Il “ricalcolo” dei morti in Perù certifica la disfatta dell’Occidente

Quando ero bambino, tra i più famosi cartoni animati dell’epoca c’era quello dei Barbapapà, una famiglia di simpatici esseri gommosi che erano in grado di cambiare forma e dimensioni a piacimento, cosa che in genere facevano allo scopo di aiutare il prossimo e prevenire disastri. Ogni trasformazione era accompagnata dalla mitica frase, entrata anche nell’uso comune fra i bambini di allora, “Resta di stucco, è un barbatrucco!”

Ecco, proprio questa frase, che ormai non usavo da anni, è stata la prima che mi è venuta in mente di fronte all’ultima trovata della OMS, che qualche settimana fa ha improvvisamente deciso di “riscrivere” i numeri della pandemia in base ad alcuni criteri elaborati a tavolino, tra i quali quello fondamentale è l’eccesso di mortalità rispetto agli anni precedenti. Il primo (e finora unico) paese che abbia accettato di fare questo ricalcolo è stato il Perù, che il 1° giugno scorso ha annunciato che i morti erano improvvisamente passati da 69.342 a 180.764, come per magia o, appunto, un “barbatrucco”,

C’è davvero da restare di stucco, infatti, di fronte a un’operazione del genere, che in un solo giorno ha “gonfiato” di ben 2,6 volte il numero dei morti in base ad una stima puramente teorica. Intendiamoci: non è che di per sé l’idea di cercare di valutare più esattamente i numeri dell’epidemia sia sbagliata, ma è il modo in cui ciò è stato fatto che lascia a dir poco perplessi.

Anzitutto, è incredibile che ci sia ancora chi prende sul serio le indicazioni di un’istituzione così palesemente screditata come la OMS, che, per come è ridotta oggi, andrebbe semplicemente rasa al suolo e ricostruita dalle fondamenta. Non è certo un caso che ad andarle dietro per primo sia stato il Perù, paese che conosco molto bene e che da tempo dimostra una sudditanza particolarmente accentuata nei confronti delle organizzazioni internazionali, dovuta da un lato alla cultura illuminista delle sue élites, che vi vedono la possibilità di “modernizzare” il paese (ovviamente secondo il loro concetto di modernità, che non è condiviso dalla maggioranza della popolazione) e dall’altra alla forte crescita economica, che spinge molti a cercare in esse (perlopiù invano) un punto di riferimento più affidabile delle sue fragilissime istituzioni.

Inoltre, è evidente che la OMS, dopo l’iniziale minimizzazione fatta per favorire il tentativo di insabbiamento degli “amici” cinesi, ha sempre cercato di “gonfiare” il più possibile l’allarme Covid e quindi, innanzitutto, le sue cifre, allo scopo di giustificare la propria inutile esistenza. Si noti, fra l’altro, che la OMS ha proposto di ricalcolare solo i morti e non anche i contagi, benché sia evidente che questi ultimi sono di sicuro molto più sottostimati, essendo molto più difficili da identificare, soprattutto gli asintomatici. Il risultato è quello di innalzare artificiosamente il tasso di letalità del virus (che è dato dal rapporto tra il numero dei contagiati e quello dei morti), il che equivale a innalzare artificiosamente il livello di allarme e, di conseguenza, il potere della OMS stessa, che per ovvie ragioni è tanto maggiore quanto più grave è l’emergenza.

Del resto, ciò non deve stupire, perché non è affatto una novità. Già con l’influenza suina (2009-2010), di fronte al numero fortunatamente bassissimo dei contagi e dei morti e a quello invece altissimo delle accuse di incompetenza, nonché di corruzione e di conflitto di interessi per aver fatto comprare a vari governi centinaia di milioni di dosi di vaccini poi rivelatesi inutili, la OMS nel 2012 aveva commissionato uno studio che aveva “ricalcolato” il numero dei morti facendolo passare dai 18.449 accertati a 284.000 stimati.

Che tutta l’operazione sia altamente sospetta è dimostrato dal fatto che, quandanche ciò fosse vero, non giustificherebbe comunque il titolo di pandemia, che invece la OMS continua pervicacemente ad attribuirle, visto e considerato che la suina ha colpito quasi esclusivamente USA, Messico e alcuni paesi sudamericani e asiatici e che 284.000 decessi in due anni equivalgono a 142.000 all’anno, che sono meno di quanti se ne verifichino normalmente nel mondo in un solo giorno.

Più in generale, sono almeno vent’anni che di fronte ad ogni nuovo virus che appare all’orizzonte la OMS, puntuale come la morte e le tasse, annuncia l’imminente arrivo di una pandemia, che poi, altrettanto puntualmente, non si verifica: e anche questo continuo gridare “al lupo, al lupo” ha contribuito a far sì che, per una volta che il suo allarme era giustificato, venisse preso sottogamba.

Ma c’è una considerazione più sostanziale. Infatti, l’eccesso di mortalità può al massimo essere un criterio euristico, cioè un “segnale d’allarme” indicante che in un certo luogo potrebbe esserci un certo numero di morti da Covid che non sono stati riconosciuti come tali. Tale criterio, per esempio, era stato usato da Ricolfi l’anno scorso a proposito di certe zone del Sud che, pur essendo ufficialmente Covid-free o quasi, presentavano un notevole e inspiegato eccesso di mortalità. Tuttavia, che tale eccesso sia realmente dovuto al Covid deve essere dimostrato in base a dati oggettivi e non solo presunto su base puramente statistica, perché nella scienza la sola coerenza logica non basta a convalidare una teoria: occorre sempre la verifica sperimentale.

Inoltre, l’eccesso di mortalità è un dato di per sé molto variabile. Per esempio, questi sono i dati ISTAT relativi all’Italia negli ultimi 9 anni pre-Covid (il valore minimo è evidenziato in azzurro, il valore massimo in giallo):

Come si vede, la minima differenza, che corrisponde anche alla minima variazione tra due anni consecutivi (2018-2019), è di appena 1.284 morti, mentre la massima differenza (2017-2011) è di 55.634 e la massima variazione tra due anni consecutivi (2014-2015) è solo di poco inferiore: 49.207. In altre parole, la mortalità dovuta alle cause usuali (non Covid) è variata spontaneamente da un anno all’altro di quasi il 9%, il che influenza pesantemente anche le stime sui morti da Covid: per esempio, i 746.146 morti totali del 2020 rappresentano un eccesso di 111.729 unità rispetto al 2019, ma di solo 97.085 rispetto al massimo del 2017 e di ben 152.719 rispetto al minimo del 2011.

Ciò significa che l’eccesso di mortalità del 2020 rispetto al 2019 è stato superiore di 37.582 unità ai 74.147 morti da Covid ufficialmente accertati nello stesso 2020, il che suggerisce che il numero reale potrebbe essere di circa il 50% superiore. Ma se la mortalità del 2019 fosse stata pari a quella del 2017 (cosa perfettamente concepibile, dipendendo da cause che nulla hanno a che vedere con il Covid) il gap tra morti da Covid accertati e possibili si ridurrebbe moltissimo, suggerendo che il valore ufficiale sia molto vicino a quello reale; mentre se la mortalità del 2019 fosse stata pari a quella del 2011 tale gap crescerebbe al punto da suggerire che il valore reale potrebbe essere addirittura il doppio di quello ufficiale.

Con le medie le cose vanno (ovviamente) meglio, ma le variazioni restano significative. Questa è la tabella delle medie relative ad alcuni diversi periodi pre-Covid in Italia:

Come si vede, qui la variabilità è minore, ma comunque la differenza tra la media più alta e quella più bassa è pur sempre di 18.330 unità in più o in meno, il che può fare aumentare o diminuire il totale dei morti da Covid stimati per il 2020 della stessa quantità. Ciò rappresenta una variazione di ben il 25% rispetto al numero dei morti accertati ufficialmente, dovuta interamente al mero fatto di scegliere (in modo fondamentalmente arbitrario) un dato periodo di riferimento. E si badi che stiamo parlando di un paese come l’Italia attuale, molto stabile sia dal punto di vista sanitario che demografico: figuriamoci quindi cosa può succedere in paesi come il Perù, in cui la mortalità può essere influenzata significativamente anche da eventi per noi non particolarmente drammatici, come ondate di caldo o di freddo, siccità, alluvioni, crisi economiche o altre malattie (spesso più letali del Covid, ma di cui non parla nessuno solo perché restano confinate nel Terzo Mondo).

Inoltre, fin qui abbiamo ragionato come se tutte le altre cause di morte avessero seguito il loro andamento naturale, cioè come se il Covid non le avesse in alcun modo influenzate. Ma è chiaro che non è così. Infatti, come molti hanno drammaticamente sperimentato sulla propria pelle, l’affollamento degli ospedali ha spesso impedito di curare adeguatamente (e a volte addirittura completamente) persone affette da altre patologie, anche gravi, causando quindi altre morti che, pur essendo state indirettamente provocate dal Covid, tuttavia non sono dovute ad esso e quindi non possono essere classificate come “morti da Covid”.

Il loro numero è però difficile da quantificare perfino in un paese come l’Italia, che pure dispone di uno dei migliori sistemi sanitari al mondo: figuriamoci quindi se è possibile farne una stima affidabile in un paese come il Perù, che ha invece un sistema sanitario molto fragile, che in questo periodo è davvero collassato (mentre il nostro, checché se ne dica, ha sofferto molto, ma nell’insieme ha retto).

Se si considerano tutti questi fattori, dunque, è facile capire come un’operazione del genere non possa che essere molto imprecisa già per sua natura e più ancora se la si vuol fare in paesi poveri e con istituzioni inefficienti, tanto da far dubitare seriamente che abbia senso. In ogni caso, se la si vuole comunque fare, bisognerebbe almeno tenere accuratamente distinti i morti accertati da quelli semplicemente stimati, altrimenti si mescolano fra loro dati del tutto eterogenei, con l’unico risultato di generare una confusione tale da rendere praticamente impossibile ogni confronto statistico.

Ma non sembra essere questa l’intenzione della OMS. Infatti, gli pseudo-dati del “ricalcolo” peruviano sono immediatamente finiti in un calderone unico insieme a quelli reali, “premiando” la sua masochistica docilità al pandemically correct con l’attribuzione della poco invidiabile (e peraltro, per quanto appena detto, altrettanto poco giustificata) “maglia nera” di peggiore paese al mondo nella gestione del Covid.

Tuttavia, c’è almeno una lezione che possiamo davvero trarre da questa pasticciatissima vicenda, il cui significato è però l’esatto opposto di ciò che sembra a prima vista. Infatti, sia negli articoli pubblicati su questo sito che anche altrove, io ho sottolineato ripetutamente che vedere i paesi più ricchi e progrediti del mondo, cioè gli USA e l’Europa Occidentale, con un tasso di mortalità superiore a quello dei paesi sudamericani rappresenta un’abnormità di tale portata che non può essere spiegata se non come il frutto di una sequela di macroscopici e gravissimi errori da parte nostra.

Ogni volta, però, mi veniva regolarmente obiettato che verosimilmente il numero dei morti in Sudamerica era di molto sottostimato, al che io contro-obiettavo che ciò era sicuramente vero, ma non bastava a cambiare i termini della questione. Infatti, da loro i morti potevano essere sottostimati al massimo di due o tre volte, ma non certo di venti o trenta: e se anche noi avessimo avuto solo la metà o perfino solo un terzo dei morti dei paesi sudamericani, la cosa sarebbe stata ugualmente inaccettabile, vista l’enorme sproporzione di mezzi esistente tra noi e loro.

Ebbene, il ricalcolo peruviano conferma in pieno la mia tesi. Infatti, anche accettando per buona la stima fatta dal governo (che, per le ragioni anzidette, è invece quasi certamente esagerata), al 1° giugno 2021 il numero di morti per abitante del Perù risultava essere 5.408 contro i 2.090 dell’Italia, cioè circa 2,5 volte maggiore del nostro e, in generale, della media dell’Occidente progredito.

Ma non basta: dobbiamo ancora considerare due fattori che incidono pesantemente, distorcendo i dati a nostro favore. In primo luogo, infatti, un analogo ricalcolo applicato ai nostri paesi farebbe verosimilmente crescere di parecchio anche il numero dei nostri morti, come si desume facilmente dalle tabelle precedenti. In secondo luogo, all’epoca in Europa e negli USA stava arrivando l’estate e la campagna vaccinale era già abbastanza avanzata, mentre in Perù (che si trova nell’emisfero Sud) stava arrivando l’inverno e la campagna vaccinale era appena agli inizi.

Possiamo quindi senz’altro affermare che il rapporto reale tra il numero di morti per abitante del Perù e quello dei paesi più progrediti è non solo certamente inferiore a 3, ma verosimilmente addirittura inferiore a 2, esattamente come ho sempre sostenuto.

E per l’Occidente avere la metà dei morti del Perù è una disfatta su tutta la linea.




Se i Pro-Vax fanno più danni dei No-Vax

Grazie al cielo, i vaccini stanno funzionando. E anche bene. Tanto bene che perfino in Italia, con solo il 30% della popolazione che ha ricevuto la prima dose, cominciamo ad assistere a un significativo calo dei contagi. Le morti, invece, per ora sono scese meno, ma questo in gran parte è fisiologico, perché, sia nel bene che nel male, per ovvie ragioni la loro curva presenta sempre un ritardo di un paio di settimane rispetto a quella del contagio, quindi è lecito essere ottimisti anche a questo proposito (anche se in parte ha pesato pure il ritardo con cui abbiamo provveduto a vaccinare gli anziani, che invece non è affatto fisiologico, bensì scandaloso, ma anche questo, finalmente, più o meno lo stiamo sistemando).

Inoltre, guardando ai dati dei paesi che sono più avanti di noi sembra confermato quello che avevo scritto nell’articolo dell’11 marzo scorso, cioè che per incominciare a vedere un abbattimento davvero drastico dei contagi bisogna arrivare intorno al 35% di prime dosi, traguardo che per fortuna è ormai molto vicino, anche perché nelle ultime settimane, come attesta l’Indice DQP di Ricolfi, il ritmo delle vaccinazioni ha finalmente iniziato a crescere in modo sostenuto.

Se a ciò aggiungiamo l’arrivo del caldo, ormai imminente, sembra lecito supporre che entro fine maggio (come avevo previsto nell’articolo suddetto) la situazione dovrebbe tornare a una parvenza di normalità, anche se per uscirne del tutto ci vorrà ancora qualche mese e soprattutto bisognerà che le nostre autorità stavolta usino l’estate per finire di mettere in sicurezza il paese anziché per scrivere libri autocelebrativi (ogni riferimento a quello pubblicato e poi ritirato in tutta fretta l’anno scorso dal Ministro Speranza non è casuale, ma deliberatamente voluto, anche se il problema non si riduce certo a lui soltanto).

Ciò detto, non bisogna tuttavia dimenticare la “falsa partenza” della campagna vaccinale, che ci è già costata migliaia di morti e che rischia di causare danni economici incalcolabili, perché altri paesi sono già tornati o stanno tornando alla normalità, sicché già godono e per diversi mesi per mesi ancora godranno di un vantaggio enorme su chi, come noi, è ancora in mezzo al guado. Ed è giusto ricordare che di tale ritardo e dei gravissimi danni che provocherà è responsabile innanzitutto il governo Conte, insieme alle autorità della UE, che purtroppo di autorità hanno dimostrato di averne ben poca.

A tal proposito, la cosa più preoccupante è che ciò non sembra dipendere tanto dalle persone che ci rappresentano, ma piuttosto dal fatto che nel mondo reale esse di fatto non ci rappresentano, perché nella percezione che se ne ha dall’esterno la UE è sostanzialmente una non-entità, a cui si può fare qualsiasi sgarbo rischiando poco o nulla (anche la famosa vicenda della “sedia negata” dovrebbe indurci alla riflessione più che all’indignazione: perché Erdogan è certamente un volgare dittatore e un becero maschilista, ma altrettanto certamente la Von Der Layen non era la prima donna che riceveva, però è stata la prima a cui ha deciso di fare uno scherzo del genere; e forse sarebbe il caso di cominciare a chiederci il perché).

Tuttavia, proprio considerando che la situazione è già abbastanza complicata di suo, non si sentiva davvero il bisogno di altri problemi. Per questo non si può tacere sulle responsabilità di chi, sia pure involontariamente, ha contribuito a peggiorarla ulteriormente, provocando ritardi supplementari nella già troppo lenta campagna vaccinale italiana ed europea.

Sto parlando anzitutto, ovviamente, dei No-Vax, che in questi mesi stanno dando il peggio di sé, dopo che con le loro folli teorie, diffuse soprattutto “grazie” a Internet, negli ultimi anni erano già riusciti a convincere una fetta non trascurabile della popolazione mondiale (e quindi anche italiana) a guardare con sospetto o addirittura a rifiutare uno degli strumenti più efficaci mai prodotti dalla scienza umana, ovvero i vaccini. Ma sto parlando anche – e ciò è assai meno ovvio, ma purtroppo non meno vero – di molti che di per sé ai vaccini sono favorevoli, ma sui vaccini anti-Covid hanno sollevato perplessità di varia natura, tanto inconsistenti nelle loro motivazioni quanto devastanti nelle loro conseguenze.

Ciò ha infatti contribuito ad allargare il fronte dei contrari ben al di là del tradizionale “bacino di utenza” dei No-Vax “duri e puri”, rendendo scettiche o quantomeno dubbiose moltissime persone che perlopiù si fidano dei vaccini in generale, ma non di “questi” vaccini (quelli che il generale Figliuolo ha definito, ironicamente ma esattamente, “Ni-Vax”). E questo rischia seriamente di metterci di fronte alla “scelta impossibile” tra due alternative ugualmente gravide di conseguenze disastrose: rinunciare a raggiungere l’immunità di gregge o rendere obbligatoria la vaccinazione per tutti.

Un primo tipo di perplessità è nato a causa della grande rapidità con cui i vaccini sono stati creati e testati, benché i principali, che stiamo usando attualmente, fossero molto innovativi e alcuni (i famosi vaccini a RNA di Pfizer/Biontech e Moderna) addirittura di concezione completamente nuova. Tuttavia, benché a prima vista, almeno all’inizio, qualche dubbio potesse sembrare giustificato, in realtà nessuno dei rischi paventati era scientificamente fondato (e infatti nessuno si è concretizzato), come ho cercato di spiegare nell’articolo del 7 gennaio 2021, scritto in collaborazione con il mio amico e collega biologo Alberto Vianelli.

Quanto alla presunta eccessiva rapidità delle verifiche fatte dall’EMA, che qualcuno riteneva (senza peraltro essere in grado di esibire prova alcuna di ciò) frutto di pressioni politiche e/o di interessi economici, anche qui i dubbi erano del tutto infondati, dato che per tutti i vaccini sono state completate le prime tre fasi previste dal protocollo standard, che sono le più importanti, dato che riguardano l’efficacia e la sicurezza. Il vero motivo per cui tutto è stato molto più veloce rispetto al solito è semplicemente che questa volta abbiamo investito molto di più sulla ricerca.

Semmai, se proprio vogliamo trovare qualcosa da criticare, dovremmo piuttosto prendercela con l’eccesso di precauzione usato con il vaccino della Johnson & Johnson, che si poteva adottare con un provvedimento d’urgenza, senza richiedere anche l’approvazione dell’EMA, che non si capisce cosa potesse mai aggiungere a quella delle autorità sanitarie degli Stati Uniti, che di certo non sono meno competenti e affidabili delle nostre. E anche la resistenza allo Sputnik russo sembra difficile da giustificare, visto che con esso San Marino ha già praticamente azzerato i contagi e le morti con appena il 63% di prime dosi somministrate: e poiché la popolazione è di circa 34.000 persone, stiamo parlando di una “sperimentazione” svolta su un campione assolutamente adeguato e per di più nel mondo reale, il che la rende più significativa di qualsiasi test di laboratorio.

L’unica procedura in qualche modo “straordinaria” (peraltro ampiamente giustificata dalla situazione straordinaria in cui ci troviamo) che è stata realmente adottata riguarda la quarta fase, relativa alla verifica della durata della protezione vaccinale e la ricerca di effetti avversi molto rari. Peraltro, per ovvie ragioni, tale fase almeno in parte avviene sempre “sul campo” e inoltre in questo caso poteva essere eseguita nel modo tradizionale solo ritardando di anni la distribuzione dei vaccini, il che sarebbe stato come buttarli nella spazzatura, perché è ora che ci servono. Inoltre, quanto più rapidamente si concluderà la campagna vaccinale, tanto più probabile sarà che il tempo di copertura garantito dai vaccini sia sufficiente, anche qualora si rivelasse abbastanza breve (cosa che peraltro, almeno fino a prova contraria, non c’è ragione di supporre, dato che in genere i vaccini fin qui prodotti per altre malattie immunizzano almeno per qualche anno).

La cosa più paradossale, comunque, è che se la protezione garantita dagli attuali vaccini fosse realmente breve, l’unica cosa ragionevole da fare sarebbe accelerare la campagna vaccinale e non frenarla richiedendo ulteriori controlli, che risulterebbero non solo inutili, ma addirittura controproducenti. Infatti, questi vaccini sono gli unici che abbiamo e anche se si scoprisse che l’immunità che garantiscono è breve non ci sarebbe comunque modo di aumentarla, sicché l’unica cosa che possiamo fare è ridurre al massimo il tempo per cui è necessario che ci proteggano, cercando di raggiungere l’immunità di gregge il più presto possibile. Di conseguenza, la posizione di chi chiede ulteriori controlli è sbagliata se è sbagliata (perché in tal caso non ci sarebbe nessun problema da risolvere) ed è doppiamente sbagliata se è giusta (perché in tal caso il problema ci sarebbe, ma ulteriori controlli lo aggraverebbero anziché risolverlo).

Un secondo tipo di dubbi riguarda invece l’efficacia dei vaccini. Ora, a parte quelle puramente aprioristiche basate sulla velocità del processo, di cui ho appena parlato, le altre perplessità di questo tipo si basavano (e tuttora si basano, nella misura in cui tuttora persistono) quasi esclusivamente su un famoso articolo di Peter Doshi, indubbiamente un luminare del campo, che aveva suscitato molto scalpore, affermando che i risultati delle sperimentazioni portavano a concludere che la loro efficacia reale poteva essere tra il 19% e il 29% invece del 95% dichiarato.

In realtà, però, leggendo attentamente l’articolo si nota subito che l’intera analisi di Doshi si basa sull’assurdo presupposto di calcolare come contagi da Covid tutti i casi “sospetti” verificatisi nel gruppo dei vaccinati anziché solo i casi successivamente “confermati”, sostenendo, contro ogni logica, che ciò sarebbe «clinicamente più significativo».

Inoltre, pochi giorni dopo Marco Cavaleri dell’EMA gli aveva risposto in modo molto preciso con un’intervista, che personalmente ho trovato subito molto convincente, smontando punto per punto le sue tesi, che sono poi state ulteriormente messe in crisi dai dati sull’uso reale dei vaccini, soprattutto quelli della Gran Bretagna. Nel Regno Unito, infatti, il premier Boris Johnson ha scelto di immunizzare il maggior numero di persone possibile nel minor tempo possibile, usando perciò quasi tutti i vaccini disponibili per le prime dosi e limitando al minimo indispensabile i richiami, scommettendo, contro il parere di molti scienziati, sul fatto che già le prime dosi garantissero un’immunità sufficientemente robusta, come è di fatto avvenuto.

Ma oltre alle statistiche sull’andamento dell’epidemia stanno iniziando a uscire anche i primi studi scientifici, che finora hanno sempre confermato l’elevata efficacia dei vaccini anti-Covid. In particolare, il 14 maggio sonno stati annunciati i risultati della prima ricerca sull’efficacia dei vaccini in Italia. L’articolo deve ancora uscire, ma i risultati sono stati sintetizzati in un’intervista a Quotidiano Sanità dal professsor Lamberto Manzoli, dell’Università di Ferrara, che ha diretto il gruppo di ricerca e confermano per tutti i vaccini usati un’efficacia, anche rispetto alle varianti, di circa il 95% nel prevenire il contagio e del 99% nel prevenire lo sviluppo di sintomi gravi.

Molto interessante è il fatto che il tanto bistrattato AstraZeneca è risultato il migliore di tutti, con un’efficacia che sfiora addirittura il 100% già con la prima dose. Anche Moderna ha un’efficacia vicina a quella massima già dopo la prima dose, mentre Pfizer, in genere ritenuto il migliore, dopo la prima dose arriva “solo” al 70% (che comunque non è male). Questo spiega in parte anche il successo del “metodo inglese”, dato che in Gran Bretagna si è usato moltissimo AstraZeneca (certo anche perché di produzione inglese, essendo stato progettato dalla Oxford University).

Risultati molto simili sono stati ottenuti anche dallo studio, pubblicato l’8 maggio, sull’efficacia del vaccino Pfizer in Qatar (Qatar National Study Group for COVID-19 Vaccination, Effectiveness of the BNT162b2 Covid-19 Vaccine against the B.1.1.7 and B.1.351 Variants, DOI: 10.1056/NEJMc2104974), che conferma un’efficacia vicina al 95% anche rispetto alle varianti, benché con alcune di esse la capacità di impedire del tutto la replicazione del virus nell’organismo e non solo l’insorgere di sintomi gravi risulti inferiore, ma comunque sempre elevata (nel caso peggiore, oltre il 70%).

Un altro argomento che fino a qualche tempo fa era molto di moda addurre (lo ha fatto perfino Crisanti, per sostenere la maggiore efficacia del suo metodo dei tamponi di massa rispetto ai vaccini, il che mi è veramente dispiaciuto, data la stima che ho per lui, essendo uno dei pochissimi che ha davvero fatto cose buone per l’Italia) era il caso apparentemente anomalo del Cile, che ancora a inizio aprile non riusciva a far calare i contagi nonostante avesse già vaccinato oltre il 50% della sua popolazione.

Quello che si dimenticava, però, è che, avendo il Cile adottato un approccio molto “ortodosso” e avendo quindi fatto un elevato numero di richiami, la percentuale di prime dosi era in realtà solo del 30%, cioè non ancora sufficiente a produrre effetti significativi. Inoltre, in Cile si era fatto un uso massiccio del vaccino cinese Sinovac, che, per ammissione delle stesse autorità di Pechino, non è molto efficace.

E infatti, col progredire del numero di prime dosi somministrate (attualmente circa il 46%) e l’arrivo di vaccini più efficaci, anche in Cile le cose hanno iniziato a migliorare, benché un po’ più lentamente che negli altri paesi con percentuali simili, verosimilmente perché pesa ancora il gran numero di persone poco protette dallo scadente vaccino cinese. In ogni caso, il picco dei contagi è stato raggiunto ormai da oltre un mese (il 9 aprile, con 9151) e da allora la media è scesa di circa il 25% (da circa 7000 casi al giorno a metà aprile a circa 5300 a metà maggio), mentre per i morti, il picco è stato il 15 aprile con 218 e la media è scesa dai 120 di allora ai 92 attuali, anche qui con un calo di circa il 25%. Dunque, anche il Cile si può ormai considerare “normalizzato” e non rappresenta più un’obiezione valida.

Un’altra obiezione è che i vaccini anti-Covid servirebbero solo a impedire l’insorgere di sintomi gravi, ma non sarebbero sterilizzanti, cioè non impedirebbero la diffusione del virus nell’organismo.

Ora, a tale riguardo bisogna anzitutto aver chiaro che nessun vaccino (e, in generale, nessuna medicina) è in grado di impedire a un virus o a un qualsiasi altro agente patogeno di entrare nel nostro organismo: l’unico modo di ottenere questo risultato sarebbe infilarsi uno scafandro a tenuta stagna (come infatti fanno i medici quando devono intervenire in situazioni ad elevato rischio di contaminazione).

Inoltre, la differenza tra vaccini sterilizzanti e non sterilizzanti non dipende per nulla dal fatto che certi vaccini bloccherebbero solo lo sviluppo dei sintomi, ma non la replicazione del virus. Qualsiasi vaccino, infatti, ha un solo modo di impedire lo sviluppo dei sintomi, cioè, per l’appunto, bloccare (anche se con metodi diversi) la replicazione del virus, giacché i sintomi appaiono proprio quando il virus si replica oltre un certo limite (anzi, ad essere precisi il vaccino di per sé non “blocca” proprio un bel niente: a farlo è il sistema immunitario, ovviamente stimolato dal vaccino). Quindi, a rigore, tutte le persone vaccinate in cui il virus riesce ad entrare sono teoricamente contagiose, perché portano il virus nel proprio organismo per qualche tempo.

La differenza sta nell’efficienza con cui la replicazione del virus viene bloccata o addirittura completamente impedita e con essa lo sviluppo dei sintomi, sicché la persona vaccinata ha una probabilità bassissima o addirittura nulla di contagiarne altre. Se invece la replicazione del virus viene bloccata meno efficacemente, allora la malattia si svilupperà in forma asintomatica, mentre se la risposta immunitaria sarà ancor più debole si svilupperà la malattia vera e propria, con sintomi conclamati: in entrambi questi casi (quindi non solo quando ci si ammala gravemente, ma anche quando si resta asintomatici) la persona vaccinata può contagiarne altre anche realmente e non solo teoricamente. Ciò però non dipende solo dal vaccino in sé e dal metodo che utilizza, ma anche dalla risposta dell’organismo, che è diversa per ogni singolo essere umano, per cui anche con il miglior vaccino possibile ci sarà sempre una certa percentuale di persone che non sviluppano una resistenza sufficiente e si ammalano lo stesso: è per questo che l’efficacia non è mai del 100%.

Ciò significa anzitutto che la differenza tra vaccini sterilizzanti e non sterilizzanti è solo una differenza di grado, perché tutti i vaccini dotati di una qualche efficacia sono in certa misura sterilizzanti, mentre nessuno lo è completamente. In secondo luogo, pur non essendoci una corrispondenza esatta tra i due aspetti (altrimenti la distinzione non avrebbe senso), è difficile che un vaccino poco sterilizzante abbia un’efficacia molto alta, perché se il virus si replica troppo nell’organismo causerà inevitabilmente dei sintomi. Di conseguenza, per sostenere che i vaccini anti-Covid non sono abbastanza sterilizzanti bisogna o disporre di evidenze molto solide (che però finora nessuno ha prodotto) oppure essere convinti che in realtà il vaccino non abbia neanche un’alta efficacia, come per l’appunto credono in genere i sostenitori di questa tesi, il che però, come già detto, non sembra giustificato dai fatti.

Almeno finora, infatti, ovunque questi vaccini sono stati impiegati sia i contagi che i morti sono sempre calati molto rapidamente, fin dalla somministrazione della sola prima dose ad appena un terzo della popolazione: un dato impressionante, che non solo appare incompatibile con l’ipotesi della bassa efficacia e della scarsa sterilizzazione, ma sembrerebbe anzi indicare una capacità altissima di prevenire non solo la malattia, ma anche il contagio, forse perfino superiore a quanto ipotizzato dalle stesse case farmaceutiche, il che, peraltro, non mi sembra così strano. Anzitutto, infatti, le case farmaceutiche non sono certo enti di beneficenza, ma neanche delle associazioni a delinquere che vogliono solo far soldi sulla pelle dei malati, come oggi è di moda pensare (salvo quando entriamo in farmacia perché ci serve un medicinale). Inoltre, avendo addosso gli occhi di tutto il mondo, gli stessi interessi economici spingono semmai verso un eccesso di prudenza, piuttosto che verso un eccesso di ottimismo.

Un’ulteriore obiezione è quella di chi dice che i vaccini vanno sì fatti, ma solo dopo avere abbattuto con altri mezzi il numero dei contagi, altrimenti c’è il rischio che si sviluppino varianti resistenti ai vaccini stessi.

Tuttavia, come già da molto tempo è stato dimostrato in maniera inequivocabile, le mutazioni nei virus e nei batteri nascono tutte in modo casuale. Di conseguenza, i vaccini non possono causare una mutazione resistente, ma solo selezionarla dopo che si sia prodotta, il che avviene perché i vaccini fanno fuori tutti gli altri ceppi, finché resterà in circolazione solo quello resistente, che, se non si troverà rapidamente un nuovo vaccino capace di fermarlo, si espanderà fino a contagiare tutta la popolazione, compresa quella già vaccinata, dato che non è sensibile all’azione dei vaccini esistenti. Ciò può dare l’impressione che vaccinare a epidemia in corso sia più rischioso, ma in realtà si tratta di una pura illusione ottica: una volta prodottasi, infatti, la variante resistente verrà comunque selezionata dai vaccini non appena si comincerà ad usarli e a quel punto si diffonderà comunque a tutta la popolazione, indipendentemente dal numero di contagi e quindi dal momento in cui si è cominciato a usare i vaccini.

Dunque, l’unico vero rischio, che dobbiamo assolutamente cercare di evitare (perché, se si verifica, indipendentemente dal come e dal quando, siamo comunque fregati), è la nascita della mutazione resistente. E poiché le mutazioni dei virus si producono completamente a caso, ne segue che la probabilità della nascita di una variante resistente dipende esclusivamente da un fattore, ovvero il numero di “tentativi” che il virus ha a disposizione, il che a sua volta dipende dal numero di particelle virali in circolazione, giacché quante più ce ne saranno, tante più mutazioni si produrranno e tanto più alta sarà, di conseguenza, la probabilità che, per puro caso, una di queste sia resistente ai vaccini.

Ciò significa che l’unico modo che abbiamo (e sottolineo l’unico) di ridurre il più possibile la probabilità che nasca una variante resistente è ridurre il più possibile e nel più breve tempo possibile il numero delle persone contagiate. Ed è chiaro che per conseguire tale obiettivo dobbiamo usare fin dall’inizio tutti i mezzi che abbiamo, compresi ovviamente i vaccini. Se infatti non li usiamo, per quanto velocemente possa scendere il numero dei contagiati, scenderà comunque più lentamente che usandoli, giacché è evidente che l’efficacia di A+B è superiore a quella di A da solo, salvo che B sia del tutto inefficace, il che non è certo il caso dei vaccini anti-Covid, la cui efficacia nemmeno i critici più severi ritengono pari a zero. Di conseguenza, non usandoli anche la probabilità che si generi una variante resistente sarà comunque maggiore che usandoli.

Si badi che con questo non sto dicendo che non possa prodursi una variante resistente anche usando i vaccini fin dall’inizio: trattandosi di un evento casuale, infatti, evitarlo non dipende solo da noi, ma anche dalla fortuna. Tuttavia, qualora ciò dovesse accadere, non vorrebbe dire che se non avessimo usato i vaccini la variante resistente non si sarebbe prodotta, bensì, esattamente al contrario, che non solo si sarebbe prodotta lo stesso, ma probabilmente si sarebbe prodotta in un maggior numero di persone, avendo avuto a disposizione un maggior numero di individui infetti e quindi un maggior numero di “tentativi”.

Una chiara riprova di ciò è data dal fatto che tutte le varianti attualmente più diffuse (per fortuna non resistenti ai vaccini) si sono generate prima che iniziasse la campagna vaccinale, quando il contagio era molto esteso e quindi il virus aveva a disposizione moltissimi “tentativi” per produrre una più efficiente versione di sé stesso. Al contrario, nessuna variante di rilievo si è finora prodotta in paesi che sono già molto avanti con le vaccinazioni e in cui perciò il numero di contagi è drasticamente diminuito. Non fa eccezione nemmeno quella indiana, sorta quando la campagna vaccinale in India era sì iniziata, ma aveva toccato solo una minima parte della popolazione.

Riassumendo, dunque, il vero (e gravissimo) errore che abbiamo commesso in Occidente e in particolare in Italia non è stato affatto avere cominciato a usare i vaccini prima di avere diminuito i contagi con altri mezzi, ma, esattamente all’opposto, non avere diminuito al più presto e il più possibile i contagi usando anche tutti gli altri mezzi disponibili. Non però al posto dei vaccini, bensì insieme ad essi, come per esempio ha fatto l’Inghilterra, che, non a caso, è il paese che finora ha ottenuto i migliori risultati e che ha affiancato ai vaccini misure restrittive molto più rigide delle nostre (ma che in compenso, proprio per questo, sono finite molto prima) nonché un uso massiccio di vitamina D3.

Ciò che tuttavia rende particolarmente grave, nonché particolarmente scandalosa, la situazione italiana (anche se purtroppo era ampiamente prevedibile: e infatti Ricolfi l’aveva detto subito, ma nessuno l’ha ascoltato) è che da noi i vaccini sono stati usati come scusa per non far nulla (o meglio, per continuare a non far nulla), senza capire (o senza voler capire) che i danni causati dal ritardato ritorno alla normalità non avrebbero costituito solo una piccola “coda” di quelli già subiti, ma sarebbero stati enormi a tutti i livelli, sia in termini di morti che di soldi. E la miglior prova di ciò è che alla fine siamo stati costretti a riaprire in condizioni ancora piuttosto rischiose, semplicemente perché il paese non ce la faceva più ad andare avanti così.

È quindi vero, come ha scritto Ricolfi, che a questo punto gli “aperturisti” hanno paradossalmente ragione in pratica pur avendo torto in teoria. Il problema è che “a questo punto” non ci dovevamo arrivare: e di ciò sono responsabili tutti, sia i “chiusuristi” (che hanno ostinatamente reiterato misure palesemente inefficaci) sia gli “aperturisti” (che non hanno mai saputo indicare alternative migliori), anche se i primi lo sono in misura maggiore, dato che sono stati al governo fin dall’inizio dell’epidemia e non solo da qualche mese.

Comunque, non c’è dubbio che le perplessità che hanno prodotto i maggiori danni sono state quelle relative ad AstraZeneca, che sono tanto più imperdonabili in quanto le loro conseguenze erano facilmente prevedibili, mentre le loro giustificazioni erano risibili. Infatti, di fronte a 25 (possibili) morti su oltre 20 milioni di vaccinazioni l’unica risposta sensata era un bel “chi se ne frega”, non per insensibilità, ma perché nessuna persona sana di mente si preoccupa di un evento che ha una probabilità di verificarsi di uno su un milione, ovvero circa la stessa che abbiamo di vincere la Lotteria di Capodanno. Giusto per avere un termine di paragone, in Italia la probabilità di morire in un incidente automobilistico nel corso di quest’anno è di 1 su 18.000, ovvero 55 volte maggiore, mentre nel corso dell’intera vita è di circa 1 su 250, cioè addirittura 4000 volte maggiore, eppure non mi risulta che qualcuno la ritenga una buona ragione per non usare l’auto.

Chi ha richiesto la sospensione temporanea di AstraZeneca in attesa di ulteriori controlli in genere l’ha giustificata dicendo che questo sarebbe stato un segno in più dell’estrema attenzione con cui la UE stava controllando i vaccini, il che in teoria era anche vero. Tuttavia, era del tutto evidente che nella percezione della gente (che in questo caso è l’unica che conta) avrebbe assunto il significato diametralmente opposto, come infatti è puntualmente accaduto, tanto più che tali controlli nel brevissimo tempo concesso (pochi giorni) non potevano dare (e infatti non hanno dato) risultati certi.

È paradossale che la più convinta promotrice di questa sciagurata decisione sia stata Angela Merkel, che negli ultimi mesi sembra vittima di un autentico cupio dissolvi, visto che sta sistematicamente demolendo tutti i risultati ottenuti nella prima fase dell’epidemia, che, pur non essendo certo stati straordinari, erano almeno discreti, il che, in un contesto generale catastrofico, non era poco. Ma anche molti scienziati non sono stati da meno. Solo per fare un esempio fra i tanti, la celebre storica della medicina Eugenia Tognotti in uno dei suoi tanti editoriali su La Stampa ha sostenuto che sì, è vero che il rischio di per sé è molto basso, ma il caso dei vaccini è diverso da quello delle altre medicine, perché queste le prende chi sta già male, mentre il vaccino lo fa uno che sta bene, per cui è inaccettabile fargli correre anche il minimo rischio.

Ora, a parte il fatto che il rischio zero nel mondo reale semplicemente non esiste e men che meno in campo medico, per cui è assurdo pretenderlo, la Tognotti evidentemente non ha considerato che attualmente in Italia il rischio di morire di Covid è di circa 1 su 500, cioè 2000 volte maggiore del (presunto) rischio di vaccinarsi con AstraZeneca: quindi, se l’illustre scienziata ritiene tale rischio inaccettabile, secondo logica dovrebbe ritenere 2000 volte più inaccettabile il rischio di non vaccinarsi. Il fatto che la Tognotti non la pensi così spiega meglio di molte altre cose perché siamo al punto in cui siamo: se infatti anche molti scienziati si dimostrano incapaci del più elementare ragionamento logico, come si può pretendere che ne siano capaci i politici, i giornalisti o la gente comune?

In conclusione, dunque, possiamo dire che se un problema c’è stato con la campagna vaccinale in Italia e, più in generale, nella UE, questo non sta nel fatto che è stata troppo affrettata, bensì, esattamente al contrario, che è stata troppo lenta. E a questo rallentamento hanno contribuito molto più le immotivate perplessità di tanti scienziati Pro-Vax in cerca di visibilità mediatica (o che semplicemente hanno perso la bussola) che neanche i deliri dei No-Vax, il che rappresenta un ulteriore, folle tassello da aggiungere al triste mosaico della bancarotta dell’Occidente di fronte al virus.

L’unica cosa di cui potremmo e dovremmo andare giustamente fieri in mezzo a tutto questo disastro è infatti proprio la rapidissima creazione e sperimentazione dei vaccini, che dimostra cosa può fare la ricerca scientifica quando viene adeguatamente finanziata, soprattutto in Occidente: e lo dice uno che da oltre un anno non fa che elogiare sperticatamente i paesi orientali. Tuttavia, se questi hanno dimostrato un’efficienza e, prima ancora, un senso della realtà incomparabilmente superiori quanto alla gestione dell’epidemia, è un fatto che quando si è trattato di creare qualcosa di davvero nuovo hanno dimostrato che la loro creatività è ancora inferiore alla nostra, visto che tutti i vaccini più efficaci e più innovativi sono stati prodotti in paesi occidentali: Stati Uniti (Pfizer/Biontech, Moderna, Johnson & Johnson), Germania (Pfizer/Biontech), Inghilterra, Svezia e Italia (AstraZeneca).

Quindi, anziché continuare nella nostra follia autodistruttiva, dovremmo cominciare a pensare a valorizzare le nostre migliori risorse, cioè l’università e la ricerca, a cominciare dal Recovery Plan. Per esempio, rispetto ai problemi ecologici, che saranno il prossimo grande scoglio da affrontare, sarebbe bene piantarla con la scellerata politica di spendere cifre folli in sussidi statali a supporto di tecnologie non ancora abbastanza efficienti, come quelle delle attuali energie rinnovabili (e che lo siano è provato dal fatto stesso che abbiano bisogno di sussidi statali, dato che una tecnologia efficiente si diffonde perché è efficiente e non perché lo Stato ci paga per usarla), per dirottarli invece, per l’appunto, verso l’università e la ricerca.

Se lo faremo, in breve tempo avremo le tecnologie adeguate a risolvere non solo i nostri attuali problemi, ma anche molti altri che si presenteranno in futuro, proprio come i nuovi vaccini a RNA non risolveranno solo il problema del Covid, ma apriranno la strada per risolverne molti altri che adesso nemmeno possiamo immaginare. Se invece non lo faremo, andrà a finire come con le misure antivirus, cioè con un completo disastro, con l’ulteriore aggravante che, se si verificasse davvero, stavolta probabilmente ci sarebbe fatale, considerando quanto si sono indebolite le nostre capacità di resistenza, sia individuali che sistemiche. Speriamo che lo capisca almeno Draghi, perché gli altri (tutti gli altri) non mi sembrano averlo affatto chiaro…

Ciò detto, resta però ancora una domanda, che è poi la solita che ci tocca farci ogni volta che parliamo di questa sciagurata vicenda: come è possibile che non solo i politici, ma anche molti scienziati, illustri e meno illustri (anche se per fortuna non tutti), abbiano avanzato obiezioni al tempo stesso così poco fondate e così tanto dannose? E, ancora una volta, molto probabilmente la verità è che non c’è una risposta univoca, ma piuttosto un insieme di fattori, che poi sono sempre più o meno i soliti: mania di protagonismo, voglia di compiacere il pubblico, tendenza a uscire dal proprio ambito di competenza, rivalità personali, desiderio di enfatizzare i meriti delle proprie proposte denigrando quelle altrui, sudditanza psicologica verso il “pandemically correct”, rifiuto di riconoscere i propri errori e via dicendo.

Mi sembra tuttavia che ci sia anche un altro fattore, che in realtà è presente da tempo nella nostra società, ma in questo caso specifico tende a emergere con maggiore evidenza: si tratta della pretesa di abolire il rischio dalla vita (e non solo di contenerlo entro limiti ragionevoli), che da molto tempo ritengo essere il vero “peccato originale” della modernità (cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis 2011, anche se consiglio di far riferimento alla 2a edizione ampliata del 2019). Alcuni ulteriori elementi che confermano questa tesi con riferimento specifico alla campagna vaccinale si possono trovare nella lettera del Dottor Paolo De Bonfioli Cavalcabo appena pubblicata su questo sito, che ho trovato interessantissima.

Cercherò di tornare su ciò in modo più sistematico e dettagliato quanto prima. Infatti, riflettere su come una pretesa così palesemente irragionevole abbia potuto diventare addirittura il principio guida di un’intera civiltà ci aiuterà a capire meglio anche qual è la radice ultima della disastrosa gestione del virus in Occidente e qual è il punto da cui dobbiamo ripartire se vogliamo evitare che una cosa simile possa ripetersi di fronte a qualche altra futura emergenza, il che molto probabilmente causerebbe il definitivo collasso del mondo come lo conosciamo (ammesso e non concesso che non accada già stavolta).

(Ringrazio il mio amico e collega Alberto Vianelli, biologo dell’Università dell’Insubria, per l’utile scambio di idee a proposito di alcuni punti trattati in questo articolo)




La Neolingua virale

Nei miei precedenti articoli ho sottolineato più volte come nei paesi occidentali, Italia in testa, al di là della pessima gestione del virus ci sia stato anche un evidente tentativo di strumentalizzarlo a fini di potere, per rafforzare i partiti tradizionali, oggi quasi tutti in crisi, mettendo al tempo stesso all’angolo i movimenti antieuropeisti, in genere propensi a simpatizzare con le teorie complottiste e negazioniste.

Questo si può ottenere con vari metodi, ma il più efficace (e quindi il più pericoloso) resta sempre, come ci ha insegnato Orwell, il controllo del linguaggio. Di conseguenza, la creazione di una vera e propria Neolingua virale (nel doppio senso di ispirata al virus e di rapidissima diffusione) è un fenomeno estremamente preoccupante, che merita una attenta analisi.

Tale manipolazione è avvenuta ed avviene tuttora a vari livelli, il primo dei quali è rappresentato dall’uso della menzogna e della censura, che è stato particolarmente grave e diffuso soprattutto sotto il governo Conte, ma anche adesso non è certo finito. Solo per fare un esempio, proprio in questi giorni il Sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri ha dichiarato che la “mitica” app Immuni non è stata un «fallimento», ma “soltanto” una «delusione», dovuta (ça va sans dire) «all’attacco ingiustificato subito dal centrodestra», concludendo che «anche tracciando solo pochi contagi, Immuni resta utile» (La Stampa, 4 maggio 2021, p. 3). L’affermazione è semplicemente incredibile, dato che Immuni ha tracciato in totale poco più di 5000 contagi, cioè un numero assolutamente inutile o, più esattamente, ridicolo (più o meno quanti negli ultimi mesi di verificavano in sole 6 ore), il che le garantisce un posto di tutto riguardo nelle pur lunghissima hit parade di vergognosi fallimenti vantata (purtroppo) dal nostro paese. Tuttavia, di questo ho già parlato ampiamente nell’articolo Il virus dell’autoritarismo, pubblicato in questo stesso sito, a cui pertanto rimando.

Qui aggiungerò soltanto che sta diventando davvero preoccupante il fenomeno della censura dei “dissidenti” da parte dei social media, che in molti casi è giunta fino alla disattivazione dell’account. La cosa è già inaccettabile di per sé, ma lo diventa ancor più se consideriamo che si tratta di aziende private a scopo di lucro, che non hanno mai dimostrato di avere molto a cuore la verità e che, soprattutto, si assumono la responsabilità dei propri contenuti solo a intermittenza, cioè, in pratica, quando la pressione mediatica su un determinato tema è tale da mettere a rischio i loro introiti pubblicitari (un buon punto di riferimento per una riflessione al riguardo è l’articolo pubblicato su questo sito da Mark Bosshard qualche mese fa, quando il fenomeno non era ancora così grave.

La manipolazione del linguaggio in senso stretto, però, è qualcosa di più della semplice menzogna, perché riguarda il modo in cui la menzogna viene fatta passare, che è più sottile (e quindi più pericoloso) del semplice nascondere o negare la verità.

In realtà, la creazione di qualcosa di simile alla Neolingua di 1984 all’interno della nostra società si stava già verificando da diverso tempo, in parte per un processo spontaneo dovuto al progressivo imbarbarimento della società e in parte sotto la spinta di diverse istituzioni, tra cui in primo luogo le grandi burocrazie nazionali e, soprattutto, internazionali. Tuttavia, il virus ha dato un impulso formidabile a questo processo, non solo per le dinamiche che si sono create e di cui ora parleremo, ma anche perché l’esperienza dimostra che tale processo è molto favorito dalla comunicazione via Internet, che con la reclusione forzata a cui siamo stati sottoposti per oltre un anno è cresciuta esponenzialmente.

Un primo tipo di manipolazione è l’uso di termini tecnici di per sé del tutto “neutrali”, come “pandemia”, Covid-19”, “SARS-CoV2” e simili, come se fossero una sorta di “parola d’ordine”, che viene ripetuta (spesso senza neanche sapere cosa significa esattamente) solo per dimostrare la propria lealtà al sistema, come aveva magistralmente spiegato già nel 1978 Václav Havel, il più celebre dissidente della Cecoslovacchia, di cui poi divenne Presidente dopo la caduta del regime comunista: «Il direttore del negozio di verdura ha messo in vetrina, fra le cipolle e le carote, lo slogan: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. Perché l’ha fatto? Cosa voleva far sapere al mondo? […] Il motivo […] non è […] la speranza che qualcuno lo legga o l’idea di convincere qualcuno di qualcosa, ma quello di creare, insieme con migliaia di altri slogan, proprio quel panorama che tutti conoscono bene. Panorama che ha anch’esso il proprio significato occulto: ricorda all’uomo dove vive e cosa ci si aspetta da lui; gli comunica cosa fanno gli altri e cosa deve fare anche lui se non vuole essere escluso, cadere nell’isolamento, dividersi dalla società, violare le regole del gioco e rischiare quindi la perdita della propria tranquillità e della propria sicurezza» (Il potere dei senza potere, La Casa di Matriona – Itacalibri, Milano – Castel Bolognese, 2013, pp. 37 e 48). Non è forse una descrizione esattissima anche di ciò che sta accadendo oggi? È per questo che, come forse qualcuno avrà notato, io cerco il più possibile di evitare questi termini, preferendo altri più generici e di per sé meno precisi, come “epidemia”, “virus”, ecc.

La creazione della Neolingua in senso stretto inizia tuttavia solo con l’uso improprio o addirittura insensato di termini di uso comune o con la loro sostituzione con altri creati artificiosamente a tavolino. Per esempio, “distanza sociale” in italiano indica la distanza tra ricchi e poveri, mentre qui viene usata per indicare quella che andrebbe chiamata “distanza di sicurezza”. “Sanificare” o “igienizzare” non sono, a rigore, termini scorretti, ma sono comunque termini del burocratese che sostituiscono il più normale “disinfettare”, così come i termini DPI (“dispositivi di protezione individuale”) al posto di “mascherine” e “tute” e la famigerata DAD (“didattica a distanza”) al posto di teledidattica.

Questo potrebbe non sembrare ancora troppo grave, ma, come sempre Orwell ci ha magistralmente spiegato, per i creatori di Neolingue la sostituzione dei termini del linguaggio naturale con barbarismi creati a tavolino rappresenta di per sé stesso un progresso verso l’obiettivo del controllo totale, perché allontanare le persone dall’espressione naturale del loro pensiero significa allontanarle da sé stesse, confondendole e riducendo la loro capacità di pensare in modo autonomo.

Una riprova indiretta della correttezza della sua intuizione è rappresentata dall’esperienza della Università UCSS-Nopoki di Atalaya, nell’Amazzonia peruviana, con cui collaboro da molti anni, che è nata dall’idea che per preservare l’identità dei popoli amazzonici occorre in primo luogo preservare i loro linguaggi: la cosa sta funzionando, il che significa non solo che l’ipotesi è vera, ma che è vero anche l’inverso, cioè che distruggendo un linguaggio si distrugge anche l’identità del popolo che lo parla (tra parentesi, anche se non c’entra: prima o poi sarebbe il caso di cominciare a riflettere su quanto le differenze linguistiche pesino sulla difficoltà di creare una vera Unione Europea, in cui tutti sentano intimamente di appartenere a uno stesso popolo).

Comunque, l’ultimo e più preoccupane livello è quello in cui il cambio o l’uso improprio della terminologia portano con sé anche una distorsione o addirittura una falsificazione della realtà, il che con il Covid si è verificato con allarmante frequenza.

Comincio da un esempio che trovo particolarmente irritante, cioè l’uso della parola “ristori” al posto di “risarcimenti”, di cui distorce sottilmente il significato, comunicando subliminalmente l’idea che si tratti non di un atto dovuto che deve essere calibrato in base al danno subito, ma piuttosto di una generosa concessione che ha lo scopo, assai più limitato, di dare un po’ di respiro e la cui entità è decisa in base alla benevolenza del governo (il che, in effetti, era esattamente quel che Conte & C. avevano in mente).

Un altro esempio è l’uso di un linguaggio “militare”, che non solo è fuori luogo, ma spesso serve a giustificare comportamenti e provvedimenti in realtà assurdi. Si va dai paragoni con le guerre, tesi a suggerire che siamo di fronte a un’apocalisse (dimenticando che le malattie hanno sempre fatto molti più morti delle guerre: per esempio, senza Covid ogni anno in Italia muoiono 600.000 persone, quanto in tutta la Prima Guerra Mondiale) e che perciò “non dobbiamo dividerci e criticare” (il che nelle guerre vere ha senso, perché un esercito unito può vincere anche se non sta seguendo la strategia migliore, ma nella “guerra” al virus no), fino alla grottesca vicenda del “coprifuoco”, che in guerra significa innanzitutto spegnimento delle luci durante la notte (da cui il nome) per impedire di essere visti dagli aerei nemici, mentre qui è sinonimo di “divieto di uscire di notte”, il che non serve assolutamente a nulla, giacché le probabilità di contagio all’aria aperta è molto bassa (cfr. Ricolfi) e lo diventa ancor più di notte, quando il numero di persone in circolazione è in ogni caso molto inferiore, mentre danneggia tanto gravemente quanto insensatamente bar e ristoranti (qualcuno è mai stato in grado di spiegare in modo intelligibile perché cenare in un locale dovrebbe essere sicuro alle 21,59 e pericoloso alle 22,01?).

E con questo arriviamo all’aspetto in assoluto più pericoloso della Neolingua virale, ovvero all’uso di termini tecnici in senso distorto, in modo tale da determinare convinzioni e, di conseguenza, comportamenti errati.

Il primo di questi equivoci è senza dubbio relativo al concetto di “paese più colpito”, che viene sempre determinato in base al valore assoluto dei contagi e (meno frequentemente) dei morti, il che ha permesso di perpetuare per mesi delle vere e proprie leggende urbane, come quella che l’Italia avrebbe fatto meglio degli USA del “cattivo” Trump solo perché aveva meno morti in assoluto, ma con una popolazione 6,5 volte inferiore, per cui in rapporto ad essa ne ha sempre avuti di più. E l’esperienza non ha insegnato nulla, perché l’equivoco si sta ripetendo tale e quale in questi giorni con l’India: certo, 350.000 contagi e 3.500 morti al giorno fanno impressione, ma, considerando che la popolazione dell’India è 23 volte la nostra, in realtà i valori relativi sono addirittura inferiori ai nostri, anche se è vero che la nostra situazione è in sia pur faticoso miglioramento, mentre la loro è in rapido peggioramento, ma questo non giustifica che in tutti i giornali e telegiornali per l’India si parli di “catastrofe” e se ne ritenga responsabile il governo, mentre nulla del genere accade per l’Italia.

Segue a ruota l’equivoco relativo ai mitici “assembramenti”, che da sempre vengono indicati come la principale causa della diffusione del virus, il che ha portato il governo Conte e tutti gli altri che lo hanno stolidamente imitato a concentrarsi quasi esclusivamente sulle attività all’aperto e sui locali aperti al pubblico, in particolare quelli legati alla non meno mitica “movida” (che la maggior parte di coloro i quali oggi se ne riempiono continuamente la bocca prima non sapeva neanche cosa volesse dire).

Questa convinzione si è formata in gran parte per caso, a causa di uno di quei cortocircuiti politico-mediatici che fanno sì che certe idee buttate lì senza troppo riflettere si diffondano a tal punto da diventare dogmi indiscutibili prima ancora che si abbia il tempo di valutarle scientificamente. La cosa incredibile, però, è che in questo caso non c’era affatto bisogno di nuovi studi, giacché era chiarissimo fin dall’inizio che questa idea era completamente sbagliata, sia in base ai primi studi sui dati di Wuhan, forse l’unica cosa buona fatta dalla OMS in tutta questa disgraziata vicenda, sia, soprattutto, ragionando per analogia con altri virus simili, cosa che però nessuno ha fatto perché a causa del clima di terrore che si era creato nessuno voleva correre rischi (cfr. Dyani Lewis, Covid-19 rarely infects through surfaces. So why are we still deep cleaning?, “Nature”, 590, 26-28).

O meglio, nessuno tranne il sottoscritto: perché se c’è una cosa che davvero mi sento di rivendicare con orgoglio è proprio di aver detto fin dall’inizio che tutta questa fissazione sugli assembramenti era una solenne idiozia. Eppure, perfino adesso che finalmente si comincia ad ammetterlo non si chiede mai scusa per un errore così grave e clamoroso, che, deviando su strade sbagliate le strategie di contenimento, ha causato la morte di migliaia di persone che potevano essere salvate e la rovina di migliaia di locali che non c’era ragione di chiudere.

Perfino Antonella Viola, da sempre una delle scienziate più aprioristicamente schierate a difesa del governo, ha recentemente riconosciuto che «il rischio di contagio all’aperto, sappiamo che è bassissimo: circa 1 contagio ogni 1000 si verifica in queste condizioni, verosimilmente in presenza di assembramenti» (editoriale di La Stampa del 28 aprile 2021). Peccato però che l’illustre immunologa non spieghi perché fino (letteralmente) all’altro ieri non l’avesse mai detto, né perché diavolo abbia sempre difeso a spada tratta (e in parte difenda ancora: vedi coprifuoco) regole che, avendo come unico scopo quello di evitare i suddetti assembramenti, incidono sul contagio totale per appena lo 0,1%, cioè, in pratica, per nulla.

Altro esempio è l’uso dei termini “picco” e “ondata”. Il primo, infatti, suggerisce l’idea che ci sia qualcosa come un Gran Premio della Montagna al Giro d’Italia, che “sta lì” e che noi dobbiamo solo raggiungere e superare, dopodiché (e solo dopo) le cose inizieranno a migliorare. Anche il concetto di “ondata” suggerisce l’idea che l’epidemia sia un fenomeno naturale, in questo caso una specie di tsunami, le cui onde si formano indipendentemente da quel che facciamo e sono già in marcia verso di noi prima che le vediamo, per cui non possiamo far nulla per impedire che ci colpiscano, ma solo cercare di limitare i danni quando questo accadrà. Al contrario, le “ondate” di un’epidemia, così come i suoi “picchi”, non sono la causa delle nostre azioni, bensì il loro effetto: tant’è vero che in molti paesi non si è verificata o la prima o la seconda ondata e in alcuni addirittura nessuna delle due (cfr. Ricolfi, La notte delle ninfee).

Altrettanto fuorviante è il modo in cui in genere si parla della necessità di “rafforzare il sistema sanitario” per non farci più trovare “impreparati”, il che suggerisce irresistibilmente l’idea che si debbano assumere più medici e costruire più ospedali e più terapie intensive. Ora, in parte ciò può anche essere vero, ma in questo modo si evita di affrontare la domanda davvero importante: per che cosa, esattamente, dovremmo essere “preparati”?

Infatti, noi dovremmo innanzitutto prepararci per evitare che la prossima volta sia necessario avere più ospedali e più terapie intensive, il che si può ottenere solo adottando (finalmente) le giuste strategie di prevenzione e non rafforzando quelle sbagliate, tra cui vi è certamente l’aver puntato esclusivamente sulle cure ospedaliere, ignorando completamente o addirittura ostacolando quelle domiciliari (così come, ovviamente, le altre strategie di prevenzione di cui abbiamo parlato ripetutamente su questo sito).

È vero che si è parlato più volte di “potenziare la medicina territoriale”, ma, a parte il fatto che spesso ciò si è fatto per pure ragioni ideologiche, in polemica col sistema sanitario lombardo che risulta ancora indigesto a gran parte della nostra sinistra, ancora una volta questa terminologia suggerisce che il problema sia essenzialmente quello di assumere più medici di base. E ancora una volta bisogna rispondere che in parte ciò può anche essere vero, ma il vero problema è culturale, perché è da almeno vent’anni che i medici, salvo poche eccezioni, hanno smesso di andare a visitare i pazienti a casa, il che ovviamente spinge questi ultimi a rivolgersi sempre più spesso agli ospedali, anche quando non sarebbe necessario. Se non cambia innanzitutto la mentalità, più assunzioni serviranno solo ad avere più studi medici presenti sul territorio, ma non più pazienti assistiti adeguatamente a casa propria.

Altra affermazione estremamente fuorviante è che si deve poter “operare in sicurezza”, il che, per come viene detto, significa di fatto “a rischio zero”, che nel mondo reale semplicemente non esiste. Fermo restando che, come abbiamo più volte spiegato in questo sito e altrove, i danni più gravi sono stati causati da errori su come e quando chiudere e non su come e quando riaprire, non c’è dubbio che questa pretesa irragionevole abbia ritardato riaperture possibili, ma anche, paradossalmente, favorito riaperture a rischio, perché in ogni caso impedisce di ragionare lucidamente in termini di rapporto costi-benefici, cosa che richiede di aver chiaro che il costo non può mai essere zero.

Soprattutto, però, questo ha avuto gravi conseguenze rispetto alla medicina territoriale, di cui abbiamo appena parlato: perché se è vero che in molti casi ai medici di base non sono state fornite le protezioni adeguate, è altrettanto vero che, anche qualora le avessero, in nessun caso il rischio potrà essere azzerato. La verità è che, per quanti sforzi (giustamente) si facciano per renderla più sicura, la professione medica è intrinsecamente pericolosa e bisogna tornare a dirlo chiaramente, perché chi la sceglie dev’esserne consapevole, altrimenti sarà inevitabile che si tiri indietro proprio quando c’è più bisogno della sua opera. E lo stesso vale per i capi degli Ordini dei Medici, che è certamente giusto criticare per avere osteggiato anziché sostenuto quei pochi che visitavano i pazienti, ma un po’ vanno anche capiti, perché è difficile agire diversamente sapendo che non ti viene concesso il minimo margine di errore.

L’ultimo esempio che faccio (ma non certo l’ultimo possibile: individuare gli altri lo lascio come esercizio ai lettori) è quello del celeberrimo slogan “La salute vale più dei soldi”, a cui affianco l’affermazione, tanto cara al Ministro Speranza, per cui “bisogna smetterla di considerare la spesa per la Sanità come una spesa improduttiva”. Qui l’inganno sta nell’intendere il termine “improduttivo” come valutativo e non come meramente descrittivo. “Spesa improduttiva” significa infatti “che non produce utili” e in questo senso la spesa per la sanità è certamente improduttiva, anzi, è addirittura controproducente, poiché facendo vivere più a lungo le persone fa aumentare la spesa per le pensioni e facendone vivere molte con patologie croniche fa aumentare la stessa spesa sanitaria, in una spirale che tende a crescere indefinitamente.

Dire questo non significa però sostenere che tale spesa sia cattiva o superflua: significa solo riconoscere realisticamente che essa, diversamente da altre, non si finanzia da sola e che quindi se la si vuole aumentare lo Stato dovrà trovare altre fonti di introiti. La dura realtà, infatti, è che senza soldi non c’è neanche la salute, non solo perché le cure mediche costano (e molto), ma anche perché, come dimostra la storia, il benessere economico è in sé stesso la più efficace difesa della salute che esista. E poiché in ogni caso le risorse dello Stato non potranno mai essere infinite, ne segue che è giusto (in generale, non solo per il Covid) spendere tutto quel che è possibile per salvare più persone possibile, ma, appunto, solo ciò che è possibile senza arrivare al punto di mandare in bancarotta il paese: perché in un paese in bancarotta morirebbero molte più persone di quelle che potrà mai uccidere il virus.

P.S. Un esempio di spesa non improduttiva, cioè di investimento, è quella per l’Università, che porta dei ritorni già sul breve periodo (in termini di più bandi vinti e quindi di più fondi per la ricerca ottenuti) e ne porta ancor di più sul lungo periodo, grazie ai brevetti, alle applicazioni tecnologiche e al miglioramento del livello culturale medio del paese, il che a sua volta porta a miglioramenti un po’ dovunque. Il fatto che in genere si ritenga invece che quella per l’Università sia una spesa improduttiva e quella per la Sanità un investimento la dice lunga sul livello di confusione mentale in cui si trova la nostra società, anche senza bisogno che ci si metta Speranza a peggiorarlo.




La luce in fondo al tunnel (grazie ai vaccini e al modello inglese)

Per la prima volta da quando tutta questa sciagurata vicenda è cominciata e proprio mentre l’Italia supera la simbolica cifra di 100.000 morti, posso finalmente scrivere di una buona notizia. I vaccini, infatti, non solo stanno funzionando, ma, almeno per quanto si può capire da ciò che sta accadendo nei paesi che hanno già vaccinato una significativa percentuale della loro popolazione, sembrano addirittura funzionare meglio delle previsioni, anche se i dati sono ancora troppo parziali per cantare definitivamente vittoria.

Infatti, al 7 marzo 2021 solo 3 grandi paesi hanno già effettuato più di 25 vaccinazioni ogni 100 abitanti: Israele (101), Gran Bretagna (34,4) e Stati Uniti (27). Gli altri che hanno superato tale soglia, circa una dozzina, sono quasi tutti Stati-isola, che per le loro piccole dimensioni non possono essere considerati statisticamente significativi, più gli Emirati Arabi, che invece lo sarebbero, avendo quasi 10 milioni di abitanti, ma non stanno fornendo dati sufficientemente precisi.

I suddetti numeri, tuttavia, non coincidono con la percentuale di popolazione vaccinata, perché comprendono sia le prime che le seconde dosi. Ora, mentre nella maggior parte dei paesi si è seguito il protocollo normale, che richiede che la seconda dose venga iniettata a poca distanza dalla prima, in Inghilterra si è deciso di rinunciare, per il momento, alla seconda dose, “scommettendo” sul fatto che vaccinare tutti in metà tempo, sia pure con una protezione “ridotta” (peraltro più dal punto di vista della durata che della qualità), risulti più efficace che garantire a tutti la protezione totale in un tempo doppio.

Ciò significa che le 34,4 dosi ogni 100 abitanti dell’Inghilterra, essendo quasi tutte prime dosi, corrispondono quasi alla stessa percentuale di popolazione vaccinata (per la precisione, al 32,7%), mentre le 101 di Israele corrispondono appena al 57,3% di persone vaccinate almeno una volta, anche se la percentuale di quelle che hanno ricevuto il richiamo e possono quindi contare su una protezione completa è del 43,8% contro l’appena 1,6% del Regno Unito. Gli USA, infine, si collocano in una posizione intermedia, avendo un rapporto tra prime e seconde dosi somministrate di circa 2 a 1.

È interessante paragonare queste tre differenti strategie e i risultati che stanno dando e che ho riassunto nella tabella seguente, aggiungendovi Gibilterra, che ha seguito anch’essa il modello inglese, essendo una sua colonia, benché ne sia fisicamente separata: infatti, se è vero che è un paese troppo piccolo (appena 33.000 abitanti) perché normalmente abbia senso inserirlo nelle statistiche, in questo caso particolare ha dati così impressionanti che non possono essere ignorati.

Poiché le campagne vaccinali sono iniziate in momenti diversi, come data di riferimento per valutare il calo di morti e contagi ho scelto il 10 gennaio 2021, giorno in cui è iniziata a Gibilterra, che è stata l’ultima. D’altra parte, mentre Gibilterra ha iniziato subito fortissimo, gli altri paesi avevano sì iniziato prima, ma a un ritmo estremamente basso, che, per una circostanza fortunata, si è alzato significativamente proprio intorno al 10 gennaio, che, non a caso, coincide più o meno ovunque con il picco dei contagi, sicché possiamo considerarla come la “vera” data d’inizio della campagna vaccinale in tutti e quattro i paesi considerati. Ciò è ancora più legittimo se consideriamo che un calcolo del genere è necessariamente approssimato, perché non avrebbe senso paragonare il dato esatto del 10 gennaio con il dato esatto del 7 marzo, visto e considerato che il numero dei casi giornalieri subisce notoriamente forti oscillazioni dovute a vari fattori essenzialmente casuali: quindi il paragone verrà fatto tra la media dei nuovi casi giornalieri “intorno” al 10 gennaio e la media dei nuovi casi giornalieri “intorno” al 7 marzo.

È chiaro che si tratta di dati piuttosto disomogenei, che possono essere confrontati tra loro solo in modo molto approssimativo, non solo per quanto detto sopra, ma anche a causa dei diversi tipi di vaccini usati, delle altre misure di prevenzione adottate, dei diversi metodi per il calcolo dei contagi e delle differenti situazioni sociali, economiche e climatiche. Ciononostante, mi pare che almeno due conclusioni si possano trarre:

1) In generale, i vaccini funzionano molto bene, dato che, qualunque strada si sia seguita, si è avuto un sostanziale e rapidissimo calo sia del numero dei nuovi contagi che dei nuovi morti. Ovviamente, il secondo è inferiore, come è logico che sia, dato che è sempre “in ritardo” di 2 o 3 settimane rispetto quello dei contagi, ma in compenso è molto più oggettivo e conferma in pieno il primo.

2) Il successo del modello inglese sembra innegabile e sembra dimostrare che anche la prima dose di vaccino fornisce una protezione efficace, nonostante le perplessità di molti esperti, che all’inizio potevano essere giustificate, ma, almeno per ora, sembrano essere state smentite dai fatti, dato che il fattore determinante è chiaramente la percentuale di persone vaccinate almeno una volta, mentre il richiamo sembra incidere pochissimo. Certo, sul lungo periodo le cose potrebbero cambiare, ma la speranza (che a questo punto non appare campata in aria) è che prima che ciò possa accadere il virus sia già stato debellato del tutto, come sta accadendo a Gibilterra, che ha praticamente azzerato il contagio usando quasi esclusivamente la prima dose (non inganni il 46,2% di richiami, che sono stati fatti quasi tutti negli ultimi giorni, quando i contagi erano già  scesi del 90%). La cosa è ancora più notevole se si considera che Gibilterra è il paese che ha in assoluto il peggior rapporto tra morti e popolazione (2761 morti per milione di abitanti): e per quanto sia vero che nelle normali statistiche tale dato non può essere paragonato a quello dei grandi paesi, perché su numeri così piccoli anche variazioni minime e sostanzialmente casuali pesano moltissimo, in questo caso particolare il cambiamento è stato così rapido e così radicale che non si può evitare di esaminarlo attentamente.

Devo dire che la cosa non mi stupisce: personalmente ho sempre pensato che sul campo i vaccini avrebbero funzionato meglio, e non peggio, di quanto risultava dai test di laboratorio. Il motivo è semplice: esattamente all’opposto di quanto sostenuto dai complottisti, infatti, avendo dovuto lavorare in condizioni assolutamente senza precedenti e avendo addosso gli occhi di tutto il mondo, era assai più probabile che i produttori dei vaccini preferissero rischiare di sbagliarsi per eccesso di pessimismo che per eccesso di ottimismo, perché in quest’ultimo caso l’avrebbero pagata carissima, non solo in termini economici, ma anche penali.

Inoltre, gran parte delle perplessità sulla reale efficacia dei vaccini, comprese quelle espresse da Mario Menichella su questo stesso sito, si basava sulle critiche di Peter Doshi, che certamente è un grande esperto in materia e aveva sostenuto che la loro reale efficacia potrebbe addirittura andare solo dal 19% al 29%. Tuttavia, dopo aver letto la replica (o, più esattamente, la stroncatura), tanto dura quanto precisa, di Marco Cavaleri dell’EMA, che ho trovato molto convincente, mi sono fatto l’idea (che per ora sembra confermata dai fatti) che, come molti altri scienziati, tra cui persino Fauci, anche Doshi avesse ceduto alla tentazione della “sparata” gratuita per trovare visibilità mediatica a buon mercato.

Se questa è dunque la buona notizia, quella cattiva, anzi, pessima, è invece la disperante lentezza con cui è finora andata avanti la campagna vaccinale in Italia, che attualmente è appena al 44° posto al mondo con 9,3 dosi ogni 100 abitanti, in linea con la media UE, il che però non è una grande consolazione. Anche perché non significa che stiamo facendo come tutti gli altri, bensì che circa metà dei paesi UE sta facendo peggio, ma l’altra metà (tra cui molti scientificamente assai più arretrati di noi) sta facendo meglio.

Tuttavia, da quando, grazie al cielo (e a Renzi), Conte se n’è andato, c’è stata un’innegabile quanto palesemente non casuale accelerazione, giacché, come ha documentato Ricolfi negli aggiornamenti settimanali del suo “Indice DQP”, dall’insediamento del nuovo governo ad oggi, cioè in sole 3 settimane, il traguardo dell’immunità di gregge si è avvicinato di ben 2 anni, passando da maggio 2024 a maggio 2022.

È chiaro che non basta ancora, tuttavia a questo punto mi sento di dire che il ritorno a una sostanziale normalità già a maggio di quest’anno è ormai alla nostra portata. Considerando infatti che l’anno scorso l’arrivo del caldo abbatté da solo i contagi di circa il 90% nel giro di appena 3 settimane, tra fine aprile e metà maggio, se per allora saremo riusciti a somministrare almeno un 35% di prime dosi, il che, in base ai dati di cui sopra, dovrebbe portare almeno a un dimezzamento dei contagi, la somma di questi due fattori ci porterebbe già vicini al completo azzeramento. Il miglioramento della situazione generale, a sua volta, renderebbe poi più facile completare la campagna vaccinale, giungendo alla totale eliminazione del virus nei mesi seguenti, prima che torni il freddo a complicare le cose.

Naturalmente, per questo occorrerà accelerare ulteriormente il ritmo delle vaccinazioni, rendendo più efficienti le procedure (ancor oggi estremamente caotiche), ma soprattutto risolvendo il problema principale, cioè la scarsità dei rifornimenti, anche a costo, se non ci fosse altra via, di adottare decisamente il “modello inglese”, che peraltro in parte si è già imposto nei fatti, visto che in Italia meno della metà di chi ha ricevuto la prima dose ha già ricevuto anche la seconda. L’altra possibilità è concedere un’autorizzazione d’emergenza per l’uso di vaccini non ancora approvati dall’EMA, ma che hanno ormai dimostrato “sul campo” di funzionare, come per esempio lo Sputnik russo o quello americano della Johnson & Johnson, cosa in sé perfettamente legale, come ha ricordato la stessa EMA: il problema è esclusivamente di volontà politica.

Da questo punto di vista, non è certo incoraggiante sentire un illustre infettivologo come Massimo Galli dichiararsi sprezzantemente contrario all’uso del vaccino russo con la motivazione che «non siamo San Marino e, con rispetto parlando, neppure l’Ungheria» (intervista a La Stampa, 6 marzo 2021). Forse qualcuno dovrebbe far presente all’illustre professore che, con rispetto parlando, evidentemente ignora, o finge di ignorare, che l’Ungheria ha sempre fatto meglio di noi nella gestione del virus (anche e soprattutto nella “mitica” prima fase, in cui si continua a dire che abbiamo fatto benissimo, eppure l’Ungheria ebbe appena 36 morti per milione di abitanti contro i nostri 480) e lo sta facendo anche adesso con le vaccinazioni, dato che è al 22° posto nel mondo con 13,34 dosi ogni 100 abitanti.

Per fortuna, pare che l’orientamento di Draghi sia più pragmatico. Staremo a vedere. Ma, per la prima volta, la luce che comincia ad apparire in fondo al tunnel non è più una semplice illusione ottica. Proprio per questo, non fare di tutto per renderla pienamente reale sarebbe imperdonabile.




Quando il pandemically correct uccide

Contrordine, compagni: il virus non si prende più per contatto con le superfici infette!

La strabiliante quanto inquietante notizia non viene da un qualche oscuro sito negazionista né da un tweet di Trump sfuggito alla censura, ma nientemeno che da Nature, la più importante rivista scientifica del mondo.

In un articolo uscito il 4 febbraio scorso (Covid-19 rarely infects through surfaces. So why are we still deep cleaning?, in “Nature”, vol. 590, pp. 26-28), Dyani Lewis, spiega come diverse ricerche, a cominciare da quella del microbiologo statunitense Emanuel Goldman (Exaggerated risk of transmission of Covid-19 by fomites, in “The Lancet Infectious Diseases”, vol. 20, n. 8, pp. 892-893), hanno dimostrato che gli esperimenti da cui sembrava risultare che toccare superfici contaminate dal virus (in gergo medico dette “fomiti”) poteva essere causa di contagio erano «esperimenti che iniziavano con quantità di virus immense, niente che potreste incontrare nel mondo reale», oppure «avevano usato finta saliva e condizioni controllate come l’umidità e la temperatura, tutte cose che allargavano ulteriormente la distanza tra condizioni sperimentali e reali».

Nel “mondo reale”, invece, risulta a oggi soltanto un caso di contaminazione certa attraverso superfici e un altro sospetto, ma con più probabilità di essere falso che autentico.

Non sta qui, tuttavia, il vero motivo di preoccupazione: dopotutto, la scienza per sua natura procede per prove ed errori e solo chi non la conosce può indignarsi per questo.

La cosa davvero inquietante è che in precedenza erano già stati fatti molti esperimenti su virus analoghi, che avevano sempre dato lo stesso univoco risultato: i virus aerei si trasmettono, appunto, per via aerea e non per contatto con le superfici. Ma, come nota Lewis, «tali studi sono considerati “unethical” per SARS-CoV-2, perché quest’ultimo può uccidere», il che però è palesemente un pretesto, perché la maggiore o minore letalità di un virus non ha nulla a che vedere con le sue modalità di trasmissione.

La vera ragione di tale atteggiamento è infatti da rintracciarsi nella dittatura del “pandemically correct”, di cui ho parlato nel mio ultimo articolo, uno dei cui dogmi è che “il virus del Covid è un virus assolutamente nuovo di cui non sappiamo praticamente nulla”, affermazione che se non fosse tragica (per le conseguenze che determina) sarebbe ridicola, dato che il virus del Covid è molto simile agli altri Coronavirus già noti e, in particolare, a quello, studiatissimo, della SARS (non per nulla, il suo nome scientifico completo è SARS-CoV-2).

Ma niente: si era deciso a tavolino che questa “doveva” essere una vicenda epocale (“niente sarà più come prima”) che richiedeva di fare “cose senza precedenti”, per cui bisognava ricominciare tutto da capo. E così, mentre si aspettava che i nuovi esperimenti riscoprissero l’acqua calda, per mesi si è continuato a dare indicazioni sbagliate, inducendo e spesso anche obbligando la gente ad adottare misure preventive tanto costose (solo negli USA, nel 2020 la spesa aggiuntiva per l’acquisto di prodotti disinfettanti è stata di oltre un miliardo di dollari) quanto sostanzialmente inutili.

La cosa più grave, tuttavia, non sono neanche i soldi buttati dalla finestra, ma il fatto che l’irragionevole insistenza su pericoli inesistenti ha portato a sottovalutare il vero fattore di rischio, che è la trasmissione per via aerea in ambienti chiusi, contro cui le mascherine certo aiutano, ma non bastano, come già si sapeva dall’esperienza fatta con altri virus aerei, la cui utilizzazione nel caso del Covid, però, è stata evidentemente considerata anch’essa “unethical”. È difficile quantificare esattamente quante vite che si sarebbero potute salvare siano state in tal modo sacrificate sull’altare del pandemically correct, ma di certo sono moltissime, tanto più se consideriamo che tale fenomeno non si è verificato solo negli USA, ma in tutto l’Occidente.

Molto inquietante, infine, è anche il fatto che il CDC (US Centers for Disease Control and Prevention) ha via via ridimensionato l’affermazione iniziale fatta a marzo che le superfici contaminate fossero la principale via di diffusione del virus, dicendo a maggio che «non erano considerate la via di diffusione principale» e ora che «non sono considerate una via di diffusione comune», eppure non ne ha mai tratto le logiche conseguenze, non modificando mai la sua indicazione iniziale sulla necessità di disinfettarle,

Eppure, come scrive ancora Lewis, al momento della pubblicazione dell’articolo, cioè dopo quasi un anno dall’inizio dell’epidemia, ancora «il CDC non ha risposto alle domande di Nature circa le contraddizioni nelle sue dichiarazioni sui rischi posti dalle fomiti».

A quanto pare, la reticenza nel render conto del proprio operato da parte delle autorità sanitarie non è un malcostume soltanto italiano. E ciononostante continuano a ripeterci che l’unico disinformatore è Trump…