Il virus dell’autoritarismo

Nell’ultimo articolo avevo analizzato i diversi metodi di contrasto al virus adottati nel mondo, mostrando come ve ne sono almeno tre che si sono dimostrati efficaci (anche se in misura diversa) nei paesi avanzati dell’Estremo Oriente e dell’Oceania (che chiamerò “paesi del Pacifico”, dato che si trovano tutti nell’area del Pacifico Ocidentale) e, almeno nella prima fase, anche in molti paesi dell’Europa del Nord e dell’Est.

Incredibilmente, nessuno di tali metodi è stato però adottato dai paesi leader dell’Occidente. A un anno esatto di distanza dall’inizio ufficiale dell’epidemia in Europa, con la scoperta dei primi casi a Codogno il 20 febbraio 2020, è venuto il momento di chiedersi: perché?

Se fossi un complottista, la risposta sarebbe facile: infatti, anche se nessuno lo ammetterebbe mai, il virus fa comodo a un bel po’ di gente, a cominciare dalla Cina, che, essendo uscita dall’emergenza già da molti mesi, sta inondando i mercati con le sue merci in sostituzione di quelle che noi non riusciamo più a produrre. Addirittura, nel suo discorso di fine anno il presidente Xi Jinping è arrivato a definire il 2020 «un anno ottimo per il nostro paese» e per una volta non era la balla di un dittatore (quale lui è: cerchiamo di ricordarcelo), ma la pura e semplice verità. Ma il virus fa comodo anche ai governi e, più in generale, alle élites occidentali, che da tempo attraversano una grave crisi di credibilità, che grazie all’emergenza è stata, se non proprio superata, quantomeno temporaneamente accantonata.

Sarebbe quindi facile sostenere, come molti in effetti fanno, che la pandemia è frutto di un piano ordito dai dittatori di Pechino in combutta con le suddette élites occidentali. Questa teoria, però, come tutti i complottismi, si scontra con evidenze indiscutibili, prima fra tutte il fatto che è certo possibile mettere in moto intenzionalmente un processo del genere, ma nessuno sarebbe in grado di prevederne la successiva evoluzione. Inoltre, soltanto un pazzo metterebbe in circolazione un virus letale sul proprio territorio, tanto più senza disporre ancora di un antidoto: e i cinesi tutto sono tranne che pazzi. Quanto alle élites occidentali, è vero che questa vicenda le ha finora rafforzate, ma su tempi più lunghi il disastro economico che sta causando rischia di avere l’effetto opposto.

Inoltre, non solo non vi è nessuna evidenza che il virus sia stato lasciato entrare e dilagare intenzionalmente in Europa, ma, al contrario, ve ne sono molte che ciò sia dovuto ad altre cause, che sono già state ampiamente analizzate in altri articoli apparsi su questo sito, sia miei che di Ricolfi e di altri suoi collaboratori, che perciò mi limiterò a elencare, senza andare di nuovo a discuterle.

Anzitutto, incompetenza, ignoranza, limiti intellettuali e a volte perfino psicologici di molti leader ed esperti o presunti tali; poi, internazionalismo a parole, che ha portato al rifiuto ideologico di chiudere le frontiere (come invece facemmo ai tempi della Sars, avendo appena 4 contagi e zero morti) e provincialismo di fatto, che ha portato a concentrarsi solo su ciò che accade in Europa e Stati Uniti, senza guardare agli esempi virtuosi dei paesi del Pacifico; incomprensione della “matematica” delle epidemie, che ha portato ad adottare le misure preventive nella sequenza sbagliata (prima quelle blande, poi quelle dure, anziché viceversa); quindi vanità e presunzione, che hanno portato a credere al mito dell’inesistente “modello Italia”; e infine indisponibilità ad ammettere i propri errori, che hanno portato a ripeterli più volte.

Inoltre, ha pesato molto il caso, poiché sfortuna ha voluto che il primo paese europeo ad essere colpito dal virus sia stata l’Italia, che in quel momento era retta dal governo più inetto e incompetente di tutta la storia delle democrazie moderne, particolarmente (benché niente affatto esclusivamente) nella componente dei 5 Stelle, un partito che ha modellato il suo metodo su quello dei social media e il suo programma sulla pseudoscienza da blog (vedi il mio saggio Il partito di Internet, in Miti, simboli e potere, Albo Versorio, Milano 2018, pp. 333-344).

Non sapendo che pesci pigliare, ai nostri governanti non è parso vero che qualcun altro decidesse per loro, cosicché hanno seguito ciecamente tutte le disastrose indicazioni della OMS, che ha ricambiato la cortesia additandoci al mondo intero come il modello da seguire, anziché, come sarebbe stato suo dovere, quei paesi del Pacifico che fin dalla prima fase avevano fatto cento volte meglio di noi (dove “cento volte” non è un’espressione retorica, ma l’esatto ordine di grandezza del divario esistente tra noi e loro). E così Conte ha trascinato con sé nell’abisso non solo l’Italia, ma tutto l’Occidente.

Tutto ciò premesso per onestà intellettuale, va però detto che la stessa onestà intellettuale impone di riconoscere che, una volta fatta la frittata, molti si sono accorti che dopotutto non era così indigesta, almeno per loro. Fuor di metafora, le élites occidentali non hanno intenzionalmente causato la pandemia, ma l’hanno intenzionalmente sfruttata a scopi di potere, cosa di cui vi sono molte prove, tanto incontestabili quanto preoccupanti.

Anzitutto, infatti, è evidente che questa situazione ha aiutato moltissimo tali élites, largamente dominanti nei palazzi del potere, ma sempre più invise ai rispettivi popoli, a mettere in riga i partiti antisistema, accusando chiunque si azzardasse a criticare le scelte dei governi di essere un “negazionista”, certo facilitati – questo va riconosciuto – dal fatto che tali movimenti tendono effettivamente ad assumere posizioni di questo tipo.

Ciò si è visto con la massima chiarezza negli USA, dove senza tutte le idiozie che ha detto sul virus Trump avrebbe asfaltato Biden come un rullo compressore, tant’è vero che perfino così ha rischiato di vincere (perché negli Stati chiave la differenza è stata di poche migliaia di voti, anche se adesso preferiamo dimenticarlo). Ma la situazione è simile in tutta l’Europa occidentale e in particolare in Italia, dove in condizioni normali lo sgangherato governo giallorosso sarebbe caduto molto prima. Anche il sostegno incondizionato ricevuto dagli altri paesi, nonché gli ormai mitici 209 miliardi del Recovery Fund, sembrano essere stati concessi a Conte assai più in riconoscimento dei suoi “meriti” nel mettere all’angolo Salvini e Meloni a colpi di (illegali) DPCM che non di quelli (inesistenti) nel gestire l’epidemia.

Sia chiaro, però, che non sto dicendo che esista un’unica regia che spiega tutto ciò che sta accadendo, né a livello italiano né, tantomeno, europeo e mondiale: ho già detto che non credo al complottismo, né in generale né per quanto riguarda la genesi e la diffusione dell’epidemia e non ci credo neanche per quanto riguarda la sua strumentalizzazione a fini politici. Certo, complotti di portata limitata sono possibili e anche in questo caso alcuni ci sono sicuramente stati, ma a livello globale non funziona così. Come ha detto qualcuno che se ne intende, «non c’è uno che dà le carte, c’è un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono». Sono parole di Luca Palamara (Il Sistema, Rizzoli 2021, p. 221), quel gentiluomo che è stato a lungo il garante di quello che lui chiama “il Sistema” e che per decenni ha deciso e continua tuttora a decidere tutte le cariche importanti della magistratura italiana. Valgono anche nel nostro caso, soltanto un po’ più in grande.

Qui, infatti, il “blocco culturale omogeneo” comprende praticamente tutte le nostre classi dirigenti (politici, giornalisti, magistrati, intellettuali, docenti universitari e – ahimè – anche scienziati) che si riconoscono in quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che ha definito molto esattamente come «un modo di operare […] basato su almeno due caposaldi: I) la subalternità rispetto agli organismi sovranazionali […]; II) la sacralizzazione della globalizzazione, del commercio internazionale e della circolazione delle persone» (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia, La nave di Teseo 2021, pp. 22-23). Il primo di tali caposaldi, infatti, ha portato a ubbidire ciecamente alla OMS, mentre il secondo ha impedito la tempestiva chiusura delle frontiere.

È facile per chiunque vedere come tale ideologia ricomprenda ormai praticamente tutto l’arco costituzionale, dall’estrema sinistra fino alla destra moderata, lasciando all’opposizione solo la destra “populista”, o, più esattamente, quella che viene ritenuta tale per definizione, dato che questa è l’unica “casella” che viene lasciata (intenzionalmente) libera e in cui, di conseguenza, vengono, per l’appunto, “incasellati” tutti i movimenti eterodossi, a dispetto di qualsiasi differenza possa sussistere tra di essi.

In effetti, lo stesso termine “populista”, per come viene usato, ha ormai perso qualsiasi significato definito, per trasformarsi in una pura “etichetta” usata per demonizzare gli avversari, proprio come quella di “fascista” negli anni Settanta, tanto che potremmo addirittura formulare un terzo “caposaldo” dell’ideologia suddetta come segue: «III) Chiunque non accetti i primi due principi viene automaticamente catalogato come “populista” e, di conseguenza, considerato un “impresentabile” da emarginare al più presto dalla scena politica con qualsiasi mezzo possibile». E ciò vale non solo verso le singole persone, ma anche verso gruppi, partiti e addirittura interi Stati.

Il caso più impressionante è quello dell’Inghilterra, che, pur essendo uno dei paesi più potenti del mondo, nonché uno di quelli che più di tutti hanno contribuito a creare la suddetta “ideologia europea”, da quando l’ha radicalmente messa in discussione, non solo teoricamente, ma in pratica, con la Brexit, è improvvisamente passata tra i “cattivi” per definizione e da allora viene regolarmente denigrata da giornalisti e intellettuali (a cominciare dai suoi) a prescindere, con il più sovrano disprezzo per i fatti. Solo per fare un esempio, si è a lungo sostenuto che non essendo più in Europa avrebbe avuto problemi a trovare i vaccini, mentre la realtà è esattamente opposta: a faticare siamo noi, mentre l’Inghilterra (che ha sempre fatto molto meglio, anche prima che iniziassero i ritardi nelle forniture) ha già vaccinato oltre un quarto della sua popolazione, contro una media UE di circa il 6%, cioè quasi 5 volte inferiore (numeri vaccini italia-mondo). Eppure, avete mai sentito qualcuno ammetterlo, magari aggiungendo: “Scusate, avevo sbagliato?” No? Ecco, appunto…

Anzi, all’inizio, con un meschino trucchetto che la dice lunga sul suo infimo livello culturale e morale, il nostro governo non considerava nemmeno l’Inghilterra un paese europeo per poter sostenere che eravamo i secondi in Europa per numero di vaccinazioni, versione riveduta e corretta del mito del “modello Italia”, che per fortuna non ha fatto presa, dato che era altrettanto infondata della prima, basandosi sui numeri assoluti, che non significano nulla, anziché, come dovrebbe essere, sulla percentuale di popolazione vaccinata. Per la cronaca, l’Italia è attualmente al 42° posto nel mondo con il 5,7% di vaccinati, un po’ meno della media europea, il che – attenzione! – non significa che siamo al livello di tutti gli altri paesi europei, bensì che circa metà di essi (tra cui parecchi assai meno progrediti di noi) hanno fatto meglio e l’altra metà peggio, anche se le differenze, in entrambi i sensi, sono abbastanza piccole.

Altrettanto facile è vedere come questa ideologia in realtà non coinvolge soltanto l’Europa, ma anche USA, Canda e buona parte dell’America Latina, per cui dovremmo forse chiamarla, più correttamente, “ideologia atlantica”, anche per marcare maggiormente la contrapposizione con i paesi del Pacifico, che non la condividono (per lo stesso motivo eviterei invece di parlare di “ideologia occidentale”, dato che Australia e Nuova Zelanda, che guidano il gruppo del Pacifico, culturalmente appartengono all’Occidente). In particolare, è evidente l’uso demonizzante che anche in America viene fatto del termine “populista” nei confronti di tutti coloro che rifiutano tale ideologia, come per esempio Trump negli USA o Bolsonaro in Brasile.

Attenzione: con questo non sto dicendo che i suddetti non si meritino tale qualifica, ma soltanto che essa non viene attribuita a loro o a chiunque altro perché se la merita, ma perché non accetta l’ideologia di cui sopra. Se invece uno la accetta, anche solo a parole, poi può permettersi di fare tutto quel che gli pare senza praticamente suscitare proteste, come per esempio il dittatore venezuelano Maduro o il suo predecessore Chavez, che hanno ridotto alla fame uno dei paesi potenzialmente più ricchi della Terra nella più totale indifferenza dei nostri leader politici e intellettuali. Nemmeno la dittatura cinese, nonostante le sue gravissime e ormai accertate colpe nella diffusione del virus (oltre che in molte altre cose), viene trattata – neanche lontanamente – con la stessa ostilità riservata ai “populisti” di cui sopra: basti pensare alle nostre piazze piene (giustamente) per le violenze della polizia americana contro i neri, ma desolatamente vuote di fronte alle violenze (ben peggiori) della polizia cinese contro i manifestanti di Hong Kong.

Si capisce quindi perché tale ideologia stia suscitando una crescente insofferenza in gran parte della popolazione occidentale. E si capisce anche perché la reazione contro di essa prenda spesso forme sguaiate, “impresentabili” o addirittura violente: poiché infatti la quasi totalità delle persone istruite è organica al sistema, i “ribelli” faticano terribilmente a trovare leader all’altezza, per cui molti, pur non essendo affatto degli estremisti, finiscono col votare “turandosi il naso” per personaggi che in condizioni normali non si sognerebbero mai di prendere in considerazione.

Mi sono reso conto di colpo di quanto fosse diventato profondo questo fenomeno nel 2016, quando per la prima volta nella mia vita ho sbagliato il pronostico su un’elezione politica, non prevedendo la vittoria di Donald Trump. Riflettendo sulle ragioni che mi avevano indotto in errore, mi sono reso conto che mi ero concentrato quasi esclusivamente sulla popolarità di Trump, che giudicavo (giustamente) sufficiente per competere, ma non per vincere, mentre avevo dato per scontato (erroneamente) che quella di Hillary fosse calata solo di poco rispetto ai tempi d’oro, senza rendermi conto di quanto invece fosse ormai odiata da gran parte della popolazione. Ma il fenomeno non è solo americano: tutti gli “impresentabili” del nostro tempo, da Bolsonaro a Orbán, da Salvini alla Le Pen, vincono in questo modo.

D’altra parte, neanche gli “impresentabili” sono sempre realmente tali, giacché vale anche per i leader ciò che vale per i loro seguaci: non tutti sono davvero estremisti, ma, di fronte a un sistema che non li considera avversari da battere, ma nemici da distruggere e li spinge comunque ai margini, spesso scelgono di apparire tali per ragioni elettorali, in modo da raccogliere i voti dei veri estremisti, secondo la logica del “tanto peggio, tanto meglio”. In realtà, però, molti di loro (benché non tutti: lo ripeto a scanso di equivoci) sarebbero ben felici di “civilizzarsi” e interloquire pacatamente con i rappresentanti dell’establishment, se tra di essi trovassero interlocutori disposti ad ascoltare le loro ragioni.

Ciò spiega, per esempio, come mai la Lega, il cui “zoccolo duro” è costituito essenzialmente da imprenditori del Nord che con l’Europa ci lavorano continuamente, pur non amando la sua ideologia, abbia subito accettato l’invito di Draghi, che per l’appunto è, o almeno potrebbe essere, uno di tali interlocutori più aperti. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei nostri commentatori politici hanno prima respinto come “impossibile” tale eventualità e poi, quando i fatti hanno dimostrato il contrario, hanno cercato di presentarla o come un tentativo contro natura destinato a sicuro fallimento o come l’inizio di una sorta di cammino di “conversione” all’ideologia di cui sopra, benché sia piuttosto evidente che non è né l’una  né l’altra cosa.

E qui arriviamo al punto più preoccupante. Quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che io ho qui ribattezzato “ideologia atlantica” è in effetti solo un’applicazione particolare (benché ovviamente assai eclatante) di un’ideologia ancora più ampia: quella del “politically correct”. Ed è proprio da essa che nasce il virus dell’autoritarismo che si sta propagando insieme a quello del Covid.

L’aspetto più paradossale del politically correct è che, volendo abolire qualsiasi tipo di discriminazione, a prima vista sembra l’esatto opposto dell’autoritarismo, ma in realtà è l’esatto opposto della tolleranza. Quest’ultima, infatti, si esercita, per definizione, verso le idee che non si condividono: essa, perciò, presuppone il disaccordo e di conseguenza la critica, purché non si traduca in discriminazione.

Ma per il politically correct la critica – qualsiasi critica – va considerata di per sé stessa una discriminazione, perché può offendere la sensibilità di chi la riceve, il che in certa misura è anche vero. Il problema, però, è che vietare le critiche è un rimedio molto peggiore del male, giacché si traduce di fatto nel pretendere che le idee altrui non debbano solo essere tollerate, ma anche condivise, il che equivale a negare la libertà di opinione, anzi, addirittura la libertà di coscienza, dato che chi non ci sta non va semplicemente ridotto al silenzio, ma “rieducato” e, se si rifiuta, ostracizzato ed espulso dalla società civile.

Tale tendenza è presente nella nostra società da parecchio tempo, ma il virus le ha fornito su un piatto d’argento l’occasione perfetta per fare un ulteriore salto di qualità, perché ovviamente è molto più facile convincere la gente a emarginare qualcuno se si dice che non solo costui è brutto, sporco e cattivo, ma sta anche mettendo in pericolo la salute di tutti. Così è nato il “pandemically correct”, che non ha fatto altro che adattare alla situazione gli stessi meccanismi del politically correct “classico”: creazione di alcune “parole d’ordine” considerate “buone” per definizione; loro imposizione attraverso un’ossessiva campagna mediatica; demonizzazione di chi chiunque dissenta, considerato per definizione “negazionista” a prescindere dal merito delle sue affermazioni; conseguente deriva dei dissidenti moderati verso posizioni estremiste per mancanza di leader dissidenti moderati; e infine, a chiudere un circolo palesemente vizioso, ma a suo modo perversamente perfetto, uso strumentale di tale fenomeno per “dimostrare” la bontà delle parole d’ordine suddette indipendentemente dalla loro reale efficacia.

Una volta di più voglio ribadire che non sto dicendo che ciò sia frutto di un complotto planetario: anche qui non c’è nessun Grande Fratello che “dà le carte”, bensì, di nuovo, “un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono”. Tuttavia, è almeno possibile indicare quale parte del suddetto “blocco” è quella che ha maggiore influenza, creando e diffondendo le “parole d’ordine” a cui tutti si devono adeguare, che è poi la stessa che da tempo crea quelle del politically correct classico: si tratta essenzialmente delle grandi burocrazie nazionali e, soprattutto, internazionali, nonché dei grandi giornali e delle grandi televisioni e degli intellettuali organici a tale sistema, che sono in realtà una piccola minoranza, ma dettano legge a tutti.

Per questo a partire dal 2013 ho cominciato a parlare al proposito di “totalitarismo burocratico”, anche se in forma scritta credo che l’espressione compaia per la prima volta solo nella seconda edizione del mio libro La scienza e l’idea di ragione (Mimesis 2019). L’impressionante velocità con cui è stato creato e imposto a tutti il gergo del pandemically correct la dice lunga sul preoccupante grado di efficienza che tale meccanismo ha ormai raggiunto.

Quanto alla sua funzione “rieducativa” e quindi alla natura autoritaria (e tendenzialmente totalitaria) della mentalità da cui nasce, si potrebbero addurre centinaia di esempi, anche se per forza di cose qui ne potrò fare molti meno e saranno in gran parte italiani, ma ciò non significa che altrove le cose vadano diversamente. Comincerò da due dichiarazioni, particolarmente inquietanti e quindi particolarmente significative.

La prima è di Alberto Villani, presidente della Società Italiana di Pediatria nonché membro del Comitato Tecnico Scientifico, il quale a settembre, in occasione della riapertura delle scuole, aveva dichiarato al TG1 della sera che per i bambini portare la mascherina per 5 ore filate «non è un problema, soprattutto se hanno il buon esempio in casa», sottintendendo quindi, neanche tanto velatamente, che se per caso qualche bambino avesse protestato i colpevoli sarebbero stati i genitori, che evidentemente gli davano il cattivo esempio. Per la cronaca, si tratta dello stesso signore che il 5 gennaio, quando il disastro era ormai tale che nemmeno Conte osava più parlare di “modello Italia”, in un’intervista rilasciata a La Stampa ha dichiarato che la colpa dell’aumento dei contagi era dei cenoni di Capodanno e che «sinceramente non farei cambio con nessuno: con tutti i suoi limiti, la situazione italiana è migliore di quella americana e inglese», benché in quel momento l’Italia avesse 1263 morti per milione di abitanti, l’Inghilterra 1121 e gli USA 1098. Certo, se questi sono i consulenti del governo, allora si capiscono molte cose…

La seconda è di Donatella Di Cesare, docente di Filosofia Teoretica alla Sapienza di Roma, che, ancora su La Stampa del 21 dicembre scorso, dopo aver mosso molte giuste critiche all’operato del governo, invece di concluderne, come logica avrebbe voluto, che dunque quest’ultimo avrebbe dovuto adottare misure diverse e più efficaci, con un triplo salto mortale senza rete affermava recisamente, senza addurre nessuna prova a sostegno, che «una politica  seria dovrebbe assumersi l’onere della chiusura responsabile e affrontare il difficile compito di far comprendere ai cittadini che la vita di prima non tornerà». Forse la mia illustre collega avrebbe bisogno di una vacanza per schiarirsi le idee, magari a Taiwan, in Australia o in Nuova Zelanda, dove, oltre a sole e mare in quantità, troverebbe “la vita di prima” già tornata da un bel pezzo…

Tuttavia, l’aspetto che mostra con maggiore evidenza la suddetta tendenza autoritaria è il tentativo, più volte denunciato anche da Ricolfi, di incolpare i cittadini di quello che in realtà è un fallimento dei governi. Certo, anche questo per un verso fa parte della loro strategia di autogiustificazione, ma c’è in esso anche qualcosa di più perverso, che ha espresso in modo impareggiabile Massimo Cacciari, a cui lascio quindi la parola.

«A partire dallo sciagurato slogan del “distanziamento sociale”, invece che di “distanza di sicurezza” o formule analoghe, è purtroppo del tutto evidente il punto di vista culturale con cui il “messaggio” è stato concepito. Quello slogan poteva venire in mente soltanto a chi ritenga un pericolo la prossimità, un’assemblea o una manifestazione un irragionevole “assembramento”, il “lieto romore” che fanno i fanciulli gridando “su la piazzola in frotta… e qua e là saltando” un intollerabile baccano. […] Ogni energia è spesa a convincerci che è in fondo più comodo lavorare di fronte a un pc che convivere e cooperare “in presenza” con colleghi, amici e magari anche nemici, che quella bella leopardiana “movida” può essere sostituita da qualche chat, che la pizza è altrettanto buona seduti sul divano di fronte a mamma tv che con gli amici in pizzeria. Invece di suscitare l’ardente desiderio di fare tutto il necessario per uscire al più presto dalla miseria dell’attuale situazione, la propaganda “in rete” ci vuole convincere che la vita del pensionato è ottima e forse, anzi, ideale. […] Bisogna, credo, insorgere contro questa deprimente narrazione, sintomo di una generale senescenza delle nostre società» (Ora proviamo a essere eroi per un anno, su La Stampa del 2/1/2021, pp. 1-19).

Mi permetto solo di aggiungere a tale esattissima descrizione che non è solo contro la senescenza che dobbiamo insorgere, perché essa va qui insieme a qualcosa di ancor peggiore. Infatti, la colpevolizzazione moralistica dei semplici piaceri della vita è da sempre tipica di tutti i regimi autoritari, perché solo chi non è contento della propria vita è disposto a venderla al potere di turno: come ha scritto una volta Clive Staples Lewis, «ho conosciuto un essere umano che ha trovato la difesa contro forti tentazioni di ambizione sociale in un gusto ancor più forte per la trippa e le cipolle» (Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano 1998, p. 56).

Ora, questo qualsiasi dittatore o aspirante tale lo sa istintivamente in cuor suo, giacché egli per primo è così: un frustrato che cerca di compensare la sua incapacità di dominare la propria vita pretendendo di dominare quella degli altri, in particolare di quelli che la vita, a differenza di lui, se la sanno godere. Il grande psicanalista Giacomo Contri ha chiamato tale atteggiamento “odio logico” e l’ha riassunto nella formula “Ti uccido, dunque sono”, che non cambia molto se modificata in “Ti imprigiono, dunque sono”, equivalente “colto” del celeberrimo «State a casa o chiudo l’Italia!» pronunciato con tono da bullo di periferia dal premier-per-caso Giuseppe Conte all’inizio della crisi.

Da un lato, perciò, la pura e semplice esistenza di tali piaceri e di chi non vi vuole rinunciare è intollerabile per il dittatore di turno, giacché gli ricorda continuamente il suo fallimento esistenziale; dall’altro, a dispetto della loro apparente frivolezza, essi rappresentano per loro natura un punto di irriducibile resistenza contro qualsiasi potere, come aveva perfettamente chiaro George Orwell, colui che più di chiunque altro ne ha capito l’intima essenza. Non è un caso che anche Gesù Cristo ne avesse la massima considerazione e che per questo venisse giudicato dai moralisti di allora «un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Lc 7, 33): insomma, un tipo poco serio e probabilmente anche poco responsabile, esattamente come i fautori dell’odierno pandemically correct giudicano chiunque non si dimostri entusiasta di ubbidire ai loro dogmi.

Naturalmente, già conosco l’obiezione standard a queste considerazioni, perché è anch’essa una delle suddette parole d’ordine, che ci viene ossessivamente ripetuta: “I sacrifici sono duri, ma necessari”. Peccato solo che si tratti di una balla cosmica, perché questi sacrifici sono solo duri, ma per niente necessari, non essendo serviti praticamente a nulla, se è vero, come è vero, che siamo messi peggio perfino dei paesi del Terzo Mondo.

Anzi, proprio l’insistenza su questo aspetto è stata ed è tuttora la principale causa non del contenimento, bensì della diffusione del virus, perché è ciò che ha finora impedito di capire la sostanziale differenza tra il vero lockdown, duro, breve ed efficace, in cui si chiude davvero tutto, come in Cina, in Australia e in Nuova Zelanda (ma anche, almeno nella prima fase, in Grecia e un po’ in tutta l’Europa dell’Est e del Nord), e lo pseudo-lockdown all’italiana, meno duro, ma in compenso molto più lungo e molto meno efficace.

Da noi, infatti (e per “noi” intendo non solo l’Italia, ma tutti i paesi in cui dominano l’ideologia atlantica e il pandemically correct, quindi tutta l’Europa occidentale e le Americhe), quando si parla di chiudere “tutto” in realtà si sottintende sempre “tutto ciò che può causare assembramenti”: quindi negozi, locali pubblici, attività sportive (vedi, proprio in questi giorni, l’allucinante vicenda degli impianti sciistici) e perfino le elezioni, ma non fabbriche e uffici.

Eppure, non solo il buon senso, ma anche tutti gli studi scientifici, a cominciare da quello sui primi dati cinesi pubblicato il 26 febbraio 2020 (l’unica cosa buona fatta dalla OMS in questa sciagurata vicenda, i cui principali risultati restano validi ancor oggi), indicano che la probabilità di contagio è massima tra persone adulte che stanno a lungo in ambienti chiusi, mentre quella minima è all’aperto tra giovani. È quindi evidente che l’accanimento contro i mitici “assembramenti” e, in particolare, contro la ancor più mitica “movida” ha una motivazione essenzialmente ideologica. E, come ogni ideologia, ha prodotto risultati catastrofici per i popoli, ma che per certi versi fanno invece comodo a chi sta al potere.

Una volta di più, non sto dicendo che ci sia un piano a tavolino per prolungare artificiosamente la pandemia: la realtà è sempre molto più complessa del semplicismo complottista. E tuttavia è innegabile che proprio questo, oggettivamente, sia stato l’effetto prodotto dalle misure adottate dai nostri governi allo scopo di contenerla, così come è innegabile che a ciò abbia contribuito, insieme a tutte le altre cause prima ricordate, anche la tendenza autoritaria che punta alla rieducazione dei popoli europei attraverso l’uso terroristico del pandemically correct.

Altrettanto innegabile è che ci siano già stati vari tentativi di insinuare, con le scuse più varie, che forse anche dopo esserci liberati del virus dovremmo mantenere almeno alcune delle misure attuate durante lo stato di emergenza. Alcuni, come per esempio i produttori di sistemi informatici, lo fanno per evidenti interessi economici (tra parentesi, dovremmo sempre ricordarci che gli esperti di sistemi informatici sono sempre anche produttori o quantomeno progettisti degli stessi e quindi il loro parere non è mai esattamente disinteressato), ma in altri casi la motivazione è chiaramente ideologica, anche se “travestita” da tecnica.

Tale atteggiamento ideologico diventa ancor più evidente (e più preoccupante) se consideriamo i mass media, dove la volontà, largamente maggioritaria, di sostenere a tutti i costi i governi, fregandosene altamente di quanti morti stanno causando con i loro errori pur di sbarrare la strada ai “populisti”, è non solo palese, ma spesso anche esplicitamente dichiarata: basti dire che perfino Massimo Cacciari, che, come abbiamo appena visto, è uno dei pochi critici davvero intelligenti di Conte, ha sempre sostenuto che il suo governo “non aveva alternative”, benché ciò fosse palesemente falso, come i fatti hanno appena dimostrato.

Più in generale, la “sorpresa” da tutti dichiarata per la “geniale mossa” di Mattarella di dare l’incarico a Draghi (che invece era del tutto ovvia e scontata, essendo fin dall’inizio della crisi l’unica soluzione praticabile) in parte sarà anche stata dovuta a pura ottusità, ma in parte ben più grande è stata un palese quanto maldestro tentativo di nascondere il fatto che le “analisi” che indicavano come unica soluzione possibile il Conte-Ter altro non erano che pressioni mascherate da previsioni.

Ma c’è di più e di peggio. Infatti, almeno alcuni tentativi di strumentalizzare intenzionalmente l’informazione si sono certamente verificati. Lasciando stare, per il momento, tutto il tema della manipolazione del linguaggio, che è così ampio e importante che gli dedicherò un articolo a parte, gli episodi di disinformazione sono stati talmente gravi e ripetuti che possono essere definiti adeguatamente soltanto con la parola “censura”. Anche qui posso fare solo alcuni esempi, ma confido che basteranno.

Anzitutto, spero che tutti abbiano notato come tra le interviste fatte per strada alla gente dai vari TG non se n’è mai vista neanche una in cui l’intervistato criticasse l’efficacia delle misure governative dal punto di vista strettamente sanitario, il che è chiaramente impossibile e si spiega soltanto col fatto che in onda vengono mandate solo quelle in cui l’intervistato raccomanda di ubbidire alle regole (in certi casi con toni così auto-flagellatori che viene perfino il dubbio che la cosa sia stata concordata prima). Qualche eccezione viene fatta solo per i negazionisti veri e propri, in modo da dare la falsa impressione che tutti quelli che criticano le regole siano, appunto, negazionisti.

Un altro aspetto gravissimo è l’intollerabile doppiopesismo con cui vengono abitualmente giudicate le azioni dei “correct” e degli “incorrect”. Ho detto prima che Trump si è giocato la rielezione con le idiozie che ha detto sul virus, anche se poi le sue azioni sono state assai meno scriteriate delle sue affermazioni. Tuttavia, se queste ultime sono state (giustamente) bollate come “irresponsabili” e a volte perfino “criminali”, che dire del “buon” Biden e del “grande” Anthony Fauci, che hanno sempre dichiarato di volersi ispirare al “modello Italia”, nonostante che l’Italia abbia sempre avuto molti più morti per abitante degli USA? Usando lo stesso metro, anche queste affermazioni dovrebbero essere considerate irresponsabili e criminali esattamente come quelle di Trump, anzi, ancora di più, perché se fossero state messe in pratica avrebbero causato la morte di ancora più persone. Eppure, avete mai sentito qualcuno dirlo? No? Ecco, appunto…

Comunque, la cosa in assoluto più scandalosa è il totale silenzio sulle esperienze dei paesi del Pacifico, che in alcune occasioni ha toccato vette tali che più che di censura si dovrebbe parlare di riscrittura della realtà, sullo stile di 1984 di Orwell.

Fig. 1. Per la OMS Taiwan non esiste, in quanto è considerata parte integrante della Cina.

Un primo esempio, che ha dell’incredibile, è quello di Taiwan, che nella mappa del contagio del sito ufficiale della OMS nemmeno compare, essendo considerata parte integrante della Cina. E Taiwan non è un paese qualunque, dato che è quello che se l’è cavata meglio di tutti al mondo; appena 0,34 morti per milione di abitanti, che significa che noi ne dovremmo avere appena 20! Che nessuno abbia mai denunciato questo scandalo, nemmeno i media di opposizione, che pure avrebbero tutto l’interesse a farlo, può significare una sola, incredibile cosa: che nessun giornalista è mai andato a vedere i dati ufficiali della OMS, limitandosi a commentarne le affermazioni, che spesso sono in completo contrasto con quanto emerge dai suoi stessi dati, del che però nessuno si accorgerà mai, se nessuno li va mai a guardare. Ciò rappresenta un radicale tradimento della missione del giornalista, che è quella di informare (che significa innanzitutto informarsi) e non di dividere il mondo in buoni e cattivi in base a categorie ideologiche costruite a tavolino.

Fig. 2. Capodanno senza mascherine a Auckland. Secondo la RAI erano tutti in casa a guardarlo alla TV.

Non meno assurdo è il trattamento riservato ad Australia e Nuova Zelanda. Per esempio, in occasione del Capodanno tutti i TG della RAI del 31 dicembre e del 1° gennaio (li ho controllati e registrati uno per uno, quindi nessuno si azzardi a negare) hanno accuratamente evitato di mostrare, come invece è sempre accaduto in passato, le folle che festeggiavano in strada, senza distanziamenti e senza mascherine, a Auckland, Sydney e Melbourne (nonché a Taiwan, Singapore, Bangkok e in molti altri paesi in cui il contagio è azzerato da mesi), arrivando addirittura in alcuni casi a sostenere esplicitamente che anche lì la gente avrebbe visto i fuochi d’artificio soltanto da casa.

In un caso si è arrivati ad affermare che solo in Cina la gente era scesa in piazza, peraltro sempre con le mascherine, il che costituisce un’ulteriore menzogna, perché, come si vedeva anche nel servizio da Wuhan, solo alcuni la portavano, il che significa che era una scelta personale, perché se fosse stata obbligatoria ovviamente l’avrebbero avuta tutti.

Fig. 3. I tifosi si “assembrano” festosamente senza mascherine intorno a Luna Rossa nel golfo di Hauraki. La RAI, però, ha parlato solo del mini-lockdown di 3 giorni dovuto ad appena 3 contagi ad Auckland.

La stessa cosa si è ripetuta, ma in forma, se possibile, ancor più vergognosa, con la Coppa America in Nuova Zelanda e gli Open di Australia di tennis, dove i TG e la Domenica Sportiva hanno raccontato con dovizia di particolari le imprese di Luna Rossa e dei grandi tennisti, ma non hanno mai mostrato né menzionato il pubblico che assisteva senza limitazioni e senza mascherine. Durante le telecronache, invece, per forza di cose non hanno potuto evitarlo, ma l’unico commento che ho sentito, all’inizio delle regate nel golfo di Hauraki, è stato: “Beati loro!”, come se la libertà dal virus gli fosse piovuta dal cielo per grazia divina (sulle telecronache del tennis non ho informazioni perché per scelta non guardo le Pay TV, ma, visto l’andazzo generale, non mi aspetto nulla di diverso, anche se naturalmente sarei ben felice di essere smentito).

In compenso, TG e DS si sono invece subito affrettati ad annunciare il rinvio delle regate di martedì 16 e mercoledì 17 febbraio per un mini-lockdown di appena 3 giorni deciso dalla premier Jacinda Ardern per 3 soli contagi (peraltro probabilmente “importati”) scoperti ad Auckland. Anzi, il TG3 delle 14 di domenica 14 febbraio è arrivato al punto di mettere fra i suoi titoli di apertura che “in Nuova Zelanda il virus torna a fare paura”, naturalmente guardandosi bene dal dire che si trattava, appunto, di soli 3 casi, che fino a quel momento il pubblico aveva assistito alle regate in totale libertà e che il lockdown era stato deciso non perché la situazione fosse preoccupante, ma perché proprio nell’intervenire con la massima decisione al minimo segno di contagio, prima che la situazione diventi preoccupante, consiste la “dottrina Jacinda” che ha permesso ai neozelandesi di vivere una vita praticamente normale da maggio in qua, come ho spiegato nel mio articolo del 12/01/2021.

Fig. 4. Pubblico senza mascherine agli Australian Open di tennis. Anche qui, la RAI ha parlato solo del mini-lockdown di 5 giorni dovuto ad alcuni contagi “di importazione” nell’hotel dell’aeroporto di Adelaide.

Esattamente lo stesso è successo con gli Australian Open, dove la RAI non ha mai mostrato né commentato le immagini del folto pubblico che ha assistito alle prime giornate, ma ha invece subito annunciato il mini-lockdown di 5 giorni deciso per alcuni casi scoperti ad Adelaide, peraltro anch’essi chiaramente di importazione, essendosi verificati all’Holiday Inn, l’hotel dell’aeroporto. Anche qui, nessun cenno al fatto che sia prima che dopo si è giocato con il pubblico, dato che dal 16 ottobre a oggi in Australia ci sono stati appena 5 morti su 25 milioni di abitanti, né che questo risultato strabiliante (l’Italia da allora a oggi di morti ne ha avuti 58.000) è stato ottenuto grazie alla “conversione” dell’Australia alla suddetta “dottrina Jacinda” (vedi sempre mio articolo del 12/01/2021), né infine che il senso di questi mini-lockdown è consentire il tracciamento di tutti i possibili contagi già avvenuti senza che nel frattempo se ne verifichino altri, per poi tornare rapidamente a quella normalità che noi ci sogniamo ormai da un anno, mentre i neozelandesi ne godono già da 8 mesi e gli australiani da 4.

È chiaro che una distorsione così sistematica e “mirata” della realtà non può essere attribuita soltanto all’ignoranza e all’incompetenza (che pure la loro parte la giocano), ma implica necessariamente una strategia pianificata a tavolino, che nel caso della TV di Stato non può che provenire direttamente dal governo, mentre negli altri casi è con ogni probabilità frutto di un misto di pressioni governative e di altre interne allo stesso sistema mediatico.

Di alcuni casi ho anche testimonianze certe, ma purtroppo non posso citarle, perché conoscere i fatti e poterli provare in tribunale sono due cose separate e distinte. Io stesso mi sono visto rifiutare due articoli da due diversi quotidiani (di cui, per le stesse ragioni di cui sopra, non farò il nome) perché i giornalisti a cui li avevo proposti, pur condividendoli, mi hanno detto che la direzione non li avrebbe mai accettati, in un caso per paura di ritorsioni da parte del governo e nell’altro per non metterlo in difficoltà.

La cosa più paradossale, comunque, è che questa strategia sta ottenendo l’effetto esattamente opposto a quello che si propone, facendo crescere, anziché diminuire, il numero dei negazionisti, esattamente come il tentativo di imporre i dogmi della “ideologia europea” ha fatto crescere, anziché diminuire, il numero degli antieuropeisti.

Anche il motivo è lo stesso: se infatti chi capisce confusamente che c’è qualcosa che non va nella visione ortodossa proposta dall’establishment non trova qualcuno che sia capace di spiegargli in modo chiaro e convincente che cosa esattamente non va, finirà per andar dietro a chiunque capiti, anche se ha le idee confuse come e perfino più delle sue, purché si opponga a politiche che ormai vengono ritenute inaccettabili, non tanto perché richiedono sacrifici, ma – giova ripeterlo – perché richiedono sacrifici inutili o, nel migliore dei casi, assolutamente sproporzionati ai magrissimi risultati ottenuti.

Ora, sul breve termine questo metodo ha sicuramente pagato, rafforzando il suddetto establishment, perché è più facile battere un avversario rozzo e “impresentabile” che uno preparato e intelligente, ma sul lungo periodo radicalizzare i conflitti sociali può solo avere effetti catastrofici per tutti (tra parentesi: è mai possibile che nessun fautore del politically correct si renda conto di quanto sia controproducente cercare continuamente l’appoggio dei personaggi dello spettacolo, che sono visti – più a ragione che a torto, per la verità – come dei ricchi ignoranti e presuntuosi che vivono in un modo che non ha nulla a che fare con quello della gente comune e ciononostante pretendono di farle la morale?).

I primi effetti negativi rischiamo di vederli già nei prossimi mesi, perché sta montando una diffusa opposizione che potrebbe ulteriormente rallentare il già troppo lento piano vaccinale, che a questo punto è l’unica via di salvezza che ci resta prima del baratro. Ho molti amici che, pur non essendo assolutamente contrari ai vaccini in generale, non si fidano di questi vaccini perché non si fidano di questi governi e di questi esperti. E la cosa più drammatica è che hanno ragione.

Questo è un punto molto delicato, a cui bisognerà una volta o l’altra dedicare una riflessione a parte, perché se è vero che molti scienziati hanno cercato di suggerire strategie più intelligenti ai governi (peraltro senza essere mai ascoltati), è altrettanto vero che pochissimi hanno contestato alla radice le loro politiche: nonostante l’evidenza del loro totale fallimento, quasi tutti si sono infatti limitati a proporre correzioni di aspetti particolari e soprattutto maggiore efficienza, all’interno di un quadro che fondamentalmente continuava a basarsi sugli stessi erronei presupposti.

In particolare, stupisce il comportamento dei medici: una loro sollevazione collettiva, con richiesta di un drastico cambiamento di rotta, in questa situazione non potrebbe essere facilmente ignorata, eppure non l’hanno mai neanche tentata, nonostante rischino la pelle in prima persona, tanto che ne sono già morti oltre trecento. La mia impressione, ascoltando non solo i discorsi in televisione, ma anche quelli dei molti medici che conosco (alcuni li ho pure in famiglia), è che pensino davvero che non ci siano errori concettuali di fondo, ma solo di gestione, il che è davvero incomprensibile, perché, diversamente dai non addetti ai lavori, la loro interpretazione dei dati non dovrebbe essere influenzata dalla propaganda dei media e, come abbiamo visto, quello che emerge dai dati è un quadro completamente diverso rispetto a quello delineato dall’ideologia del pandemically correct.

La sostanziale accettazione di quest’ultimo presuppone quindi un processo di autoinganno almeno in parte volontario: è quello che Václav Havel, il più lucido e profetico dei dissidenti dell’Est, nel suo capolavoro Il potere dei senza potere chiama “autototalitarismo sociale” e che ricorda molto il meccanismo descritto pochi giorni fa su questo stesso sito dal politologo Paolo Natale. Ma, come ho detto, ne parleremo un’altra volta.

Ciò che invece adesso dobbiamo sottolineare è quanto sia pericoloso l’atteggiamento delle nostre attuali classi dirigenti, la cui stragrande maggioranza reagisce all’avanzata dei negazionisti esattamente come a quella dei populisti (peraltro ormai visti sostanzialmente come la stessa cosa): demonizzandoli ancor più e insistendo a volerli “rieducare” anziché provare ad ascoltarli, senza fare di tutta l’erba un fascio e distinguendo, tra le diverse posizioni, quelle assolutamente infondate da quelle che invece nascono da preoccupazioni assolutamente legittime e giustificate.

Questo si è visto in modo emblematico in America, dove la prima “geniale” mossa della strategia di Biden per “riconciliare il paese” è stata sostenere a spada tratta l’impeachment per Trump, tra l’altro contrario alla logica prima ancora che alla Costituzione, dato che l’impeachment non è un processo penale, bensì la «messa in stato d’accusa di persona che detiene un’alta carica pubblica, ritenuta colpevole di azioni illecite nell’esercizio delle proprie funzioni, allo scopo di provocarne la destituzione» (Dizionario online di Oxford Languages) e quindi per definizione non si applica a chi sia già stato rimosso dalla sua carica, “per la contradizion che nol consente”, qualsiasi cosa pensino e votino gli illustri membri del Congresso. È vero che tecnicamente la motivazione dell’accusa era la sua presunta responsabilità nell’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si trattava in realtà di un attacco a tutta la sua politica e innanzitutto alla gestione dell’epidemia.

Ora, se voi foste dei sostenitori di Trump, magari anche moderati e critici verso l’atteggiamento che ha tenuto nella fase finale del suo mandato, come vi sentireste ora: più o meno inclini a riconciliarvi con Biden? La risposta è ovvia quanto la domanda, e di conseguenza il fatto che praticamente nessuno se la sia posta dimostra una volta di più come “riconciliarsi con l’avversario” nel linguaggio del politically correct significhi in realtà “rieducarlo”.

Del tutto analoga è la situazione nostrana, emblematicamente rappresentata dalla celeberrima espressione “sciamani d’Italia” che Massimo Giannini, direttore di La Stampa nonché ex vicedirettore di Repubblica nonché autoproclamato esperto del virus per il solo fatto di esserselo beccato (ed esserne fortunatamente guarito), ha «usato per definire le reazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni al quasi golpe di Washington» (Gli sciamani e la mia risposta alla Meloni, editoriale di La Stampa dell’11 gennaio 2021, p. 1).

A parte che parlare al proposito di “quasi golpe” significa o essere fuori dal mondo o essere in malafede, anche qui la motivazione tecnicamente si riferisce all’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si tratta in realtà di un attacco a tutta la loro politica, a cominciare dalla scelta del vocabolo, che allude sì alla loro presunta vicinanza all’incredibile personaggio che ha guidato il suddetto assalto (il che dimostra quanto si fosse lontani anni luce da un vero golpe), ma anche – e certo non casualmente – a un loro presunto atteggiamento antiscientifico, che in parte, come ho già detto, in quei partiti esiste davvero, ma non giustifica quello che è a tutti gli effetti un mero insulto (pesante) e non una critica razionale. Anche il tono generale non era quello di chi critica un avversario, ma di chi lancia una scomunica, tant’è vero che le loro rispettive parti politiche nello stesso articolo sono definite «parte del problema» in quanto «ambigue, […] reticenti, […] anomale, […] populiste, […] radicali, […] illiberali, […] a-repubblicane» e perciò «inadatte a governare un Paese» (ibidem, p. 9). E non si tratta certo di un caso isolato, anche se è quello che ha fatto più notizia.

Del resto, il fatto stesso che due dei tre più grandi quotidiani italiani abbiano potuto scambiarsi come se niente fosse direttore e vicedirettore, nonostante un orientamento politico e culturale in teoria piuttosto diverso, la dice lunga su quanto l’omogeneità culturale prodotta dalla condivisione dei dogmi della “ideologia atlantica” nonché del politically e del pandemically correct sia ormai di gran lunga più profonda e più forte di qualsiasi altra differenza, nonché su come tale “blocco culturale” si muova ormai davvero “all’unisono”, formalmente rispettando le regole democratiche, ma nella sostanza comportandosi in modo sempre più intollerante.

Il dramma è che pochissimi dei nostri leader sembrano aver capito la necessità di cambiare rotta (speriamo, per il bene di tutti, che uno di essi sia Draghi, anche se per quanto riguarda la gestione dell’epidemia in senso stretto non c’è da farsi troppe illusioni, come dimostra la conferma alla Sanità del ministro Speranza, uno dei principali colpevoli del disastro italiano).

Eppure, un esempio, per giunta non teorico, ma concretissimo, che “un altro modo è possibile” ci sarebbe ed è rappresentato ancora una volta dalla Nuova Zelanda, dove negazionisti e populisti (che prima c’erano anche lì) sono praticamente spariti, non per magia, ma grazie al comportamento radicalmente diverso tenuto dalla giovanissima Jacinda Ardern, eletta premier per la prima volta nel 2017 ad appena 37 anni.

Anzitutto, infatti, lei si è sempre assunta la responsabilità delle proprie azioni in base ai risultati che hanno determinato, anziché giustificarle in base ai principi che le hanno ispirate, come usa da noi. Basti dire che quando due turiste inglesi trovate positive all’aeroporto per una svista erano state lasciate andare anziché metterle in quarantena la signora Jacinda andò subito in televisione e disse che si trattava di «un fallimento inaccettabile del sistema», cioè innanzitutto suo.

Eppure, si trattava di appena due casi che le erano sfuggiti dopo che aveva già azzerato il contagio, con appena 25 morti su 5 milioni di abitanti! Nessuno si sarebbe certamente sognato di biasimarla, se non si fosse scusata. E invece no! Chiedendo ai suoi concittadini di accettare il lockdown totale lei aveva promesso in cambio la totale eradicazione del virus, quindi anche due soli casi erano inaccettabili. L’abisso che passa tra il suo atteggiamento e quello di Conte, nonché di tutti gli altri leader “atlantici” si riflette con esattezza matematica nell’abisso tra i suoi risultati e i loro.

Ma non basta. Infatti, dopo essere stata rieletta trionfalmente il 17 ottobre scorso con la maggioranza assoluta (come era logico, visti i risultati ottenuti) che ha fatto Jacinda? È andata in televisione a bacchettare i suoi avversari e a vantarsi di quanto era stata brava? Manco per sogno! La sua prima dichiarazione è stata: «Viviamo in un mondo sempre più polarizzato, un luogo dove sempre più persone hanno perso la capacità di mettersi nei panni degli altri. Spero che in queste elezioni la Nuova Zelanda abbia dimostrato di non essere così. Ma una nazione che sa ascoltare, discutere. Siamo troppo piccoli per perdere di vista la prospettiva degli altri. Le elezioni non sempre uniscono le persone. Ma non significa che debbano dividerle».

Dopodiché, anche se avrebbe potuto governare tranquillamente da sola, si è immediatamente messa al lavoro per creare un governo di coalizione sostenuto dalla più ampia maggioranza possibile, tra cui tantissime donne (senza bisogno alcuno di “quote rosa”) e, cosa ancor più rivoluzionaria, tantissimi parlamentari di etnia maori, affidando non qualche sottosegretariato, ma nientemeno che il Ministero degli Esteri a Nanaia Mahuta, imparentata con la famiglia reale dei Maori.

Questa è riconciliazione. Questa è inclusione. Questa è educazione (e non “rieducazione”) del popolo. Questa è, in una parola, politica, nel senso migliore del termine.

Perché non proviamo a fare lo stesso anche noi?

 




Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano

La notizia è che, sia pure con ben dieci mesi di inescusabile ritardo, anche Walter Ricciardi finalmente l’ha capita: «Abbiamo l’indice di mortalità […] più alto del mondo», ha dichiarato a L’aria di domenica su LA7 subito prima di Natale, aggiungendo poi che «su 147 Paesi solo 12 hanno fatto bene: 10 sono asiatici e 2 sono Australia e Nuova Zelanda, dove il Natale in questo momento si celebra normalmente», proprio come Ricolfi ed io stiamo dicendo da mesi.

Certo, uno a questo punto si aspetterebbe delle scuse e magari le dimissioni, nonché un duro atto di accusa contro il governo, mentre il “rappresentante-ma-anche-no” della OMS in Italia se ne guarda bene e continua imperterrito a sostenere che «abbiamo fatto molto bene nella prima fase» e che se «in questa seconda fase» le cose vanno male è (manco a dirlo) colpa della gente che «ha rimosso tutto», il che non spiega nulla e, soprattutto, è falso. In realtà, infatti, le cose vanno male esattamente come prima: 33.500 morti in 3 mesi allora (marzo-maggio), 38.200 morti in 3 mesi ora (ottobre-dicembre), una differenza minima che si spiega col fatto che allora era arrivata l’estate, che aveva fatto scendere i contagi e quindi i morti, mentre ora è arrivato l’inverno, che li sta facendo salire, tanto che a gennaio in soli 10 giorni ne abbiamo già avuti 4.500.

Ma non pretendiamo troppo: per come siamo messi, è già un mezzo miracolo che Ricciardi si sia deciso a dire almeno mezza verità e sarebbe un miracolo tutto intero se riuscisse davvero a convincere il governo a cambiare strada, senza continuare a tirare a campare aspettando che ci salvi il vaccino, che in realtà significa aspettare che ci salvi (di nuovo) l’estate. Infatti, è chiaro a chiunque non sia completamente stupido o in malafede che per vaccinare un numero sufficiente di persone ci vorranno diversi mesi, quindi le cose non miglioreranno prima dell’arrivo del caldo, ovvero per almeno altri 4 mesi, che, gestiti in questo modo demenziale, con l’Italia ridotta a una specie di semaforo impazzito, possono fare più danni di un terremoto.

Merita quindi riflettere un po’ più a fondo su quale tra i vari modelli di contrasto al virus potremmo adottare, giacché, contrariamente a quanto ci ha sempre ossessivamente ripetuto la litania governativa, non ce n’è mai stato uno solo, uguale in tutto il mondo, ma parecchi, solo alcuni dei quali hanno funzionato. Certamente non l’ha fatto il “modello Italia”, che, con buona pace di Ricciardi, non è mai stato tale (vedi mio articolo del 19/10, nonché tutti quelli di Luca Ricolfi), né il “modello Germania”, che tale è stato solo per un po’ e poi si è tragicamente sgonfiato (vedi mio articolo del 23/12), ma altri sì.

Anzitutto, c’è il modello cinese, il primo che abbiamo visto in azione, così sintetizzabile: finché puoi, nega tutto, quando non puoi più, chiudi tutto. Ying e Yang, integrazione degli opposti ed eliminazione degli oppositori, la mascherina come immagine e il fucile come sostanza. Efficace lo è, etico un po’ meno, imitabile (almeno da noi) per nulla.

Quindi, dall’altra parte del mare, nonché del cielo, c’è il modello Taiwan, che per la OMS manco esiste, ma cionondimeno ci guarda tutti dall’alto, o meglio, dal basso dei suoi 0,3 mpm (morti per milione), il miglior risultato al mondo, ottenuto grazie all’atavica diffidenza verso la Cina e le sue bugie, che ha portato alla tempestiva e rigidissima chiusura delle frontiere. Oltre che da alcuni paesi asiatici, è stato replicato, con quasi altrettanto successo, da alcuni paesi dell’ex blocco sovietico e della ex Jugoslavia (anche se poi molti hanno rovinato tutto riaprendo troppo presto al turismo internazionale): sarà un caso che avessero avuto a che fare anche loro per lungo tempo con regimi simili a quello di Pechino? È sicuramente il sistema migliore, ma quando hai già il virus in casa non serve più.

Ci sarebbe anche un modello africano, tanto semplice quanto efficace (appena 5 mpm): muori di qualcos’altro prima dei 55 anni (aspettativa di vita attuale del continente) e difficilmente morirai di Covid, che fa il 97% delle sue vittime al di sopra di questa soglia. Per funzionare funziona, ma dubito che qualcuno sia disposto ad adottarlo, a cominciare, se potessero scegliere, dagli stessi africani.

E poi c’è il “mitico” modello coreano (in realtà usato anche in Giappone, in Australia e, almeno parzialmente, anche in altri paesi del Pacifico occidentale), l’unico di cui anche da noi ogni tanto si è parlato, forse perché piaceva il fatto che si basasse su una “App” o forse perché è sempre stato visto (erroneamente) come una versione più efficiente di quello italiano, il che consentiva al governo di cimentarsi nel suo sport preferito, ovvero scaricare la colpa dell’inefficienza sui cittadini, che sarebbero più indisciplinati dei coreani. Per la stessa ragione è anche il modello che viene in genere preferito da chi invece ritiene che qualcosa dovremmo cambiare, ma senza esagerare. Ma è davvero così?

Basta andare a guardare i numeri e ci imbattiamo subito in un’enorme sorpresa, che scompiglia tutti i nostri luoghi comuni al riguardo. Infatti, nella “classifica” dei test in rapporto alla popolazione la Corea del Sud è appena al 125° posto con il 9,2% di abitanti controllati e il Giappone addirittura al 148° con il 4,2%, mentre tra i primi 40 troviamo quasi tutti i paesi messi peggio, tra cui (ovviamente) l’Italia, che è proprio al 40° posto con il 45%, 5 volte più della Corea e addirittura 11 volte più del Giappone. L’Inghilterra è al 17° posto con l’86%, gli USA al 20° con l’81% e l’eterna “maglia nera” Belgio al 27° con il 62%.

Notato di passaggio che la percentuale dell’Italia è circa la metà di quella degli USA di Trump il Pazzo, a cui continuiamo irragionevolmente a sentirci superiori benché in realtà siamo messi peggio in tutto, passiamo a farci la domanda veramente importante: cosa significa tutto ciò? Forse non era vero quello che sia Ricolfi che io abbiamo sempre sostenuto, cioè che fare tamponi su vasta scala è uno dei punti essenziali per un efficace contenimento?

La risposta in realtà è più complessa. Nei primi 40 posti, infatti, ci sono anche diversi paesi virtuosi o semi-virtuosi, come la Danimarca (266 mpm) al 7° posto con il 194%, l’Islanda (85 mpm) al 12° con il 131%, Singapore (5 mpm) al 14° con il 95%, Hong Kong (21 mpm) al 21° con il 73%, la Norvegia (87 mpm) al 33° con il 54%, l’Australia (35 mpm) al 38° con il 46% e la Finlandia (106 mpm) al 39° con il 46% (l’elenco completo si trova su qui). Resta quindi confermato che, contrariamente a quanto ha sostenuto per lungo tempo la OMS, fare molti tamponi serve. Ma evidentemente non basta.

Anzitutto, farne tanti è difficile, soprattutto per i grandi paesi, per trovare il primo dei quali bisogna infatti scendere fino al 17° posto dell’Inghilterra. Inoltre, non è necessariamente garanzia di successo. Il miglior risultato ce l’hanno le isole Far Oer, con appena 20 mpm grazie a un 426% di test, cioè oltre 4 per persona (che però su una popolazione di meno di 50.000 abitanti significa poco più di 200.000 tamponi). Ma il Bahrain, che guida la classifica grazie a uno stratosferico 1435% (cioè ha controllato ogni abitante per ben 14 volte) ha 206 mpm, cioè il decuplo delle Far Oer pur avendo fatto un numero di controlli 3,5 volte maggiore. Le Bermude, che hanno fatto circa 2,5 test per abitante, hanno un discreto 193 mpm, ma Andorra e Lussemburgo, con un tasso simile, hanno rispettivamente 1099 e 840 mpm. E così via.

Certamente su ciò influiscono molto le altre misure adottate: non è certo un caso che Taiwan sia appena al 192° posto con un misero 0,55%, visto che ha puntato tutto, con successo, sulla chiusura delle frontiere, grazie alla quale ha avuto appena qualche centinaio di contagi. Ma ci sono anche delle differenze che dipendono dal modo di gestire e, prima ancora, di concepire gli stessi tamponi.

La verità è che, come ha spiegato più volte il prof. Crisanti (che pure durante la prima fase ha salvato migliaia di vite in Veneto proprio facendo fare i tamponi a tappeto), alla lunga questo sistema funziona solo se abbinato a un efficace sistema di tracciamento dei contagi. Ciò, infatti, permette di fare i test in modo “mirato”, ottenendo risultati molto superiori con numeri molto inferiori: ecco perché Corea e Giappone ne fanno così pochi. A tal fine, però, non basta avere la mitica “App”: questa, infatti, si limita a segnalare quando si entra in contatto con una persona contagiosa, ma perché questa informazione serva occorre che venga usata immediatamente, in modo da spegnere il focolaio sul nascere.

Il problema è che tutto ciò non si improvvisa, perché richiede un sistema sanitario rapido ed efficiente, cioè tutto il contrario di quello italiano, che come qualità è ottimo, ma ha il suo tallone d’Achille proprio nei tempi di attesa, dovuti alla iper-burocratizzazione. Era quindi improbabile già in partenza che il tracciamento potesse funzionare, anche se il catastrofico fallimento della App Immuni, che ha scoperto poco più di 1200 contagi, è andato al di là di tutte le più pessimistiche previsioni. Comunque, siccome è ovviamente impossibile che si faccia ora ciò che non si è fatto in dieci mesi, neanche questa strada è ormai praticabile. Ma potrebbe non essere un male, se ci spingesse ad adottare quello che non solo è l’unico sistema attuabile nella nostra situazione, ma è anche il più efficace di tutti, ovvero il “modello Jacinda”, creato dalla giovanissima premier neozelandese Jacinda Ardern.

Il suo metodo è tanto semplice quanto efficace e si può sintetizzare, come lei stessa ha fatto, nel motto dei mitici All Blacks della Nazionale di rugby: “Hard and early”, ovvero “colpisci duro e subito”. Anche la sua logica è molto semplice: siccome il numero dei contagi dipende dai contatti fra le persone, se si impediscono i contatti, i contagi si azzerano; e siccome il numero dei morti dipende dal numero dei contagi, prima si azzerano i contagi, meno morti ci sono.

Lockdown, quindi, ma totale e immediato: non come da noi, dove è stato deciso con un mese di ritardo e anche nel momento di teorica chiusura totale erano autorizzate a circolare quasi 10 milioni di persone. Ma neanche come in Cina, perché Jacinda per imporlo non ha usato né la forza, come da loro, né la paura, come da noi, bensì la ragione e il coraggio, spiegando pacatamente i motivi della sua scelta e i vantaggi che avrebbe portato e prendendosi sempre personalmente la responsabilità di qualsiasi cosa, anche minima, che fosse andata storta (altro che Conte e soci, per i quali la colpa è sempre nostra).

Per qualche mese il “modello Jacinda” se l’è giocata alla pari con quello coreano, ma da qualche mese in qua la sua superiorità, che io ho sempre sostenuto, mi sembra stia diventando evidente a tutti. È vero, infatti, che il lockdown è molto più duro del tracciamento, ma è anche molto più breve, perché il tempo massimo di incubazione del virus è di 2 settimane, per cui basta chiudere per un tempo di poco superiore per azzerare i contagi. Ma, soprattutto, dopo è davvero finita: in Nuova Zelanda si è tornati alla vita normale già da maggio, mentre coreani e giapponesi sono ancora alle prese con mascherine, disinfettanti e controlli di ogni tipo.

Inoltre, proprio perché molto complesso da gestire, il modello coreano costringe a vivere sempre sul filo del rasoio, tanto più poi col Covid, che, come pare ormai accertato, non ha una diffusione omogenea, ma viene propagato da pochi individui super-contagiosi, per cui basta farsene sfuggire qualcuno per ritrovarsi in pochi giorni davanti a un focolaio di grandi dimensioni.

Questo è successo in modo emblematico all’Australia, che, dopo avere praticamente azzerato i contagi già a fine aprile con appena 102 morti (3,8 mpm, secondo miglior tasso al mondo dopo Taiwan), a metà luglio si è lasciata sfuggire un grosso focolaio a Melbourne, che in 3 mesi ha fatto oltre 800 morti. A questo punto gli australiani hanno decisamente virato in direzione dei “cugini”, adottando per Melbourne un lockdown in stile neozelandese, anche se un po’ ammorbidito, per cui ci hanno messo 3 mesi anziché 3 settimane per azzerare i contagi. Alla fine, però, ce l’hanno fatta e ormai anche da loro si è tornati alla vita normale.

Ma anche quando non si verifichi nulla di così eclatante, col sistema coreano è quasi inevitabile che alla lunga i piccoli errori, che non possono mai essere completamente eliminati, sommandosi provochino una progressiva accelerazione dell’epidemia, all’inizio quasi impercettibile, ma destinata col tempo a prendere sempre più velocità, come ha spiegato benissimo Ricolfi nel suo articolo del 24 ottobre (senza contare poi che più tempo ci si tiene il virus in casa, più è probabile che muti, diventando più contagioso: vedi mio articolo del 7 gennaio). Inoltre, anche nel più efficiente dei paesi il tracciamento funziona solo finché il numero dei contagi giornalieri è basso, per cui se quest’ultimo comincia ad aumentare si innesca un circolo vizioso che, superato un certo limite, manda in crisi il sistema. E sembra che proprio questo stia accadendo negli ultimi tempi, sia in Giappone che perfino nella “mitica” Corea del Sud.

A fine aprile questi paesi avevano rispettivamente 4,1 e 5 mpm, cioè erano più o meno allo stesso livello di Nuova Zelanda (5) e Australia (3,8). Oggi, però, in Corea la mortalità è salita a 22 mpm, cioè è più che quintuplicata, mentre in Giappone è arrivata a 32 mpm, cioè è aumentata di quasi 8 volte. La Nuova Zelanda, invece, ha tuttora 5 mpm, mentre l’Australia dopo Melbourne era salita a 35, ma da allora, cioè da quando si è “Jacindizzata”, da quel 35 non si è più mossa.

Ancor più inquietante è il paragone con l’Italia, che a fine aprile aveva 480 mpm, mentre oggi ne ha 1300, il che significa che da noi (così come, più o meno, anche negli altri paesi europei), la mortalità è cresciuta di 2,7 volte, ovvero la metà della Corea e un terzo del Giappone. Intendiamoci, stiamo parlando di una situazione che è ancora da 40 a 60 volte migliore della nostra, però a me sembra che questi dati dimostrino inequivocabilmente che la prolungata convivenza col virus, anche a bassa o bassissima intensità, non è mai una buona idea, e non solo perché c’è sempre il rischio che la situazione possa sfuggire di mano.

In primo luogo, infatti, mantenere a lungo un sistema di sorveglianza così complesso implica un enorme sforzo, sia organizzativo che economico. Inoltre, si è costretti a sopportare tutta una serie di disagi che, per quanto molto inferiori a quelli che stanno toccando a noi europei, su tempi lunghi non fanno bene né al morale né all’economia, per non parlare delle limitazioni alla libertà personale e alla privacy, che più durano, più diventano pericolose. Ma, infine e soprattutto, perché mai dovremmo fare uno sforzo simile per mantenere basso il livello dei contagi, quando si può azzerarlo del tutto con uno sforzo molto minore?

La Nuova Zelanda (che inizialmente aveva adottato anch’essa il metodo coreano) ci ha messo 3 settimane a capirlo. L’Australia 5 mesi e 900 morti. Noi invece non l’abbiamo capito neanche ora, dopo 10 mesi e 80.000 morti. La domanda è: perché? La risposta è molto complessa, dato che non è univoca, ma dipende da diversi fattori, che cercherò di analizzare in un prossimo articolo.




Di mutazioni e vaccini

Ma guarda un po’ che strano: il virus è mutato!

Lì per lì la notizia ha suscitato il solito bailamme mediatico, con l’annesso linguaggio “bellico” a cui siamo ormai abituati (purtroppo, perché in realtà è gravemente fuorviante), che però quasi subito è stato sopraffatto dall’analogo ma ancor più ampio bailamme sui vaccini, con gli “opposti estremismi” subito al lavoro, da una parte per esaltarne con toni irragionevolmente miracolistici le virtù salvifiche, dall’altra per denunciarne con toni altrettanto irragionevolmente apocalittici i presunti rischi. Tuttavia, le due questioni sono per molti versi connesse, per cui cercherò di chiarirle insieme, anche se per quanto riguarda i vaccini mi limiterò a quelli che ci riguardano da vicino, dato che in totale pare ce ne siano allo studio ben 237 (!) tipi diversi.

E cominciamo dalla prima brutta storia, cioè la variante inglese del virus. Qui la prima cosa da chiarire è che la sorpresa è del tutto ingiustificata, poiché questa non è affatto la prima variante del virus contenente mutazioni (in questo caso ben 17, acquisite apparentemente “in un colpo solo”), ma soltanto la prima che si è stabilizzata e che sta diffondendosi rapidamente. I virus, infatti, mutano in continuazione, dato che in sostanza sono dei frammenti di DNA o RNA che penetrano nelle cellule e sfruttano il loro sistema di trascrizione e traduzione genetica per produrre altre copie di sé stessi, cosa che da soli non sarebbero capaci di fare (il che, tra parentesi, è uno dei motivi per cui molti non considerano i virus degli esseri viventi a tutti gli effetti).

Ora, durante tale processo possono verificarsi degli errori, che danno origine alle mutazioni, il che accade ancor più frequentemente nei virus a RNA, come sono tutti i coronavirus, compreso quello del Covid, di cui infatti erano già state scoperte diverse mutazioni, che però finora avevano avuto una diffusione molto limitata. Il motivo è che la mutazione è solo il primo fattore dell’evoluzione. Il secondo è rappresentato, come sappiamo fin dai tempi di Darwin, dalla selezione naturale, che preserva solo le mutazioni che favoriscono la riproduzione e di conseguenza la sopravvivenza di ciascun organismo, virus compresi. Perciò, benché le mutazioni, essendo totalmente casuali, possano essere di qualsiasi tipo, quindi sia vantaggiose che svantaggiose per gli “ospiti” (cioè noi), verranno selezionate solo quelle che permettono al virus di produrre un maggior numero di “figli”, cioè di copie di sé stesso.

Questo ci fa capire quanto siano insensate e fuorvianti le idiozie che si continuano purtroppo a sentire, anche dai sommi vertici delle istituzioni, sulla “nuova offensiva” del virus o, peggio ancora, sul fatto che il virus avrebbe come “scopo” quello di ucciderci tutti: non solo, infatti, i virus non hanno alcuno scopo e non pianificano offensive di sorta, ma, se potessero, farebbero semmai il contrario, dato che sono essenzialmente parassiti e il parassita ideale non è quello che uccide il proprio ospite, ma quello che riesce a conviverci nel modo più efficiente.

E infatti a propagarsi su vasta scala sono sempre e solo le mutazioni che producono o una minor letalità (perché ciò aumenta il numero di individui che possono trasmettere il virus) o una maggior contagiosità (perché ciò aumenta il numero di individui a cui può essere trasmesso il virus), come è appunto il caso del ceppo inglese. Al contrario, le mutazioni che producono patologie più gravi tenderanno a estinguersi, e ciò tanto più rapidamente quanto più sono pericolose per noi, giacché quanto più presto e gravemente uno si ammala, tanto più rapidamente e rigorosamente viene isolato, riducendo così le opportunità di diffusione del virus, che si annullano addirittura quando uno muore.

Il problema è che purtroppo stavolta il ceppo più contagioso si è sviluppato prima di quello meno letale e un maggior numero di contagi significa anche un maggior numero di morti in termini assoluti (benché non in percentuale), ma ciò non toglie che la tendenza di lungo periodo di tutti i virus sia quella di diventare non più bensì meno pericolosi. Anzi, è già accaduto molte volte che dei virus (così come molti altri tipi di parassiti) si siano integrati a tal punto con i loro ospiti, compresi noi umani, da diventare non soltanto innocui, ma addirittura utili. Per esempio, tutti abbiamo certamente sentito parlare dell’importanza della cosiddetta flora batterica intestinale, ma quello che in genere non si dice è che i batteri sono solo una componente di essa, che in gran parte è composta proprio da virus, nonché da altri microrganismi di vario genere, tanto che in effetti dovrebbe più correttamente essere chiamata col suo nome tecnico di “microbiota”.

Ma c’è di più. Molti virus, infatti, sono addirittura entrati a far parte stabilmente del nostro DNA (si stima che ne costituiscano circa il 10%), perlopiù senza causare danni (anche perché quelli che l’avessero fatto si sarebbero rapidamente estinti) e a volte addirittura contribuendo con il DNA da loro apportato a salti evolutivi della massima importanza: di nuovo solo per fare un esempio, generalmente si ritiene che sia nata così la placenta in cui si sviluppano gli embrioni di gran parte dei mammiferi, compresi i nostri.

Questa è la base per rispondere anche all’obiezione principale che molti hanno sollevato contro i vaccini di nuova concezione che ci apprestiamo ad usare, cioè essenzialmente quelli di Pfizer/BioNTech, di Moderna e di AstraZeneca-Oxford: quello russo, infatti, è simile per concezione a quello di Oxford, ma mancano ancora dati affidabili sulla sua efficacia e sicurezza, così come anche su quello cinese e quello indiano, peraltro entrambi di tipo tradizionale. Poiché infatti i tre vaccini suddetti contengono frammenti di RNA virale (i primi due) o di DNA virale (il terzo), alcuni temono che possano causare mutazioni stabili nella specie umana. Per capire perché non è così, però, prima bisogna capire come funzionano. E, prima ancora, bisogna capire come funziona il virus del Covid (alzi la mano chi lo sa: credo che, nonostante tutto, siano ancora molto pochi).

Di per sé, il suo modo di agire non è molto diverso da quello degli altri coronavirus già noti: il suo genoma produce una certa proteina S (che sta per “spike”, ovvero protuberanza: sono infatti quelle che si vedono all’esterno e che gli danno la sua forma caratteristica) che si attacca a un’altra proteina, detta recettore, posta sulla superficie esterna delle nostre cellule, permettendogli di entrare al loro interno e quindi di sfruttare, come già detto, i loro meccanismi per generare copie di sé stesso. Quando ciò, accade, il nostro organismo ovviamente reagisce, in primo luogo con il sistema immunitario innato, che costituisce una difesa “generica” e che attacca per primo i corpi estranei, mentre al tempo stesso “sveglia” il resto del sistema, composto dai linfociti T e B, che generano reazioni più mirate, che però proprio per questo richiedono più tempo.

Ora, se il sistema immunitario innato funziona bene, facendo subito fuori una buona parte degli “intrusi”, allora l’organismo fa in tempo ad aspettare l’arrivo dei linfociti, che fanno piazza pulita prima che si sviluppino sintomi seri: questo è ciò che accade nella maggior parte dei casi ed è il motivo per cui la maggior parte dei contagiati resta asintomatica o quasi. Se però il sistema innato ha dei problemi, come spesso succede nelle persone più anziane e/o già debilitate da altre patologie, la sua reazione può essere troppo debole, nel qual caso il virus può produrre danni irreparabili generando gravi infiammazioni, oppure, all’inverso, può essere troppo violenta, nel qual caso l’infiammazione viene prodotta involontariamente dallo stesso sistema immunitario. In entrambi i casi, si crea un problema su cui i linfociti, quando arrivano, non sono più in grado di agire e che causerà sintomi gravi dati dalla distruzione dei tessuti, il danno irreversibile ad organi e, spesso, la morte.

Orbene, i vaccini a RNA di Pfizer/BioNTech e Moderna sono basati sul frammento del codice genetico del virus che produce la proteina S, che viene incorporato in una breve stringa di RNA messaggero, quello che serve a “tradurre” il nostro DNA nelle proteine di cui è fatto il nostro corpo. In tal modo, quando il frammento di RNA viene assorbito da una cellula, il meccanismo interno di quest’ultima entra in funzione, esattamente come farebbe per qualsiasi altro RNA messaggero, producendo la suddetta proteina S, che di per sé è innocua. Tuttavia, diffondendosi nell’organismo, essa viene riconosciuta come un corpo estraneo dal sistema immunitario innato, che si mobilita contro di essa, ma soprattutto “allerta” i linfociti T e B, che così sono già pronti ad attaccare il virus non appena dovesse entrare nell’organismo, dato che esso è per l’appunto ricoperto da tale proteina.

Poiché l’RNA è molto fragile, per impedire che venga distrutto prima di giungere a destinazione viene inglobato in una minuscola gocciolina costituita essenzialmente da lipidi (grassi), tutti normalmente presenti nel nostro corpo, stabilizzati da una sostanza sintetica chiamata polietilenglicolo (PEG). I casi di allergia di cui tanto si è parlato (peraltro pochi e non particolarmente gravi) sono stati causati proprio da tale sostanza e non dalla parte attiva del vaccino, che non si vede come possa dare problemi, dato che l’RNA messaggero è presente normalmente e in quantità ben maggiori in ogni cellula del nostro corpo.

Il vaccino di AstraZeneca-Oxford segue una logica simile, ma mantiene alcuni aspetti “classici”. Anch’esso, infatti, ha alla base l’idea di far produrre alle nostre cellule la proteina S senza introdurre nel nostro corpo il virus morto o indebolito, come fanno i vaccini tradizionali, però utilizza a tale scopo non un frammento di RNA, bensì di DNA, che viene inserito nel DNA di un adenovirus, capace di penetrare nelle nostre cellule senza causarci danni, dato che per noi è sostanzialmente innocuo. Ciò ha il vantaggio di basarsi su un metodo già collaudato, però rispetto ai vaccini a RNA implica un passaggio in più, giacché il DNA virale dovrà prima essere “trascritto” dalle nostre cellule in un RNA messaggero e solo successivamente potrà essere “tradotto” nella proteina S, il che aumenta il rischio che qualcosa vada storto.

In ogni caso, tutti questi vaccini presentano tre notevoli vantaggi rispetto a quelli tradizionali. Anzitutto, infatti, non c’è bisogno di introdurre nel nostro organismo il coronavirus, né vivo né morto, ma solo una sua piccola parte del tutto innocua. Inoltre, in tal modo si attivano sia i linfociti T che i B, mentre i vaccini tradizionali attivano solo questi ultimi, che sono meno efficaci. Infine, è relativamente facile modificare il vaccino se il virus dovesse mutare o anche qualora ci fosse bisogno di produrne una nuova versione contro un altro tipo di coronavirus, poiché a tal fine basta sostituire il frammento di codice genetico che codifica per la proteina S con un altro adatto alla nuova situazione.

Quanto all’eventualità che il frammento di RNA virale possa venire inglobato stabilmente nel nostro DNA, pur non potendola completamente escludere, dato che, come abbiamo visto, ciò si è già verificato nel corso dell’evoluzione (benché finora mai per un coronavirus), la cosa appare estremamente improbabile, giacché per entrare a far parte del nostro DNA il frammento di RNA virale dovrebbe prima entrare nel nucleo della cellula, mentre il processo di produzione della proteina S si svolge interamente al suo esterno, nel citoplasma, e al suo termine la molecola di RNA messaggero viene distrutta, esattamente come accade nel normale processo di trascrizione del nostro DNA.

In ogni caso, se anche per assurdo ciò dovesse accadere, quel che verrebbe eventualmente inglobato non sarebbe tutto il genoma del virus, ma solo un singolo gene che codifica per una proteina innocua e che oltretutto molto probabilmente resterebbe inattivo. Di sicuro, c’è una probabilità maggiore (benché sempre molto bassa) che ciò accada se ci si becca il virus, che, a differenza del frammento di RNA, quando è dentro al nostro corpo si moltiplica, moltiplicando così anche le occasioni di causare un pasticcio genetico: quindi, anche da questo punto di vista vaccinarsi non solo non aumenta il rischio, ma anzi lo riduce.

Quanto infine all’eccessiva fretta con cui i vaccini sarebbero stati approvati, anzitutto sarà bene ricordarci che noi abbiamo fretta, perché il nostro mondo non può reggere ancora a lungo in questa situazione e se dovesse mai verificarsi un collasso dell’economia su scala globale le conseguenze sarebbero pari a quelle di una guerra mondiale: anche correre qualche rischio più del normale sarebbe quindi più che giustificato. Ma la realtà è che non stiamo correndo nessun rischio particolare, giacché la parte più lunga della sperimentazione sui vaccini è quella necessaria a stabilire per quanto tempo ci garantiscono protezione, mentre quella per controllarne efficacia e assenza di pericolosità può essere svolta in pochi mesi, soprattutto se, come in questo caso, sono state messe a disposizione tutte le risorse necessarie. La miglior controprova è data dal vaccino dell’influenza, che è causata anch’essa da un virus a RNA, ma ancor più mutevole (circa il doppio) di quello del Covid, sicché ogni anno bisogna produrre un nuovo vaccino, cosa che viene fatta regolarmente in pochi mesi senza che finora abbia mai causato problemi.

Perché, allora, tutto questo allarmismo? La risposta è tanto evidente quanto preoccupante. Anzitutto, c’è il fortissimo stress emotivo a cui tutti da oltre dieci mesi siamo sottoposti, a causa della perversa combinazione di terrorismo mediatico, caos istituzionale, misure restrittive e sostanziale inefficacia delle stesse, il che genera una crescente difficoltà a mantenerci lucidi e obiettivi nei nostri giudizi. In secondo luogo, va considerata la sempre più evidente incapacità delle nostre classi dirigenti (e dicendo “nostre” intendo in particolare quella italiana, ma anche quelle del resto dell’Occidente: vedi i miei precedenti articoli del 29/10 e 23/12) di gestire adeguatamente la situazione e spesso perfino semplicemente di capirla, il che produce una diffidenza generalizzata verso le autorità di qualsiasi tipo, non solo politiche, ma anche mediche e scientifiche. Infine, abbiamo la tendenza, che va avanti ormai da lungo tempo, a dare sempre più credito alle teorie pseudoscientifiche e, più in generale, a ogni forma di complottismo, che in parte è certamente anch’essa frutto della perdita di credibilità delle nostre classi dirigenti, ma ha anche cause autonome, di cui una volta o l’altra dovremo pur cominciare a parlare.

In ogni caso, una cosa è certa: poiché sia la mutazione del virus che l’opposizione ai vaccini erano largamente prevedibili fin dall’inizio dell’epidemia, avere scelto di conviverci anziché provare ad estinguerla, come invece altri paesi hanno fatto con successo, è stata decisamente una pessima idea. E anche di questo dovremo riparlare.

(Ha collaborato Alberto Vianelli, biologo, docente di “Storia e storie della vita” presso l’Università dell’Insubria)




Lacrime da coccodrillo e sorrisi da kiwi

Datemi pure dell’insensibile (io preferirei “razionale”), ma non mi commuovono proprio le lacrime di Angela Merkel, che (ovviamente) si sono prese le prime pagine di tutti i giornali del mondo. Certo, sempre meglio (del resto ci vuol poco) del miserabile spettacolo che sta dando la politica nostrana. E meglio ancora delle lacrime c’è il fatto che (finalmente!) un politico europeo ha pronunciato la fatidica parola, ammettendo che le misure adottate sono state finora “inefficaci”. Inoltre, in Germania i risarcimenti a chi si vede chiudere l’attività sono una cosa seria (e in più non li chiamano “ristori”, che non è affatto un dettaglio secondario: spiegherò in un prossimo articolo perché). Ma gli aspetti positivi finiscono qui.

Anzitutto, infatti, teniamo presente che stiamo parlando del paese più ricco, potente e organizzato di tutta l’Europa, che, ciononostante, ha avuto 28.241 morti in valore assoluto e 337 morti per milione (mpm) in valore relativo alla popolazione, che è poi quello che conta davvero e che il triplo di quello che accusava alla fine dell’estate. Certo, sono sempre meglio dei catastrofici 1156 mpm dell’Italia e dei 1610 mpm del Belgio, fin dall’inizio “maglia nera” del mondo, salvo una breve parentesi in estate, quando, grazie al caldo che ci ha dato una mano, era stato superato dal Perù. E meglio anche dei 1059 della Spagna, dei 1004 della Gran Bretagna, dei 994 degli USA e dei 944 della Francia, solo per citare gli altri paesi leader dell’Occidente, che, incredibilmente, sono tutti messi peggio della grande maggioranza dei paesi sudamericani.

La Germania invece è messa un po’ meglio di questi ultimi, ma soltanto un po’, avendo un numero di mpm che è circa la metà del loro, il che è assolutamente surreale, dato il vero e proprio abisso che c’è fra le rispettive istituzioni sanitarie e statali. Anche ammettendo che là i morti siano sottostimati, non possono comunque esserlo più di tanto, perché non stiamo parlando di “Stati falliti” che non sono nemmeno in grado di contarli o (Venezuela a parte) di dittature che mentono intenzionalmente. Ora, anche se i mpm della Germania fossero in realtà non la metà, ma “solo” un terzo o un quarto di quelli di paesi come Colombia (ufficialmente 800), Ecuador (785) o Bolivia (770), il fatto resterebbe ugualmente tanto incredibile quanto ingiustificabile. E non dimentichiamo che alcuni paesi sudamericani, non affidabili al 100%, ma comunque abbastanza affidabili, come Paraguay (293) e Uruguay (34), dichiarano un numero di mpm addirittura inferiore rispetto ai tedeschi (nel secondo caso di ben il 90%).

Ma anche restando nell’ambito dei paesi più avanzati, dove siamo sicuri che i dati sono sostanzialmente omogenei, le cose non vanno molto meglio. In Europa la grande Germania sta appena un pochino meglio della derelitta Grecia (417 mpm) e della Lituania (404), paese che però nella prima fase aveva rapidamente azzerato il contagio con appena 81 morti (29 mpm), mentre adesso sta pagando la generosa ospitalità offerta ai profughi della Bielorussia, che ufficialmente dichiara appena 142 mpm, ma, essendo una dittatura tra le più scellerate del pianeta, ha di sicuro una situazione molto più grave. La Germania sta invece leggermente peggio della Serbia (319) e della Slovacchia (296), parecchio peggio di Lettonia (245), Danimarca (184) ed Estonia (145), molto peggio di Finlandia (92), Islanda (82) e Norvegia (74) e moltissimo peggio dei paesi orientali ed oceanici, che hanno gestito meglio di tutti al mondo l’emergenza: Taiwan (0,3 mpm), Nuova Zelanda (5), Singapore (5), Corea del Sud (14), Giappone (23) e Australia (35).

La cosa più preoccupante è però che in questa seconda fase la Germania ha avuto un numero di morti che è già il doppio rispetto alla prima e, soprattutto, da diversi giorni ha il più alto tasso al mondo di morti al giorno rispetto alla popolazione. Ieri perfino in valore assoluto era il secondo peggior paese al mondo, dietro soltanto agli USA di Trump il Pazzo (944 contro 2662), che però hanno il quadruplo di abitanti, per cui in proporzione l’incremento della Germania è stato superiore: 11,2 mpm contro 8 mpm.

Ancora più impietoso è il paragone con i paesi orientali ed oceanici, in particolare con i secondi, perché ultimamente il “modello coreano”, che è anche quello del Giappone, sta avendo un po’ di problemi (il che merita una riflessione a parte, che farò in un prossimo articolo). Qui, infatti, la cosiddetta “seconda ondata” (altro termine improprio e fuorviante su cui mi riprometto di tornare in futuro) semplicemente non c’è mai stata, se consideriamo che tra Taiwan (che, tra parentesi, nella mappa ufficiale della OMS continua a non esistere), Singapore, Nuova Zelanda e Australia, con una popolazione totale di oltre 60 milioni, a novembre ci sono stati in totale appena 2 morti (1 a Singapore e 1 in Australia), ovvero 0,03 mpm, e a dicembre finora neanche uno, mentre in Germania sono stati rispettivamente 6.279 (75 mpm) e 11.379 (135 mpm). Stiamo parlando di una differenza, o meglio, di un abisso di ben 4 ordini di grandezza, che è qualcosa di al di là del bene e del male, specialmente in paesi che hanno più o meno lo stesso livello di sviluppo economico e tecnologico.

Va da sé, ovviamente, che il paragone è ancor più impietoso per l’Italia, che, con una popolazione praticamente identica a quella dei quattro paesi suddetti, di morti ne ha avuti 16.958 (283 mpm) a novembre e 14.266 (237 mpm) in questa parte di dicembre. E, già che ci siamo, faccio notare che in un articolo pubblicato su questo stesso sito il 19 ottobre (Il lockdown che non c’è mai stato e quello che ci vorrebbe) concludevo dicendo che se non avessimo immediatamente e radicalmente cambiato rotta avremmo presto pianto altri 35.000 morti: detesto aver ragione… Ma per una volta non è di noi che stiamo parlando.

Infatti, tutto ciò dimostra, purtroppo, quello che ho sempre sostenuto (cfr. il mio articolo del 6 giugno su www.ilsussidiario.net e quello, appena citato, del 19 ottobre su questo sito) e cioè che la Germania non è mai stata un modello, neanche nella prima fase, perché le sue politiche di prevenzione sono sempre state sostanzialmente le stesse che hanno catastroficamente fallito in tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale. In particolare, neanche lì si è mai capito (o voluto capire), che, come dicono sia il buon senso che gli studi scientifici, il modo in cui ci si contagia più facilmente è stando al chiuso per molto tempo con persone adulte, il che significa in ufficio e in fabbrica: guarda caso, gli unici luoghi che non sono mai stati chiusi.

La differenza con l’Italia, che sembrava enorme (ma il discorso vale anche per altri paesi), era in realtà dovuta in gran parte alla gestione delle case di riposo, che i tedeschi avevano difeso in modo perfetto, mentre noi malissimo, arrivando al punto di ricoverarci i malati di Covid, il che ci era costato oltre 9.000 dei nostri 35.000 morti. Tenendo conto che in Germania gli anziani che stanno in casa di riposo sono il doppio rispetto all’Italia, ne deriva che se noi le avessimo gestite come loro avremmo avuto 26.000 morti, mentre se loro le avessero gestite come noi ne avrebbero avuti 27.000. Il resto l’ha fatto la maggiore efficienza tedesca (vedi per esempio la gestione dei tamponi), ma non una vera differenza qualitativa nelle misure adottate.

Non è quindi strano che, ridimensionato di molto il peso di questo fattore (perché almeno alle case di riposo abbiamo imparato a farci un po’ più di attenzione, benché ancora non abbastanza), anche il gap con la Germania si sia ridotto sensibilmente. Quello che invece è davvero strano, nonché imperdonabile, è che questo la Merkel l’abbia capito solo ora, mentre era evidente fin da maggio, così come era evidente fin da maggio che il crollo dei contagi verificatosi proprio in quel periodo era dovuto essenzialmente all’arrivo dell’estate, visto che non erano state prese nuove misure, anzi, un po’ ovunque si stava riaprendo anche quel che era stato chiuso.

Ma la cosa più grave è che la sua reazione dimostra che tale incomprensione dei fatti perdura, dato che alla fine l’unica cosa che ha saputo fare è stato riproporre le stesse misure fallimentari di sempre, sia pure in forma più rigida, oltre al solito appello (ipocrita e vergognoso) alla popolazione perché rispetti le regole, il che implicitamente sottintende che fin qui non le aveva rispettate abbastanza, il che è falso è comunque irrilevante, visto che lei stessa ha ammesso che erano inefficaci. Certo, almeno una parte delle responsabilità Frau Angela se l’è presa, il che rispetto a Conte, che non se ne prende mai neanche mezza e ci tratta sempre come una massa di scolaretti indisciplinati e un po’ stupidi, è sempre un bel salto.

Ma il problema è che per valutare un leader il paragone non va fatto con i peggiori, bensì con i migliori: e i migliori, in questo caso, sono stati quelli dei paesi oceanici, in particolare la straordinaria Jacinda Ardern, giovanissima premier neo-rieletta (a maggioranza assoluta: e vorrei vedere…) della Nuova Zelanda, che da maggio è senza morti e senza virus, sicché la gente può “assembrarsi” senza preoccupazioni e soprattutto senza mascherine, come chiunque può verificare con i suoi occhi guardano la folla sorridente che proprio in questi giorni nel mitico Golfo di Hauraki assiste alle regate della Coppa America, che magari i kiwi vinceranno pure (lo spero: se la meritano e magari questo aiuterà a far conoscere al mondo quello che hanno fatto).

Che la Merkel, pur ammettendo il fallimento, si ostini ancora a fare di testa sua invece di imparare da loro fa sì che purtroppo le sue, quandanche soggettivamente sincere, siano oggettivamente lacrime da coccodrillo.




Il lockdown che non c’è mai stato e quello che ci vorrebbe

Quando qualche settimana fa Luca Ricolfi, che avevo contattato per invitarlo a una conferenza nella mia Università dell’Insubria (il 25 novembre alle 14,30, il link uscirà su www.uninsubria.it, sezione Eventi), mi ha chiesto, con mia grande sorpresa, di scrivere un contributo per il sito della Fondazione Hume sulla questione del virus, mi sono sentito al tempo stesso onorato e intimidito, perché ho da sempre molta stima di lui e del suo lavoro e non so se saprò essere all’altezza. Comunque, ho ritenuto doveroso accettare, perché, data la gravità della situazione, bisogna sfruttare ogni opportunità per far conoscere al maggior numero possibile di persone la vera situazione in cui ci troviamo, dato che essa viene costantemente occultata da una comunicazione nel migliore dei casi inadeguata e nel peggiore intenzionalmente distorta e mistificante.

Poiché Ricolfi e i suoi collaboratori hanno già pubblicato sul tema moltissime cose, che condivido quasi completamente, non starò a ripeterle per esteso, ma cercherò piuttosto di approfondire i pochi punti su cui ritengo di poter aggiungere qualcosa di nuovo e di utile. Perché il discorso risulti comprensibile, però, all’inizio dovrò brevemente riassumere alcuni concetti da loro già esposti.

Il primo e più fondamentale concetto che la Fondazione Hume ha meritoriamente messo in luce e che anch’io, nel mio piccolo, avevo evidenziato da tempo (www.ilsussidiario.net) è che il dato su cui bisogna basarsi non è il numero dei contagi (che, come ormai dovrebbe esser chiaro a tutti, dipende in modo determinante dal numero e dalla qualità dei test effettuati), bensì quello dei morti, che è molto più oggettivo nonché molto più rilevante (dopotutto, non è il contagio in sé a preoccuparci, ma le sue conseguenze). Inoltre, se vogliamo capire come viene gestita la situazione in ciascun paese, quello che va considerato non è il numero assoluto dei morti, bensì il rapporto tra numero dei morti e popolazione.

Dovrebbe trattarsi di concetti ovvi e addirittura scontati, eppure a quanto pare non lo sono, dato che in genere le “classifiche” dei paesi, compresa quella del sito ufficiale della OMS, vengono fatte in base al numero assoluto dei contagi, con l’assurda conseguenza che i paesi che fanno molti test e di conseguenza evidenziano più contagi appaiono essere meno “virtuosi” di altri che denunciano meno contagi solo perché fanno pochi test.

Ma forse l’equivoco non è casuale, bensì voluto, dato che, come ha di nuovo evidenziato Ricolfi, se si adotta il criterio corretto la situazione appare molto diversa da come in genere ci viene raccontata e, in particolare, crolla il mito, tanto caro alla OMS, del “modello Italia”, che appare piuttosto il modello di ciò che non si deve fare. Attualmente, infatti, come risulta dai dati della stessa OMS, che contraddicono platealmente le sue affermazioni (www.worldometers.info), siamo all’undicesimo posto nella classifica dei peggiori paesi al mondo, con 605 morti per milione di abitanti (mpm). Ciò significa che siamo più o meno allo stesso livello di molti paesi dell’America Latina, come Bolivia (725 mpm), Cile (715), Ecuador (700), Messico (672), Argentina (598), Panama (596), Colombia (573) e addirittura il Brasile del “negazionista” Bolsonaro, che per mesi abbiamo criticato e perfino deriso, magari anche giustamente, ma che in realtà non ha molti più morti di noi (723 mpm) e fino a fine agosto ne aveva addirittura meno. Fino ad allora, infatti, ovvero per ben 6 mesi, siamo stati addirittura il secondo peggior paese al mondo insieme alla Spagna, appena dietro alla “maglia nera” Belgio (che ancor oggi è il secondo peggiore al mondo dopo il Perù e nelle ultime settimane sembra prepararsi al contro-sorpasso).

È vero che in questi paesi il numero dei morti potrebbe essere sottostimato, ma non fino al punto di cambiare sostanzialmente l’ordine di grandezza, perché stiamo parlando di paesi certo molto più arretrati di noi, ma comunque non allo sfascio, come sono invece, per esempio, il Venezuela (devastato dal regime del demenziale duo Chávez-Maduro) o molti paesi africani, che infatti qui non sto considerando, così come non sto considerando quelli troppo piccoli perché i loro dati siano statisticamente significativi, come Andorra, Liechtenstein, San Marino o i molti Stati-isola che sono rimasi perlopiù immuni dal contagio. Al contrario, la nostra distanza dai paesi che hanno avuto successo nel contenere il virus è semplicemente abissale e non può essere spiegata da nessuna differenza nei conteggi.

Ma, per una volta, non si tratta solo di noi. Infatti, tutti i paesi occidentali più ricchi e progrediti figurano ai primissimi posti di questa poco invidiabile classifica del disastro (dal peggiore al “meno peggiore”: Belgio, Spagna, USA, Inghilterra, Italia, Svezia, Francia, Olanda, Irlanda, Svizzera, Portogallo), con le sole parziali eccezioni di Germania e Danimarca (118 mpm) e Austria (100 mpm), che sono comunque messe oltre 20 volte peggio dei paesi davvero virtuosi, che sono soprattutto i paesi progrediti dell’Asia e dell’Oceania.

Al 4 maggio 2020, giorno dell’inizio della graduale “riapertura” dell’Italia, il podio era formato da Taiwan (appena 7 morti su 23 milioni di abitanti, 0,3 mpm: in proporzione, in Italia dovremmo averne 18!), Australia (95 morti su 25 milioni, 3,8 mpm) e Nuova Zelanda (20 morti su 5 milioni, 4 mpm), addirittura meglio della “mitica Corea del Sud (5 mpm). A oggi (19 ottobre 2020), Taiwan con i suoi 7 morti assoluti e i suoi 0,3 mpm è sempre “maglia rosa”, seguita da Nuova Zelanda e Singapore con 5 mpm. L’Australia, dopo aver già praticamente azzerato i contagi, a fine giugno si è purtroppo lasciata sfuggire un grosso focolaio a Melbourne che ha causato diverse centinaia di morti, ma l’ha spento nel giro di appena due mesi ed è tuttora tra i migliori paesi al mondo con appena 35 mpm e i contagi di nuovo pressoché azzerati (oggi appena 7 nuovi casi).

Ma benissimo stanno facendo anche Corea del Sud (9 mpm) e Giappone (13 mpm), senza contare la stessa Cina, che, pur avendo colpe gravissime per l’imperdonabile tentativo iniziale di insabbiare l’epidemia che ha contribuito molto a diffondere il contagio in tutto il mondo, quando si è finalmente decisa a mettere ordine in casa propria l’ha fatto molto efficacemente, tanto che oggi può essere considerata un paese praticamente Covid-free, cosa confermata, più che dai dati sul contagio (dei quali, visti i precedenti, è lecito e anzi doveroso diffidare), da quelli (ben più difficili da falsificare) sulla produzione industriale, tornata ormai quasi normale, cosa che non sarebbe ovviamente possibile se la situazione fosse simile alla nostra.

Anche in Europa, però, molti paesi avevano già praticamente debellato il virus tra aprile e giugno, dall’Islanda ai paesi baltici e scandinavi (meno la Svezia), da quelli dell’Est (meno la Romania) a quelli balcanici, fino addirittura alla derelitta Grecia, che, nonostante la catastrofica situazione socioeconomica che tutti ben conosciamo, al 4 maggio contava appena 144 morti, cioè 13,4 mpm, ben 35 volte meno dell’Italia, che allora ne aveva circa 480.

Purtroppo, in estate la sconsiderata riapertura del turismo internazionale, tempestivamente denunciata da Ricolfi (intervista all’Huffington Post del 21 giugno), ha fatto ripartire i contagi un po’ dovunque. A eccezione di Taiwan e Singapore, ciò è accaduto anche in gran parte dei paesi virtuosi, ma ciononostante parecchi di essi (benché non tutti), come Nuova Zelanda, Australia, Corea del Sud, Giappone, Estonia, Lettonia, Norvegia, Finlandia, hanno prontamente ripreso il controllo della situazione, con i contagi già di nuovo in calo o addirittura azzerati.

Orbene, dovrebbe essere chiaro a tutti che se in Italia, che pure dispone di uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, il numero di mpm è ben 120 volte più alto che in Nuova Zelanda o Singapore e addirittura 2000 volte più alto che a Taiwan, mentre è più o meno lo stesso che in America Latina, dove, dato il pessimo stato delle istituzioni e la povertà di gran parte della popolazione, non è stato possibile attuare nessuna efficace politica di contenimento, ciò significa che le misure attuate dal nostro governo hanno sortito più o meno lo stesso effetto del non far nulla. Questo a sua volta suggerisce che il vero e proprio abisso esistente tra noi e i paesi virtuosi (ché di questo si tratta: un abisso, non una semplice differenza di grado; lo ribadisco perché è fondamentale che l’idea ci entri in testa) non si può spiegare solo con una maggiore “serietà” nell’applicare le stesse misure, a sua volta dovuta a ragioni culturali, come mi sembrano ritenere Ricolfi e i suoi collaboratori. La maggiore serietà è indubbia (basta leggere, per esempio, i discorsi della premier neozelandese e confrontarli con quelli dei nostri leader da baraccone – e non intendo solo quelli italiani), ma è altrettanto indubbio che questi paesi hanno proprio fatto cose diverse da quelle che abbiamo fatto noi, come risulta subito evidente anche da un’indagine non particolarmente approfondita.

Tutti i paesi che si sono salvati dalla prima ondata del virus, infatti, senza eccezione alcuna, hanno messo in atto almeno 2 delle 3 misure seguenti, che da noi invece non sono mai state adottate, così come neppure dai principali paesi occidentali:

1) tempestiva e rigida chiusura delle frontiere;

2) tempestivo rilevamento dei contagi e immediato isolamento dei casi sospetti in apposite strutture;

3) attuazione del lockdown in senso proprio.

Sulla chiusura delle frontiere c’è poco da dire: dovrebbe essere ovvio per chiunque, senza bisogno di essere degli esperti, che la prima cosa da fare con un virus aereo è impedire che ci entri in casa e dovunque ciò è stato fatto ha permesso di limitare molto la diffusione iniziale del contagio, rendendo di conseguenza molto più facile e più efficace l’applicazione delle altre misure. Eppure, quando da noi qualcuno ha provato a chiederla, nel migliore dei casi si è sentito dire che non serviva a niente, mentre nel peggiore si è pure preso del “razzista” e a volte perfino del “fascista”. Così tutta la discussione è stata ridotta al surreale dilemma se si dovessero controllare solo i voli diretti dalla Cina o anche quelli indiretti (dopodiché il virus in Italia l’ha portato un cittadino tedesco…).

Con il rilevamento dei contagi passiamo dall’ambito del surreale a quello del puro delirio. Anzitutto, è veramente incomprensibile che si sia deciso di fare i tamponi solo a chi aveva già i sintomi, quando bastava il semplice buon senso per capire che il vero problema è scoprire il prima possibile chi non ha sintomi manifesti, visto che chi ha sintomi simili a quelli del Covid, sia che ce l’abbia davvero, sia che abbia solo l’influenza, sta comunque male e quindi sta a casa a curarsi spontaneamente, anche se non gli si ordina la quarantena: è chi sta bene che va in giro, diffondendo il contagio. Oggi, immersi come siamo in un vortice orwelliano di rimozioni e di riscrittura della realtà, nessuno se lo ricorda, ma fino al 9 marzo in Italia si facevano mediamente appena 4000 tamponi al giorno. Solo per dare un termine di paragone, l’Islanda, che non è certo una grande potenza industriale, ne faceva 3000 alla settimana, cioè un decimo dei nostri, ma con una popolazione che è appena un duecentesimo, il che significa, in proporzione, 20 volte di più: e, guarda caso, ha avuto 20 volte meno morti (10 in tutto, cioè 28 mpm contro 605). Perfino quando il Veneto, grazie al coraggio del governatore Zaia e alla competenza del professor Crisanti (l’unico autentico virologo tra tutti i vari “esperti” scelti dai nostri governanti), ha iniziato a fare tamponi su vasta scala, ottenendo risultati inequivocabili (al 4 maggio 311 mpm contro i 1417 della Lombardia, cioè poco più di un quinto, nonostante una situazione di partenza molto simile), per mesi interi il governo e la OMS hanno continuato a dire che non serviva a niente: e infatti il numero dei tamponi è sì cresciuto, ma in misura ben lontana dalla sufficienza, visto che fino a metà agosto la media è rimasta intorno ai 50.000 al giorno. Solo da un paio di mesi si è cambiato decisamente rotta, senza però ammetterlo esplicitamente e soprattutto senza riconoscere che non averlo fatto prima è stato un tragico errore.

Quanto poi ai metodi di tracciamento, c’è da chiedersi come è possibile che la mitica App Immuni sia stata disponibile solo a giugno, quando sarebbe bastato copiare o comprare quelle che già esistevano, per esempio quella coreana, di cui tanto si è parlato. Se consideriamo che perfino il Perù, che attualmente è il paese messo peggio al mondo, ne aveva una già a fine marzo, la cosa appare davvero imperdonabile (che poi a loro sia servita a poco è un altro discorso, che dipende dallo stato di sostanziale anarchia in cui da tempo versa il paese: però almeno ce l’avevano, tre mesi prima di noi). Ma l’aspetto più grave è stato il non averla resa obbligatoria, in un improvviso quanto irrazionale sussulto di rispetto per la privacy e le libertà individuali, senza curarsi del fatto che queste erano già state ripetutamente violate per ragioni molto meno giustificabili, dato che è evidente che questo sistema funziona solo se viene usato da tutti e solo finché il numero di contagi non è troppo elevato, come l’Australia aveva spiegato già ad aprile. Già, ma chi se ne frega di quello che dice l’Australia, anche se ha avuto appena 904 morti? Pensino ai canguri, ché noi siamo più furbi… Tanto furbi, che non averla resa obbligatoria ci ha impedito di tracciare i contagi nel momento più favorevole, quando erano al minimo storico, e l’ha quindi resa sostanzialmente inutile, giacché è chiaramente impossibile tracciare oltre 10.000 contagi al giorno, come ha ammesso implicitamente anche Silvio Brusaferro in un’intervista televisiva di pochi giorni fa (peraltro senza avere il coraggio di dirlo apertamente, tanto per cambiare). E se anche fosse possibile, tutto sarebbe vanificato dal fatto di non aver ancora individuato delle strutture adeguate dove isolare i potenziali contagiati, che perlopiù devono farsi la quarantena in casa, il che protegge sì gli estranei, ma in compenso fa aumentare esponenzialmente la probabilità di contagiare i propri famigliari.

La cosa più folle e al tempo stesso meno capita di tutte, però, è quella relativa al lockdown. È sicuramente vero, infatti, come ha scritto più volte Ricolfi, che in Italia il lockdown è stato proclamato con un mese di colpevole e imperdonabile ritardo, così come è vero che la decisione di interromperlo il 18 maggio è stata presa senza una chiara motivazione scientifica (sostanzialmente “a spanne”, per usare un’espressione tecnica). Ed è ancora vero, infine, come ho detto anche prima, che la successiva incondizionata “libertà di turismo” concessa questa estate è stata sicuramente una pessima idea, che ha contribuito molto alla ripresa dei contagi. Ma il vero (e ben più radicale) punto della questione è che semplicemente il lockdown in Italia non c’è mai stato, così come non c’è mai stato in nessun paese dell’Europa occidentale.

Il vero lockdown, infatti, significa: stanno aperti solo i supermercati e le farmacie e si esce solo per fare la spesa, punto e basta.

Ovunque ciò è stato fatto, dalla Cina alla Nuova Zelanda, dalla Lituania alla Grecia, solo per fare qualche esempio, il contagio è stato praticamente azzerato nel giro di un mese, indipendentemente da ogni altro fattore, climatico, economico, sociale o di qualsivoglia altra natura (come è logico che sia, dato che il tempo massimo di incubazione del virus è di circa due settimane), dopodiché si è tornati rapidamente a una vita sostanzialmente normale, con danni molto minori anche per l’economia. In Italia, invece, nel momento di teorica “chiusura totale”, secondo una stima del quotidiano La Stampa lavoravano (e di conseguenza circolavano) legalmente ben 9,4 milioni di persone e funzionavano ancora servizi “essenziali” come le tabaccherie e i giardinieri (!). Eppure, il governo, vedendo che i contagi non ne volevano sapere di calare, se la prendeva (con la scandalosa complicità dei mass media) sempre e solo con quelle poche migliaia di persone che non rispettavano le regole (il cui comportamento, per quanto censurabile, aveva un’incidenza pratica pressoché nulla) anziché con le regole palesemente sbagliate e inefficaci che aveva imposto.

Era del tutto ovvio, infatti, che fare le cose a metà avrebbe ottenuto l’unico risultato di devastare l’economia senza eliminare il virus, come è purtroppo puntualmente accaduto. Altrettanto ovvio, tanto che l’avevo previsto nel video che avevo postato l’8 marzo sulla mia pagina Facebook (www.facebook.com/PaoloMussoAutore), era anche che proprio questa sarebbe stata, purtroppo, la sciagurata scelta del nostro governo, dato che quello di decidere senza decidere è un inveterato vizio italico. Meno ovvio, invece, era che questa volta anche gli altri governi occidentali, che normalmente ci criticano proprio per la nostra cronica incapacità di decidere, ci sarebbero venuti dietro, trasformandoci così nei classici “ciechi che guidano altri ciechi” di evangelica memoria: infatti, come è sotto gli occhi di tutti, lo pseudo-lockdown all’italiana è catastroficamente fallito ovunque sia stato applicato e non è quindi ragionevole sperare che possa ottenere effetti migliori in futuro.

Tra l’altro, non dobbiamo dimenticare che nella prima fase, dal 9 al 21 marzo, i contagi sono costantemente saliti fino al picco di 6557, poi, dopo essere scesi di circa il 30% in pochi giorni, sono rimasti a oscillare tra i 3 e i 4 mila al giorno per quasi un mese, dal 30 marzo al 24 aprile, con appena una lieve tendenza globale verso la discesa. Dopodiché, quasi improvvisamente e senza che venisse preso alcun nuovo provvedimento, è iniziato un brusco calo che nel giro di 3 settimane ha portato ai 451 casi del 18 maggio, giorno della riapertura completa, valore già molto vicino a quello che sarebbe stato il valore medio da allora fino a fine agosto, quando la curva ha ricominciato a salire. È quindi lecito ipotizzare (e forse anche qualcosa più che ipotizzare) che ciò sia stato dovuto principalmente all’arrivo del caldo, anche perché non solo da noi, ma un po’ in tutta Europa il crollo dei contagi si è verificato verso fine aprile e la ripresa verso fine agosto.

Considerando che ora, grazie al maggior numero di tamponi, stiamo scoprendo un maggior numero di contagi, all’incirca decuplo rispetto all’inizio dell’epidemia, perlopiù asintomatici, la situazione attuale sembra corrispondere più o meno a quella di inizio marzo. E visto che anche le misure preventive attualmente in vigore sono più o meno le stesse che hanno già fallito allora e che stanno fallendo di nuovo in tutta Europa, ciò significa che entro 2-3 settimane rischiamo di ritrovarci di nuovo con 3000 casi conclamati al giorno, cioè nella stessa situazione di metà marzo, anche se forse con un po’ meno morti, visto che almeno le cure sono davvero migliorate.

Così stando le cose, dobbiamo avere il coraggio e l’umiltà di ammettere che l’unico modo di uscirne è rottamare completamente l’immaginario “modello Italia”, che ha completamente fallito, e cominciare a imitare chi ha davvero risolto il problema, seguendo le 3 strategie di cui sopra, anche se in ordine inverso.

La prima cosa da fare, infatti, è diminuire drasticamente il numero dei contagi, perché in questa situazione il tracciamento dei contagi non servirebbe a nulla, come già spiegato, né servirebbe, per ovvie ragioni, la chiusura delle frontiere. E l’unica cosa che può ottenere questo effetto è un vero lockdown: dobbiamo chiudere tutto, ma davvero tutto, per un mese e dobbiamo farlo contemporaneamente in tutta Europa. Prima lo facciamo, prima torneremo alla normalità e meno ci costerà.

Una volta azzerato il contagio interno, bisognerà poi imporre la quarantena obbligatoria a chiunque entri in Europa, da qualunque paese provenga, in modo da impedire che il virus cacciato dalla porta rientri dalla finestra. Infine, bisognerà istituire un sistema di tracciamento efficiente e soprattutto obbligatorio, per bloccare sul nascere i focolai accesi dai contagiati che, sia pure in numero molto ridotto, inevitabilmente sfuggiranno alle maglie del lockdown e ai controlli alle frontiere (perché il sistema di controllo perfetto non esiste).

Se lo faremo, questo funzionerà: non si tratta di una previsione teorica, ma di un dato di fatto, perché ha già funzionato nei paesi di cui sopra, e non è neanche tanto complicato da attuare, sicuramente molto meno dello pseudo-lockdown che abbiamo sperimentato, con la sua pletora di regole confuse, contraddittorie e spesso inapplicabili. E, una volta rifatto ordine in casa nostra, potremo poi anche cercare di dare una mano a quei paesi in cui, per la loro situazione sociale, misure così drastiche sono impossibili e che pertanto dovranno convivere con il virus fino alla creazione di un vaccino. Ma per riuscirci occorrono due condizioni: che l’Europa dimostri finalmente di esistere e che i suoi leader dimostrino finalmente di saper guardare in faccia la realtà e di saper parlare in modo credibile ai loro popoli.

Purtroppo, difficilmente esse si realizzeranno. Ma dobbiamo provarci lo stesso, perché, se così non sarà, possiamo prepararci fin d’ora a piangere altri 35.000 morti.