Milano, al biennio magistrale. Chiedo ai miei studenti: andate a votare domenica? Risposta prevalente: perché, prof, per cosa si vota…? Ecco.

Per finire, e se consideriamo quello che accade negli altri paesi europei, soprattutto al Nord, vediamo che anche lì spesso si assiste ad un astensionismo intorno al 50% se non di più, in alcune occasioni soprattutto quelle più amministrative: pare dunque questa una tendenza che accomuna ormai l’Italia al resto d’Europa. Mail vero problema è che effettivamente mentre negli altri paesi a volte non si vota perché si ha fiducia comunque in entrambe le parti politiche (penso alla Svezia, o alla Danimarca: chiunque vinca so che amministrerà responsabilmente), forse in Italia si vota meno proprio perché si ritiene che le parti politiche siano sempre meno degne di fiducia. Ecco, questo forse è qualcosa che dovrebbe dare qualche preoccupazione in più.

Niente luna di miele tra elettorato e destra vincente

24 Dicembre 2022 - di Paolo Natale

In primo pianoPolitica

Cos’è la luna di miele politico-elettorale? Lo sappiamo: è quel periodo post-voto, di lunghezza variabile, in cui l’elettorato di un certo paese tende a premiare il partito, la coalizione, il candidato che ha appena vinto le elezioni, facendo progressivamente lievitare il livello di fiducia nel governo uscente. Così, nelle settimane successive alla consultazione legislativa, si assiste spesso al cosiddetto “bandwagon effect”, la tendenza cioè ad appoggiare il partito vincente e, talvolta, addirittura a riscrivere la propria storia elettorale, ristrutturando ilproprio ricordo di voto in favore di chi ha vinto le elezioni.

Un fenomeno che capita frequentemente, soprattutto nei paesi di tradizione cattolica, a causa della rilevanza della comunità, del senso di appartenenza collettivo, ma anche in quelli di tradizione protestante, sia pur in misura minore. Quando vinse Obama negli Usa 2008, ad esempio, un sondaggio effettuato un mese dopo la sua elezione mostrava come il vantaggio del presidente uscente sul suo sfidante McCain si era incrementato di 6-7 punti percentuali, rispetto al voto presidenziale (da 7% a 14%). Da noi Silvio Berlusconigiunse ad un livello di popolarità prossima al 60% nei mesi successivi alla sua vittoria elettorale contro Veltroni, sempre nel 2008, quasi venti punti oltre la quota di voti che ottenne la sua coalizione alle elezioni politiche.

La domanda che ci poniamo oggi, in riferimento al nuovo governo uscito dalle urne tre mesi orsono, è dunque ovvia: sta accadendo anche per Giorgia Meloni e il suo esecutivo, per Fratelli d’Italia e la coalizione di centro-destra (o, se si preferisce, di destra-centro) questo incremento di fiducia, questa apertura di credito chiamata appunto luna di miele?

Ci sono due aspetti da considerare, nell’analizzare questa situazione, due aspetti che a volte viaggiano nella medesima direzione, ma che a volte non risultano del tutto correlati: il primo è, come ho detto, il livello di approvazione nell’operato del governo e del suo capo; il secondo è l’orientamento di voto a favore della coalizione o del partito di governo.

Per quanto riguarda il primo punto, è indubbio che sia Giorgia Meloni che il suo esecutivo abbiano goduto in questo periodo di un deciso incremento di fiducia, con giudizi positivi che superano di una decina di punti quelli negativi. In particolare, il gradimento per la leader di Fratelli d’Italia è passato dal 40% circa durante il periodo elettorale all’attuale 55%, grazie in particolare all’ulteriore miglioramento dei giudizi provenientidall’elettorato di centro-destra.

E proprio quest’ultimo è in realtà l’elemento rilevante che ci permette di descrivere più compiutamente anche il secondo aspetto, vale a dire l’orientamento di voto, che vede certo in ulteriore crescita la principale componente della coalizione governativa, cioè Fratelli d’Italia, ma è una crescita legata al passaggio di voto proveniente dagli altri partner della coalizione stessa, Lega e Forza Italia. Non si verifica dunque unsignificativo incremento di consensi per l’area di governo, ma solamente una sorta di ridistribuzione in favore della maggiore forza politica. Fratelli d’Italia passa dal 26% delle politiche all’attuale 30-31%, a scapito appunto, in prevalenza, degli altri partner dell’attuale esecutivo (si veda il grafico).

Per poter parlare di “luna di miele” deve verificarsi almeno una di queste condizioni: un significativo passaggio di voti (virtuali, ovviamente) prevenienti da altre aree elettorali e/o un chiaro appeal del governo all’interno della fascia di elettorato meno interessato alla politica (astensionisti o indecisi). Nessuna di queste due situazioni sembra essere presente in queste settimane: le defezioni tra le forze politiche di opposizione(Pd, M5s o Terzo Polo) in favore del governo sono molto limitate, nell’ordine di un paio di punti percentuali complessivi; i giudizi favorevoli al governo da parte dei recenti astensionisti appaiono decisamente minoritari, al contrario di quanto accadeva durante il governo Draghi.

Dunque, è certamente vero che Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni possono oggi contare su una maggioranza sia parlamentare che elettorale decisamente solida, benché non riescano a far presa sulla cosiddetta “area grigia” (indecisi e astensionisti), ma questa situazione appare largamente favorita dalla presenza di una opposizione sempre più incapace di esercitare un ruolo di possibile alternativa.

Le radici della vittoria di Meloni e la sfida di Calenda al PD

28 Settembre 2022 - di Paolo Natale

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Acquisito il grande exploit di Giorgia Meloni, capace di guadagnare ben 20 punti percentuali in soli 3 anni, èforse il momento di domandarsi quali siano stati i motivi del repentino incremento di Fratelli d’Italia (Fdi) in questo breve periodo di tempo. Le risposte che giungono in prevalenza da commentatori e analisti fanno specifico riferimento alla sua posizione contraria, unico partito all’opposizione in Italia assieme a Sinistra Italiana, al governo di larghe intese presieduto da Mario Draghi.

Basta questo per comprenderne la rapida ascesa? Forse in parte sì, ma certo non del tutto, altrimenti per prima cosa non si capirebbe perché il suo partner all’opposizione, Fratoianni, non abbia beneficiato di alcun significativo successo elettorale domenica scorsa. Ma c’è un altro elemento da considerare, che smentisce in parte questa sola spiegazione, elemento che si riesce a derivare chiaramente osservando il trend dellacrescita di Fdi e del contemporaneo tramonto di Salvini e del suo partito, che ha avuto inizio proprio all’indomani delle Europee del 2019 (si veda il grafico). Mese dopo mese, Fdi incrementa di qualche punto percentuale, contestualmente alle perdite della Lega. Una correlazione tra le due serie di dati quasi perfetta, con un coefficiente pari a 0,974.

La cosa interessante da notare è che questa relazione appare del tutto indipendente dalla assenza o dalla presenza del governo Draghi (in carica dal febbraio del 2021). Anzi, dal settembre 2019 fino alla caduta del Conte II (con la Lega all’opposizione, al pari di Fdi) e l’insediamento del nuovo esecutivo di larghe intese (con la Lega al governo), la correlazione è semmai ancora più elevata, con un coefficiente superiore a 0,98.

Dunque, le fortune del partito di Meloni appaiono del tutto indipendenti dal suo ruolo di opposizione all’esecutivo dell’ex-capo della BCE, e si nutrono in maniera evidente dal costante passaggio di voti provenienti dalla Lega, che ha avuto inizio immediatamente dopo la formazione del governo Pd-Movimento 5 stelle, quando cioè entrambe le forze politiche si trovavano all’opposizione.

L’analisi dei flussi di voto tra le Europee del 2019 e le recenti Politiche evidenzia in maniera chiara questa situazione: passa dalla Lega a Fdi oltre il 40% degli elettori leghisti, svuotando in maniera significativa il serbatoio di voti di Salvini, ma già era chiara questa tendenza durante lo stesso governo di Conte, durante la cosiddetta alleanza giallo-rossa.

Contestualmente, l’ulteriore fonte di consensi per Fdi giunge dall’altro alleato, Forza Italia, che gli cede un quinto circa del suo precedente elettorato, poco più del 20%. Appare dunque evidente come la vittoria di Fdiassuma contorni un pochino diversi dal mero ruolo di opposizione. Dopo essersi “infatuato” di Salvini, e in precedenza di Berlusconi, l’elettorato di centro-destra si è poco alla volta convinto, nel giro di tre anni, dal 2019 al 2022, che potesse essere il partito di Giorgia Meloni quello che coerentemente e con una decisa forza programmatica riuscisse a rappresentare una efficace proposta politica di quell’area, in maniera molto più efficiente degli altri partner di coalizione e, fra poco, di governo.

Ma oltre il successo di Giorgia Meloni, inaspettato fino ad un paio d’anni fa, un’altra sorpresa è uscita dalleurne della scorsa domenica, che ha a che vedere con la sfida che la coppia Azione- ItaliaViva sta ponendo al Partito Democratico. Le speranze di Calenda e di Renzi di “fare il botto”, di raggiungere cioè un risultato almeno in doppia cifra non si sono realizzate, fermandosi un paio di punti sotto quella soglia.

Eppure, già questo risultato non sarebbe certo insoddisfacente, se non ci fossero state aspettative così elevate e difficilmente raggiungibili e, inoltre, forse per la prima volta in occasioni elettorali, l’unione di due forze politiche in un unico soggetto ha visto crescere (anziché diminuire come accade quasi sempre) i consensi, andando oltre la somma dei due partiti presi singolarmente.

Era comunque un compito piuttosto difficoltoso raggiungere il 10-12%, soprattutto perché la proposta di Calenda andava a sollecitare un elettorato abbastanza simile a quello del Pd (e solo marginalmente a quello di Forza Italia); effettivamente, i flussi di voto ci indicano come una parte significativa degli elettori di Azione-ItaliaViva provengano proprio dal Partito Democratico, tanto che la composizione attuale del nuovo partito è fatta per oltre un terzo di ex-votanti Pd, unitamente a ex-pentastellati che si definiscono di centro-sinistra. La sfida continuerà evidentemente nei prossimi mesi, ma c’è un dato che forse dovrebbe già fin d’ora preoccupare il partito del dimissionario Letta, un dato proveniente da Milano, una delle poche roccaforti rimaste al Pd.

Ho scritto ieri della “deriva” della sinistra italiana, simile peraltro a quella di molti paesi occidentali, capace di avere maggior presa su un elettorato scolarizzato, più benestante e secolarizzato, il cosiddetto elettorato definito spiritosamente “delle ZTL”, i residenti cioè nel centro delle grandi metropoli, nazionali e internazionali, come New York, Londra, Parigi, Roma, Berlino, Milano.

Ebbene, proprio a Milano, nel centralissimo Municipio 1, dove il Pd sia nelle precedenti politiche, nelle europee e nelle comunali prese oltre il 40% dei voti, risultando di gran lunga il primo partito, domenica scorsa è retrocesso in seconda posizione, con una quota di voti intorno al 23%, superato nettamente da Azione-ItaliaViva, che ha ottenuto oltre il 30% dei consensi provenienti in larga misura dallo stesso Partito Democratico votato. Se a Milano le cose accadono prima, come vuole la vulgata, e poi gli altri luoghi si adeguano, è questo un segnale piuttosto significativo di come la sfida di Calenda possa avere in futuro riscontri positivi.

Paolo Natale

Perché la sinistra è in costante declino?

27 Settembre 2022 - di Paolo Natale

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È dunque successo quel che doveva succedere: per una volta i tanto vituperati sondaggi ci avevano visto giusto, con stime che non si distaccavano più di tanto dai risultati finali delle consultazioni di domenica 25, se non per una leggera sopravvalutazione demoscopica del consenso leghista. E la vittoria del centro-destra (anzi, del destra-centro) è giunta in maniera dirompente come era da mesi chiaramente annunciato. E, soprattutto, è arrivato quell’elevato consenso per Giorgia Meloni e il suo Fratelli d’Italia che pare rasentare l’incredibile, visti i suoi numeri di partenza di soli un paio d’anni fa.

Dal ridotto 4% del 2018, soltanto di poco aumentato alle Europee dell’anno successivo (6%), il partito ha visto un incremento di ben 20 punti nel giro di pochissimo tempo, quel tempo coincidente giusto con il periodo in cui stata, in solitaria, all’opposizione del governo Draghi. È dunque questo il motivo di quell’incremento, la sua opposizione al governo di larghe intese?

C’è qualcosa di strano, forse inspiegabile, in quanto è accaduto. Il governo Draghi, e ancor più lo stesso premier, godeva di una fiducia mai così elevata da quando le rilevazioni certificano il livello di gradimento degli esecutivi: perfino nell’ultima settimana prima del voto, i dati parlavano di oltre il 60% degli italiani che dava una valutazione positiva del governo e di quasi il 70% del Presidente del Consiglio.

Pochi giorni dopo, gli elettori che si sono recati alle urne hanno decretato il chiaro successo dei partiti che o lo hanno contrastato fin dall’inizio (come appunto Fratelli d’Italia) oppure hanno decretato la sua prematura scomparsa (Forza Italia, Lega e Movimento 5 stelle). Queste 4 forze politiche sono state infatti votate da oltre il 60% degli elettori, contro un misero 30% di chi ha sostenuto Draghi fino alla fine, sperando in un suo ritorno alla cabina di comando.

Una sorta di schizofrenia che alberga nella mente del cittadino-elettore o, forse, la prova più evidente di quanto sosteneva il sociologo Goffman: il comportamento, l’opinione di un attore sociale dipende dal palcoscenico, dal frame in cui si sente inserito. Quando mi sento un cittadino, mi fido del tecnico che bene governa il futuro del mio paese; quando mi sento elettore, voto la coalizione che più rappresenta i miei bisogni politici. Senza contraddizioni, soltanto risposte diverse a diversi scenari di riferimento.

E la destra in Italia, come nel resto del mondo occidentale (buon’ultima la Svezia, patria della socialdemocrazia), è destinata ad avere sempre più successo, poiché ha l’appoggio prevalente (sebbene non esclusivo) di quella parte sempre più crescente di elettorato che il politologo Kriesi chiama “i perdenti della globalizzazione”, coloro cioè che non hanno sufficienti strumenti per far fronte agli odierni problemi sociali, occupazionali ed economici. I ceti bassi o medio-bassi, dove le crisi sono più sentite, gli operai nelle piccole aziende, i non-garantiti, che temono quindi le conseguenze della globalizzazione, della immigrazione, del depauperamento progressivo della propria esistenza. Le parole della destra, che cerca di porre un freno ai grandi rivolgimenti mondiali, paiono a questa parte di elettorato le più efficaci per dare maggiore sicurezzacontro il “disordine” provocato da questi cambiamenti epocali; un po’ ciò che è accaduto con Trump, Bolzonaroe Orban.

Al contrario, e con un solo paio di eccezioni, i collegi vinti dal centro-sinistra corrispondono, sia alla camera che al senato, con le città medio-grandi: Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Modena e Reggio Emilia. Èormai noto da almeno un decennio, se non di più, come queste siano le aree territoriali dove la sinistra riesce ad intercettare meglio gli umori e le attitudini degli elettori, che hanno una maggiore capacità di fronteggiare le paure e le minacce che le società avanzate pone loro dinanzi. Sono i giovani istruiti, i cittadini più benestanti, con un lavoro relativamente più stabile. È il profilo del Partito Democratico, quello che Luca Ricolfi definisce il “partito radicale di massa”, la forza politica che vincerebbe in Italia se votassero solo i laureati.

Domani vedremo meglio quali e quanti spostamenti di voto sono avvenuti nell’elettorato italiano negli ultimiquattro anni, fino a giungere alla situazione odierna, e scopriremo un paio di cose sorprendenti. Cercherò poi di rispondere ad una domanda cruciale: quanto tempo riuscirà a durare il futuro governo Meloni?

Paolo Natale

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 10. Analisi ex-post

14 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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Se i precedenti nove tipi di distorsioni si riferiscono alle procedure e alla corretta formulazione del questionario utilizzato in un sondaggio, in quest’ultimo bias diventa rilevante il ruolo del ricercatore, nel momento in cui compie l’analisi dei dati raccolti e ne comunica i risultati. È proprio la scelta delle modalità attraverso cui analizza le risposte che gli giungono dalle interviste a diventare dirimente, poiché le sue scelte possono far mutare completamente il senso e la direzione dei risultati che vengono successivamente comunicati ai media.

Per capire la portata delle conseguenze che possono avere le scelte del ricercatore, prendiamo in considerazione una delle stime che vengono realizzate e comunicate più frequentemente: la popolarità o la fiducia in un leader politico, ovvero nel governo o nel premier. Esistono ovviamente molti modi per “misurare” la popolarità, ad esempio, di un capo dell’esecutivo e, come si è detto nel precedente punto 8 (l’errore di indicazione), non potremo mai sapere quale sia la modalità migliore da proporre agli intervistati. Nel nostro paese molti Istituti di ricerca utilizzano a questo scopo la ben nota “pagella”, con la seguente formulazione (o altre simili): “Quanta fiducia ha nel Presidente del Consiglio, su una scala da 1 a 10?”.

La modalità più diffusa per analizzare e comunicare le risposte a questa domanda è quella di prendere in considerazione la percentuale delle valutazioni positive, da 6 a 10 dunque. È una scelta corretta? Pensiamo ad una situazione simile, o parallela: un fidanzato chiede alla fidanzata quanta fiducia ha in lui o quanto lo ama, da 1 a 10, e la fidanzata risponde 6. Un motivo per lasciarla immediatamente, un amore non può rimanere in piedi con un livello attrattivo così contenuto. Anche un 7 non darebbe forse la possibilità di costruirsi un futuro insieme. I voti realmente positivi, che danno una buona speranza per il proseguimento del rapporto, vanno da 8 a 10, questo è certo.

La scelta cruciale anche per il ricercatore riguarda dunque quale sarà il voto minimo da prendere in considerazione, sei sette o otto, con conseguenze evidenti sul risultato che viene comunicato ai media. In un recente sondaggio su Mario Draghi, utilizzando tutti i voti positivi, il livello di fiducia degli italiani nei suoi confronti risultava pari al 60%; considerando i voti da 7 a 10, la fiducia scendeva al 50%, mentre prendendo come base solo le valutazioni molto positive (da 8 a 10), si arrivava appena al 38%. Nessuna scelta è a priori scorretta, ma è immediatamente evidente che se si vuole sottolineare come Draghi non sia abbastanza apprezzato dalla popolazione, si opterà per la scelta più restrittiva, laddove si terrà in considerazione quella più ampia (tutti i voti positivi) volendo indicare al contrario un’ampia fiducia nel premier da parte degli italiani.

La discrezionalità della scelta del sondaggista appare dunque evidente, e non può venir superata dalla possibile comparazione con altri leader politici, come accade nelle analisi che riguardano la popolarità di questi ultimi, poiché il Presidente del Consiglio è uno solo e, al massimo, può venir confrontato con i suoi predecessori, cosa che peraltro non viene fatta quasi mai. Una soluzione che rende accettabile la scelta adottata (quella consueta è come detto di considerare tutte le valutazioni positive) consiste nel presentare, accanto al dato attuale, anche il trend della fiducia in lui nei mesi precedenti, per comprendere quanto meno se la sua popolarità sia in crescita o in calo.

Ma forse la scelta in assoluto ottimale sarebbe quella di suddividere i voti positivi in due fasce, quella molto positiva (da 7 a 10) e quella appena sufficiente (il voto pari a 6). Se la percentuale dei “6” fosse molto elevata, risulterebbe immediatamente evidente come quel personaggio venga valutato, in qualche modo, solo come “il minore dei mali”, ma senza un grande trasporto.

Nella presentazione degli esiti del sondaggio, infine, anche in questo frangente è consigliabile esplicitare sia il testo esatto della domanda posta che il tipo di elaborazione che è stato effettuato per giungere ai risultati esposti.

Paolo Natale

*estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

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