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L’odio al di là del linguaggio. È davvero Trump il pericolo maggiore per la democrazia americana?

5 Novembre 2024 - di Paolo Musso

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Quando dopo il disastroso dibattito televisivo del 26 giugno i Democratici si posero (finalmente) il problema di sostituire Joe Biden, molti analisti dissero giustamente che il rischio non era solo che perdesse, ma anche che vincesse. La cosa non era impossibile, nonostante le sue condizioni, perché la polarizzazione era ormai tale che moltissimi suoi sostenitori avrebbero votato perfino per la sua mummia (così come moltissimi altri avrebbero fatto con Trump), ma il problema era che in tal caso non sarebbe stato in grado di guidare il paese più potente del mondo per altri quattro anni (in realtà non era in grado di farlo neanche nei quattro anni precedenti, ma meglio tardi che mai…).

Tuttavia, a dispetto dell’entusiasmo con cui la sua nomination è stata accolta da tutto l’establishment occidentale, lo stesso problema si pone ora con Kamala Harris. Anzitutto, infatti, anche lei rischia di perdere: i sondaggi danno i due candidati alla pari, ma sappiamo che gli elettori di Trump sono molto più restii a dichiarare la loro preferenza, proprio come succedeva in Italia con Berlusconi, dove i sondaggi lo hanno sempre sottovalutato per i quasi trent’anni della sua carriera politica, rifiutando per ostinazione ideologica di correggersi nonostante l’evidenza.

Negli USA, dove il successo conta ancor oggi più di ogni altra cosa, quindi anche più dell’ideologia, i sondaggisti hanno invece tentato di tenere conto di questa tendenza, ma mi sorprenderebbe molto (nel momento in cui scrivo le votazioni non sono ancora cominciate) se ci fossero riusciti del tutto, anche perché è probabile che la reticenza dei trumpiani a pronunciarsi sia ulteriormente cresciuta, a causa del clima ancor più ostile nei loro confronti. Certo non sbaglieranno più del 4%, come è successo nel 2020, ma è probabile che Trump prenda comunque tra l’1 e il 2% in più di quanto gli viene attribuito, il che basterebbe a garantirgli la vittoria.

Ma c’è di più. Anche con Kamala, infatti, il problema è anche che rischia di vincere, perché neppure lei è in grado di guidare gli Stati Uniti, anche se per ragioni diverse da Biden, perché certo non è rincoglionita come lui. Ma dal punto di vista della salvaguardia della democrazia è almeno altrettanto pericolosa quanto Trump, se non addirittura di più. Come ha giustamente detto Cacciari qualche giorno fa a LA7, la differenza tra i due è soltanto “estetica”, nel senso che Trump è sguaiato e volgare, mentre la Harris rispetta maggiormente il galateo, ma per il resto sono simili.

Cacciari lo diceva soprattutto rispetto alle loro politiche, da cui non si aspetta grandi differenze (né grandi cose), ma ciò vale anche per la loro intolleranza, nonché per quella dei loro sostenitori. Il vero problema, infatti, non è il linguaggio d’odio, come oggi è di moda dire, ma l’odio in sé stesso, che è nato prima del linguaggio d’odio e che ne è la vera causa. E tale odio non solo esiste anche a sinistra, ma è nato prima a sinistra, negli Stati Uniti come in tutto l’Occidente.

Se c’è una cosa su cui la sinistra ha ragione, è quando dice che la destra è reazionaria: infatti, la crescita della destra in tutto l’Occidente (che continua, lenta ma costante, da oltre 25 anni) è principalmente una reazione alla crescita, altrettanto costante, di quella che Ricolfi ha molto esattamente definito «una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali [..], un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime» (https://www.fondazionehume.it/politica/a-forza-di-includere-tutti-ci-siamo-esclusi-noi-intervista-di-maurizio-caverzan-a-luca-ricolfi/).

Non insisterò su questo, visto che, appunto, ne ha già parlato Ricolfi, più volte e in modo (come sempre) tanto preciso quanto documentato. Quel che vorrei fare è solo citare alcuni fatti, ignorati o distorti da tutto il nostro sistema mediatico, che dimostrano che presentare Kamala Harris come la paladina della civiltà contro la barbarie è non solo falso, ma addirittura grottesco.

In realtà la storia era già iniziata con Biden, che, un minuto dopo aver rivendicato la vittoria, affermando di voler essere il Presidente di tutti gli americani e di voler ricucire le lacerazioni che si erano prodotte durante la campagna elettorale, non ha trovato di meglio che chiedere l’impeachment per Trump, che tra l’altro era impossibile da ottenere e quindi l’unico effetto che poteva avere (e che di fatto ha avuto) era inasprire le tensioni. A ciò si è poi aggiunta una forsennata campagna giustizialista anti-Trump, condotta da magistrati (guarda caso sempre di provata fede democratica) che ha ricordato molto quella già vista in Italia contro Berlusconi.

L’apice di tale campagna è stata la denuncia contro Trump per complicità nell’assalto al Campidoglio, classificato come un tentativo di colpo di Stato. E, quando la Corte Suprema ha annullato il processo perché le accuse erano da ritenersi esagerate, è esplosa l’indignazione dei liberal di tutto il mondo, alla cui testa si è messa proprio Kamala Harris. Eppure, la Corte Suprema aveva semplicemente detto le cose come stavano. L’assalto a Capitol Hill, infatti, è stato un atto (grave) di teppismo, che va certamente perseguito con la massima severità, ma parlare di colpo di Stato è semplicemente ridicolo: i colpi di Stato si fanno con l’appoggio dell’esercito e mettendo in strada i carri armati, non qualche migliaio di esaltati guidati da Jake lo Sciamano.

Ma la Harris, con l’appoggio di tutti gli intellettuali liberal dell’Occidente, ha attaccato la Corte Suprema anche in molte altre occasioni, accusandola di essere favorevole a Trump, che ne ha nominato gli ultimi membri. Ora, questo è vero, ma non è una novità: la Corte Suprema è sempre stata politicamente orientata, perché i suoi membri sono sempre stati nominati dal Presidente di turno (che ovviamente gli sceglie tra quelli a lui politicamente vicini), perché così stabilisce la Costituzione. La vera novità è che per la prima volta nella storia ciò è stato preso a pretesto per delegittimarla, che è un comportamento oggettivamente eversivo e assai più grave degli attacchi di Trump a singoli magistrati, essendo diretto contro il più alto organo giudiziario del paese.

Più in generale, la Harris già da Procuratrice in California aveva preso posizione estremistiche, molto vicine a quelle di Black Lives Matter (che non è un movimento per i diritti civili, ma un movimento eversivo che ha come scopo dichiarato la cancellazione della civiltà occidentale), In particolare, ha di fatto legalizzato il furto, depenalizzandolo fino a 1000 dollari, il che ha colpito (come sempre succede ai progressisti da qualche decennio in qua) i commercianti più poveri, che, non potendo assumere dei vigilantes privati come hanno fatto quelli più ricchi e la grande distribuzione, hanno dovuto scegliere tra cambiare lavoro e cambiare Stato.

Da quando si è candidata, la Harris sta facendo di tutto per far dimenticare quel suo vergognoso passato, il che dal suo punto divista è comprensibile. Meno comprensibile è invece che tutti i nostri intellettuali, compresi quelli più moderati, le reggano il gioco.

Faccio solo un esempio, che mi ha particolarmente colpito, perché, appunto, ne sono state protagonisti due intellettuali moderati e solitamente (ma non questa volta) assai ragionevoli. Domenica scorsa, a Mezz’ora in più, Monica Maggioni ha commentato insieme a Vittorio Emanuele Parsi una cartina degli Stati Uniti su cui erano indicati tutti i luoghi dove erano in atto campagne di suprematisti bianchi sostenitori di Trump, insieme a una serie di interviste piuttosto deliranti ad alcuni di essi, che in alcuni casi inneggiavano perfino a Hitler e facevano il saluto nazista.

Ora, è certamente giusto denunciare questi comportamenti, che sono inaccettabili e preoccupanti. Ma perché la Maggioni non si è sentita in dovere di mostrare (e perché Parsi non si è sentito in dovere di chiederglielo) anche una cartina in cui fossero indicati tutti i luoghi degli Stati Uniti dove sono state introdotte le liste dei libri proibiti nelle università o dove ci sono state manifestazioni pro-Hamas o dove si sono verificati episodi di quello che Federico Rampini (che certo uomo di destra non è) ha recentemente definito «l’unico vero razzismo oggi presente negli USA, cioè quello verso i maschi bianchi non laureati»? E perché non sono state fatte analoghe interviste ai rappresentanti più fanatici della ideologia woke, che molti nostri intellettuali negano addirittura che esista?

Temo che, se la Maggioni l’avesse fatto, il risultato sarebbe stato almeno altrettanto inquietante. Con in più una differenza, che non è da poco: mentre è improbabile che i nazisti dell’Illinois (o di altri Stati non citati dai Blues Brothers) possano determinare in modo significativo la politica di Trump, è invece assolutamente certo che quei gruppi radicali da cui la candidata Kamala Harris sta cercando di prendere le distanze determinerebbero in modo sostanziale molte delle scelte politiche della Presidente Kamala Harris.

Così come è certo che, se dovesse vincere lei, ripartirebbe immediatamente la persecuzione giudiziaria contro Trump e i suoi seguaci, col risultato di far montare ancor più l’odio nel paese, al di là del linguaggio. Su cui peraltro anche Kamala non scherza, visto che ha ripetutamente chiamato Trump «fascista» e «criminale», mentre appena eletta l’aveva definito «predatore sessuale», che significa stupratore seriale, mentre lui è stato condannato solo per aver pagato una pornostar perché tenesse nascosta una relazione consensuale (ma questi sono insulti “politically correct” e quindi leciti…).

Al contrario, nonostante le sue roboanti dichiarazioni, Trump, se eletto, ben difficilmente perseguiterebbe i suoi avversari politici, se non altro perché faticherebbe a trovare dei giudici disponibili a farlo, dato che il giustizialismo è una (in)cultura tipica della sinistra.

In definitiva, quindi, se guardiamo ai fatti, al di là del linguaggio, mi sembra che di odio nella Harris che ne sia almeno quanto in Trump. Ma, soprattutto, in caso di sua vittoria sarebbero molto maggiori i rischi che tale odio venga tradotto in comportamenti lesivi della democrazia. Se ho qualche remora ad augurarmi esplicitamente che perda è solo per due ragioni.

La prima è l’incertezza su cosa farebbe Trump in Ucraina, dove l’Occidente si sta giocando la pelle senza esserne minimamente consapevole. Anche se non bisogna esagerare. Se infatti è certo che Trump cercherebbe di trattare con Putin, non credo invece affatto che sia suo amico, come molti sostengono, visto che è già stato Presidente per 4 anni e non mi risulta che gli abbia mai fatto particolari favori. Quello che lui pensa davvero è che Putin sia un “duro” con cui solo uno ancora più duro (come lui ritiene di essere) possa trattare con successo. Quindi ci proverà, ma quando si accorgerà che Putin non ha nessuna intenzione di ascoltarlo andrà su tutte le furie e potrebbe decidere di dare all’Ucraina un sostegno perfino maggiore di quello (peraltro tentennante e insufficiente) che le ha dato Biden e che verosimilmente le darebbe Kamala.

Il vero problema è quanto ci metterà Trump a rendersi conto che Putin lo sta prendendo in giro, perché nel frattempo potrebbero prodursi danni non più rimediabili. E qui veniamo alla mia seconda e più grave preoccupazione. Perché negli ultimi tempi anche Trump sembra aver cominciato a dare qualche segno di rincoglionimento, certo non al livello di Biden, ma tuttavia tale da non lasciare tranquilli, soprattutto considerando che ha già 78 anni e che, se vincesse, dovrebbe governare fino a 82.

Se non fosse per questo, pur turandomi democristianamente il naso, farei sicuramente il tifo per lui. Così stando le cose, posso solo sperare che Dio ce la mandi buona. E, soprattutto, che alle prossime elezioni ci mandi dei candidati più decenti.

Dai cercapersone di Hezbollah un avvertimento per il nostro futuro

2 Ottobre 2024 - di Paolo Musso

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L’attacco di Israele ai cercapersone e ai walkie-talkie di Hezbollah ha suscitato commenti di ogni genere, ma tutti esclusivamente in relazione alla guerra. E questo è comprensibile (a proposito, dove sono finiti quelli che “Israele non deve reagire per il suo stesso bene, perché non è più quello di una volta e non è in grado di combattere contemporaneamente Hamas e Hezbollah”?).

Ciò che è meno comprensibile è che nessuno ne abbia tratto spunto per riflettere sui rischi della internettizzazione globale, che tutti (o almeno tutti quelli che hanno voce sui mass media) considerano auspicabile o quantomeno inevitabile, l’unico problema essendo quello di “gestirla bene”.

Probabilmente ciò è dovuto, almeno in parte, al fatto che gli strumenti di comunicazione usati da Hezbollah non erano connessi ad Internet, proprio per evitare che succedesse qualcosa del genere. Eppure, è successo, anche se non è ancora chiaro come. Ma, quale che sia stato il metodo utilizzato (forse una frequenza radio o un sms: attacco-hacker-a-hezbollah-cosa-sappiamo-dei-cercapersone-fatti-esplodere-da-remoto), si è trattato comunque di un segnale a distanza di qualche tipo che in pochi secondi ha fatto esplodere le batterie, forse (ma non è certo) con l’aiuto di una piccola carica di esplosivo preventivamente introdotta.

Ora, basta riflettere un attimo (sport che però non è più molto di moda…) per rendersi conto che, se questo è successo perfino con strumenti non connessi a Internet, a maggior ragione potrà succedere con quelli connessi. E ciò diventerà sempre più probabile quanti più oggetti metteremo in rete.

Pensate cosa potrebbe accadere se, invece dei piccoli cercapersone, a esplodere o essere lanciate fuori strada o contro le case fossero le automobili (peggio ancora poi se avessero batterie all’idrogeno, che esplode con violenza 20 volte superiore alla benzina) o gli aerei – voglio dire tutte le automobili o tutti gli aerei di una città o addirittura di un’intera nazione: potremmo avere un 11 settembre moltiplicato per mille.

Per gli esperti di informatica l’unica soluzione è migliorare i sistemi di cybersecurity, come ci ripetono come un disco rotto ogni volta che qualcosa va storto, in parte per deformazione professionale e in parte (probabilmente anche maggiore) per interesse personale, dato che sono loro stessi a venderci i sistemi di cui sopra. Ma questa è una risposta del tutto inadeguata, per diversi
motivi.

Anzitutto, la cybersecurity costa cara, anche perché va continuamente aggiornata. E i nostri paesi, che sono già sull’orlo della bancarotta a causa dell’economia asfittica e dell’immenso debito pubblico (che non è un problema soltanto italiano, ma di tutti i paesi ricchi, nessuno escluso: ne parleremo presto), non possono continuare a caricarsi di spese, soprattutto di spese che nel tempo sono destinate a crescere sempre più. Inoltre, va considerato non solo il costo economico di Internet, ma anche il suo costo energetico, che, come tutti gli esperti sanno, anche se nessuno lo dice, nel giro di pochi anni diventerà la prima causa di inquinamento al mondo. Secondo, il pericolo non viene solo dall’esterno, ma anche dall’interno, cioè da possibili e sul lungo periodo inevitabili errori nella costruzione e/o nell’aggiornamento dei sistemi, contro cui la cybersecurity non serve a niente. Un esempio l’abbiamo già avuto il 19 luglio scorso, con il blocco di moltissimi sistemi informatici, dovuto a un banale errore in un file di aggiornamento, che è bastato a mandare in tilt il trasporto aereo e una quantità di altri servizi in tutto il mondo per diversi giorni.

Terzo, la sicurezza assoluta non esiste. Di fatto, tutte le più importanti istituzioni del mondo, comprese quelle governative e militari ai più alti livelli, sono già state hackerate almeno una volta e spesso anche più d’una. L’unica eccezione è il CERN di Ginevra, ma solo perché il suo è un sistema informatico chiuso, che non comunica né con Internet né con alcun altro sistema esterno (naturalmente parlo del sistema che gestisce l’acceleratore, non dei sistemi secondari o dei computer personali dei ricercatori che ci lavorano, che però non comunicano col sistema principale).

Quarto e più importante di tutti, una volta che tutto sia online anche un solo collasso di qualche sistema importante, incidente o hackeraggio che sia, può causare una catastrofe peggiore di un attacco nucleare.

Cosa dovremmo fare, allora?

Certamente non possiamo semplicemente spegnere Internet. Ma dovremmo almeno smetterla di considerare che mettere tutto online sia buono a prescindere e, prendendo esempio dal CERN, farlo solo quando è davvero necessario, cioè quando i rischi sono palesemente inferiori ai benefici. E i benefici in questione devono essere quelli della collettività e non quelli dei giganti dell’informatica (l’ideale sarebbe che le due cose coincidessero, ma purtroppo più passa il tempo, più sembrano entrare in conflitto).

Ne riparleremo più ampiamente appena possibile. Ma intanto cominciate a rifletterci.

La frattura tra ragione e realtà 8 / Il fallimento degli esperti di guerra – Parte seconda: Palestina

29 Luglio 2024 - di Paolo Musso

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Dalla pessima gestione del Covid i governanti occidentali e gli esperti che dovrebbero consigliarli sembrano non avere imparato nulla, tant’è vero che stanno ripetendo gli stessi errori anche nella gestione di altre emergenze cruciali, come le guerre in Ucraina e Palestina, dove, continuando così, rischiamo di far vincere i nostri nemici, con conseguenze disastrose. Alla base di tutto c’è sempre la drammatica frattura tra ragione e realtà che caratterizza il nostro strano tempo e da cui non sembrano essere immuni nemmeno gli esperti di geopolitica e gli stessi vertici militari. Nel precedente articolo ho parlato dell’Ucraina, mentre in questo mi occuperò in Palestina.

Gaza: né terrorismo né genocidio, ma guerra
Le stesse dinamiche perverse che rischiano di far precipitare la situazione in Ucraina si stanno verificando anche nella guerra in Palestina, ma in forme ancor più estreme, perché sostenendo l’Ucraina almeno stiamo dalla parte del più debole, mentre là il più forte è Israele. E, a causa del riflesso condizionato, di origine comunista, ma ormai entrato così in profondità nella nostra
mentalità da condizionare anche gran parte dei non comunisti e perfino degli anticomunisti (vedi la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti), da molto tempo ormai
noi tendiamo istintivamente a identificare i “buoni” con i più deboli, come i palestinesi, anche se sono guidati da un regime criminale come Hamas, e i “cattivi” con i più forti, come Israele, anche se si tratta dell’unico Stato democratico del Medio Oriente.

La prima distorsione dei fatti è avvenuta addirittura prima di qualsiasi reazione israeliana, quando tutti erano ancora indignati e sconvolti per l’attacco di Hamas. Infatti, date le dimensioni e le modalità di quest’ultimo, chiamarlo “attacco terroristico” è stato assolutamente improprio. Non di semplice terrorismo si è trattato, ma di un vero e proprio atto di guerra. E agli atti di guerra si
risponde con atti di guerra.

Non aver chiarito questo fin dall’inizio ha creato un profondo equivoco e bisogna riconoscere che il primo ad alimentarlo è stato Netanyahu, che ha sempre e solo parlato di terrorismo, probabilmente perché convinto che in tal modo avrebbe avuto maggiore appoggio a livello internazionale e inoltre per non rischiare di “legittimare” indirettamente Hamas, trattandolo come un governo, come di fatto è. Ma, se è così, si è trattato di un calcolo completamente sbagliato, perché a livello psicologico il concetto di azione terroristica evoca l’idea di un gruppo clandestino composto da un numero limitato di persone che si nasconde tra la popolazione civile, la quale non può essere ritenuta responsabile delle sue azioni criminali, per quanto orribili siano state (il cui ricordo, peraltro, è già sbiadito nella stanca e corta memoria dei popoli occidentali e non fa lo stesso effetto dei palestinesi morti che vediamo in diretta).

Tuttavia, la realtà dei fatti è un’altra. Da ben 18 anni Hamas non è più un’organizzazione terroristica che si nasconde in un paese governato da altri, ma è esso stesso il governo (eletto in modo tutto sommato regolare) di quello Stato di fatto che è la Striscia di Gaza, a cui manca solo il riconoscimento internazionale per esserlo anche in linea di diritto e di cui i suoi miliziani rappresentano l’esercito.

Quindi, ciò che è accaduto il 7 ottobre è stato come se la Svizzera o la Francia avessero mandato un contingente delle loro forze speciali, affiancato spontaneamente ed entusiasticamente da molti semplici cittadini, a massacrare 1400 persone e a rapirne altre 300 a Como o a Ventimiglia. È evidente che di fronte a una cosa del genere il governo italiano (qualsiasi governo, non importa da
chi guidato) potrebbe fare una sola cosa: dichiarare guerra al paese responsabile. E questo è esattamente ciò che ha fatto e sta tuttora facendo Israele a Gaza: la guerra.

Ma, a causa di questa originaria distorsione dei fatti, ciò viene percepito come una reazione eccessiva e illegittima ad un “semplice” atto terroristico, con conseguenze davvero paradossali.                                                                                                           Tutti, infatti, continuano a dire che “Israele ha tutto il diritto di difendersi, ma…”:
1) non deve bombardare;
2) non deve mandare truppe di terra;
3) non deve tagliare le comunicazioni, la luce e l’acqua;
4) non deve fare nulla che metta in pericolo gli ostaggi (anche se sono già in pericolo);
5) non deve colpire gli ospedali (anche se le basi di Hamas sono nascoste lì sotto);
6) non deve colpire le abitazioni (anche se i miliziani di Hamas sono nascosti lì dentro);
7) non deve mandar via i civili dagli ospedali e dalle abitazioni per evitare di colpirli;
8) non deve allagare i tunnel;
9) non deve puntare a distruggere Hamas;
10) non deve… (qualsiasi altra cosa vi venga in mente che implichi l’uso della forza);
È veramente difficile credere che una simile serie di condizioni possa essere stata concepita da esseri dotati di ragione. Perlopiù questi “divieti” vengono travestiti da previsioni, secondo la tecnica che ho descritto nell’articolo precedente, sostenendo che ciascuna di queste azioni “non serve” o “è destinata al fallimento” o “peggiorerà solo le cose” (in genere senza spiegare il perché, tanto la gente non è più abituata a chiederselo), ma la sostanza non cambia.

Ancor più assurda è l’affermazione, quasi universalmente condivisa, che a Gaza sarebbe in atto un genocidio. Infatti, come ha giustamente notato Ricolfi (gaza-fake-numbers), quando si parla dei morti a Gaza giornalisti ed esperti fanno riferimento
sempre e solo ai dati forniti dal Ministero della Sanità di Gaza, “dimenticando” di precisare che quest’ultimo è sotto il totale controllo di Hamas. Anche quando ciò viene detto, quasi mai si aggiunge che, considerata la fonte, tali dati non possono essere ritenuti affidabili. E anche nei rari casi in cui ciò viene detto, viene subito dimenticato e la discussione si svolge regolarmente come se invece fossero oro colato.

Ma, perfino se lo fossero, l’accusa di genocidio non starebbe in piedi. Secondo Hamas, infatti, sarebbero morti fin qui circa 40.000 palestinesi. Considerando che secondo gli israeliani (i cui dati non sono neanch’essi completamente affidabili, ma certo lo sono molto più dei loro) a fine aprile erano stati uccisi almeno 13.000 miliziani di Hamas, il che significa che oggi dovrebbero essere almeno 15 o 16 mila, i morti civili sono certamente non più di 25.000 in 9 mesi e probabilmente molti di meno. Comunque la si voglia mettere, queste non sono le cifre di un genocidio, ma –appunto – quelle di una guerra. Che è una cosa orribile, ma è un’altra cosa.

Quando una guerra è giusta?
Ricolfi ha giustamente definito «disumana» la “competizione vittimaria” in atto in Palestina, per cui, avendo sia gli israeliani che i palestinesi «ragioni solide, e perfettamente visibili, per autopercepirsi come vittime di oppressione, violenze, gravissimi soprusi […] utilizzano questa loro condizione per negare l’analoga condizione vissuta dalla parte avversa». E ha ancora ragione a dire
che «il dramma di entrambi i popoli che si contendono la terra di Palestina è così vasto e profondo che diventa immorale difendere le ragioni dell’uno senza vedere quelle dell’altro» (come-nel-68-riflessioni-sulla-competizione-vittimaria).

È però impossibile fare questo finché i palestinesi di Gaza saranno rappresentati da Hamas, il cui Statuto (statuto_hamas.htm), che tutti dovrebbero leggersi prima di parlare, si apre con una eloquente citazione di Hassan al-Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas rappresenta la filiale palestinese: «Israele sarà stabilito, e rimarrà in esistenza finché l’islam non lo ponga nel nulla, così come ha posto nel nulla altri che furono prima di lui». Il suo motto è: «Dio come scopo, il Profeta come capo, il Corano come costituzione, il jihad come metodo, e la morte per la gloria di Dio come più caro desiderio» (art 8). Quanto alla questione palestinese, questo è il suo pensiero: «Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di Resistenza Islamico [cioè Hamas]. In verità, cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione. […] Non c’è soluzione per il problema palestinese se non il jihad» (art. 13).

Così stando le cose, sembrerebbe di dover concludere che l’unica soluzione al problema di Hamas è il contro-jihad, cioè fargli la guerra fino alla sua totale eliminazione, come appunto sta cercando di fare Israele. È vero che tra gli israeliani c’è anche chi vorrebbe cacciare da Gaza tutti i palestinesi e non solo Hamas, ma questi non sono la maggioranza e difficilmente prevarranno, dato che a guerra finita Netanyahu verrà certamente destituito, per le sue responsabilità nella mancata prevenzione dell’attacco del 7 ottobre, e probabilmente anche processato, per i numerosi episodi di corruzione di cui è accusato.

Ma allora perché da noi tutti continuano a (stra)parlare di risposta esagerata da parte di Israele e spesso anche di genocidio? Il motivo è che ormai in Occidente siamo disposti a considerare giusto solo un tipo di guerra: quella in cui non si uccide nessuno.
O, più esattamente, quella in cui noi non uccidiamo nessuno. Perché gli altri, cioè i vari dittatori che, con la complicità dei fanatici della ideologia woke e della cancel (in)culture, vorrebbero, appunto, cancellarci dalla faccia della Terra, siccome per definizione rappresentano i poveri sono, sempre per definizione, “buoni”. Di conseguenza, se ogni tanto (o anche ogni poco) ammazzano un
po’ di gente… beh, bisogna capirli e perdonarli, a maggior ragione se quelli che hanno ammazzato erano occidentali o loro alleati, ricchi e quindi per definizione “cattivi” (cfr. ancora la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti).

Basti pensare alla Siria, dove per molti anni sono successe atrocità indescrivibili, molto ma molto peggiori che a Gaza (si stima che in 13 anni ci siano stati oltre mezzo milione di morti e quasi 17 milioni di profughi), che continuano tuttora, anche se con intensità minore. Eppure, in Occidente tutti se ne sono sempre fregati, perché i colpevoli non eravamo noi, ma Assad, Erdogan e Putin, gli eroici Che Guevara del terzo millennio (il vero Che Guevara all’idea si starà rivoltando nella tomba, ma questo ai nostri intellettuali ovviamente non importa).

Eppure, per sconfiggere il nazismo abbiamo quasi raso al suolo la Germania e contro i fanatici giapponesi seguaci dell’Imperatore-Dio siamo arrivati a usare l’atomica, che ha causato da 103.000 a 210.000 morti (cfr. Paolo Musso, la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico; si veda anche l’articolo di Luciana Piddu, hamas-e-dintorni-il-velo-della-cecita). Anche per restare alle sole armi convenzionali, in una sola notte di bombardamenti, dal 3 al 4 febbraio 1945, a Tokyo morirono oltre 70.000 persone e quasi il doppio furono uccise la settimana seguente a Dresda.

Certo, si tratta di azioni di cui nessuno può andare fiero e alcune forse si sarebbero potute evitare, ma non per questo qualcuno si è mai sognato di accusare gli Alleati di genocidio (almeno per ora: con l’aria che tira, non mi stupirei se prima o poi succedesse). Perché cosa avrebbero dovuto fare, lasciare che vincessero Hitler e i kamikaze? In realtà se c’è qualcuno in Palestina che ha intenzioni genocide, questo è proprio Hamas, che non è migliore della Germania e del Giappone di allora, anche se per fortuna è molto meno potente.

Questi esempi ci mostrano con chiarezza che per giudicare se una guerra è giusta o sbagliata non possiamo basarci sul numero di morti o sulla grandezza delle sofferenze, perché allora ne seguirebbe che nessuna guerra è giusta, il che in un certo senso è vero, ma non ci aiuta.

Quale potrebbe essere, allora, un buon criterio? Il primo e il più ovvio mi pare sia che una guerra è giusta se è l’unico modo possibile di rispondere a un’aggressione. E ciò vale a maggior ragione se l’aggressione è portata da una dittatura contro una democrazia.

Altri criteri, come per esempio quelli che starebbero alla base della “guerra preventiva” o della “esportazione della democrazia”, sono assai più discutibili e di difficile applicazione, ma non ne abbiamo bisogno, dato che per quanto riguarda la guerra di Israele contro Hamas i primi due ricorrono sicuramente.

Cosa dovrebbe fare Israele?
Se poi passiamo da ciò che Israele “non deve” fare a cosa invece dovrebbe fare, le idee finora suggerite vanno dall’impraticabile al delirante, passando per tutte le sfumature intermedie. Poiché qui non è possibile elencarle tutte, mi limiterò a fare alcuni esempi particolarmente significativi.

L’Oscar per la proposta più stralunata va senz’altro, con ampio distacco, a Lucio Caracciolo, che una volta, rispondendo (mi pare) a Bruno Vespa, ha detto che Israele non dovrebbe colpire Hamas, che è stato solo l’esecutore materiale della strage, bensì l’Iran, che ne è il mandante. Ora, anzitutto questo è tutt’altro che certo, perché l’Iran è certamente un regime criminale e certamente sostiene Hamas, ma non ha su di esso un vero controllo come su Hezbollah, dato che si tratta di un movimento sunnita (il vero protettore di Hamas è il Qatar). Ma, soprattutto, vorrei sapere su quale pianeta crede di vivere Caracciolo: di certo non sulla Terra, comunque, dato che in nessun ordinamento giuridico conosciuto, passato o presente, è mai stato previsto che di un delitto si debba punire solo il mandante e non anche l’autore materiale.

L’idea più insidiosa è invece quella per cui Israele dovrebbe accettare la “tregua a tempo indeterminato” a più riprese proposta da Hamas, che di fatto significa la fine della guerra. Certamente è lecito (anche se a mio avviso sbagliato) che uno la pensi così, ma allora bisogna avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome e dire che Israele deve semplicemente fermarsi, accettando la situazione attuale, con Hamas ancora in grado di colpire e gli ostaggi che resterebbero prigionieri per chissà quanti anni, come è sempre successo in passato.

Quanto all’equivoco più diffuso, è certamente quello per cui basterebbe liberarsi di Netanyahu, perché ciò che sta accadendo è tutta colpa sua. Certamente, anche a me sarebbe piaciuto che gli israeliani l’avessero cacciato subito, sull’onda dell’indignazione per il disastroso fallimento dell’intelligence nel prevenire l’attacco di Hamas, perché si tratta di un personaggio losco e
pericoloso e il fatto che in questo momento Israele sia guidato da lui non aiuta. Ma ciò non avrebbe affatto risolto il problema, perché qualsiasi premier israeliano (e, in effetti, qualsiasi premier di qualsiasi paese, come ho cercato di spiegare prima) di fronte a ciò che è accaduto il 7 ottobre avrebbe fatto la guerra.

È vero che da quando Netanyahu nel 2009 è salito al potere, governando ininterrottamente fino ad oggi, c’è stata una decisa svolta autoritaria, che ha chiuso ad ogni ipotesi di trattativa con i palestinesi e ha moltiplicato gli insediamenti illegali in Cisgiordania, con annesse ripetute violenze da parte dei coloni e di ciò va tenuto conto per una valutazione globale della situazione (si veda l’ottimo articolo di Ricolfi il-non-detto-sulla-soluzione-dei-due-stati). Però è altrettanto vero che Netanyahu non è sorto dal nulla, bensì da oltre 60 anni di ostinati rifiuti di qualsiasi proposta di pace da parte dei palestinesi. E questa rimane tuttora la chiave del problema.

Hamas rappresenta o no i palestinesi?
Benché infatti gli israeliani, anche nei periodi di maggior dialogo, abbiano sempre portato avanti la colonizzazione della Palestina, accanto a questo ci sono state anche elezioni che hanno visto la vittoria di premier moderati che hanno fatto diverse proposte di pace. L’ultima di esse, offerta nel 2008 da Ehud Olmert, era così buona che il suo rifiuto (senza spiegazioni) da parte del “moderato” Abu Mazen lasciò incredulo perfino il suo più stretto collaboratore, il capo dei negoziatori Saeb Erekat.

Come egli stesso ha affermato alla televisione palestinese il 1° dicembre 2018 (il video si trova al seguente link: olmert-offri-ad-abu-mazen-piu-terra-di-quella-che-chiedeva-ma-abu-mazen-disse-no), in quella occasione Olmert offrì un territorio addirittura leggermente più grande dei territori del 1967 rivendicati dai palestinesi, più il controllo di parte di Gerusalemme, compresa la spianata del Monte del Tempio (luogo sacro per gli ebrei) e il rientro di 150.000 profughi palestinesi. Appena vide la mappa, Erekat gli disse immediatamente di accettare, ma Abu Mazen rifiutò, senza mai spiegare il perché.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 1. La proposta di pace di Olmert, rifiutata nel 2008 da Abu Mazen, ricostruita in base ai racconti dei testimoni
(olmert-offri-ad-abu-mazen-piu-terra-di-quella-che-chiedeva-ma-abu-mazen-disse-no).

Da parte palestinese, invece, ci sono stati sempre e solo porte chiuse, odio e terrorismo. E chi ha mai visto una sola manifestazione di palestinesi contro Hamas e a favore della pace? Per quanto ne so, non ce n’è mai stata neanche una, non solo a Gaza, dove oggettivamente è pericoloso (ma anche manifestare contro gli Ayatollah è pericoloso, eppure gli iraniani lo fanno), ma neanche in Europa. Contro Netanyahu, invece, in Israele c’è sempre stata una forte opposizione, non solo in Parlamento, ma anche nelle piazze.

Inoltre, non dimentichiamo che molti popoli si ritengono oppressi, a torto o a ragione, ma non tutti hanno scelto il terrorismo come metodo di lotta e anche quelli che lo hanno fatto lo hanno sempre usato esclusivamente contro lo Stato oppressore. Solo i palestinesi (fin dall’inizio, con l’OLP di Arafat) hanno ritenuto che la loro causa fosse così giusta da dar loro il diritto di compiere attentati in tutto il mondo, certo perlopiù contro ebrei (che comunque, vivendo all’estero, non erano responsabili delle politiche dello Stato di Israele), ma coinvolgendo spesso anche cittadini di altri paesi. È come se ci fosse un oscuro cuore di tenebra che avvelena la storia del popolo palestinese: che cosa sia e da dove venga è difficile dirlo, ma mi sembra altrettanto difficile negare che esista.

Altrettanto innegabile è che la situazione attuale delle colonie israeliane renda ormai molto difficile attuare la classica soluzione “due popoli, due Stati” (cfr. ancora l’articolo di Ricolfi il-non-detto-sulla-soluzione-dei-due-stati). Ma difficile non vuol dire impossibile. Anche a Gaza c’erano molti coloni israeliani, ma quando nel 2005 Ariel Sharon decise di restituire la Striscia ai palestinesi li fece sgomberare con le buone o con le cattive e quelli che si rifiutarono di andarsene con le proprie gambe vennero portati via di peso dall’esercito israeliano.

Il problema è che la risposta degli abitanti di Gaza a questo gesto di buona volontà fu votare in massa per Hamas. E il peggio è che probabilmente sarebbero pronti a rifarlo.

È molto istruttivo al proposito leggere questa inchiesta (i-musulmani-italiani-e-la-guerra-a-gaza) della Fondazione Oasis, creata dal cardinal Angelo Scola quando era vescovo di Venezia, che non può certo essere accusata di islamofobia (semmai il contrario). Nel mese di gennaio Oasis ha intervistato a proposito degli attacchi del 7 ottobre e della guerra a Gaza i leader di 7 organizzazioni islamiche italiane, di cui fanno parte anche quasi tutti i palestinesi che vivono in Italia.

Di essi, soltanto uno, lo sceicco Yahya Pallavicini della COREIS, ha esplicitamente condannato Hamas. Un altro, Mader Akkad, imam della moschea di Roma, ha rimandato a un’intervista concessa al Corriere della Sera in cui si esprimeva a favore della pace, rifacendosi alla Dichiarazione di Abu Dhabi, che condanna la violenza perpetrata in nome di Dio, ma comunque senza mai nominare esplicitamente Hamas e il terrorismo palestinese. Uno, Massimo Abdallah Cozzolino della CII, ha preferito non rispondere.

Gli altri quattro (Brahim Baya di PSM; Yassine Lafram della UCOII; Davide Piccardo, direttore del quotidiano online La Luce; Izzedin Elzir, imam di Firenze), che insieme rappresentano la grande maggioranza dei musulmani italiani, anche se con sfumature diverse hanno sempre premesso che non si devono uccidere persone innocenti, ma… c’era sempre un “ma” per cui alla fine hanno giustificato Hamas o almeno non l’hanno condannato e anzi lo hanno tutti considerato un movimento di resistenza legittimo, nonché legittimo rappresentante di una parte cospicua del popolo palestinese. Tutti e quattro hanno parlato di “genocidio” da parte di Israele e hanno sostenuto che la soluzione dei due Stati è stata accettata dai palestinesi, ma non dagli israeliani. Piccardo ha addirittura avuto la faccia tosta di affermare che la soluzione è creare un unico Stato laico (!) in cui ebrei e palestinesi possano vivere insieme in pace.

Per quanto delirante, la posizione di quest’ultimo (figlio di Hamza Roberto Piccardo, co-fondatore della UCOII) è particolarmente interessante perché in base ai suoi sondaggi sarebbe condivisa dalla maggior parte dei musulmani italiani, che vuol dire anche dei palestinesi italiani. Certo, questi numeri vanno presi con cautela e sono probabilmente “gonfiati”, ma è difficile che siano completamente inventati.

D’altronde, il fatto stesso che la maggior parte dei musulmani italiani appartenga a queste organizzazioni significa che essi sono sostanzialmente d’accordo con le posizioni espresse dai rispettivi leader. Se fossero davvero contrari ad Hamas, infatti, confluirebbero tutti nella COREIS, l’unica associazione che l’ha esplicitamente condannato, che invece è così piccola da essere
presente in appena 8 Regioni italiane (cfr.chi-siamo), mentre l’UCOII, per esempio, riunisce ben 153 divere organizzazioni islamiche e gestisce 80 moschee e oltre 300 luoghi di culto non ufficiali in tutta Italia (/).

Sembra quindi davvero difficile sostenere che “Hamas non rappresenta i palestinesi”, come tutti continuano a ripetere, a cominciare, di nuovo, da Netanyahu, che ha così commesso un altro grave errore di comunicazione. La verità, purtroppo, è che Hamas rappresenta eccome gran parte del popolo palestinese, anche se (ovviamente) non tutto. E non solo per quanto riguarda l’atteggiamento aggressivo verso Israele, ma anche lo stile di vita, che è caratterizzato da un integralismo islamico molto chiuso e intollerante, soprattutto verso le donne.

Da questo punto di vista è davvero paradossale che tra i più ferventi sostenitori di Hamas ci siano i movimenti per i cosiddetti “diritti civili” e, in particolare, proprio quelli per i diritti delle donne, fino al punto che una ragazza (di sinistra) che durante le manifestazioni dello scorso 8 marzo è scesa in piazza con un cartello che denunciava gli “stupri etnici” di Hamas è stata cacciata dal corteo, nella totale indifferenza del mondo progressista. Paradossale, ma non sorprendente, perché la cosa ha una sua logica ben precisa, benché perversa.

Come ha spiegato ancora Ricolfi, infatti, «il nucleo del femminismo attuale», profondamente influenzato dalla ideologia woke, sembra essere «una forma di neo-razzismo, di cui l’antisemitismo è solo un aspetto, anche se forse il più detestabile. Il razzismo classico era basato sulla distinzione fra i bianchi e gli altri, il neo-razzismo è molto più ambizioso: pretende di stabilire una precisa
gerarchia fra le molteplici condizioni delle donne, e di farlo in base a caratteri ascritti o non modificabili. E nemmeno di fronte a una tragedia come quella del 7 ottobre trova una parola di pietà, se non di solidarietà e di condivisione, per le donne israeliane uccise, né per quelle ancora prigioniere dei loro carnefici» (dal-femminismo-al-neo-razzismo; su ciò si veda anche il mio articolo, già citato, la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti).

I timori sull’allargamento del conflitto
Un altro aspetto paradossale è l’insistenza quasi ossessiva con cui si è discusso (e in parte si continua ancora a discutere) del possibile allargamento del conflitto. È comprensibile che questa prospettiva faccia paura, ma il compito degli esperti è precisamente quello di dirci se le nostre paure sono o no fondate. Naturalmente nessuno pretende che i loro ragionamenti siano infallibili in una situazione così caotica, ma non sembra una richiesta eccessiva pretendere che almeno non ignorino i più elementari dati di fatto. Eppure, questo accade con allarmante frequenza.

Prendiamo per esempio il caso più dibattuto: quello del possibile coinvolgimento dell’Iran. Ebbene, spesso viene da chiedersi se qualcuno degli esperti in questione si è mai preso il disturbo, prima di esporci le sue profonde riflessioni in merito, di dare un’occhiata alla carta geografica, esposta in bella vista in ogni talk show. È vero che ignorare ciò che si ha sotto il naso sembra ormai diventato uno sport di massa, ma come si fa a non rendersi conto che l’Iran non potrebbe attaccare Israele neanche se lo volesse, perché per farlo, qualunque strada scelga, dovrebbe far passare il suo esercito attraverso almeno due Stati sovrani

L’unico modo in cui potrebbe darsi uno scontro diretto tra Iran e Israele è attraverso lanci di missili e droni, come infatti è accaduto ad aprile, il che però ha un’efficacia limitata, anche a causa dell’ottimo sistema antimissilistico israeliano. Una guerra vera e propria, con battaglie di terra che coinvolgano i rispettivi eserciti, sembra invece difficilmente immaginabile.

A parte questo aspetto pratico, va poi anche considerato che per un qualsiasi Stato mediorientale attaccare direttamente Israele sarebbe un suicidio, perché l’esercito israeliano è tuttora molto più forte e inoltre in tal caso gli Stati Uniti non potrebbero fare a meno di intervenire. Inoltre, non va dimenticato (anche se, stranamente, lo facciamo sempre) che Israele, pur non avendolo mai
dichiarato ufficialmente, possiede almeno un centinaio di testate nucleari e il giorno in cui fosse seriamente minacciato non si farebbe scrupolo ad usarle, perché, diversamente da qualsiasi altro paese, nel suo caso non sarebbe in gioco soltanto la sua sopravvivenza politica come Stato, ma anche quella fisica dei suoi abitanti. Tanto più, poi, dopo l’attacco di Hamas, che ha tolto ogni dubbio, se mai ancora ce n’erano, su cosa accadrebbe il giorno in cui l’esercito di un paese islamico riuscisse a invadere Israele.

Per essere chiari: prima che ciò possa accadere, quel paese verrebbe cancellato dalla carta geografica. E, diversamente da noi, i leader mediorientali ne sono perfettamente consapevoli. Per questo, al di là della retorica, da decenni non hanno più mosso un dito per aiutare i “fratelli palestinesi”. Eppure, ci sono voluti oltre un mese e il fallimento della prima conferenza di pace
perché i nostri esperti di geopolitica cominciassero a capire che non avrebbero fatto nulla neanche stavolta.

Ma c’è anche un altro motivo, molto più meschino, ma non meno importante, per cui i leader islamisti in realtà non hanno alcun interesse a far finire il conflitto in Palestina, né favorendo la pace né cercando di distruggere Israele: ed è che Israele è la perfetta “arma di distrazione di massa” su cui far sfogare le frustrazioni e i malumori dei loro sudditi, così distraendoli (appunto) dalle pessime condizioni in cui i loro pessimi regimi li costringono a vivere. Insomma, la “questione palestinese” è per loro l’equivalente dei “due minuti d’odio” che in 1984 di George Orwell il Grande Fratello usa per lo stesso scopo. E, guarda caso, anche lì il capro espiatorio scelto dal regime, Goldstein, presunto leader dei ribelli, è ebreo…

Per le stesse ragioni anche un coinvolgimento indiretto dell’Iran attraverso Hezbollah è estremamente improbabile. Eppure, di nuovo, fino al discorso del 3 novembre 2023 con cui il loro leader Nasrallah ha praticamente “scaricato” Hamas, ripetendo per ben cinque volte in due ore che l’attacco del 7 ottobre «è al 100% il risultato di una decisione palestinese», praticamente tutti si
aspettavano che avrebbe annunciato una intensificazione dello scontro con Israele, restando un dubbio solo sul livello di intensità, da un semplice aumento degli attacchi missilistici fino alla guerra aperta. E ciò ha spiazzato a tal punto i commentatori, che molti sul momento non l’hanno neanche capito (o hanno finto di non averlo capito, per salvare la faccia…).

Il fatto è che Nasrallah sa perfettamente che il suo, anche se può contare su decine di migliaia di uomini, non è realmente un esercito, come i nostri esperti continuano invece a ripetere: gli Hezbollah non hanno aviazione né carri armati, hanno pochi cannoni e pochi veicoli blindati, per cui in uno scontro in campo aperto verrebbero sterminati. Per questo, così come Hamas, hanno scelto la tattica della guerriglia, che permette loro di nascondersi fra le montagne o, meglio ancora, fra le case, in luoghi che conoscono come le loro tasche e dove possono contare sulla complicità di buona parte della popolazione e usare come ostaggio la parte restante, lanciando in territorio nemico soltanto rapidi attacchi “mordi e fuggi” e un sacco di missili, il che permette loro di valorizzare al massimo le sole cose di cui abbondano: veicoli leggeri, kalashnikov e, appunto, missili.

Naturalmente, questo tipo di guerra è molto difficile da vincere non solo per chi la subisce, ma anche per chi la fa. Non dimentichiamo però che, quando durante i colloqui di pace alla fine della guerra del Vietnam gli americani fecero notare ai nordvietnamiti che non li avevano mai veramente sconfitti, il generale Giáp, che condusse la celebre offensiva del Têt, rispose: «Non ne avevamo bisogno», intendendo che a loro bastava resistere e lasciare che l’opinione pubblica americana, sempre più ostile alla guerra col passare del tempo, facesse il resto. E questo è ancor più vero oggi, con un’opinione pubblica ormai composta in gran parte da persone viziate (la “società signorile di massa” di Ricolfi) e abituate ad avere “tutto e subito” senza dover mai fare nessun vero sacrificio.

Tuttavia, per quanto preoccupante, anche questa situazione punta nella direzione opposta a quella di un allargamento del conflitto. Un attacco di eserciti regolari di Stati islamici contro Israele renderebbe infatti impossibile continuare il gioco di “Davide contro Golia” che funziona così bene con le opinioni pubbliche occidentali e sarebbe praticamente l’unica cosa che potrebbe far risorgere un forte sostegno a Israele anche in casa nostra. Quindi non ci sarà. Eppure, i nostri esperti sembrano non averlo ancora capito…

La guerra delle dittature contro le democrazie
Il loro errore in assoluto più grave è però un altro: quello di credere e farci credere che la guerra più importante e più pericolosa sia quella che si combatte a Gaza, il che ha fatto sì che negli ultimi mesi la guerra in Ucraina sia stata quasi dimenticata.

Ma è vero esattamente il contrario. La guerra a Gaza è certamente una tragedia ed è giusto che ce ne occupiamo, anche se la probabilità di riuscire a influire in modo soddisfacente sul corso degli eventi sembra molto piccola. Ma non è a Gaza, bensì in Ucraina che si decide il nostro futuro (e anche quello di Gaza). E per capirlo bene bisogna avere chiaro il quadro generale.

A tal fine mi rifarò di nuovo a quanto scritto da Garri Kasparov, l’ex campione mondiale di scacchi da sempre nemico giurato di Putin, in un esemplare articolo che ho già citato la volta scorsa (dallucraina_al_medio_oriente_i_passi_falsi_di_biden_in_politica_estera-13838505). Ecco le sue parole:
«Il motivo per cui Burns [direttore della CIA] e Sullivan [consigliere di Biden per la sicurezza nazionale] sono in torto così spesso è che ancora adesso non riescono a rendersi conto che siamo in guerra, un’unica guerra contro dittature e terroristi. Proprio quando le forze armate russe stavano iniziando a perdere terreno in Ucraina, Hamas ha attaccato Israele e il venezuelano Nicolas Maduro ha indetto un referendum per reclamare i territori di buona parte della vicina Guyana. […] In una manifestazione a Istanbul del 28 ottobre, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha definito “combattenti per la libertà” gli uomini di Hamas e ha chiamato Israele “criminale di guerra”. […] Mosca accoglie le delegazioni di Hamas e si vanta del fatto che i russi presi in ostaggio stanno ricevendo un trattamento di favore. Il motore di ricerca cinese Baidu ha rimosso il nome di Israele dalle sue mappe online, inquietante eco delle minacce islamiste di spazzare via Israele dalle carte geografiche. […] Putin combatte ancora la sua guerra e i suoi sodali combattono l’ordine globale dal Niger al Nilo e dalla Bielorussia al Venezuela. Il ministro degli esteri iraniano viene a New York e minaccia le vite dei cittadini americani. La Cina si prepara a invadere Taiwan, in attesa del momento giusto per colpire. […] Io credo nelle coincidenze, ma credo anche nel KGB. Fino a quando non sconfiggeremo Vladimir Putin, continueremo ad aprire nuovi fronti in questa sua guerra contro l’America e l’ordine mondiale globale di cui essa è alla guida, distogliendo attenzione e risorse dall’Ucraina».

Questo si chiama avere le idee chiare! E si noti che Kasparov ha scritto proprio “KGB”, dimostrando così di avere le idee molto chiare anche sulla sostanziale continuità che c’è tra il regime sovietico e quello di Putin, che prima di diventare presidente era appunto un alto ufficiale del KGB: altroché l’immaginario Putin “fascista” di cui straparla la sinistra nostrana (cfr. il mio precedente articolo la-frattura-tra-ragione-e-realta-1-su-mosca-sventola-bandiera-rossa).

Quello che sta accadendo oggi nel mondo è infatti parte di un processo secolare, iniziato con la Seconda Guerra Mondiale, che vede le democrazie occidentali opporsi a dittature che si basano in gran parte su ideologie nate anch’esse in Occidente (per la serie “facciamoci del male”: l’autodemolizione dell’Occidente non è nata oggi, ma ha alle spalle una storia molto lunga…).

Nella Seconda Guerra Mondiale ci hanno attaccato le dittature di destra, figlie dell’idealismo tedesco, in particolare quello di Fichte e di Hegel (cfr. il mio libro La scienza e l’idea di ragione, Mimesis 2019, e il mio articolo la-frattura-tra-ragione-e-realta),
che abbiamo sconfitto, benché a prezzo di sofferenze terribili, in gran parte dovute all’esserci mossi troppo tardi.

Ora la storia si ripete con le dittature di sinistra, nate anch’esse dalla stessa radice (il marxismo è figlio legittimo dell’hegelismo). E fin dal tempo di Khomeini, che per preparare la sua rivoluzione si era esplicitamente ispirato al marxismo imparato alla Sorbona di Parigi, al club si sono iscritte anche le dittature islamiste, che per legittimarsi usano la scusa di lottare per i poveri, vittime delle ingiustizie del capitalismo globale.

E non è che queste ingiustizie non ci siano. Ma non saranno certo Putin, Xi Jinping, Erdogan, gli Ayatollah, i Talebani o Hamas a porvi rimedio, dato che dei poveri non gliene frega niente e li stanno soltanto strumentalizzando, con la colpevole complicità dei nostri intellettuali.

Almeno per una volta vogliamo chiamare le cose col loro nome, senza ipocriti eufemismi?

Le nostre democrazie, soprattutto in questo frangente storico, hanno difetti orribili e hanno mostrato più volte preoccupanti tendenze autoritarie (vedi di nuovola-frattura-tra-ragione-e-realta). Ma sono pur sempre meglio – infinitamente meglio – di questi criminali, che ci incolpano di tutti i mali del mondo, che in gran parte sono causati proprio da loro e per l’altra parte, quella davvero causata da noi, soltanto da noi possono essere curati. Non è detto che ci riusciremo, ma almeno possiamo provarci. Loro, invece, no.

Abbattere Putin per ammonire gli altri: perché tutto si gioca in Ucraina
Oggi tutti citano la frase di Papa Francesco sulla “Terza Guerra Mondiale a pezzi” e l’altra, più recente, sui “pezzi che si stanno saldando”. Questa è indubbiamente la verità, ma non è tutta la verità: occorre infatti aggiungere che si tratta di una Terza Guerra Mondiale a pezzi delle dittature contro le democrazie. E “i pezzi che si stanno saldando” sono appunto le diverse dittature che
stanno iniziando a cooperare tra loro. Con la Russia a fare da regista.

Oltre che dagli esempi citati da Kasparov, ciò si vede chiaramente anche dalla collaborazione, nonostante la loro storica rivalità, tra Russia e Turchia, non solo rispetto all’Ucraina (dove Erdogan, nonostante le balle che racconta sul suo ruolo di “mediatore”, sta sostanzialmente con Putin), ma anche in altre precedenti occasioni, come in Libia e in Siria, benché al tempo stesso cerchino anche di fregarsi a vicenda, come sempre succede nelle alleanze tra criminali.

E non si tratta solo di una saldatura in termini di alleanze: se Putin vincesse in Ucraina, quest’ultima rischierebbe di trasformarsi anche in una saldatura territoriale. L’Ucraina, infatti, confina con la piccola Moldavia, che Putin si annetterebbe subito senza troppe difficoltà (al suo interno si trova già un forte contingente russo) e con l’Ungheria, che a sua volta confina con la Serbia, paesi che già adesso sono entrambi filo-russi e che in una simile situazione potrebbero diventarlo ancor di più, trasformandosi in suoi alleati a tutti gli effetti. Si creerebbe così un gigantesco “fronte del male” che, dal Baltico al Golfo Persico, vedrebbe schierate nell’ordine Russia, Bielorussia, Ucraina (sotto occupazione russa), Ungheria, Serbia, Turchia e Iran. E una volta di più viene da chiedersi se i nostri esperti di geopolitica guardino mai una cartina geografica, visto che finora nessuno sembra essersene reso conto.

A interromperlo, per poco più di 400 chilometri, resterebbe solo la debole Bulgaria, con appena 6 milioni di abitanti e 36.000 soldati, perlopiù armati con ferrivecchi sovietici, che potrebbe decidere di sottomettersi volontariamente, non considerando una garanzia sufficiente la sua appartenenza alla NATO, se quest’ultima non avesse saputo aiutare adeguatamente l’Ucraina. E lo stesso potrebbe fare la Romania, che a quel punto si troverebbe completamente circondata.

Dobbiamo perciò assolutamente spezzare questo perverso meccanismo prima che sia troppo tardi: cioè, in sostanza, prima che anche la Cina entri nel gioco. Per fortuna la sua tradizionale prudenza ci lascia ancora un po’ di margine, ma non possiamo più permetterci di perdere altro tempo, dato che negli ultimi tempi i cinesi hanno iniziato a vendere armi ai russi sottobanco e stanno solo aspettando di vedere come reagiremo (o non reagiremo) prima di cominciare a farlo anche alla luce del sole. Ma soprattutto dobbiamo avere ben chiaro in mente che quelli con cui abbiamo a che fare non sono persone civili, magari un po’ stronze, ma con cui si può comunque ragionare. Sono criminali psicopatici con tendenze genocide, che capiscono un solo linguaggio: quello della forza.

Non si tratta soltanto del fatto che tradiscono regolarmente gli accordi che stringono. Ben più radicalmente, la forza è l’unica cosa che rispettano o almeno temono, mentre per la loro logica essere disposti a trattare non è segno di nobiltà d’animo, bensì di debolezza.

Non è certo un caso che tutto questo sia iniziato dopo la nostra vergognosa fuga dall’Afghanistan, decisa da Biden in base all’accordo stretto da Trump con i fantomatici “talebani moderati”, che, come si è poi visto, semplicemente non esistono. Ciò. infatti, ha convinto tutti i dittatori del mondo che potevano fare impunemente tutto quel che volevano, perché tanto il “vile Occidente” non avrebbe reagito. Se fossimo fuggiti anche davanti a Putin, come era già pronto a fare Biden, sarebbe
stata la fine: tutti ci sarebbero saltati alla gola.

Il coraggio e la determinazione di Zelensky e degli ucraini ci hanno salvati (per ora) dal baratro, ma non basta. Dobbiamo colpire in modo durissimo (ma veramente durissimo) almeno uno di questi regimi criminali, in modo che gli altri capiscano che potremo anche essere lenti a reagire, ma quando lo facciamo siamo ancora noi i più forti.

Dopo si potrà e si dovrà cercare di correggere le ingiustizie e gli squilibri che il nostro assurdo stile di vita ha causato nel mondo e che portano acqua al mulino di questi delinquenti. Ma dopo. Perché non è possibile cercare di attuare profonde riforme globali mentre siamo continuamente sotto attacco. “Colpirne uno per educarne cento”, come si diceva una volta: solo così si fermeranno.

E,per quanto possa sembrare paradossale, il bersaglio più facile è proprio quello più grosso: la Russia.

Putin, infatti, si è andato a cacciare nella trappola perfetta, se solo avremo il coraggio di farla scattare. Schierato nella immense pianure dell’Ucraina, prive di difese naturali, scenario perfetto perché le nostre armi ipertecnologiche possano dispiegare al meglio tutto il loro devastante potenziale e con un intero popolo che non vede l’ora di usarle, l’esercito russo è il bersaglio ideale. Purché ci decidiamo a dare al più presto agli ucraini tutto quello di cui hanno bisogno: non per fermarlo, ma per distruggerlo, fino all’ultimo bullone dell’ultimo carro armato.

Se lo faremo, ciò segnerà inevitabilmente la caduta (e, di conseguenza, la morte) di Putin: un evento clamoroso e oggi quasi inimmaginabile, che renderebbe tutti gli altri dittatori molto più prudenti, facendo perciò scendere la tensione un po’ dovunque, Medio Oriente compreso, almeno per qualche anno. Distruggere Hamas, invece, è molto più difficile e non avrebbe lo stesso impatto. Non che non si debba fare anche questo, se possibile, ma è la testa della piovra che va tagliata, non uno dei suoi tentacoli.

Certamente la cosa non è esente da rischi, perché di fronte alla rovina incombente Putin potrebbe reagire in modo incontrollato, benché l’ipotesi più preoccupante, quella di un attacco atomico, sia molto improbabile (cfr. il mio articolo e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky, nonché il già citato la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico). Ma ci sono altre opzioni che purtroppo non si possono del tutto escludere, come per esempio una serie di attacchi con droni e missili convenzionali contro le città europee, che non sono adeguatamente attrezzate per proteggersi.

Tuttavia, non ci sono alternative, perché Putin non si fermerà finché qualcuno non lo costringerà a farlo. E per ottenere questo risultato ci sono solo due modi: il primo è che lo facciano gli ucraini adesso; il secondo è che lo facciamo noi tra qualche anno (il che, a scanso di equivoci, non significa fra venti o trent’anni anni, ma fra due o tre al massimo). Quale dei due vi sembra preferibile?

Forse penserete che questa sia un’esagerazione, perché la Russia non sarebbe comunque in grado di attaccare altri paesi dopo una guerra così sanguinosa. Ed è vero. Non subito. Ma Putin ha approfittato della guerra per trasformare la sua “democratura” in una dittatura vera e propria, dove potrà fare quello che vuole finché non verrà abbattuto. E quello che vuole ce lo ha dimostrato
chiaramente: rafforzare il suo potere militare a qualunque costo, anche quello di ridurre il suo popolo alla fame, come già sta facendo. Continuerà a farlo, finché non si sentirà di nuovo forte, se gliene daremo il tempo.

Inoltre, se Putin dovesse vincere in Ucraina potrebbe non presentarsi da solo alle nostre frontiere.
Che a loro volta, come abbiamo visto, potrebbero non essere più le stesse.

Per chi non lo sapesse, dal punto più occidentale dell’Ungheria al punto più orientale della frontiera italiana, che è in Friuli, vicino a Tarvisio, ci sono circa 200 chilometri: più o meno quanto c’è tra Milano e Bologna. Che effetto vi fa l’idea di un esercito di uno o due milioni di russi, ceceni, turchi, iraniani, ungheresi e serbi, con armamenti cinesi, nordcoreani e magari pure indiani, schierato ad appena due ore di auto dai nostri confini?

Lo so che istintivamente uno scenario del genere ci sembra fantascienza. Ma quanti scenari da fantascienza abbiamo già visto realizzarsi negli ultimi anni, dalle Torri Gemelle alla pandemia al riscaldamento globale? La verità è che l’anomalia siamo noi, la prima generazione della storia a non avere conosciuto la guerra. Ma non c’è nessuna garanzia che questo durerà per sempre.

E comunque, anche senza arrivare alla guerra vera e propria, la formazione di un blocco del genere, guidato dalla Russia, sarebbe già di per sé sufficiente a stravolgere tutti gli equilibri geopolitici, ricreando una situazione simile a quella che esisteva ai tempi dell’Unione Sovietica. Cioè, guarda caso, esattamente il sogno di Putin. Con in più la non piccola differenza che allora le democrazie europee erano forti, mentre adesso sono deboli.

Putin, pertanto, potrebbe cercare di attirarle nella sua orbita un poco alla volta, senza colpo ferire, usando ora il bastone della minaccia militare, ora la carota dell’immenso mercato che una simile alleanza rappresenterebbe. Mentre noi a quel punto non potremmo più colpirlo senza scatenare davvero una guerra mondiale.

Quanto tempo credete che resisterebbe la stanca e scettica Europa in una situazione simile?

Pensateci, la prossima volta che sentirete i nostri “esperti” straparlare della guerra-che-non-si-può-vincere.
E cominciate invece a riflettere sulla guerra che si deve vincere.

La frattura tra ragione e realtà 7 / Il fallimento degli esperti di guerra – Parte prima: Ucraina

3 Giugno 2024 - di Paolo Musso

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Dalla pessima gestione del Covid i governanti occidentali e gli esperti che dovrebbero consigliarli sembrano non avere imparato nulla, tant’è vero che stanno ripetendo gli stessi errori anche nella gestione di altre emergenze cruciali, come le guerre in Ucraina e Palestina, dove, continuando così, rischiamo di far vincere i nostri nemici, con conseguenze disastrose. Alla base di tutto c’è sempre la drammatica frattura tra ragione e realtà che caratterizza il nostro strano tempo e da cui non sembrano essere immuni nemmeno gli esperti di geopolitica e gli stessi vertici militari. Qui parlerò dell’Ucraina, mentre in un prossimo articolo mi occuperò della Palestina.

Covid, una lezione non appresa

La quarta di copertina di Covid, la lezione del Pacifico, libro che ho scritto insieme a Silvia Milone e Loredana Parolisi raccogliendo gli articoli più significativi da noi pubblicati su questo tema nel sito della Fondazione Hume, si chiudeva spiegando che riflettere su quanto era accaduto era importante «non solo per capire gli errori commessi, ma soprattutto per non ripeterli quando dovremo affrontare problemi ben più gravi come quelli ecologici, che potrebbero portare alla fine della nostra civiltà».

Ciò continua ad essere vero e negli ultimi articoli ho iniziato a documentarlo, ma nel frattempo si è aggiunto un altro fattore di rischio allora difficilmente prevedibile: la guerra in Ucraina, a cui negli ultimi mesi si è aggiunta quella in Palestina.

Era invece (purtroppo) prevedibile che anche in questo caso gli esperti o presunti tali non ci avrebbero aiutato, come è puntualmente accaduto, se possibile in misura ancor più ampia che col Covid (con poche lodevoli ma isolate eccezioni, come per esempio Vittorio Emanuele Parsi). Ma che fosse prevedibile non lo rende meno grave, né, soprattutto, meno preoccupante, in particolare per quanto riguarda l’Ucraina: perché in Ucraina (e non in Palestina) ci stiamo giocando la pelle e per quel che si vede sembra che nemmeno ce ne rendiamo conto. È quindi fondamentale cercare di capire cosa sta succedendo nella testa di quelli che dovrebbero aiutarci a fare le scelte giuste e invece continuano a portarci sistematicamente fuori strada.

Premesso che alla base di tutto c’è sempre la frattura tra ragione e realtà a cui è dedicata questa serie di articoli, essa però a seconda delle situazioni si manifesta in modi diversi, che andremo ora a discutere. Tuttavia, per molti aspetti anche nelle due guerre in corso si stanno ripresentando dinamiche già viste con il Covid, la cui lezione evidentemente non è stata affatto appresa.

Gli errori sul Covid sono stati causati essenzialmente da cinque fattori:

1) anzitutto le regole perverse del sistema mediatico, che sceglie i suoi ospiti fissi principalmente in base alla loro disponibilità a spararle grosse e ad alimentare la rissa anziché il dialogo;

2) quindi il desiderio di visibilità, che ha spinto molti pseudo-esperti ad accettare di occuparsi di cose che non conoscevano bene e molti veri esperti a piegarsi alle regole del sistema suddetto;

3) la pessima lettura, quando non addirittura la completa non considerazione, dei dati statistici;

4) la conseguente tendenza a trattare come eventi naturali ineluttabili fenomeni che erano in realtà mere conseguenze delle nostre scelte;

5) infine, la non comprensione del fondamentale principio enunciato da Ricolfi per cui «se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai, più costerà caro a tutti» (La notte delle ninfee, p. 21), che ci ha portato a rincorrere gli eventi anziché anticiparli.

Oggi le stesse perverse dinamiche si stanno ripetendo anche nelle altre crisi che ci troviamo ad affrontare, a cominciare dalla guerra in Ucraina, ma in forme, se possibile, ancor più sconcertanti.

Le assurdità sulla guerra in Ucraina

Per esempio, così come era successo col Covid, anche sull’Ucraina ci sono stati diversi casi di presunti “esperti” che in realtà non erano affatto tali, ma come tali sono stati presentati e hanno detto cose che non stavano né in cielo né in terra. Neanche col Covid, però, ricordo di avere mai assistito a uno spettacolo così assurdo come quello andato in scena il 30 ottobre 2022 a Mezz’ora in più, quando Paolo Garimberti e Duilio Giammaria, presentati da Lucia Annunziata come grandi esperti del tema, hanno candidamente ammesso di non avere la minima idea di quale sia il raggio dell’esplosione di un’atomica tattica (cioè di potenza limitata, anche se la sua esatta definizione è in realtà più complicata: vedi Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/).

Ora, di questo nessuno avrebbe potuto far loro una colpa, giacché, pur avendo entrambi una grande esperienza come cronisti di politica estera (e Gianmaria anche di guerra), non hanno nessuna preparazione scientifica. È invece una colpa (molto grave) che abbiano accettato di parlare di qualcosa che non conoscevano, senza nemmeno fare lo sforzo di dare un’occhiata a Wikipedia, che almeno un’idea di massima su questo punto te la dà. I due, invece, hanno buttato lì un’ipotesi inventata sul momento, ovviamente del tutto sballata (10 km di raggio, mentre non si arriva neanche a 2: vedi l’articolo appena citato), dopodiché si sono messi a discutere su di essa (cioè sul nulla) per almeno dieci minuti, senza il minimo imbarazzo e senza che la Annunziata avesse nulla da ridire, dichiarandosi anzi grata ed entusiasta della grande competenza (!) da loro dimostrata.

Un caso analogo è quello del recentemente defunto Andrea Purgatori, il quale, durante una puntata del suo programma Atlantide su LA7 (credo quella del 29 marzo 2022, ma non sono sicuro), per illustrare le conseguenze di un possibile incidente nella centrale nucleare di Zaporizhzhya ha trasmesso un documentario in cui si ripeteva per ben due volte che a Chernobyl si era verificata un’esplosione atomica, il che non solo è falso, ma è fisicamente impossibile, perché le centrali nucleari usano un tipo di uranio diverso da quello delle bombe (su ciò si veda Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-5-il-grande-spauracchio-parte-seconda-il-nucleare-civile/).

Un’altra cosa veramente incredibile – e che la dice lunga su come (non) funziona l’informazione dell’era digitale – l’ho scoperta cercando su Wikipedia notizie sui carri armati. Come d’uso ormai da un po’ di tempo, all’inizio della pagina dei risultati appare automaticamente una “tendina” intitolata Le persone hanno chiesto anche, che si aggiorna, sempre automaticamente, in base a quello che uno sta cercando. In essa al quinto posto compare la domanda: «Chi ha i carri armati più potenti al mondo?», a cui viene data la seguente risposta: «Graduatoria nella quale la Russia guarda tutti dall’alto, Stati Uniti compresi. Non soltanto perché l’esercito del Cremlino è l’unico a disporre di due dei migliori dieci tank al mondo, ma anche perché può contare sul migliore, il mezzo che rappresenta l’eccellenza del settore: il T90-MS».

Sono andato a cercare la fonte e ho scoperto che è un articolo del Messaggero del 22 aprile scorso (https://www.ilmessaggero.it/mondo/carri_armati_russia_classifica_mezzi_piu_potenti_t_14-6651976.html#:~:text=Graduatoria%20nella%20quale%20la%20Russia%20guarda%20tutti%20dall’alto%2C%20Stati,settore%3A%20il%20T90%2DMS.), scritto dal giornalista sportivo (!) Gianluca Cordella, il quale a sua volta afferma di basarsi su «una classifica dei carri armati più potenti al mondo pubblicata da Hot Cars», di cui non conoscevo neanche l’esistenza. Sono andato a cercarla e ho scoperto che si tratta di una rivista online sulle automobili (https://www.hotcars.com/) con tendenza al sensazionalismo, visto che la maggior parte dei suoi articoli sono dedicati a “qual è il più … (qualsiasi cosa) … del mondo”. Insomma, una fonte del tutto inattendibile.

In effetti, pure il giornalista qualche dubbio lo avanza, notando che in Ucraina stanno combattendo principalmente vecchi T-72 di fabbricazione sovietica, mentre questi fantomatici super carri armati russi (dopo due anni) non si sono mai visti. Ma poi si adegua a ciò che afferma la classifica suddetta (fatta non si sa da chi né con quali criteri) secondo la quale gli Abrams americani, cioè il modello di punta prodotto dalla prima superpotenza del pianeta, sono appena al nono posto.

Ora, che un singolo giornalista scriva una stupidaggine è un problema suo, ma che Google la faccia propria e la proponga in evidenza come la risposta migliore trovata dai suoi algoritmi è un problema di tutti. Che diventa ancor più grave se si considera che i suddetti algoritmi sono più o meno gli stessi che stanno alla base dei tanto strombazzati programmi di Intelligenza Artificiale e che, funzionando esclusivamente su base statistica, non ci propongono affatto la risposta migliore, bensì la più frequente tra quelle che si trovano su Internet (giacché per la IA ciò che non è su Internet semplicemente non esiste) o, come in questo caso, quella che usa le parole più simili a quelle della loro ricerca, anche se la risposta in questione è stupida.

Ma ancor più preoccupante è che assurdità colossali sono state dette con allarmante frequenza anche da veri esperti di cose militari.

Ho già citato l’incredibile “show” di Andrea Margelletti a Porta a porta, in cui pretendeva che bastasse una sola atomica tattica per spazzare via l’intero esercito ucraino, dispiegato in una zona grande quanto l’intera pianura padana, quando invece ci vorrebbe almeno un quindicesimo dell’intero arsenale atomico russo (vedi ancora https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/). Ma non si è certo trattato di un caso isolato. Sul rischio atomico, sia come conseguenza di un possibile uso di armi nucleari che di possibili danni alle centrali nucleari ucraine, è stata detta una quantità di sciocchezze da parte un po’ di tutti (su tutto ciò si veda ancora l’articolo appena citato).

Anche su altre questioni tecniche sono state prese cantonate notevoli. Solo per fare un esempio, per parecchio tempo si è continuato a ripetere che i missili ipersonici Iskander, che all’inizio della guerra hanno effettivamente causato danni gravissimi alle città ucraine, erano praticamente impossibili da abbattere. Invece, è bastato fornire agli ucraini dei sistemi antimissile efficaci e degli Iskander non si è più sentito parlare.

Tutto ciò però non è nulla di fronte ai due clamorosi errori di fondo che abbiamo commesso: la sopravvalutazione della reale forza della Russia e la sottovalutazione della reale entità dell’aiuto da dare all’Ucraina.

La sopravvalutazione del nemico

Fin dall’inizio della guerra c’è stata da parte di tutti, militari compresi, una clamorosa quanto irragionevole sopravvalutazione della reale forza dell’esercito russo, che, inspiegabilmente, dura tuttora, a dispetto di tutte le evidenze contrarie.

Per esempio, il generale Claudio Graziano, già capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano nonché presidente del Comitato Militare della UE, intervistato da Lucia Annunziata, ha affermato: «Oggi non abbiamo più paura delle forze convenzionali russe. Se ne avessimo parlato a novembre [del 2021] ne avremmo avuto paura. […] Nessuno si aspettava la resistenza che hanno messo in campo gli ucraini» (Mezz’ora in più, 20/11/2022). E addirittura il generale Ben Hodges, ex comandante delle forze USA in Europa, ha confessato stupito: «Non credevo che la Russia avrebbe fatto così male»(Mezz’ora in più del 06/11/2022).

Ora, come è possibile che perfino quelli che avevano la responsabilità diretta della difesa militare dell’Europa (e che quindi avevano anche accesso alle migliori informazioni disponibili, comprese quelle supersegrete) si siano sbagliati così clamorosamente nel valutare la forza di quello che, nonostante le relazioni relativamente pacifiche che si erano stabilite negli ultimi anni, restava pur sempre, almeno potenzialmente, il nostro più pericoloso nemico?

Oltretutto, non era difficile capire che l’esercito russo era in realtà una tigre di carta e che con solo un po’ di aiuto da parte nostra gli ucraini avrebbero potuto fermarlo. Io, per esempio, senza avere accesso a nessuna informazione riservata, ma con una semplice analisi di pochi dati basilari facilmente reperibili su Internet, lo avevo detto già dopo un paio di settimane (si veda il mio articolo https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/). Era infatti evidente che, se l’esercito russo era dieci volte più grande di quello italiano, ma spendeva per il suo mantenimento appena il 50% in più, doveva necessariamente essere obsoleto, dato che la tecnologia avanzata costa.

E non era solo la tecnologia ad essere obsoleta, ma anche la strategia, che era ancora basata su quella messa a punto nell’URSS degli anni Settanta, guarda caso proprio quando Putin serviva come ufficiale del KGB. Quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina ho avuto un fortissimo senso di “dejà vu”, ma non riuscivo a ricordare dove l’avessi visto. E poi ho capito: non era qualcosa che avevo visto, ma qualcosa che avevo letto.

Infatti, il modo in cui l’esercito russo si muoveva sembrava tratto di peso dal libro La terza guerra mondiale, scritto nel 1978 dal generale inglese John Hackett, ex comandante delle Armate del Nord della NATO, insieme ad altri ufficiali e analisti americani ed europei. Benché scritto in forma di romanzo, è in realtà un saggio poderoso (435 pagine), basato su documenti segreti sovietici trafugati dal nostro controspionaggio e pensato per convincere i paesi europei a ridurre il preoccupante gap rispetto all’URSS nelle armi convenzionali (l’obiettivo venne almeno in parte raggiunto e, anche se non lo sapremo mai con certezza, ciò potrebbe essere stato decisivo per dissuadere i sovietici dall’attaccarci).

Nel libro Hackett spiegava come nel 1975 la dottrina militare russa, da sempre incentrata su attacchi in massa di carri armati, a seguito della comparsa di efficaci armi anticarro era stata integrata con «una combinazione di tiro di distruzione di artiglieria e di attacchi aerei al suolo […] e […] azioni ad alta velocità, […] in grado di eliminare, con un attacco preventivo, la minaccia dei missili guidati e dei pezzi controcarro per i carri dell’ondata successiva». Per questo si prevedeva di usare delle colonne miste, composte da carri armati, pezzi di artiglieria leggera e mezzi blindati per il trasporto di unità di fanteria, con un limitato supporto aereo.

Ebbene, l’invasione dell’Ucraina si è svolta esattamente così. Ma questa nuova dottrina non era mai stata testata sul campo e (per fortuna) alla prova dei fatti si è dimostrata inefficace: i russi non sono riusciti a distruggere i missili anticarro nemici in misura significativa e così gli ucraini hanno fatto il tiro al bersaglio sulle lente e pesanti colonne russe, facendole letteralmente a pezzi (non dimentichiamo che il territorio a nord di Kiev è stato interamente liberato dagli ucraini usando solo le armi che già avevano prima dell’inizio della guerra, moderne, certo, ma non modernissime: quelle più avanzate sono arrivate solo alcuni mesi dopo).

Di fronte a questa disfatta, ancor più grave in quanto totalmente inattesa, i russi hanno reagito nel solo modo che conoscono, secondo una tradizione ancestrale che risale addirittura al tempo dei primi Zar: con la forza bruta, triplicando la massa di truppe sul terreno. Per un po’ questo ha funzionato, ma, siccome seguivano sempre la stessa strategia antiquata, non appena abbiamo fornito agli ucraini un po’ di tecnologia davvero avanzata i russi hanno subito un’altra disfatta, ancor più grave, perdendo in pochi giorni, nell’estate del 2022, gran parte dei territori che avevano conquistato in mesi di sanguinosi combattimenti e a prezzo di perdite terribili.

Eppure, incredibilmente, questa irragionevole sopravvalutazione della forza militare della Russia è continuata, così come è continuata questa sorprendente cecità mentale, per cui molti sembrano incapaci di riconoscere per quello che è ciò che sta accadendo proprio sotto il loro naso.

Così, per oltre due mesi, quasi tutti gli esperti di geopolitica e di strategia militare avevano ironizzato sulla controffensiva ucraina “che non partiva mai”, senza rendersi conto che quello a cui stavano assistendo era esattamente lo stesso che avevano fatto gli americani all’esercito di Saddam Hussein durante la prima Guerra del Golfo: prima una lunga opera di distruzione delle infrastrutture logistiche e poi una rapidissima avanzata contro un esercito ormai non più in grado di combattere (anche i tempi, tra l’altro, sono stati abbastanza simili: 5 settimane di bombardamenti e 4 giorni di offensiva terrestre). Ma neanche questo è bastato a smuoverli dalle loro posizioni preconcette.

Per fare solo un esempio particolarmente clamoroso, a un Porta a porta del giugno 2023 (non ricordo esattamente quale) ancora Margelletti, Lucio Caracciolo e Dario Fabbri hanno reiteratamente sostenuto che il prolungamento della guerra favorisce la Russia perché avendo una popolazione più numerosa poteva mettere in campo più soldati e più mezzi di quanti noi possiamo fornire all’Ucraina. E a nulla valeva che un sempre più stranito Bruno Vespa cercasse vanamente di far loro notare come fino ad allora la realtà aveva mostrato esattamente il contrario.

Un altro esempio, molto più recente, è quello di Avvenire online del 22 febbraio scorso. In un articolo introdotto in sommario dalla roboante affermazione che «tra gli analisti c’è una certezza: nessuno potrà mai vincere la guerra in Ucraina», Giorgio Ferrari, che pure ha una lunghissima esperienza come cronista di guerra, sosteneva che «non è solo questione di munizioni, di armamenti, ma di un elementare calcolo che ogni professionista con le stellette sa fare: per ogni colpo sparato dai cannoni ucraini, la Russia ne spara dieci».

Ora, di queste due affermazioni la seconda è vera ma fuorviante, mentre la prima è semplicemente priva di senso. Cosa vuol dire, infatti, quel “mai”? C’è forse qualche legge di natura che lo impedisce? Non c’è nulla di ineluttabile in ciò che sta accadendo in Ucraina. La situazione attuale è stata determinata dalle nostre scelte: cambiandole, cambierà anche la situazione. Il problema è se si vuole cambiarle.

Quanto alla seconda affermazione, per fare il calcolo in realtà basta un bambino delle elementari. Il “professionista con le stellette” servirebbe invece per spiegare che, contrariamente a ciò che pensa Ferrari, il calcolo in questione è irrilevante, perché sparare dieci o anche cento colpi contro uno non serve a niente se il nemico ha cannoni con una gittata di molto superiore ai tuoi e quindi può distruggerti prima ancora che tu possa inquadrarlo nel mirino. Questo è appunto il caso degli Abrams rispetto ai carri armati russi, checché ne pensi Hot Cars. Il problema è che finora di Abrams (e, più in generale, di carri armati moderni) agli ucraini ne abbiamo fornito solo una manciata: se gliene avessimo dati qualche centinaio, la guerra starebbe andando ben diversamente.

Su questa base di pessima comprensione si innesta poi l’articolo di Giuseppe Notarstefano, presidente nazionale della Azione Cattolica, e Sandro Calvani, presidente dell’Istituto Toniolo, due pezzi da novanta del laicato cattolico italiano (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/dopo-due-anni-di-guerra-in-europa-venuta-lora-di-negoziati-di-pace). Dopo avere anch’essi diligentemente ripetuto il mantra circa il presunto «flusso senza precedenti di aiuti militari occidentali» e avere ribadito che «allo stato attuale delle cose, risulta estremamente improbabile un’affermazione militare di uno dei due contendenti», i due si chiedono che fare (dando per scontato che provare a cambiare “lo stato attuale delle cose” non rientri fra le opzioni). E quale geniale soluzione tirano fuori dal cappello? Ma è ovvio: «L’apertura di negoziati ufficiali presso la sede ONU di Ginevra»! Eh, già, chissà come abbiamo fatto a non pensarci prima…

Dopodiché i due si dilungano a illustrare tutte le meravigliose opportunità che questa «buona pratica» offrirebbe (si noti la terminologia presa di peso dall’insopportabile burocratese politically correct, una “cattiva pratica” che il Covid ha contribuito moltissimo a diffondere). Purtroppo, però, non dicono una sola parola sui mezzi che andrebbero usati a tale scopo, senza la definizione dei quali i fini proposti restano parole vuote (dire che si «potrebbero offrire forti incentivi economici e politici per convincere Russia e Ucraina» non chiarisce nulla, perché sono parole così generiche da risultare anch’esse vuote).

Infine, dopo aver riconosciuto che «forse tali negoziati potrebbero durare anni», concludono che «ciononostante sono sempre preferibili allo status quo, in cui parlano solo le armi», senza però spiegare (anzi, senza neanche chiedersi) che cosa si dovrebbe fare nel frattempo, dato che, quand’anche per miracolo i negoziati iniziassero davvero, fino a quando non si giunga a un accordo continuerebbero comunque a parlare le armi. Se questo è il meglio che sa esprimere il mondo cattolico italiano (e, temo, non solo italiano), siamo davvero messi male…

Ora, anche da questa breve ma abbastanza rappresentativa rassegna mi pare evidente che quello che si continua a non capire (o a far finta di non capire) è che nella guerra moderna la superiorità numerica non conta nulla: quella che conta è la superiorità tecnologica, che per fortuna è ancora a nostro favore. Per capire fino a che punto, possiamo guardare alle ultime guerre “tradizionali” (cioè contro un esercito e non contro la guerriglia) combattute dalla NATO, in particolare la Guerra del Golfo, perché l’esercito iracheno era più o meno delle stesse dimensioni e usava più o meno gli stessi armamenti, in gran parte ancora di fabbricazione sovietica, del contingente russo in Ucraina.

La coalizione guidata dagli americani aveva un numero di soldati (640.000) di poco superiore al mezzo milione schierato da Saddam Hussein e solo 250.000 vennero effettivamente impiegati nella campagna di terra. Ciononostante, l’esercito iracheno venne completamente distrutto nel giro di appena cento ore. La coalizione perse in combattimento meno di 200 uomini, mentre le perdite irachene sono tutt’oggi molto controverse, ma anche secondo le stime più prudenti furono almeno 20.000 e secondo altre arrivarono addirittura a 200.000, con un rapporto che anche nel caso più favorevole è di oltre cento contro uno e in quello più sfavorevole addirittura di mille a uno.

Quanto ai carri armati, in quella che fu la più grande battaglia di mezzi corazzati della storia, nota come 73Easting, gli USA persero appena 36 veicoli, di cui solo 4 Abrams, distruggendo 1350 carri armati iracheni dei circa 2000 mandati da Saddam a combattere nel deserto (perlopiù vecchi T-72 di fabbricazione sovietica, proprio come quelli che agiscono in Ucraina), più migliaia di altri mezzi militari di vario tipo, per un totale di 4193: di nuovo, cento a uno (cfr. Stephen Biddle, Victory misunderstood, https://doi.org/10.2307/2539073).

Comunque la si voglia mettere, è chiaro che non fu una guerra, ma una rapida ed efficiente campagna di annientamento di un nemico del tutto impotente. E più o meno lo stesso rapporto di (almeno) cento a uno lo troviamo anche nel 1999 nella guerra contro la Serbia (1031 morti contro 2) e nel 2003 nell’invasione dell’Iraq (da 30 a 45 mila morti contro 238).

Si obietterà che da allora gli altri paesi hanno fatto dei progressi. Ed è vero. Ma questo non vuol dire che abbiano ridotto le distanze in maniera significativa, perché noi ne abbiamo fatti altrettanti, se non di più. Solo la Cina è riuscita ad avvicinarsi, anche se resta ancora lontana (per fortuna, data la natura criminale del suo regime, che troppo spesso dimentichiamo). Ma non certo la Russia, che è sostanzialmente un paese sottosviluppato: basti dire che il bilancio della NATO del 2023 è stato di 1100 miliardi di dollari (www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2024/3/pdf/sgar23-en.pdf), che equivale a circa la metà dell’intero PIL russo dello stesso anno.

Di conseguenza, se la guerra fosse davvero troppo costosa per noi, come sostengono i suddetti esperti o presunti tali, lo sarebbe a maggior ragione per la Russia. È vero che, essendo un dittatore, Putin, a differenza di noi, può permettersi di finanziarla anche a costo di affamare il suo popolo, ma le sue risorse sono incomparabilmente minori: neanche usando tutto il denaro dello Stato per la guerra (cosa che, per ovvie ragioni, neppure lui può fare) sarebbe in grado di tenere il nostro passo. Inoltre, non è solo questione di soldi: serve anche tempo. Per ricuperare un ritardo tecnologico come quello accumulato dalla Russia ci vogliono decenni, anche investendo una fortuna.

A questo punto mi immagino che molti si staranno chiedendo come è possibile, se quello che sto dicendo è vero, che la guerra non sia ancora finita.

È una domanda giusta, perché in effetti è esattamente così: la guerra poteva – e quindi doveva – finire già un anno fa, con la totale distruzione dell’esercito russo, la liberazione di tutta l’Ucraina e la caduta (e conseguente morte) di Putin. E allora perché non è successo?

Qui viene in ballo il secondo, gravissimo errore che abbiamo commesso e che, purtroppo, continuiamo a commettere: la sottovalutazione dell’aiuto da dare all’Ucraina.

La sottovalutazione dell’aiuto

La risposta alla domanda di cui sopra è infatti tanto semplice quanto sconcertante: la guerra non è ancora finita perché quella che abbiamo speso finora per l’Ucraina non solo non è affatto una cifra enorme, ma è una cifra semplicemente ridicola.

In genere si ritiene che nei primi due anni di guerra abbiamo fornito aiuti militari per circa 70 miliardi di dollari. Può sembrare tanto, ma si tratta di appena la metà di quanto è costata la Guerra del Golfo (61 miliardi di dollari di allora, equivalenti a 137 miliardi di oggi), che durò solo sei settimane (dal 17 gennaio al 28 febbraio 1991), mentre due anni equivalgono a centoquattro settimane.

Ciò significa che in proporzione abbiamo fornito agli ucraini un aiuto 35 volte inferiore, anche se in realtà sarebbe bastato molto meno, purché dato subito, perché in tal caso la guerra sarebbe stata vinta rapidamente e sarebbe quindi durata molto meno. Pur con questa precisazione, tuttavia, è evidente che gli aiuti che abbiamo fin qui dato all’Ucraina sono di gran lunga insufficienti e a volte addirittura surreali: per esempio, è di questi giorni la notizia che il Belgio si è impegnato a fornirle 30 cacciabombardieri F-16 per… il 2028!

Inoltre, la gran parte di questi soldi (intorno ai 50 miliardi) sono stati messi dagli USA. Considerando che gli altri paesi membri sono 28 (escludendo i neoarrivati Svezia e Finlandia e la Turchia, che nella NATO ormai ci sta solo nominalmente), ciò significa che in due anni ciascun paese membro ha speso in media poco più di 700 milioni, ovvero circa 360 milioni all’anno. E infatti il 28 marzo scorso, durante il question time alla Camera, il Ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato che nel 2023 l’Italia ha dato all’Ucraina 417 milioni di euro di aiuti militari (non sono riuscito a trovare il dato del 2022, ma è ragionevole pensare che sia simile). In altre parole, finora per fermare Putin abbiamo speso appena un decimo di quello che ci è costato il reddito di cittadinanza. E gli altri paesi europei hanno fatto più  o meno lo stesso.

Confesso che quando mi sono finalmente deciso, dopo mesi di crescente disagio, ad andare a vedere le cifre ho sperimentato di nuovo lo stesso senso di rabbiosa incredulità che avevo provato quando ero andato a vedere per la prima volta i dati della OMS sul Covid, rendendomi conto che raccontavano una storia diametralmente opposta a quella che ci andava propinando la stessa OMS insieme a (quasi) tutti i governi del pianeta, senza che nessuno sentisse il bisogno di andare a controllare. Ma stavolta è stato anche peggio, perché allora almeno i dati erano molti e qualche calcolo, sia pur elementare, bisognava farlo, mentre in questo caso basta cercare pochi numeri (che si trovano in cinque minuti) e metterli a confronto così come sono, senza nessuna elaborazione, per capire come stanno le cose. Eppure, una volta di più, sembra che nessuno l’abbia fatto né abbia intenzione di farlo.

E così, proprio come col Covid, non guardare i numeri impedisce di capire la reale dimensione delle cose di cui si parla. È chiaro infatti che con cifre del genere i rifornimenti di armi davvero ad alta tecnologia (contro cui i russi sono impotenti, quale che sia la loro superiorità numerica) non possono essere stati molti. Ed è proprio così. Oltre ai sistemi antimissile, gli unici che gli abbiamo finora fornito sono stati i micidiali Himars, missili teleguidati a lungo raggio che hanno permesso agli ucraini di colpire i depositi di armi e munizioni e le linee di rifornimento nelle retrovie russe, consentendo loro di lanciare la spettacolare controffensiva dell’estate 2022, che ha liberato gran parte dei territori conquistati a partire dal 24 febbraio.

Da allora, i russi sono stati costantemente costretti a difendersi e hanno continuato a perdere terreno, anche se molto più lentamente. Come è logico, dato che nel frattempo gli ucraini non hanno più ricevuto nessuna fornitura militare in grado di produrre un nuovo salto di qualità e a causa di ciò i russi hanno avuto il tempo di fortificare a dovere le zone ancora sotto il loro controllo. Solo nelle ultime settimane hanno ricominciato ad avanzare, benché di poco, guarda caso proprio in coincidenza con il blocco degli aiuti USA da parte dei repubblicani.

Ma anche questo dato, come tutto il resto, viene sempre presentato in modo gravemente distorto, perché si parla sempre della percentuale di territorio ucraino oggi controllato dai russi, ma non si spiega mai che gran parte di esso (tutta la Crimea e la maggior parte del Donbass) era già in mano loro prima dell’inizio della guerra, essendo stato annesso nel 2014. Al contrario, di quello che avevano conquistato nella fase iniziale dell’invasione del 2022 gli è rimasto ben poco. Alimentare la confusione su questo punto fa apparire l’azione degli ucraini molto meno efficace di quanto sia, il che induce nella nostra opinione pubblica dubbi ingiustificati sull’utilità degli aiuti militari.

Tutto ciò è stato spiegato molto chiaramente da Garri Kasparov, l’ex campione mondiale di scacchi che dal 2005 è diventato uno dei pochi oppositori democratici di Putin, contro il quale si candidò alle presidenziali del 2008, vedendosi però costretto a rinunciare per le intimidazioni del regime. Recentemente Putin lo ha addirittura inserito nell’elenco dei terroristi (!) ricercati dalla Russia per le sue dichiarazioni che lo incolpavano per la morte di Navalny. In un articolo del 6 novembre  2023 (https://www.lastampa.it/esteri/2023/11/06/news/dallucraina_al_medio_oriente_i_passi_falsi_di_biden_in_politica_estera-13838505/) Kasparov scriveva: «Il temporeggiare dell’Amministrazione Biden ha avuto pesanti conseguenze. Se gli Stati Uniti avessero procurato all’Ucraina il sistema missilistico Atacms, gli F-16 e i carri armati fin dal primo giorno, avrebbero sconfitto l’esercito russo sul campo e vinto la guerra prima che i soldati russi si barricassero. Adesso, dopo due anni di combattimenti e dopo mezzo milione di morti, la Russia si è arroccata in profondità e ogni avanzata ucraina avverrà a carissimo prezzo».

Cionondimeno, è vero, purtroppo, che il prolungarsi della guerra rischia di favorire la Russia, ma per un motivo molto diverso da quello addotto dai presunti (e presuntuosi) “esperti”. Il vero problema è che col passare del tempo il nostro già timido appoggio all’Ucraina sta diventando sempre più timido.

Ora, questo si deve anzitutto a un’opinione pubblica composta in gran parte da persone viziate e immature (la “società signorile di massa” di Ricolfi), abituate ad avere tutto e subito, senza dover mai fare nessun vero sacrificio e ideologicamente avverse all’idea stessa che possa esistere una guerra giusta. Ma ancor di più si deve a discorsi irresponsabili di questo tipo, che inculcano negli ascoltatori l’idea che abbiamo già fatto uno sforzo economico gigantesco che non possiamo più reggere a lungo, onde per cui, se neppure questo è bastato a vincere la guerra, allora vuol dire che ciò non è possibile e che bisogna rassegnarsi a trattare con Putin (benché – piccolo ma non trascurabile dettaglio – lui non abbia nessuna intenzione di trattare con noi).

Parafrasando Agatha Christie, potremmo dire che una previsione sbagliata è solo una previsione sbagliata, due previsioni sbagliate sono solo due previsioni sbagliate, ma tre o più, soprattutto se vengono da fonti ritenute autorevoli, fanno una tendenza. In altre parole, abbiamo qui a che fare con la classica profezia che si autoavvera – o quantomeno rischia di farlo, se andiamo avanti così: l’opinione pubblica diventa sempre più scettica, i governi riducono il loro impegno, le cose sul campo peggiorano, ciò viene addotto come prova che la guerra non si può vincere, e così via, in un cortocircuito logico micidiale che stravolge il corretto rapporto tra teoria e realtà.

E qui c’è un punto su cui dissento in parte da Ricolfi. Condivido pienamente la sua preoccupazione per l’intolleranza che sta crescendo un po’ da tutte le parti, così come sono d’accordo con lui che se si invita qualcuno a parlare in televisione poi non ha senso pretendere che non dica ciò che pensa. Ma il problema è appunto questo: è accettabile che si inviti a parlare in televisione anche chi sostiene idee che se fossimo formalmente in guerra con la Russia verrebbero considerate disfattismo e comporterebbero conseguenze molto pesanti (una volta c’era addirittura la fucilazione)?

È vero che formalmente non siamo in guerra con la Russia e che quindi formalmente ognuno ha il diritto di dire ciò che vuole al riguardo. Però la libertà di pensiero non include il diritto di manifestarlo in televisione, che è invece un privilegio, riservato a pochissime persone e spesso neanche meritatamente. Pertanto, a mio giudizio, diversamente dal Covid, che era un problema scientifico e che perciò richiedeva la discussione critica più ampia possibile, non sarebbe così scandalosa un po’ di censura preventiva nei confronti di chi rischia oggettivamente di favorire un nostro mortale nemico, tanto più, poi, se dice cose manifestamente false. Il problema, semmai, è che, se facessimo davvero così, in televisione rischierebbe di non andarci più nessuno, a cominciare dai conduttori…

Comunque, qualsiasi cosa si pensi di ciò, il punto centrale della questione è che, se perfino aiuti così inadeguati come quelli fin qui forniti agli ucraini sono stati sufficienti a ribaltare completamente il corso della guerra, sarebbe bastato (e basterebbe tuttora) un altro sforzo, relativamente piccolo, per chiuderla del tutto.

Ma allora perché non lo si è ancora fatto?

Perché tutto questo: la politica

Per quanto riguarda i politici, purtroppo, non c’è da stupirsi. Da tempo, infatti, in Occidente c’è un drammatico vuoto: di idee, di leadership, di autorevolezza, di tutto. Per capire quanto siamo messi male basta guardare i due candidati alle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti: un ultraottantenne mezzo rincoglionito e un quasi ottantenne mezzo matto. È già sorprendente che il suddetto ultraottantenne e gli imbelli leader della (dis)Unione Europea abbiano deciso di aiutare l’Ucraina, sarebbe stato stupefacente se l’avessero fatto anche in modo intelligente.

Non dimentichiamo che quando ci fu l’invasione (a cui fino al giorno prima nessuno credeva – o meglio, nessuno volevacredere, nonostante i continui e dettagliatissimi avvertimenti della intelligence americana), al di là delle solite parole di condanna e della rituale minaccia di sanzioni economiche, che non hanno mai fermato nessun dittatore, non sembrava affatto esserci una reale volontà di sostenere l’Ucraina, anche perché tutti credevano che non ci sarebbe neanche stato il tempo, essendo convinti che la Russia avrebbe vinto nel giro di un paio di settimane.

Biden, in particolare, dopo aver già regalato l’Afghanistan ai Talebani, con le catastrofiche conseguenze che abbiamo sotto gli occhi, era pronto a fare lo stesso con l’Ucraina, offrendo al Presidente Zelensky e al suo governo un esilio dorato negli USA, senza rendersi conto che questo sarebbe stato interpretato da tutti i nostri nemici come un ulteriore invito ad attaccarci, visto che ormai basta fare la faccia cattiva per farci battere in ritirata (non è certo un caso che tutti – ma proprio tutti – i regimi anti-occidentali siano diventati molto più aggressivi dopo la nostra vergognosa fuga dall’Afghanistan).

Le cose cambiarono solo quando Zelensky rifiutò l’offerta con le celebri parole (spero destinate a passare alla storia come l’inizio della fine della minaccia russa in Europa): «Non mi serve un taxi, mi servono armi».

Oltre ad ottenere il sostegno (quasi) convinto degli USA e della UE, per qualche tempo il Presidente ucraino, con il suo mix di coraggio, fermezza ed equilibrio (davvero notevole per uno che rischia la pelle tutti i giorni), riuscì perfino nel miracolo di far sì che quest’ultima si ricompattasse intorno ai suoi valori fondativi, anziché pensare solo ai soldi e accapigliarsi su ridicole questioni ideologiche, tipo l’auto elettrica (ne parleremo presto) o la teoria di gender. Di fatto, oggi Zelensky è l’unico vero leader che abbia l’Occidente e, soprattutto, l’unico che creda ancora «nell’Europa dei popoli e delle culture, dall’Atlantico agli Urali» (per usare due celebri espressioni di Giovanni Paolo II) e non solo nell’Europa dell’euro e della BCE, oltretutto gestita in modo orribile da quando al posto di Draghi è arrivata quella inetta di Christine Lagarde (anche di questo parleremo a breve).

Ma la luna di miele è durata troppo poco. Di fatto, dopo il clamoroso successo della controffensiva del 2022 è diventato presto evidente che i nostri leader credevano (o volevano credere) che ormai gli ucraini potessero farcela da soli. Certo, continuando a rifornirli delle munizioni per le armi che già avevano (impegno, peraltro, anch’esso clamorosamente disatteso, visto che gli abbiamo dato appena il 30% di quanto promesso), senza però bisogno di ulteriori salti di qualità, come la fornitura di carri armati Abrams e cacciabombardieri F-16, più volte richiesti da Zelensky ai suoi riottosi alleati, che non si sono mai mostrati troppo entusiasti dell’idea.

L’Oscar della discussione più delirante sul tema spetta senz’altro alla distinzione tra armi offensive e armi difensive, che semplicemente non esistono. Ciò che rende una guerra difensiva è il fine a cui tende (la liberazione del proprio paese e non la conquista di quello nemico), non i mezzi con cui la si combatte, che sono sempre gli stessi e hanno sempre lo stesso obiettivo: l’uccisione dei nemici e la distruzione dei loro armamenti. Ma provate a dirlo in pubblico e si scatenerà il finimondo (in effetti, molti europei non ritengono nemmeno che abbiamo dei nemici). Che non si riesca neanche più a riconoscere l’elementare verità che le armi servono a uccidere e che a volte ciò è purtroppo necessario la dice lunga sul livello di alienazione dalla realtà a cui siamo arrivati.

Tuttavia, va anche detto che questa in gran parte è una scusa, con cui i nostri governi cercano di nascondere i veri motivi di tale resistenza a fornire armamenti avanzati in grandi quantità, che sembrano essere essenzialmente due.

Anzitutto, lo si giudica un costo eccessivo, senza rendersi conto di quanto maggiormente ci costerebbe, non solo in termini di soldi, ma anche di devastazioni e di vite umane, una vittoria russa in Ucraina. In secondo luogo, molti temono che una vittoria troppo netta degli ucraini possa indurre Putin a usare le armi nucleari, senza rendersi conto di quanto improbabile sia in realtà questo rischio (vedi ancora il mio già citato https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta-4-il-grande-spauracchio-parte-prima-il-nucleare-bellico/) e di quanto più plausibile e più grave sia invece il rischio che la vittoria ucraina non sia abbastanza netta da provocare la caduta di Putin. O, peggio ancora, che non ci sia una vittoria ucraina.

Tuttavia, queste motivazioni sono forse più comprensibili di quella ufficiale, ma non meno preoccupanti, perché questo errore rischiamo di pagarlo carissimo. E benché stavolta la colpa sia innanzitutto dei politici, non per questo gli esperti ne escono innocenti: quasi tutti, infatti, hanno giustificato questa scellerata decisione ricordandoci che in ogni caso per addestrare adeguatamente i piloti di questi mezzi ci vorrebbe un anno. Peccato solo che la guerra stia andando avanti ormai da due anni, per cui se glieli avessimo forniti subito sarebbero entrati in azione già un anno fa.

Ma la cosa più assurda è che aver commesso questo errore fatale all’inizio del conflitto viene spesso usato come giustificazione per continuare a ripeterlo. Se, per esempio, questi armamenti glieli avessimo forniti l’anno scorso, al posto delle poche decine di vecchi carri armati che gli abbiamo elemosinato di malavoglia, certo si sarebbe dovuta rimandare la controffensiva di primavera (che peraltro non ha dato risultati troppo brillanti, proprio per la carenza di mezzi adeguati), ma almeno adesso gli ucraini sarebbero adeguatamente equipaggiati e non dovremmo temere che i russi possano tornare a prendere il sopravvento. Ora, come si possa pensare che l’Ucraina (o qualunque altro paese) possa vincere una guerra senza aerei e senza carri armati, è un mistero.

O forse no. Perché in effetti molto spesso si è avuta l’impressione che anche queste siano scuse e che in realtà i nostri cari leader non vogliano affatto che l’Ucraina vinca e che, invece di levarsi dai piedi Putin una volta per tutte, preferirebbero indurlo ad accettare (benché – sempre lo stesso fastidioso dettaglio – nessuno sappia come) una qualche sorta di spartizione dell’Ucraina stile guerra fredda, in cui lui si prenderebbe la Crimea e parte del Donbass, come anche la maggior parte degli esperti da sempre suggerisce. Perché mai, però, una soluzione del genere dovrebbe convenirci più dell’altra, che porterebbe alla sua eliminazione, è a sua volta un mistero.

Una spiegazione, che qualcuno ha effettivamente proposto, potrebbe essere che i nostri governi non trovino molto tranquillizzante l’idea di dover convivere in futuro con una Ucraina col morale alle stelle per la vittoria sulla Russia e dotata, grazie al nostro aiuto, di un esercito tecnologicamente all’altezza di quelli delle principali potenze europee, ma di essi molto più numeroso e agguerrito.

Non mi sento di escludere questa ipotesi, ma, se è vera, allora significa che i nostri governanti sono ancora più stupidi di quel che sembrano. Dopo una guerra del genere, infatti, l’ultima cosa che potrebbe venire in mente agli ucraini sarebbe minacciare o anche solo infastidire i loro alleati, di cui continuerebbero ad avere bisogno a lungo, sia per ricostruire il paese, sia per mantenere in efficienza gli armamenti che gli avremo fornito, che ancora per molto tempo non saranno in grado di produrre e riparare da soli. I loro sforzi militari sarebbero invece concentrati nel tenere a bada la Russia, onde evitare che possa cercare una rivincita, il che converrebbe a tutti.

Converrebbe agli USA, che avrebbero finalmente all’interno della NATO un alleato politicamente fedele, militarmente forte e geograficamente collocato nella posizione più strategica che si possa immaginare, sicché per molti decenni potrebbe fare, molto meglio degli imbelli paesi europei, da “cane da guardia” nei confronti della Russia, ma anche di un eventuale tentativo turco o cinese di espandersi nelle repubbliche ex sovietiche attualmente controllate da Putin.

Ma converrebbe ancor di più a noi, che di spendere i nostri soldi o (non sia mai!) le nostre vite per difenderci proprio non ne abbiamo nessuna voglia: meglio quindi lasciare che se ne occupino i più battaglieri ucraini. Eppure, non pare che sia questo il modo in cui ragionano i nostri leader politici, sia di maggioranza che di opposizione.

Un’altra ipotesi, avanzata ancora da Kasparov, è che gli Stati Uniti «temevano il caos potenziale di una sconfitta della Russia più di quanto temessero la distruzione dell’Ucraina». Ma, se è così, allora gli americani sono stati ancora più stupidi di noi, giacché in questo modo «stanno ottenendo proprio quello che paventavano maggiormente: dittatori ringalluzziti e caos dilagante » (si veda ancora l’articolo citato in precedenza, così illuminante che consiglio a tutti di leggerlo per intero: https://www.lastampa.it/esteri/2023/11/06/news/dallucraina_al_medio_oriente_i_passi_falsi_di_biden_in_politica_estera-13838505/).

Ma forse la spiegazione più vera del comportamento ondivago e incerto dei nostri leader va cercata, ancora una volta, nella tragicomica vicenda del Covid. Infatti, la “legge di Ricolfi” («se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai, più costerà caro a tutti») non vale solo per le pandemie, ma per tutte le situazioni di crisi, compresa questa. Se avessimo fatto subito quello che andava fatto, certamente ci sarebbe costato più caro sul momento, ma la guerra sarebbe stata vinta rapidamente e quindi il saldo finale sarebbe stato ampiamente positivo, da tutti i punti di vista. Ma purtroppo, come già ai tempi del Covid, sembra proprio che questo i politici non riescano a capirlo. E così, ancora una volta, invece di anticipare gli eventi, li rincorrono.

Speriamo solo che la piega preoccupante che stanno prendendo gli eventi serva a dar loro la sveglia e che gli aiuti necessari per vincere la guerra vengano forniti al più presto, ovviamente insieme ad altri aiuti più urgenti che servono per consolidare il fronte in attesa che i mezzi più moderni siano pronti a entrare in azione. Lo sblocco degli aiuti americani è già qualcosa, ma è ancora ben lungi dall’essere sufficiente. Timor Dei initium sapientiae, dicevano gli antichi: a volte la paura può anche essere buona consigliera…

Perché tutto questo: gli esperti

Più difficile è capire perché non solo gli pseudo-esperti, ma anche gli autentici esperti di cose militari continuino a ripetere come un disco rotto le assurdità che abbiamo visto e molte altre ancora. È mai possibile che davvero non si rendano conto che sono assurdità? Oppure ci sono altre spiegazioni?

Certamente anche qui, come già col Covid, pesa molto l’indisponibilità a riconoscere i propri errori. Praticamente tutti, all’inizio, avevano previsto che la Russia avrebbe vinto facilmente e ora sembra quasi che molti sperino che ci riesca, solo per avere l’amara soddisfazione di dimostrare che avevano ragione (mentre ad altri, più modestamente, sembrerebbe bastare che la Russia, se proprio non può vincere, almeno non perda). Capire fin dove arriva la malafede e in che misura invece si tratta di una vera e propria incapacità di abbandonare convinzioni troppo radicate è probabilmente impossibile e sicuramente inutile: quale che sia il motivo, infatti, resta che si sta facendo prevalere la teoria sulla realtà e che questo rappresenta la negazione più radicale che si possa immaginare del metodo scientifico e, più in generale, di qualsiasi forma di conoscenza degna di tal nome.

Ma c’è anche un altro fattore da tenere in conto, che col Covid non era molto rilevante, mentre qui, trattandosi di guerra, lo è: il peso delle motivazioni ideologiche, che condizionano anche gli esperti. E ciò accade assai più spesso di quanto sembra. Non dimentichiamo, infatti, che il più efficace metodo di propaganda consiste nel travestire le proprie opinioni soggettive da previsioni oggettive.

Così, se uno ritiene che non si debba aiutare l’Ucraina in nome del pacifismo, per difendere gli interessi dei nostri imprenditori che esportano in Russia o, peggio ancora, perché sotto sotto parteggia per Putin, anziché manifestare apertamente le proprie idee, che difficilmente sarebbero accettate, potrebbe trovare più conveniente cercare di convincere i suoi interlocutori che aiutare gli ucraini è inutile o addirittura contro il loro stesso interesse, perché servirebbe solo a prolungare le loro sofferenze senza impedire la “inevitabile” vittoria finale russa. Discorsi del genere si sono effettivamente sentiti molte volte (soprattutto nella prima parte della guerra, quando le cose andavano peggio, ma anche dopo) e venivano sempre da persone che notoriamente condividevano l’una o l’altra delle suddette posizioni ideologiche.

L’ideologia più micidiale di tutte, però, non ha un preciso colore politico, anche se storicamente è figlia del comunismo, ma ormai ha contagiato un po’ tutti: è quella del dialogo-che-risolve-tutti-i-problemi (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti/). Essa infatti, mescolandosi al sempre più dilagante (e sempre più delirante) complottismo, ha già convinto milioni di persone che l’unica via di uscita dalla guerra sono le mitiche “trattative di pace” e che se queste non sono ancora iniziate è solo perché “manca la volontà politica”, con il che in realtà si intende che manca la nostra volontà politica, perché secondo questa mentalità per definizione i “cattivi” siamo noi.

Questa idea, inoltre, è condivisa anche da molti “liberal” non di sinistra e perfino da molti “comunitari” (destra più frange di marxisti ortodossi; per questa distinzione vedi l’articolo appena citato), che ne respingono la versione “buonista” di cui sopra, tipica della sinistra e del mondo cattolico, ma ne accettano un’altra che proclamano essere una semplice questione di realismo: siccome le guerre, come qualsiasi altra cosa, sono dovute agli interessi (ultimamente economici) delle parti in causa, l’unico modo di farle finire è mettere da parte le questioni morali e trovare un bilanciamento degli interessi in gioco che lasci tutti ugualmente soddisfatti (o tutti ugualmente insoddisfatti, secondo la celebre battuta di Henry Kissinger).

Ora, nessuno più di me è favorevole al realismo, ma già a priori è evidente che questo ragionamento è piuttosto una forma di cinismo amorale. Il realismo autentico, infatti, consiste nel cercare di seguire le indicazioni della realtà, per cui già il fatto in sé di identificarlo a priori con una specifica soluzione è contraddittorio. Inoltre, è falso che le guerre (o qualsiasi altra cosa) siano sempre dovute a questioni di interesse, come ho cercato di illustrare ancora nell’articolo sulle Dodici idee comuniste, a cui perciò rimando.

Ma, soprattutto, la storia dimostra che (tranne quando, come per esempio nella guerra Iran-Iraq, i contendenti giungono contemporaneamente all’esaurimento delle forze) non è mai l’inizio delle trattative a determinare la fine della guerra, ma è piuttosto la fine della guerra (determinata dalla vittoria di una parte e dalla sconfitta dell’altra) a permettere l’inizio delle trattative. Ed è facile capirne il motivo.

Nessuno, infatti, neppure un dittatore psicopatico come a suo tempo Hitler e oggi Putin o i capi di Hamas, inizia una guerra a cuor leggero, se non altro perché non può farla da solo e ha quindi bisogno che almeno un certo numero di persone lo sostengano per convinzione e non solo per paura, perché la guerra può fare più paura di qualsiasi dittatore. Inoltre, una guerra si può perdere e quando a perderla è un dittatore ciò in genere ne determina la caduta e spesso anche la morte. La guerra, quindi, è certamente una tragedia, ma non è affatto una follia, come continua purtroppo a ripetere Papa Francesco, evidentemente anche lui molto mal consigliato dai suoi “esperti” (una volta o l’altra dovrò scrivere qualcosa sulle stranissime idee del cattolicesimo contemporaneo circa la politica internazionale), bensì una scelta accuratamente ponderata che ha sempre una sua logica, perfino quando è la logica di un folle.

La famosa frase di Von Clausewitz per cui «la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi» non è soltanto una battuta brillante e un po’ cinica, ma una precisa descrizione di ciò che accade. Alla guerra, infatti, si arriva quando almeno una delle parti in causa ritiene che la situazione che si è creata non le permetta più di raggiungere i propri obiettivi attraverso le vie della politica: perché mai, quindi, tale parte dovrebbe accettare di tornare a trattare prima che qualcosa di sostanziale sia cambiato? Pretendere poi che ciò possa accadere addirittura il giorno dopo l’apertura delle ostilità (come quasi tutti hanno fatto, sia per l’Ucraina che per Gaza) non è soltanto ingenuo, ma semplicemente stupido.

Ma forse c’è anche un altro motivo, stavolta non ideologico, anche se si tratta comunque di un pregiudizio infondato. Ed è che dopo l’11 settembre tutti gli scontri tra noi e le varie dittature nostre nemiche non sono avvenuti nella forma di guerre tradizionali, bensì di “guerre asimmetriche” contro la guerriglia, a parte la seconda guerra con l’Iraq (che però si è presto trasformata anch’essa in una guerra di questo tipo) e l’intervento in Serbia (troppo breve per fare testo).

Questo tipo di guerra, infatti, riduce notevolmente il peso della nostra superiorità tecnologica, creando la sensazione che i nostri nemici siano diventati più forti e che anche in uno scontro tradizionale avremmo delle difficoltà a spuntarla. Ma questa è, appunto, solo una sensazione, priva di qualsiasi fondamento nella realtà dei fatti. In Ucraina non si combatte tra le montagne, ma in una vastissima pianura quasi completamente priva di ripari naturali, che rappresenta lo scenario ideale perché le nostre armi ad alta tecnologia possano dispiegare tutto il loro potenziale. E, di fatto, così è già accaduto con quelle che fin qui abbiamo dato agli ucraini. Non c’è quindi nessuna ragione di pensare che le cose vadano diversamente con quelle che (si spera) gli daremo in futuro.

Ciò che è sorprendente è che questa falsa impressione abbia contagiato anche buona parte degli analisti e degli stessi vertici militari. Eppure, è accaduto. E forse non è neanche tanto sorprendente.

Siamo noi, infatti, che tendiamo a mitizzare gli esperti, come se fossero persone dotate di una razionalità superiore e immuni alle debolezze della gente comune. Ma in realtà studiosi di geopolitica, professori universitari, politici e generali (sì, anche loro) sono esseri umani come noi, anch’essi figli del nostro tempo. Un tempo in cui l’apparenza e l’emotività tendono a prevalere sulla conoscenza e sulla razionalità, fino al punto di generare delle vere e proprie forme di “bispensiero” orwelliano, per cui si è convinti che una certa cosa è vera, eppure al tempo stesso si nutre anche una convinzione contraddittoria con la prima, senza nemmeno accorgersi che è contraddittoria.

E tuttavia dobbiamo accorgercene. Perché se non lo faremo al più presto, liberandoci di queste forme sbagliate di pensiero, in Ucraina finirà col vincere Putin. Che non si fermerà certo lì: e allora, oltre ai soldi, dovremo metterci anche i soldati. Che però non abbiamo, perché da noi nessuno ha più voglia di morire per la libertà (o per qualsiasi altra cosa).

Molto meglio per noi, quindi, che a fare il lavoro sporco siano gli ucraini, che non sono ancora così rammolliti e, soprattutto, hanno ancora abbastanza senso della realtà da capire che le pallottole non si fermano con le chiacchiere.

Se non per generosità, aiutiamoli almeno per egoismo.

L’Università di Zurigo si ribella alla dittatura degli “indicatori”

10 Aprile 2024 - di Paolo Musso

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Il 13 marzo scorso l’Università di Zurigo ha annunciato ufficialmente la sua decisione di abbandonare il sistema internazionale di valutazione delle università, usualmente chiamato THE perché pubblicato dalla rivista inglese Times Higher Education.

Ne parlo solo adesso perché solo adesso l’ho saputo, grazie alla segnalazione di un collega, che a sua volta ha ripreso un post pubblicato sulla pagina Facebook di un amico, che a sua volta riprendeva un trafiletto apparso sul sito svizzero swissinfo.ch, che a sua volta riprendeva il breve comunicato apparso sul sito dell’Università (https://www.news.uzh.ch/en/articles/news/2024/rankings.html). Un percorso quasi clandestino per una notizia che è stata quasi totalmente ignorata dai media (l’unica notizia in italiano che ho trovato su Internet è apparsa su Ticinonline ed era una semplice traduzione del trafiletto suddetto).

A prima vista tale disinteresse potrebbe apparire giustificato: perché infatti questa notizia dovrebbe importarci, in un momento in cui ben altri e ben più gravi sembrano essere i problemi?

La risposta è: esattamente perché così sembra, ma così non è. La decisione presa dall’Ateneo svizzero è potenzialmente rivoluzionaria, non solo rispetto al problema (comunque gravissimo) che affronta, ma soprattutto per la visione del mondo che vi sta dietro, che è diametralmente opposta a quella che sta alla radice di molti dei suddetti problemi apparentemente più gravi e più importanti.

Anzitutto, a scanso di equivoci, va detto che l’Università di Zurigo non ha preso questa decisione perché oggetto di una valutazione negativa: nell’ultima classifica si trovava infatti all’80° posto, che è un’ottima posizione, considerando che nel mondo esistono oltre 7000 università.

La ragione è che, come dice seccamente il comunicato, «la classifica non è in grado di riflettere l’ampio spettro di attività di insegnamento e ricerca intraprese dalle università». E questo perché «le classifiche generalmente si focalizzano su risultati misurabili, che possono avere conseguenze indesiderate, ad esempio portando le università a concentrarsi sull’aumento del numero di pubblicazioni invece che sul miglioramento della qualità dei loro contenuti».

Confesso che la cosa mi ha stupito, perché non credevo che in Europa ci fosse ancora qualcuno capace di prendere una posizione così forte e di dire parole così chiare e così controcorrente. Eppure, la cosa davvero sorprendente non dovrebbe essere la decisione degli svizzeri, ma piuttosto che ci sia voluto così tanto per arrivarci: da molti anni, infatti, tutti gli addetti ai lavori sanno perfettamente che le cose stanno così, ma ciononostante accettano supinamente questo sistema demenziale.

Giusto per dare l’idea a quelli che addetti ai lavori non sono, farò solo un esempio tra i tanti possibili: quello delle citazioni, che è particolarmente significativo perché a prima vista può sembrare sensato.

Nell’attuale sistema di valutazione si ritiene infatti che un buon indicatore del valore di un articolo, almeno nel campo delle scienze sperimentali, che hanno un metodo estremamente efficace per verificare la bontà delle teorie proposte, sia il numero delle volte che tale articolo è stato citato in altre pubblicazioni. Come ho detto, ciò può sembrare sensato, ma in pratica non lo è affatto e porta ad effetti gravemente distorsivi.

Anzitutto, c’è il problema delle autocitazioni. Un autore, infatti, può citare in ciascuna sua pubblicazione anche le proprie pubblicazioni precedenti e non solo quelle dei colleghi. Tuttavia, siccome il sistema funziona in automatico, gestito da computer che non sono in grado di distinguere, anche le autocitazioni vengono considerate valide.

Si potrebbe pensare che per rimediare basterebbe creare programmi più sofisticati che possano riconoscere e non considerare le autocitazioni, ma non è così: l’autocitazione individuale sta infatti cedendo il passo a quella di gruppo, che è praticamente impossibile da contrastare.

La scienza moderna, infatti, soprattutto in certi campi, come emblematicamente la fisica, può ormai avanzare solo grazie a esperimenti di estrema complessità, che coinvolgono decine o perfino centinaia di persone. Di conseguenza, quando alla fine si pubblica l’articolo che rende conto di tale esperimento vengono (giustamente) considerati coautori tutti quelli che vi hanno preso parte e non solo chi materialmente l’ha scritto, perché costui non ha fatto altro che presentare il risultato che tutti hanno concorso a produrre.

Tuttavia, è chiaro che ciò dà ai ricercatori che partecipano a tali esperimenti un enorme e ingiustificato vantaggio rispetto ai loro colleghi che lavorano da soli o in gruppi più piccoli. Infatti, ogni volta che uno dei coautori citerà l’articolo in un lavoro successivo, tutti gli altri “guadagneranno” una citazione. Di conseguenza, quanto più grande è il gruppo, tanto maggiore sarà (in media) il numero di citazioni che l’articolo otterrà, senza che ciò abbia la minima relazione con il suo valore.

Di nuovo, si potrebbe pensare che il problema si possa risolvere non ritenendo valide neppure le citazioni dei propri coautori, ma in realtà ciò non è possibile, perché si scontra con un’altra difficoltà, stavolta insormontabile.

Perlopiù, infatti, i coautori del primo articolo non lo citeranno in una pubblicazione individuale, ma in un’altra pubblicazione di gruppo, insieme ad altri coautori che non facevano parte del gruppo che ha scritto il primo articolo, il che impedisce di considerarla un’autocitazione, benché molto spesso lo sia. È chiaro, infatti, che, se uno dei coautori insiste per citare un articolo precedente di cui era coautore, anche se non è molto pertinente, ben difficilmente gli altri si opporranno, perché a loro volta avranno qualche altro articolo poco pertinente di cui sono coautori da citare.

Ma dovrebbe essere ormai altrettanto chiaro che tale perversa dinamica non dipende di per sé dall’esistenza (peraltro inevitabile) degli articoli di gruppo, ma dall’usare il numero di citazioni come metodo di valutazione.

Ciò, infatti, in primo luogo dà una rilevanza ingiustificata agli articoli scritti da molte persone e favorisce ingiustamente chi ha l’unico “merito” di far parte di grandi gruppi di ricerca. Inoltre, spinge inevitabilmente i ricercatori a usare il trucco delle autocitazioni di gruppo sopra descritto, il che è sì scorretto, ma spesso indispensabile per “sopravvivere” accademicamente.

Ma c’è di più. Ciò spinge anche i ricercatori ad aumentare il più possibile il numero di coautori, a volte inserendo anche colleghi che non hanno realmente contribuito (i quali, ovviamente, ricambieranno il favore alla prima occasione), perché questo, come abbiamo appena visto, aumenta le possibilità di essere citati (inoltre, la presenza di coautori, specie se internazionali, vale per un altro degli indicatori del valore di un articolo, ancora una volta a prescindere dal suo contenuto).

Infine, il sistema induce a pubblicare il maggior numero possibile di articoli, spesso parlando di cose insignificanti o “spezzettando” in varie parti un articolo interessante ma lungo, perché, di nuovo, così aumenta sia la possibilità di autocitarsi che la probabilità di essere citati da altri (senza contare che anche il numero di articoli pubblicati, indipendentemente dal loro valore, vale per un altro indicatore e quindi spinge nella stessa direzione).

Non ci vuole un genio per capire che tutto ciò alla lunga non può che causare una progressiva diminuzione della qualità della ricerca, cioè l’esatto opposto di quel che si voleva ottenere. Eppure, il numero delle citazioni è uno degli indicatori più sensati: se dunque anch’esso produce effetti perversi di questa portata, figuriamoci gli altri! E in effetti è proprio così. Ma, anziché insistere sugli effetti (su cui potrei andare avanti per ore, senza però aggiungere nulla di concettualmente nuovo), vorrei ora mettere in luce le cause.

O meglio, “la” causa, giacché alla base di tutto ciò sta un’unica idea: la pretesa di ridurre il giudizio qualitativo a un giudizio quantitativo, nella sciocca convinzione che solo quest’ultimo possa essere “oggettivo”, fraintendendo così completamente il vero senso del metodo scientifico. Pretendere di misurare ciò che per sua natura non è misurabile non è infatti segno di rigore, ma di stupidità.

Come ciononostante (e nonostante i suoi palesi effetti perversi) questa idea abbia potuto diffondersi così tanto è una domanda a cui si può rispondere o con un discorso molto lungo o con uno molto breve. Riservandomi quello lungo per un’altra occasione, qui risponderò nella forma breve.

In estrema sintesi, si può dire che da molti anni è in corso in Occidente una pericolosissima svalutazione del giudizio personale, che sempre più persone considerano irrimediabilmente “soggettivo”, non solo nel senso di “fallibile”, ma anche e soprattutto nel senso di “fonte inevitabile di corruzione e di discriminazione”, le due parole che più ossessionano gli uomini (e le donne) del nostro tempo, facendogli progressivamente perdere ogni capacità di ragionare.

Ma, ancor più in profondità, dietro a tutto questo si ritrova ancora e sempre la malattia mortale della modernità, ovvero il rifiuto radicale del rischio, di cui ho parlato molte volte sia in questo sito che nelle mie pubblicazioni. Perché è chiaro che il giudizio personale è un rischio. Ma è un rischio che non si può eliminare. O meglio, si può, ma a prezzo di eliminare con esso anche la libertà e quindi la creatività umana. Come infatti sta accadendo.

Per questo, come accennavo all’inizio, la presa di posizione dell’Università di Zurigo ha una portata potenzialmente rivoluzionaria, che va ben al di là del pur grave problema che l’ha provocata. Basti dire che la pretesa di sostituire il qualitativo con il quantitativo sta, fra l’altro, alla base di sistemi inaffidabili e potenzialmente deleteri come ChatGPT e i suoi “fratelli” (cfr. Luca Ricolfi, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-limpostore-autorevole/ e Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-io-e-chat-lo-studente-zuccone/), che sarebbe bene cominciare a chiamare col loro giusto nome, che non è Intelligenza, bensì Stupidità Artificiale (cfr. Paolo Musso, A.S. – Artificial Stupidity, in “Bioethics Update” n. 2/2023, pp. 90-102, https://www.bioethicsupdate.com/frame_eng.php?id=57).

In particolare, mi ha colpito il fatto che gli svizzeri nel loro comunicato affermino che, «sebbene le classifiche pretendano di misurare in modo completo» le attività umane come l’insegnamento e la ricerca, in realtà «non possono farlo» («they cannot do so») e non semplicemente che “non devono farlo”, secondo l’atteggiamento oggi imperante che io chiamo “riduzionismo etico”. Nel nostro tempo scettico e stanco, infatti, qualsiasi affermazione che avanzi una pur minima pretesa di essere oggettivamente vera è di solito molto male accolta, mentre l’etica, anche se non è molto simpatica, è almeno tollerata, perché qualche regola di convivenza dobbiamo pur darcela.

Non che l’etica non sia importante, beninteso, ma il problema è che affrontare le sfide che abbiamo davanti solo dal punto di vista etico finisce inevitabilmente per ridurne (appunto) la portata, anche dallo stesso punto di vista etico (“bad science, bad ethics”, come dicono gli americani – anzi, come dicevano, prima di essere travolti dallo tsunami del rincoglionimento woke). Per questo quel «they cannot do so» è come una ventata d’aria fresca di straordinaria importanza.

Ma ancor più importante è che il comunicato affermi esplicitamente che il fallimento delle classifiche si verifica «perchéesse si incentrano su criteri quantitativi» («as they focus on quantitative criteria»), il che, in un momento storico in cui tutti cercano di convincerci che invece proprio questa è la strada da seguire, è davvero una rivoluzione

Una rivoluzione in cui «si privilegia la qualità piuttosto che la quantità» («the emphasis is on quality over quantity») e che perciò rimette al centro l’essere umano, con la sua rischiosa ma insostituibile libertà.

Una rivoluzione di cui il nostro mondo ha un disperato bisogno e in cui tutti devono decidersi a fare la loro parte, piccola o grande che sia.

Un primo, importantissimo passo sarebbe che altre Università, soprattutto le meglio posizionate nel ranking, lo abbandonassero, come ha fatto Zurigo.

Mai come in questo caso si può dire che il complimento più sincero è l’imitazione.

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