La coerenza non è più una virtù, né tra i politici né tra gli elettori

Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, per non credere (troppo) alle opinioni che vengono espresse in una indagine demoscopica.

Uno di questi motivi, che diventa talvolta cruciale nel campo della comunicazione politica, è quello della mancanza di opinioni “costanti” da parte degli elettori: nell’epoca in cui regnavano incontrastate le ideologie, esisteva una sorta di pensiero esclusivo, opinioni e atteggiamenti pressoché costanti nell’accostarsi ai fenomeni sociali o politici, guidati dalla propria ideologia, dalla
propria visione del mondo, che difficilmente mutavano: parallelamente alla fedeltà di voto, rimaneva fedele anche il modo di vedere le cose, di manifestare la propria adesione quasi incondizionata ad una scelta specifica. Come cantava Giorgio Gaber: “Mio nonno si è scelto una parte che non cambia in ogni momento, voglio dire che c’ha un solo atteggiamento” (Gaber, G., Il
comportamento, 1976). Ma poi, con la fine delle ideologie, con la secolarizzazione, con il costante aumento dei mezzi di
informazione e di comunicazione (soprattutto sul Web), con il progressivo indebolirsi delle tradizionali agenzie di socializzazione primarie e secondarie (famiglia, scuola, fabbrica, ecc.), con la atomizzazione lavorativa e dei rapporti individuali le cose sono cambiate. La frammentazione delle esperienze e l’atomizzazione sociale rendono l’individuo più debole nelle sue certezze più
profonde, e propenso a sperimentare identità e opinioni differenti, in una sequenza sempre più rapida e per forza di cose più superficiale. Così, in questo periodo politico-sociale, le possibili visioni del mondo si fanno sempre più labili, aleatorie, preda della “narrazione”, dello story-telling dei leader politici che, anch’essi, cambiano repentinamente idee e opinioni a seconda delle conseguenze o dei mutati scenari politici.

È forse Matteo Salvini l’emblema più riconosciuto dell’incoerenza nel tempo delle proprie opinioni, l’uomo politico che più si è rimangiato affermazioni apodittiche su molti argomenti. Nel corso dell’ultimo decennio, sono state parecchie le idee da lui espresse su alcuni temi che verranno completamente ribaltate dopo poco tempo. Tra i numerosi ultimi esempi, quello sul
ponte sullo Stretto: pochi anni orsono il segretario leghista si era dichiarato fermamente contrario alla sua costruzione, mentre da qualche mese continua – ai giorni nostri – ad esserne il principale sponsor. Ancora più ravvicinato nel tempo il cambiamento di opinione sull’abbassamento dei limiti di velocità nelle grandi città: giusto un anno fa ha indicato come prima cosa “l’implementazione di zone 30”, al fine di “mitigare le differenze di velocità esistenti tra pedoni e traffico motorizzato”; oggi si scaglia in maniera veemente contro Bologna, in particolare, paradossalmente rea di aver aderito e applicato proprio la sua direttiva. Un comportamento che somiglia molto allo stesso trasformismo della Lega, tempo fa soltanto “Nordista” e con una netta ostilità nei confronti della destra estrema e neo-fascista, oggi coalizzata con tutte le forze politiche europee di quell’area: una “Lega Nazionale”. Ma poi ancora, dopo il recente provvedimento sull’autonomia differenziata, paiono ritornare presenti le “bandiere” regionaliste, in un continuo ribaltamento degli accenti. Ma ammettiamo pure che un leader politico possa mutare opinione su una serie di argomenti, spesso difendendo questo mutamento con l’idea che soltanto gli stolti non cambiano mai idea, il che è tutto da dimostrare, peraltro.

La cosa però interessante, e forse un po’ preoccupante, è che nel tempo anche il suo elettorato tenda poco alla volta ad uniformarsi anch’esso alla “nuova” opinione che professa il suo partito o il suo segretario. Gli esempi che si possono fare sono alquanto indicativi, e non riguardano soltanto Salvini e il suo partito, ma anche molte delle altre forze politiche. Il Partito Democratico, ad esempio, quando nel 2019 venne ratificato il Reddito di Cittadinanza, votò a sfavore con dichiarazioni molto pregnanti e sdegnate, come se fosse un’elemosina di stato; poi nell’ultimo anno, quando il governo Meloni lo abolì, si schierò al contrario contro l’abolizione, anche in questo caso con prese di posizione molto sdegnate. Ebbene, l’elettorato del PD nel corso degli ultimi tre-quattro anni ha progressivamente mutato anch’esso il proprio pensiero, passando da un livello di favore per il reddito di cittadinanza del 25% nel 2020 alla quota del 70% espresso nel momento della sua abolizione del 2023 (Tab.1).

Tab. 1 – GIUDIZIO SUL REDDITO DI CITTADINANZA – ELETTORATO PARTITO DEMOCRATICO

 

 

 

Allo stesso modo, le opinioni prevalenti nell’elettorato Pd qualche settimana dopo l’invasione russa (marzo 2022) parevano nettamente contrarie all’invio di aiuti militari all’Ucraina, mentre oggi la stragrande maggioranza, dopo la costante campagna favorevole del partito, è dell’idea praticamente opposta (tab.2).

Tab. 2 – SOSTENERE LA RESISTENZA UCRAINA FORNENDO AIUTI MILITARI ELETTORATO PD

 

 

 

L’elettorato del Partito Democratico, ovviamente, non è certo il solo a venir condizionato così fortemente dalle giravolte dei vertici di partito. Sempre a proposito della guerra in Ucraina, gli elettori vicini al Movimento 5 stelle erano inizialmente allineati con il resto degli italiani nell’appoggiare l’impegno ucraino nella resistenza contro l’invasione russa (78%); passati alcuni mesi, con la ripetuta presa di posizione di Giuseppe Conte contro il coinvolgimento italiano, la maggioranza dei pentastellati passa in maniera evidente su posizioni “equi-distanti”, molto più favorevoli ad un abbandono delle armi da parte degli ucraini (72%), rispetto al passato.

Ma il caso certamente più eclatante di cambiamento di opinione è quello degli elettori di Fratelli d’Italia, da sempre contrari – con una maggioranza vicina al 65% – a restare nella UE e nell’orbita Euro, ma approdati dopo la svolta atlantista ed europeista di Giorgia Meloni alla rapida accettazione di entrambi gli obiettivi. Una situazione molto simile a quella dei simpatizzanti per il
Movimento 5 stelle, protagonisti di una veloce trasmigrazione dal No-Euro al Sì-Euro, sebbene rimanga ancora qualche remora, nel 20-25% degli attuali votanti di Giuseppe Conte (Tab.3). Per tacere infine sulle opinioni relative alla guerra in Ucraina o sul conflitto tra Israele e Hamas, opinioni mutevoli a volte solamente per avallare mutazioni di convenienza politica.

Tab. 3 – FAVOREVOLI ALLA PERMANENZA DELL’ITALIA NEL SISTEMA DELL’EURO , IN %

 

 

 

Una situazione come si è visto abbastanza paradossale: se i leader politici cambiano spesso idea per motivi più che altro tattici o strategici, non certo per profonde conversioni, rimane piuttosto difficoltoso comprendere queste stesse ri-conversioni in cittadini, uomini e donne, che non sono chiamati a rispondere in prima persona a progetti o alleanze tra le forze politiche che a volte
“impongono” queste micro-rivoluzioni di pensiero. È come se gli elettori non avessero maturato opinioni nel profondo e, solamente, si adeguino a ciò che per loro decidono i loro partiti di riferimento: una volta, si diceva che questi ultimi “dettavano la linea” cui occorreva adeguarsi, rinunciando alle proprie idee, se per caso ci fossero state. Pensiamo ad esempio all’evidente
conflitto sul divorzio che esisteva tra elettori democristiani (ma anche comunisti) e vertici di DC e PCI.
Ma se allora esistevano ancora Weltanscauung, visioni del mondo forti, solide e discriminanti, oggi pare che gli elettorati di (quasi) tutte le forze politiche, senza più grandi ideologie di riferimento, siano in balìa dello storytelling dei propri leader, a volte in perenne mutazione.

Fonte dei dati: Ipsos




Attenti al sondaggio: incapacità o manipolazione?

Ancora una volta, come molto frequentemente mi è capitato nella mia ormai trentennale carriera di analista demoscopico, un sondaggio mal concepito e una altrettanto malandrina comunicazione di stampa fanno impallidire i pochi italiani che ancora ripongono qualche fiducia nel mondo demoscopico. Sia ben chiaro: non si tratta di non credere ai sondaggi, alla loro portata chiarificatrice del pensiero, delle opinioni, perfino degli strafalcioni in cui credono i cittadini interrogati. Questi ci raccontano pedissequamente lo stato dell’opinione pubblica, delle credenze dell’elettorato, le impressioni degli italiani.

Il vero nodo, il vero problema, nasce dal corto-circuito ormai inestricabile tra (molti) istituti di ricerca e (quasi tutte) le testate giornalistiche; un corto-circuito che permette di leggere e di veder commentate notizie che sembrano essere create appositamente per un preciso disegno politico. Scenetta che per certi versi rimangono memorabili.

Riassunto. Stamani, 30 giugno, salgo in auto, accendo la radio e mi capita di sentire la dichiarazione di Adolfo Urso (ministro delle imprese e del made in Italy) che, in pochi secondi, diviene nella mia testa il prototipo, il simbolo di come i comunicatori in generale e i politici in particolare “trattano” la materia demoscopica. Evidentemente in risposta a una domanda posta da Simone Spetia, di Radio24, prima che io accendessi la radio, Urso dichiara che anche gli italiani hanno gli stessi dubbi di Giorgia Meloni sul Mes, come testimoniano i risultati di un sondaggio odierno, il quale sottolinea come il 60% degli elettori si dichiara appunto “contrario” al Mes. Dunque, ribadisce Urso, gli italiani la pensano come il loro presidente. Ottimo!

Spetia interviene, dicendo che anch’egli ha letto un sondaggio pubblicato dalla Stampa sul Mes. Urso ribadisce che proprio a quello faceva riferimento. Allora Spetia gli ricorda che in realtà in quel sondaggio, al di là del titolo davvero improvvido, ai limiti della querela, vedremo tra breve perché, “Contrari al Mes 6 italiani su 10” (suppongo l’unica cosa letta da Urso, come capita ormai quasi sempre), si evince che effettivamente solo il 39% si dichiara favorevole al Mes, ma tra gli altri, il 27% è contrario e il 34% incapace di rispondere. Dunque, conclude Spetia, solo poco più di un quarto non gradisce il Mes, non il 60%.

Che fa Urso a questo punto? La cosa che fanno di norma tutti i politici quando emergono dati che non piacciono. Risponde così: “sì, ma che ci importa di un sondaggio, la politica non si fa con i dati dei sondaggi, ma con proposte serie che vanno anche, nel caso, contro le opinioni della maggioranza! E comunque i sondaggi ci dicono che questo governo piace agli italiani. Noi siamo compatti e coesi per sostenere il nostro paese contro tutti i disfattisti!” Spetia tenta timidamente di intervenire chiedendo infine se ai sondaggi si debba credere o meno, e quando, ma il ministro taglia corto, sottolineando i dati elettorali da un anno a questa parte, tutti favorevoli al centro-destra. Questo è quello che conta. Fine dalla trasmissione.

E questo è dunque il manuale da seguire: citare i sondaggi se sono favorevoli, deriderli se non lo sono, citare dati elettorali quando serve, ignorarli se sfavorevoli. Come è capitato a Fratelli d’Italia. Quando veleggiava tra il 4 e il 5%, lo scopo del partito era la coerenza alle proprie idee, non la ricerca tout court del consenso; quando invece si è vicini al 30%, perché – ci si chiede – viene data visibilità a partiti che non contano quasi nulla? Le logiche si ribaltano a piacimento.

Ma torniamo al sondaggio malandrino. Incuriosito, vado a verificare sul quotidiano torinese. E lì, effettivamente, capisco da cosa sia stato tratto in inganno lo stesso Urso. Campeggia il bel titolo più sopra ricordato. Un ulteriore simbolo di come NON deve essere divulgata un’indagine demoscopica, pieno di inesattezze, di carenza di notizie essenziali, di formulazione delle domande quanto meno discutibili, di commenti un po’ pretestuosi.

Andiamo con ordine. Intanto, il metodo utilizzato. Nelle stringate note, si legge, testualmente (e tralascio per carità il nome dell’Istituto): “Rilevazione scientifica-statistica basata su dichiarazioni anonime” (sic). Niente di più! Quanti casi? Quale metodo di rilevazione? E poi, cosa sarebbe una rilevazione scientifica-statistica? E meno male che viene ribadito come le dichiarazioni siano anonime, ci mancherebbe altro.

Veniamo alla formulazione delle domande. Quella sul Mes, recita così o, almeno, così viene riportata: ”È favorevole o contrario al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES)?” Risposte: sì / no / non sa-non risponde. Suppongo una qualche semplificazione grafica, per problemi di spazio. Ma è lo spaccato delle risposte per elettorato che desta i maggiori sospetti del fatto che gli intervistati abbiano capito poco o nulla della domanda o, ancora di più, che non sappiano poi molto del Mes. Infatti, sono gli elettori di Forza Italia, accanto a Calenda e Renzi, quelli più favorevoli (vicino al 70%), mentre sono tiepidi quelli di Bonino e i più sfavorevoli sono quelli del Movimento 5 stelle.

Infine, tra altre perle di cui lascio l’approfondimento a chi vuole divertirsi un po’, riporto il commento dell’articolo ad un dato peraltro nemmeno pubblicato, che recita così: “occorre riconoscere che Giorgia Meloni rimane stabile al di sopra del 40% nel suo indice di fiducia, a conferma della sintonia con una buona parte del Paese”. Ora, da una coalizione che ha ricevuto oltre il 45% dei consensi, mi aspetterei che il suo apprezzamento riesca quanto meno a raggiungere quel traguardo elettorale, se non superarlo in un momento di chiara luna di miele e con una opposizione praticamente inesiste. Ma chi si accontenta gode…




Calcio, tifo e razzismo

Finalmente, alla fine, anche nello sport si è aperto uno spiraglio, un timido tentativo di fare un pochino di chiarezza su se e quanto si possano definire “manifestazioni di razzismo” i cori che ormai quotidianamente si sentono negli stadi (italiani e non). Ad aprire il dibattito, con qualche interessante dichiarazione e alcune considerazioni di base, sulle quali riflettere almeno un istante, è stato l’allenatore dell’Atalanta, GianPiero Gasperini.

Breve riassunto degli accadimenti di domenica scorsa, per chi non segue da vicino lo sport giocato né quello chiacchierato. Va in scena a Bergamo la partita di campionato Atalanta-Juventus. Nel corso dello svolgimento, un gruppo significativo di ultras bergamaschi non smette di rivolgere all’attaccante slavo della squadra avversaria, Vlahovic, coretti ed epiteti spregiativi, tipo “sei uno zingaro”, se non anche peggiori. Un po’ ciò che era accaduto a Torino un paio di settimane prima, tra alcuni ultras della stessa Juve e l’attaccante nero dell’Inter Lukaku, apostrofato con il consueto “negro di merda” o giù di lì. In modo non dissimile anche in questo caso a ciò che avviene in tutti gli stadi di calcio, da anni a questa parte, più o meno nessuno escluso.

Breve parentesi, ma molto importante per il discorso che farò tra poco. Una volta, qualche decennio fa, questo era un “rituale” comune anche negli altri sport, in particolare quelli di squadra, ma molto meno quelli individuali (ve l’immaginate uno spettatore di boxe che avesse apostrofato a bordo ring Cassius Clay / Mohamed Alì con un epiteto del genere? Avrebbe fatto sicuramente una brutta fine…).

Anche nel basket, ad esempio, giravano coretti simili, del tipo “non ci sono negri italiani”, rivolto a Carlton Myers, figlio di un inglese nero e di una riminese, divenuto nel tempo una colonna della nazionale italiana, tipo Balotelli. Negli ultimi anni ingiurie di questo tipo sono praticamente scomparse da tutti i palazzetti di basket, per la semplice ragione che i migliori giocatori di pallacanestro sono spesso neri e tutte le squadre ne hanno nel loro roster almeno tre o quattro, e insultarne qualcuno a caso non avrebbe alla fine un apprezzabile risultato, né si saprebbe esattamente chi ne sarebbe il destinatario, dei cinque o sei che sono in campo o in panchina.

Dunque, nel basket, al contrario di un passato più antico, di squalifiche o di multe per “cori razzisti” oggi non se ne verificano praticamente mai. Significa forse che tra gli ultras della pallacanestro non c’è alcun esagitato tifoso, simile ad il suo omologo calcistico? Direi proprio di no. Forse meno diffuso, grazie al livello meno popolare degli spettatori di basket. Forse, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Chiusa parentesi.

Ma torniamo ad Atalanta-Juve e alle dichiarazioni di Gasperini che, a fine partita, ha espresso un concetto semplice: non è vero che le frasi rivolte a quel giocatore slavo siano insulti di stampo razzista, semplicemente perché anche nella squadra che lui allena giocano almeno due-tre altri giocatori della stessa origine “etnica”, quella di Ibrahimovic per intenderci, che ha subito anch’egli nella sua lunga carriera epiteti molto simili. Ora, conclude Gasperini, se gli ultras fossero davvero razzisti (contro gli slavi), non potrebbero accettare nemmeno che nella propria squadra giochino almeno due-tre “zingari di merda”, e li insulterebbero a ogni piè sospinto, sebbene difendano i propri colori sociali. Come ben ci insegna la storia Usa, non si può essere razzisti ad intermittenza, o lo si è o non lo si è. E a volte, addirittura quando non si pensa di esserlo, il proprio rapporto con persone di colore non è semplice (vedi il caso del film anni Sessanta “Indovina chi viene a cena”). Punto.

Quegli insulti, sempre secondo Gasperini (che ovviamente è stato attaccato da tutti, proprio tutti tutti) non sarebbero razzisti, ma semplicemente “maleducati”, o beceri, perché seguono il diffuso sentiment di provocare l’avversario per infastidirlo, per fargli commettere errori che normalmente non farebbe. Non è bello, s’intende, ma non è nemmeno sintomo di razzismo, perché il razzismo, quello vero, è tutt’altra cosa, molto più grave, ma anche molto più specificamente diretta al colore della pelle, alla etnia, alla religione. Ora, argomenta l’allenatore dell’Atalanta (e io con lui), se ce l’ho con gli “sporchi negri” dell’altra squadra, perché quelli che giocano nella mia squadra sono al contrario “giganti d’ebano”, “principi neri”, eccetera. Balotelli, quando era dell’Inter, veniva insultato costantemente dai tifosi milanisti, quando passò al Milan subiva lo stesso trattamento da quelli interisti. Razzismo?

Ricordo ancora una ricerca universitaria degli anni Novanta, un’indagine sul campo promossa da Alessandro Dal Lago, in cui si cercava di studiare da vicino atteggiamenti e comportamenti degli ultras del Milan. Ne uscì un importante libro dal titolo “Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio”. Utilizzammo per l’analisi dei tifosi e del loro livello di razzismo una procedura statistica chiamata “Scala di Likert”, composta da 10 frasi cui l’intervistato doveva dichiarare il proprio grado di accordo. La sommatoria di tutte le risposte avrebbe fornito appunto un indicatore complessivo del livello di razzismo degli ultras. A patto che tutte le frasi indicassero una delle facce del tema del razzismo.

Orbene, 9 frasi su 10 funzionavano piuttosto bene ed erano tra loro ben correlate. L’unica che al contrario non mostrava significativi livelli di collegamento con le altre era proprio quella che riguardava gli insulti ai giocatori avversari per il colore della loro pelle. Quella frase era correlata più con il tifo maleducato, gli insulti (“figlio di p…”, “testa di c…”) che con il razzismo. Già oltre 30 anni fa, dunque, le parole che oggi ha pronunciato l’allenatore dell’Atalanta erano state comprovate da un’analisi scientifica. Meglio tardi che mai.




Astensioni e delusioni

Trascorso qualche giorno dalle considerazioni sorprese dei commentatori e dalle spiegazioni a caldo del fenomeno del deciso incremento dell’astensionismo, il tema è un po’ evaporato, come accade troppo sovente nel nostro paese. Possiamo e dobbiamo invece tornare a parlarne ora in maniera forse meno emotiva e più razionale, cercando di identificarne le cause più profonde, quanto meno in Italia, senza peraltro dimenticare che questa tendenza si manifesta a volte ancora più evidente in molte delle altre democrazie occidentali.

 I dati di fatto sono presto riassunti: nel Lazio e in Lombardia hanno votato alle ultime regionali tre milioni di persone in meno rispetto alle elezioni politiche di settembre, già demarcate da un forte calo di votanti rispetto alle politiche precedenti (un ulteriore milione in meno nelle due regioni), e la stessa lista di Fratelli d’Italia, ilpartito certamente vincitore anche di questa tornata, ha lasciato a casa un milione di voti in poco più di quattro mesi.

Questi dati non paiono casuali, come forse poteva essere giudicato il tracollo della partecipazione in Emilia-Romagna nel 2014, quando votò soltanto poco più del 37% degli aventi diritto, un po’ come nel Lazio di quest’anno. Cinque anni più tardi, così come cinque anni prima, la l’affluenza registrava infatti valori prossimi al 70%. Quella sorta di indicente di percorso, in una regione peraltro dove il turnout è costantemente tra i primi del paese, non fu mai chiaramente analizzato, ma è probabile fosse dovuto ad un improvviso disinteresse per una consultazione il cui risultato non era mai stato messo in dubbio, in un periodo in cui il Pd per una volta nella sua storia stava vivendo un momento di grandissimo consenso elettorale ed aveva appena trionfato, con Renzi, alle recenti Europee.

Oggi il deficit di partecipazione non pare in alcun modo casuale, o legato a circostanze contingenti, e ha bisogno di una spiegazione esaustiva; le sue cause possono essere ricondotte ad almeno cinque elementi.

Per prima cosa occorre sottolineare il fatto che il dato sull’astensionismo alle amministrative è gonfiato daun particolare tecnico: nelle elezioni regionali, come pure in quelle comunali, fanno parte del corpo elettorale diriferimento anche tutti coloro che sono residenti all’estero, cosa che non accade né alle politiche né alle europee, quando sono invece scorporati perché possono votare all’estero. Alle ultime politiche, ad esempio, gli elettori lombardi che non vivono in Italia erano mezzo milione in meno di quelli delle regionali: aumentando la “base” di riferimento per il calcolo degli astenuti, è ovvio che questi ultimi sembrino di più, alle amministrative. Il dato “vero” del voto sarebbe dunque del 45% in Lombardia e del 41% nel Lazio, circa 4 punti in più di quello che appare. Pur con questo caveat, è peraltro indubbia la sua significativa decrescita.

Un secondo elemento importante da sottolineare è che questo tipo di processo è un processo che sostanzialmente va avanti da almeno 10-12 anni; ultimamente si è certo un po’ accresciuto, anche rispetto alle politiche, ma nella realtà il fenomeno dell’astensionismo in Italia, che si sta in qualche modo avvicinando al fenomeno che si verifica anche nel resto delle democrazie occidentali, risale probabilmente al 2012-2013, gli anni cioè dell’avvento del Movimento 5 stelle. Questa nuova forza politica sia nel 2013 che nel 2018 ha drenato una quota consistente di potenziale astensionisti col suo messaggio palesemente anticasta,antipolitica e contro i partiti tradizionali (“apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno”): i 5 stelle presero il 25% nel 2013 e addirittura il 33% nel 2018, e molto probabilmente una loro quota significativa,almeno la metà, si sarebbe astenuta in mancanza della presenza del movimento di Grillo.

Nella cosiddetta prima Repubblica l’astensionismo era bassissimo, come si sa, perché il voto era legato soprattutto ad appartenenze subculturali (cattoliche o socialcomunista) e quindi ovviamente il voto diventava proprio una sorta di manifesto di appartenenza a una delle due culture prevalenti; nella seconda Repubblica la crescita di astensionismo è stata limitata da quella che ho chiamato “fedeltà leggera”, la manifestazione elettorale pro o contro Berlusconi, non più una cosa di anima ma di testa, di opinione. Con il tramonto politico di Berlusconi, dal 2011 in poi, non ci sono più né vecchie appartenenze né una certa polarizzazione berlusconiana o anti-berlusconiana; nel contempo, sempre più forte e presente si manifesta il distacco tra cittadini e politica e i suoi rappresentanti: i politici hanno come noto un indice di gradimento intorno al 15- 20%; esaurito l’innamoramento per i 5 stelle, vissuti ormai come parte del sistema che prima criticavano, l’alterità nei confronti del mondo politico si incarna nel rifiuto, nell’astensione.

La scelta di recarsi alle urne, in qualche modo, potrebbe essere vista come una sorta di scelta più matura,non più condizionata da fattori esterni, ma legata soprattutto alla propria vicinanza alle idee politiche di questo o quel partito. Per inciso, una scelta che in questo periodo favorisce maggiormente il centro-destra, i cui elettori sono oggi più interessati al voto, ma che fino a pochi anni fa favoriva al contrario il centro-sinistra.

Ma esistono infine gli ultimi tre fattori che hanno condizionato la scarsa affluenza. Il terzo elemento è paradossalmente legato ad una ritrovata fiducia nel mondo demoscopico: ultimamente i sondaggi ci azzeccano abbastanza nelle loro stime di comportamento di voto, e gli elettori “sanno” già quale sarà lo scenario principale che uscirà dalle urne; un risultato già scontato, come la vittoria delle destre alle politiche e ancor più nelle regionali, ha probabilmente dissuaso una parte significativa della popolazione elettorale dall’andare a votare.

Inoltre, un’offerta politica priva di figure di grande appeal, come in parte poteva essere stata la stessa Meloni alle politiche, non è riuscita a dare stimoli ad un elettorato che, lo sappiamo, è oggi molto più sensibile alle figure dei leader che non a quella dei partiti.

Infine, last but not least, è esistito soprattutto in quest’ultima tornata regionale un vero problema di informazione e comunicazione dell’evento elettorale, un po’ da tutti gli attori legati al rinnovo delle amministrazioni di Lazio e Lombardia, che già di per sé non suscita un interesse spasmodico. Una mancanza informativa da una parte e di specifico interesse dall’altra che può venir facilmente riassunta in questo episodio, piccolo ma simbolicamente significativo, vissuto da me in prima persona: due giorni prima del voto, mia lezione a Scienze Politiche (non Numismatica!), a Milano, al biennio magistrale. Chiedo ai miei studenti: andate a votare domenica? Risposta prevalente: perché, prof, per cosa si vota…? Ecco.

Per finire, e se consideriamo quello che accade negli altri paesi europei, soprattutto al Nord, vediamo che anche lì spesso si assiste ad un astensionismo intorno al 50% se non di più, in alcune occasioni soprattutto quelle più amministrative: pare dunque questa una tendenza che accomuna ormai l’Italia al resto d’Europa. Mail vero problema è che effettivamente mentre negli altri paesi a volte non si vota perché si ha fiducia comunque in entrambe le parti politiche (penso alla Svezia, o alla Danimarca: chiunque vinca so che amministrerà responsabilmente), forse in Italia si vota meno proprio perché si ritiene che le parti politiche siano sempre meno degne di fiducia. Ecco, questo forse è qualcosa che dovrebbe dare qualche preoccupazione in più.




Niente luna di miele tra elettorato e destra vincente

Cos’è la luna di miele politico-elettorale? Lo sappiamo: è quel periodo post-voto, di lunghezza variabile, in cui l’elettorato di un certo paese tende a premiare il partito, la coalizione, il candidato che ha appena vinto le elezioni, facendo progressivamente lievitare il livello di fiducia nel governo uscente. Così, nelle settimane successive alla consultazione legislativa, si assiste spesso al cosiddetto “bandwagon effect”, la tendenza cioè ad appoggiare il partito vincente e, talvolta, addirittura a riscrivere la propria storia elettorale, ristrutturando ilproprio ricordo di voto in favore di chi ha vinto le elezioni.

Un fenomeno che capita frequentemente, soprattutto nei paesi di tradizione cattolica, a causa della rilevanza della comunità, del senso di appartenenza collettivo, ma anche in quelli di tradizione protestante, sia pur in misura minore. Quando vinse Obama negli Usa 2008, ad esempio, un sondaggio effettuato un mese dopo la sua elezione mostrava come il vantaggio del presidente uscente sul suo sfidante McCain si era incrementato di 6-7 punti percentuali, rispetto al voto presidenziale (da 7% a 14%). Da noi Silvio Berlusconigiunse ad un livello di popolarità prossima al 60% nei mesi successivi alla sua vittoria elettorale contro Veltroni, sempre nel 2008, quasi venti punti oltre la quota di voti che ottenne la sua coalizione alle elezioni politiche.

La domanda che ci poniamo oggi, in riferimento al nuovo governo uscito dalle urne tre mesi orsono, è dunque ovvia: sta accadendo anche per Giorgia Meloni e il suo esecutivo, per Fratelli d’Italia e la coalizione di centro-destra (o, se si preferisce, di destra-centro) questo incremento di fiducia, questa apertura di credito chiamata appunto luna di miele?

Ci sono due aspetti da considerare, nell’analizzare questa situazione, due aspetti che a volte viaggiano nella medesima direzione, ma che a volte non risultano del tutto correlati: il primo è, come ho detto, il livello di approvazione nell’operato del governo e del suo capo; il secondo è l’orientamento di voto a favore della coalizione o del partito di governo.

Per quanto riguarda il primo punto, è indubbio che sia Giorgia Meloni che il suo esecutivo abbiano goduto in questo periodo di un deciso incremento di fiducia, con giudizi positivi che superano di una decina di punti quelli negativi. In particolare, il gradimento per la leader di Fratelli d’Italia è passato dal 40% circa durante il periodo elettorale all’attuale 55%, grazie in particolare all’ulteriore miglioramento dei giudizi provenientidall’elettorato di centro-destra.

E proprio quest’ultimo è in realtà l’elemento rilevante che ci permette di descrivere più compiutamente anche il secondo aspetto, vale a dire l’orientamento di voto, che vede certo in ulteriore crescita la principale componente della coalizione governativa, cioè Fratelli d’Italia, ma è una crescita legata al passaggio di voto proveniente dagli altri partner della coalizione stessa, Lega e Forza Italia. Non si verifica dunque unsignificativo incremento di consensi per l’area di governo, ma solamente una sorta di ridistribuzione in favore della maggiore forza politica. Fratelli d’Italia passa dal 26% delle politiche all’attuale 30-31%, a scapito appunto, in prevalenza, degli altri partner dell’attuale esecutivo (si veda il grafico).

Per poter parlare di “luna di miele” deve verificarsi almeno una di queste condizioni: un significativo passaggio di voti (virtuali, ovviamente) prevenienti da altre aree elettorali e/o un chiaro appeal del governo all’interno della fascia di elettorato meno interessato alla politica (astensionisti o indecisi). Nessuna di queste due situazioni sembra essere presente in queste settimane: le defezioni tra le forze politiche di opposizione(Pd, M5s o Terzo Polo) in favore del governo sono molto limitate, nell’ordine di un paio di punti percentuali complessivi; i giudizi favorevoli al governo da parte dei recenti astensionisti appaiono decisamente minoritari, al contrario di quanto accadeva durante il governo Draghi.

Dunque, è certamente vero che Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni possono oggi contare su una maggioranza sia parlamentare che elettorale decisamente solida, benché non riescano a far presa sulla cosiddetta “area grigia” (indecisi e astensionisti), ma questa situazione appare largamente favorita dalla presenza di una opposizione sempre più incapace di esercitare un ruolo di possibile alternativa.