Il diario della talpa. Secondo episodio

2. AL BUIO E ZITTI

Il mio mondo si è improvvisamente popolato. Ora moltissimi vivono come me, sottoterra. Una moltitudine infinita. Tutti a scavare con le unghie la propria tana. Tutti talpe! C’è stata come un’invasione. Per carità, non vedo nessuno perché ognuno è preso dentro la sua galleria, ci mancherebbe. Però lo sento che c’è un gran trambusto intorno.

Così, il mondo mi si è ristretto perché devo star rinchiusa, ma mi si è anche enormemente allargato: siamo, ora, un intero pianeta di talpe!

E succede una cosa strana: che siamo soli, ma non siamo soli. Siamo, come posso dire…? tutti solitariamente insieme, in una talpitudine gigante.

Abbiamo persino raggiunto una specie di uguaglianza. Certo permangono alcune piccole differenze: chi ha il terrazzo e chi non ce l’ha, per esempio; ma più o meno adesso possiamo dire che viviamo tutti nello stesso modo. Lo stare rinchiusi ci unisce, ci uniforma.

Chi l’avrebbe detto che bastava una prigione?

Viviamo quindi tutti (quasi tutti…) sottoterra, al buio completo di quel che succede fuori. Non usciamo. Non camminiamo. Facciamo piccoli movimenti intorno (intorno a cosa non importa). Saliamo ogni tanto le scale e le scendiamo, su e giù (chi le ha, delle scale…), per tenerci in forma. Siamo anchilosati, doloranti, rigidi come pali, asfittici. Non vediamo altri animali, strade, case, auto, i dehors dei bar. Non vediamo proprio. Non usiamo più gli occhi, se non per percorrere mille volte i cunicoli di casa, guardare i mobili e gli oggetti di sempre, che ci affanniamo a spostare e rispostare, spolverare, mettere in ordine, aggiustare se hanno crepe, imperfezioni, malfunzionamenti. A volte ci prende una smania e buttiamo via qualcosa, carte, piatti vecchi, ricordini che non ci ricordano più niente. Già, ricordare… Ci appelliamo alla memoria, rivediamo nella mente le persone con cui siamo stati, i viaggi che abbiamo fatto, le estati che abbiamo passato al mare, in montagna, i musei, i monumenti, i figli piccoli che abbiamo avuto e che adesso sono grandi e non vivono più con noi (fanno le talpe in altre città, in altri continenti). Torniamo bambini e ripassiamo anche la nostra, di infanzia. A volte ci ritroviamo soli su una poltroncina, a parlare con i nostri genitori, che oggi avrebbero cent’anni.

Ci fa bene tutto questo ricordare, ma anche un po’ male. Ci fa volgere al passato come se non avessimo un futuro. Facciamo confusione. Sogniamo che il passato ritorni e lo chiamiamo futuro. Ma non ci caschiamo fino in fondo, nemmeno nei nostri sogni.

La cosa più dolorosa è il buio. Questo essere tenuti al buio. Ciechi come talpe. Inondati da previsioni, resoconti, dati, computi, grafici, statistiche, relazioni degli esperti, ma ciò nonostante al buio: è così che ci sentiamo. Non riusciamo a districarci. Nessuna chiarezza. Nessuna visione. Nessuna fiducia.

I numeri che ci vengono mostrati ci sembrano parziali, e approssimati. Esistono altri numeri, che nessuno ci dice: i numeri occulti. Fantasmatici, inquietanti. Cifre impressionanti, che non riusciamo nemmeno a immaginare.

In tutto ciò scaviamo, pazienti, le nostre gallerie. Almeno qua sotto si sta al sicuro, sembra. Così ci dicono…

Ma che ne sappiamo?

Siamo anche, oltre che senza occhi per vedere e senza zampe per camminare, senza voce. Siamo diventati muti come talpe. Non possiamo più protestare, criticare, anche solo debolmente esprimere qualche dubbio, o riserva. Se lo facciamo, qualcuno subito ci impone di star zitti e ci rimprovera: Ma come puoi criticare in questa situazione così drammatica? Zitto e obbedisci! Semmai poi, quando tutto sarà passato, potrai dire cosa non va. Sì, ma sarà tardi, avremo fatto troppi errori. È adesso che bisogna criticare, per cambiare direzione, nel caso ne avessimo preso una sbagliata. Se diciamo che qualcosa ci pare malfatto, è perché speriamo che cambi e diventi benfatto.

E se ci tenessero chiusi in casa perché non sanno ancora curarci? Perché abbiamo posti limitati in ospedale, pochi medici e infermieri, poche mascherine, una quantità di tamponi e test ridicola rispetto al fabbisogno, medicine che non sappiamo ancora se funzionano, nessun modo di essere seguiti a casa se ci ammaliamo?

E se ci tenessero chiusi in casa perché non sanno cosa stia veramente succedendo? Se non avessero un’idea chiara della situazione? Se fossero all’oscuro come talpe anche i nostri governanti?

Siamo, ora, molto sospettosi. E scettici. Non ci facciamo abbindolare da una retorica dolciastra e fumosa. La sensazione che abbiamo è di vedere solo una minima parte del macigno, il resto rimane nascosto da un pesante tendone. Ogni tanto si solleva un lembo, un piccolo triangolino di stoffa, e di lì sbirciamo una quantità infinitesimale di realtà. Ma nessuno solleverà mai del tutto quel tendone. Ci vorrebbe un colpo di vento…

Senza conoscere la realtà e senza avere ancora gli strumenti, ovvio che l’unica strategia possibile è stata di non farci uscire più di casa. Abbiamo limitato i rischi, certo. E siamo anche diventati responsabili di quel che ci succede: se usciamo e ci ammaliamo o facciamo ammalare altri, è colpa nostra. Quindi, tutti reclusi e fermi, immobili, ciechi. E zitti.

Talpe.

Scaviamo, cos’altro possiamo fare?

Ma quando scaviamo con le nostre enormi zampe da talpa scarnificandoci gli unghioni, abbiamo una speranza, ardita e segreta: che un giorno, magari per un errore di scavo, le gallerie s’incontrino, che ci ritroviamo tra noi talpe sperdute e impaurite. E che una di queste gallerie sbuchi all’aperto, prima o poi.

Leggi il primo episodio LA VITA INTERIORE

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Il diario della talpa. Primo episodio

  1. LA VITA INTERIORE

È un po’ che non usciamo. Direi più o meno una cinquantina di giorni.

In realtà non usciamo quasi mai, noi talpe, non ci viene tanto. Viviamo di norma abbastanza appartate e nascoste, all’ombra. Ma un conto è appartarsi perché è nella nostra natura, un altro è avere l’obbligo di stare rinchiusi. Allora cambia tutto. La vita appartata è una scelta, e funziona soltanto se si alterna a momenti di vita sociale, non dico colossali manifestazioni di massa, ma qualcosa che preveda la presenza di qualche altro essere umano intorno. Se invece la solitudine e l’isolamento diventano l’unica esistenza possibile, non funziona più.

Invece oggi tutti lì a esortarci a coltivare la nostra vita interiore. La capacità di stare da soli, di trovare in noi stessi le risorse, appellandoci alla nostra parte spirituale, e via così. Be’, dunque, parliamone. La vita interiore è un affare serio e complicato. Intanto, mi viene da dire: e prima? In tutti questi anni appena trascorsi, o anche solo tre mesi fa, dove ce l’eravamo dimenticata, la nostra meravigliosa vita interiore? Sotterrata? Abolita?

E poi, non è che tutti sono portati per una vita solitaria e schiva. Chi nasce talpa va bene, ma gli altri, quelli che oggi si trovano a esser talpe per forza? Talpe temporanee, le chiamerei: momentanee, precarie, a scadenza; talpe che poi, finita l’emergenza, torneranno a essere non-talpe. Voglio dire che ci sono specie e specie, di animali, ognuna con le sue caratteristiche. Prendiamo i pesci per esempio, acciughe o sardine, quel che vi pare: guai se non vanno tutte ammassate insieme in un enorme banco. Più numerose sono, più stanno le une attaccate alle altre, più sono felici. Che problema c’è? Sono fatte così, sardine, acciughe: molto sociali. O gli storni, pensiamo alle gigantesche figure volanti che riescono a comporre in cielo, unendosi a migliaia, tutti compatti insieme… Chissà come soffrono adesso, gli storni, le sardine, le pecore, le mucche, i bisonti, tutti quegli animali abituati a vivere in branco, in stormi, in mandrie, in greggi, e ora forzati a vivere da soli.

Noi talpe sembreremmo davvero le più fortunate, in questo momento.

Ma anche qui, fino a un certo punto… La vita interiore è un lusso. Nessuno di noi, talpa o non talpa, se lo può prendere sempre, questo lusso. Sarebbe come, se ci piacciono i dolci, mangiare dolci tutto il giorno tutti i giorni. Bisogna dosare, equilibrare.

E poi non siamo così monoliticamente solitarie nemmeno noi talpe. Certo, mai visto un assembramento di talpe, questo no. Ma non è che stiamo sempre a contemplare il soffitto, leggere romanzi, studiare filosofia, scrivere poesie e fantasticare su cavalli alati. Ci piace anche lavorare, scavare, costruire stanze, puntellare, andare a scovare vermicelli. Magari anche uscire a farci un giro, e incontrare un’altra talpa o due. In certi periodi, una volta all’anno, addirittura ci accoppiamo, e poi per un po’ di tempo badiamo anche ai figli.

È una questione di equilibrio, di alternanza: dentro e fuori, correre e star fermi, esporsi e rintanarsi, oziare e lavorare. Luci della ribalta e buio del bugigattolo.

Quindi è piuttosto irritante che adesso facciano appello alle nostre risorse interiori, ci esortino all’isolamento, e ci reputino colpevoli se scalpitiamo per uscire. Risorse ne abbiamo, ma non illimitate.

Non dico che dovremmo trasgredire gli ordini, questo no. Sappiamo bene che è rischioso uscire, stare vicini, toccarsi, sputacchiare goccioline. Ma almeno lasciateci recalcitrare, graffiare con le unghie la prigione, pretendere vie d’uscita. Almeno lasciateci il diritto di non dirci felici e contenti.

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Malati di scrittura internettiana

Chi sono gli haters? Chi sono coloro che insultano, minacciano, sputano veleno, irridono, calpestano, umiliano, lanciano volgarità e violenza sprizzando odio via web? Schermati da un video, lontani dai loro interlocutori, assenti ma comunicanti, esistono veramente? Ne conosciamo qualcuno? Sono persone, robot, marziani? Siamo noi?

Ma soprattutto, perché diamo loro tanta importanza? Perché ne parliamo, perché li ri-postiamo e li inoltriamo, moltiplicando all’infinito il loro effetto devastante? Perché non li ignoriamo?

Credo che la risposta sia in un’altra domanda: perché a nostra volta usiamo il web quando vogliamo esprimere il nostro pacato e nobile pensiero, cioè ci consegniamo a un luogo dove necessariamente quel nostro pensiero incontrerà non pacati e non nobili non-pensieri?  Perché affidiamo le nostre riflessioni (che avrebbero tutta l’ambizione di essere profonde) allo spazio di poche righe, dove dovranno necessariamente adeguarsi a essere non-profonde e fluttuare in una banalità sconfortante? Perché, insomma, amiamo la scrittura internettiana, contratta e nervosa, schematica e superficiale, per forza di cose fatta di formule? Perché abbiamo scelto di parlare per formule, o per video, invece che con la parola e la sua meravigliosa complessità?

Ovvio che, se esprimiamo via web (quindi attraverso formule) le nostre convinzioni, riceveremo via web i commenti, che non potranno che essere altrettante formule, frasette ridotte all’osso, direi al nulla. E che cosa mai oggi, più che un insulto, risponde ai valori che implicitamente affermiamo di apprezzare? Brevità, velocità, concisione. Abbiamo volutamente espulso dalla nostra vita tutto ciò che è lungo e implica ragionamenti complessi. Dunque, se in una riga ci mandano a quel paese, mi vien da dire che riceviamo pan per focaccia.

Il fatto è che il web è, per la maggioranza di noi, irresistibile. Temo che la verità (poco dicibile) sia questa. Parlare via web vuol dire raggiungere tutti in un attimo. Quindi avere il mondo in pugno. E a chi non fa gola? Diventare noti, forse anche famosi. La fama corre sul web. Invisibile, imprendibile; irresponsabile, amorale, ignobile e catastrofica. Com’era la divinità alata che l’ha preceduta nei secoli. Fama, la dea Fama. La “voce pubblica”. Un gigantesco mostro capace di spostarsi a velocità siderali, una specie di uccellaccio coperto di piume, che sotto ogni piuma celava un occhio. Infiniti occhi per vedere, infinite orecchie per ascoltare, infinite bocche per parlare e diffondere ciò che aveva visto e sentito: perfetta antesignana del web.

Ovidio è il primo che ci dice dove abita: al centro del mondo, in un edificio tutto buchi, infiniti ingressi senza porte, sempre aperti, notte e giorno, perché entrino le voci di tutti, indistintamente. Espressione massima di democrazia, già allora. Ma Ovidio è un poeta, Ovidio distingue. Non è vero che ogni parola si equivale e ha pari diritto, la parola saggia e la parola stupida, la parola frutto di studi e la parola estemporanea che ti esce dalle viscere, la diceria, la calunnia e la verità. Non è vero che non importa cosa è vero e cosa è falso. Certo, tutti devono avere la possibilità di parlare, nella casa della Fama tutte le parole sono accolte, ma ognuna avrà il termine preciso che la definisce, la fissa per quel che è, e la giudica. Il giudizio è imprescindibile, è il filtro. Non è detto che democrazia voglia dire rinunciare ai filtri. Distinguere, filtrare. Controllare il lessico, innanzi tutto. Aprire alle sfumature di senso, alle varianti. Contro la piattezza linguistica, l’ignoranza. (Ma Ovidio viveva in un tempo strano, in cui la poesia aveva voce).

Ciò che è irresistibile per tutti noi, credo, è poter raggiungere il maggior numero di nostri simili con fatica zero, con tempo zero. L’attimo di digitare quattro parole e siamo nell’aere. (Digitare, non direi mai scrivere! Noi oggi digitiamo, non scriviamo. Siamo digitanti. Usiamo le dita, non il cervello). Ma anche poter ricevere subito un feed back. Ci rispondono immediatamente, dall’aere: ci sono migliaia di “altri”, come noi viaggianti per l’aria, pronti a captare gli altrui segnali. Non fanno altro. Non facciamo altro…

Piccola parentesi, con qualche dato. Pare che il tempo medio che un adulto (dai 16 anni ai 64) passa su internet (tra social, video e musica) sia di sei ore al giorno. Gli italiani connessi sono quasi 55 milioni (cioè 9 su 10). Il 70% di noi appena si sveglia, come prima cosa, guarda il telefonino, il 63% lo controlla ogni sera prima di addormentarsi. Sul lavoro veniamo interrotti ogni 180 secondi (tra notifiche, gruppi WhatsApp, mail, conference call) e impieghiamo ogni volta 24 minuti per tornare proficuamente al compito che abbiamo sospeso. Così racconta Digital Detox, di Alessio Carciofi (Hoepli, 2017). Che siamo dipendenti da smartphone è chiaro a tutti, ma questi dati aggiungono una notizia importante: l’ampiezza delle proporzioni.

Dicevo, siamo antenne in perenne attesa di captare qualcosa. Se il segnale per un po’ non arriva, ci chiediamo cosa non va, siamo inquieti, tesi, tristi. Abbiamo anche la “sindrome della vibrazione fantasma”: crediamo di sentir vibrare il cellulare anche quando non vibra. Ansia da squillo. Vibranxiety.

Siamo astronauti dispersi, che hanno perduto l’astronave e vagolano nel nero spazio con la loro tuta grassa e bianca che li rende impacciati e chiusi, e con il tubo, quel tubo bianco che li collegava a qualcosa, a un motore, a un’intelligenza, a una boa, e che ora invece spencola nel vuoto e cerca di collegarsi a destra e a manca con il nulla. Major Tom! Siamo tutti molto simili a major Tom, in quella meravigliosa canzone che è Space Oddity. “Can you hear me, major Tom?” Ma non siamo lui, che era veramente solo nello spazio. Noi riusciamo a essere sperduti, e affollati. Soli, e dialoganti. Ci rimbalziamo a vicenda le nostre solitudini, e le chiamiamo condivisione. Viviamo in un rumore costante, e ci portiamo dentro il nostro silenzio, ognuno il suo. Usiamo la parola, ma parlare per formule non è parlare. Non sappiamo più condurlo, un ragionamento, portarlo a maturazione lenta, fase per fase. Ci abbiamo rinunciato, a ragionare. E a aspettare. Troppo lungo, troppo inutile.

Torniamo alla domanda: perché abbiamo scelto così in massa di affidare a facebook, o consimili, il nostro pensiero? Perché ci facciamo una pagina, un sito, un blog, esponendoci così alla triturazione altrui? Perché affidiamo le nostre idee a un video di un minuto e mezzo? Perché ci siamo arresi a tanta pochezza, ristrettezza, di tempi, di spazi?

Credo che sia perché ci conviene. Moltiplica la visibilità. Quindi aiuta il nostro lavoro, aumenta l’audience, le vendite dei nostri prodotti, siano essi libri, film, o borsette o piatti prelibati. Dunque, è autopromozione. Parliamo sul web perché lì possiamo far “crescere la nostra pagina”. Far conoscere sempre di più la nostra opera, il nostro nome. Aumentare la fama. Gli haters, alla fine, non sono che un inevitabile inconveniente, sgradevole, ma necessario: anch’essi amplificano la fama, forse sono addirittura il segno del successo. Famosi e diffamati, pazienza. Anche se si tratta di un successo immediato e labile, nemmeno un riflettore temporaneamente puntato su di noi, bensì la luce di un fiammifero. E siccome il fiammifero dura pochi secondi, la soluzione è aumentare il numero dei fiammiferi.

È questo bisogno di luce perenne intorno che m’incuriosisce, il bisogno di essere “seguiti”. Non riusciamo più a dire niente senza voltarci a vedere chi c’è dietro. Camminiamo con la testa perennemente voltata. Parliamo per vedere quanti ci ascoltano. Forse non ci importa nemmeno più quel che diciamo, ma solo la fila dietro, il fiammifero in più. La conseguenza è che finiamo per adeguare quel che diciamo al consenso altrui: diciamo quel che la gente vuole sentire, scriviamo i libri che la gente vuole leggere, votiamo il partito che la gente (o meglio, la “nostra” gente) vota. Seguiamo l’onda, il main stream. Il pensiero libero, originale, indipendente, per sua stessa natura, non ha seguaci. Dunque, non esiste.

Sia chiaro, a tutti fa piacere suscitare apprezzamento, ammirazione. Registrare una reazione positiva a quel che stiamo facendo, sul lavoro, per esempio. Lavoriamo meglio, se qualcuno ci dice bravo.

Ma anche lavorare e basta, senza chiedersi a chi “piace”, avrebbe un suo fascino. Anche essere non visti, non cliccati, non postati, non inoltrati. Anche l’invisibilità è un valore. Inestimabile. Andare per la propria strada, per la strada che riteniamo giusta in base ai nostri ideali, alle convinzioni che abbiamo maturato nel tempo, ai principi morali a cui abbiamo deciso di attenerci e, anche, alle nostre passioni. Così il maestro diceva a Dante: “Perché l’animo tuo tanto s’impiglia che l’andare allenti? Che ti fa ciò che quivi si pispiglia? Vien dietro a me, e lascia dir le genti; sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti”.

Anche tacere, volendo, ogni tanto, sarebbe un valore. “La più vera ragione è di chi tace”.

Ma siamo sempre nell’ambito della poesia, caro major Tom. Soli nel tuo spazio infinito.

Articolo pubblicato sul Il Sole 24 del 26 agosto 2016



Riflessioni su deferenza e rispetto

Mi folgora la parola deferenza. Non la incontravo da decenni e ora mi arriva da un libro di Kenneth Minogue, che mi passeggiava per casa e ho aperto per curiosità, al capitolo 2, “Il progetto di livellare il mondo”.

Il libro è uscito nel 2012 per IBL Libri, s’intitola La mente servile.

Leggo: “Il rango generava autorità e comportava deferenza. In quell’epoca (l’Europa del XV-XVI secolo) la deferenza era la chiave dei rapporti sociali perché implicava un rispetto più o meno automatico”.

La deferenza è ossequio, riverenza, rispetto. È un movimento, in un certo senso, verso il basso (de-ferre), è un abbassarsi, dovuto, doveroso, davanti a qualcuno riconosciuto come superiore.

Intanto c’è l’idea che qualcuno sia superiore. Che esista un sopra e un sotto, un alto e un basso. Può essere un grado socialmente elevato, o una funzione, un ruolo, un’autorità riconosciuta, o anche soltanto una maggiore esperienza, o l’età.

E poi c’è l’idea di un automatismo: il “rispetto automatico” è il rispetto dovuto a qualcuno a priori, non per i suoi meriti personali, ma per la sua funzione, o ruolo, o posto nella società, a cui tutti riconoscono un valore di per sé. Un anziano, un insegnante, un preside, un ufficiale dell’esercito, un vescovo, un direttore di banca.

Minogue dice che nell’Inghilterra dei secoli passati la deferenza era dovuta ai “rappresentanti di una classe che includeva non solo gli aristocratici e i nobili di campagna, ma anche i datori di lavoro, i padroni di servi, i maestri e i docenti universitari, le gentildonne, i preti, i giudici, le donne di una certa età e molti altri”.

Il rispetto non automatico sarebbe invece quello che ognuno di noi sente di dovere a qualcuno, perché gli riconosce dei meriti speciali, a esempio un talento artistico, una genialità, una grandezza d’animo, una nobiltà di sentimenti. Un rispetto che ci verrebbe naturale, e avrebbe molto a che fare con l’ammirazione, persino con la riverenza.

Molti della mia generazione provavano riverenza verso i propri insegnanti, i maestri, i grandi scrittori, artisti, scienziati, registi.

Ricordo che a vent’anni mi capitava di chiudere certe lettere (non so ora dire rivolte a chi) con l’espressione: Deferenti saluti. Mi chiedo se si usi ancora, o sia ritenuta una formula ridicola.

Deferenza oggi? Potrebbe significare non dire parole volgari, non fare gesti triviali, vestirsi in modo acconcio (non andare dal Preside con gli infradito, per esempio), usare il lei, e anche le maiuscole (tipo Professore, Ingegnere, Direttore).

Mantenere distanza. Una certa distanza.

Minogue: “La deferenza richiedeva formalità nei rapporti, il cui scopo era di mantenere la distanza tra le persone. Dietro questo formalismo c’era la convinzione che la distanza fosse una condizione necessaria del rispetto”.

Oggi non vogliamo deferenza anche perché non vogliamo distanza, ma il più possibile vicinanza, contiguità. Non facciamo altro che “abbattere le distanze”. Ci fa sentire più uniti, più fratelli.

Non vogliamo mostrare deferenza verso altri, ma non vogliamo nemmeno essere noi oggetto di deferenza. Ci metterebbe fortemente a disagio. Così come ci mette a disagio ogni forma che sia segnale di una qualche superiorità che noi attribuiamo ad altri o che altri attribuiscono a noi. Sarebbe la crisi del nostro credo egualitario.

Oggi una donna anziana potrebbe anche offendersi se un giovane sul tram le cedesse il posto. Lei sta facendo di tutto per apparire giovane, va in palestra, fa dieta, prende gli integratori giusti, si veste alla moda, e un giovane che le cedesse il posto la smaschererebbe, rendendo vano il suo duro lavoro.

Anche una donna, di fronte alla cavalleria di un uomo, oggi potrebbe sentirsi offesa. Ma come? Mi apri la portiera, mi offri il pranzo? Magari mi prendi anche in braccio, in una gita in montagna, per attraversare un torrentello, in modo che io non mi bagni le scarpe? Ma sei matto? E dove starebbe l’uguaglianza? Io sono uguale a te, quindi dividiamo il conto, io mi apro la portiera, io vado a piedi sulle pietre del ruscello perché sono perfettamente in grado di farlo, almeno quanto te. Se poi mi mandi dei fiori, attento! Ti denuncio per molestie.

Non voglio dire, con tutto ciò, che c’è un abisso tra il 1500 e oggi, o anche solo tra i nostri anni ’60 e oggi, o addirittura rispetto a quand’ero giovane io, cioè quarant’anni fa. Sarebbe piuttosto ovvio. Mi sto solo chiedendo se dobbiamo davvero, oggi, lasciar cadere tutto ciò, se davvero parole come rispetto e deferenza debbano farci venire l’orticaria e le vogliamo espellere per sempre dal nostro lessico, e soprattutto dalla nostra vita.

D’altronde, se i politici vanno in felpa, se appaiono in tivù in camicia con le maniche arrotolate e il colletto slacciato (perché è estate e sì, in estate fa caldo); se le condizioni atmosferiche dunque prevalgono sul concetto di rispetto e formalità; se odiamo la parola forma e connessi (formalità, formalismo) perché ci paiono irredimibilmente lontani da quella autenticità-spontaneità-naturalezza che è  attualmente il nostro mito da aspiranti neoselvaggi; se “mettere distanza” ci fa orrore e non facciamo altro che “ridurre le distanze”, abbracciandoci tra sconosciuti in un amplesso selfico (voglio dire “da selfie”);  se mantenere la nostra posizione eretta difronte a un bambino ci fa problema e sentiamo subito l’esigenza di metterci in ginocchio per essere alla sua altezza; se l’idea di una predella in classe, che sopraelevi la cattedra, ci fa vergognare perché ci sembrerebbe ignobile anche solo immaginarlo.

Se tutto ciò è vero, non vedo come potremmo auspicare la presenza, nella nostra vita sociale, di deferenza e rispetto.

In realtà noi usiamo molto, oggi, la parola rispetto. Aleggia ovunque. È una delle parole più gettonate. Anzi, ne abbiamo fatto una stucchevole litania. Ma è sempre e soltanto il rispetto in relazione a ciò che è diverso, straniero, in qualche modo vulnerabile. Sempre e dovunque predichiamo il rispetto per le minoranze etniche, per i migranti, i profughi, i disabili, i poveri, e ogni sorta di sventurati e svantaggiati. Sacrosanto, ci mancherebbe! Quel che però non ci viene nemmeno in mente è il rispetto per chi è di più, per chi è più in alto e sta meglio, o è più bravo in qualcosa, o ne sa di più: per chi insomma è superiore, come abbiamo detto, in grado, funzione, talento o altro. Questo non ci piace. Non ci pare dovuto. Anzi, ci pare indebito e scorretto. Perché contraddice il principio di uguaglianza. Sarebbe come ammettere che no, non siamo tutti uguali, tu sei meglio di me, o sei più in alto. Quindi, il rispetto che ti dovrei sarebbe la prova di una insopportabile, inaccettabile, disuguaglianza tra me e te.

Lo dico meglio con Minogue: “La democrazia ha concepito la deferenza come una forma di servilismo (…). Non c’è qualcosa di degradante, o di servile, nel mostrare deferenza verso un altro essere umano? Non siamo sostanzialmente tutti uguali? Non accade spesso che molti personaggi altolocati non ci siano affatto superiori per saggezza, sapere o competenza? La deferenza si potrebbe estendere al concetto di saper stare al proprio posto e saper stare al proprio posto è diventato un problema nel momento in cui la società è ormai sempre meno un insieme di posti”.

E ancora: i politologi hanno concettualizzato la deferenza “come un residuo irrazionale del feudalesimo e, di conseguenza, anche come un insulto alla democrazia”.

Ecco. Ma allora, se rispetto e deferenza portano in sé il virus di un’antidemocraticità, se implicano un’ammissione di non uguaglianza; se, quindi, in nome dei valori democratici, umanitari, solidali, siamo convinti che il rispetto e la deferenza siano un male, non dovremmo mai indignarci né protestare di fronte al genitore che va a picchiare l’insegnante perché ha dato un quattro a suo figlio. In fondo, sta dimostrando una condizione paritetica: lui, l’insegnante e il figlio studente sono finalmente – e a dispetto del ruolo, dell’età, dell’esperienza (e magari anche dell’intelligenza, sapienza, e altre innominabili doti) – tre entità perfettamente uguali, che non si devono niente l’un l’altro, meno che mai deferenza. Non è così?

Fine.

Era solo un inizio di riflessione, pensieri errabondi di inizio estate, su parole molto complesse, e molto desuete.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 1 luglio 2019



Punire quanto ci fa soffrire!

Giorni fa (2 maggio 2019 ndr), è comparsa la notizia che si abolivano le note e le sospensioni alle scuole elementari. Pare fosse un semplice adattamento alla normativa già vigente alle superiori, ma ha scatenato un ripullulare di opinioni e dibattiti sul tema punizioni a scuola, e più in generale teorie educative. Ben venga, non mi sottraggo.

Punizione è una parola che oggi non ci piace per niente e pronunciamo malvolentieri. Bizzarro che invece la tolleriamo benissimo nel mondo calcistico: pare normale che ai giocatori l’arbitro affibbi punizioni, ad esempio in presenza di un fallo. Ma a parte lo sport che, si sa, è un altro mondo, non credo di generalizzare dicendo che la posizione della stragrande maggioranza è contraria a ogni sanzione che abbia anche il più tenue sentore punitivo. “Non credo alle punizioni” è frase consueta, ripetuta. Quante volte l’abbiamo sentita pronunciare intorno a noi?

L’ultima volta mi è capitato, appunto, pochi giorni fa proprio in riferimento all’abolizione delle note a scuola. Una mia lettrice, madre di due figli, mi comunica il suo entusiastico accordo, e scrive esattamente la frase: non credo alle punizioni. Per la prima volta mi sono fermata. Mi sono chiesta cosa vogliano dire davvero le parole non credo alle punizioni. Naturalmente è implicito un verbo, una frase subordinata, un’oggettiva: non credo che le punizioni servano a qualcosa. Ecco, così è più chiaro il senso.

Ma in che cosa dovremmo credere? E a che cosa dovrebbero servire le punizioni? Be’, è piuttosto evidente, vorremmo che si producessero due effetti. Il primo, esterno, oggettivo e immediato: che tu non ripeta il “fallo” per cui sei stato punito; il secondo, soggettivo, a lento rilascio, e pertinente alla sfera dell’anima: che dentro di te avvenga una riflessione che ti condurrà a essere una persona migliore.

A nessuno, però, piace infliggere punizioni. Punendo ci si prende un rischio, e si paga un prezzo. La persona punita infatti potrebbe arrivare a odiare il suo punitore. E la prospettiva dell’odio altrui ovviamente ci disturba.

Ogni volta che anche solo imponiamo qualcosa, o che ci imponiamo all’altro (contrapponendogli la nostra opinione, o facendo valere una regola, un diritto) ci esponiamo all’altrui disapprovazione. Diventiamo antipatici, odiosi. Creiamo fastidio.

Faccio tre esempi. Al ristorante, mandiamo indietro una bottiglia perché il vino sa di tappo. Per strada, vediamo una persona che butta una cicca in terra e le diciamo per favore di raccoglierla (possiamo anche aggiungere un rimprovero esplicito). In casa nostra, alle nove di sera ordiniamo a nostro figlio di smetterla coi videogiochi e andare a dormire.

Tre esempi in cui è chiaro che ci imponiamo. Imponiamo la nostra presenza nel mondo, la nostra azione (vorrei dire la nostra autorità, ma so che la parola creerebbe ulteriore disagio). In tutti e tre i casi dimostriamo di non essere passivi, indifferenti, apatici, sornioni, inattivi, silenti. Diciamo, facciamo. Esprimiamo con forza il nostro parere e esigiamo un certo comportamento dagli altri. Cioè, interveniamo (interferiamo?).

Opinione personale: credo che tutto ciò migliori il mondo. Ad esempio se avessimo richiesto con forza all’umanità intera (sanzionandola o anche punendola) di non buttare bottiglie di plastica in mare, adesso l’isola galleggiante d’immondizia nel Pacifico, il Pacific Trash Vortex, non esisterebbe.

Non voglio, con ciò, in nessun modo esortare alle punizioni. Direi soltanto che forse dovremmo avere il coraggio, ove occorra, di sobbarcarci l’onere di punire. In fondo non è che il gesto successivo alla esposizione di una regola, di una legge, di un divieto. Un gesto ulteriore, comparativo di oltre; o ancor meglio il suo superlativo, ultimo. La punizione come ultimo, “più lontano” gesto…

Mi spiego meglio, torniamo all’esempio del bambino a cui diciamo di andare a letto alle nove. Glielo ripetiamo una volta, due. Alla terza, se lui ancora si ostina a non obbedire (altra parola tabù), che si fa? In genere il genitore di oggi apre allo spazio di una contrattazione infinita, convinto che si debbano educare i figli attraverso l’uso della ragione e della logica più stringente (e questo è il lato positivo: stiamo insegnando ai nostri ragazzi la sublime e raffinata arte oratoria delle suasoriae e controversiae). D’accordo. Ma come ne usciamo? Il ragazzino otterrà di non andare a dormire alle nove? Molto probabilmente si concluderà con un compromesso: lui proponeva le dieci, noi le nove, dunque andrà a letto alle nove e mezza. Mezzora in più, niente di tragico. L’unico tarlo è che, così facendo, affermiamo indubitabilmente il concetto che non c’è mai legge definita, ovvero che ogni legge è discutibile, controvertibile, di fatto aggirabile. Non sarebbe meglio affermare una regola (si va a letto ogni sera alle nove), e poi applicare una (lieve) punizione (domani non andrai a giocare da Francesco) nel caso il figlio non la rispetti?

Vietando di punire, accettiamo di rinunciare alle richieste che abbiamo appena fatto, più in generale ai principi, alle regole che enunciamo e che ameremmo veder rispettate. È come dichiarare che non ci teniamo abbastanza, che forse non ci crediamo nemmeno noi: sì, figlio mio, ti ho appena detto di andare a dormire alle nove (perché è per il tuo bene, hai bisogno di dormire molto, domani ti sveglio presto perché devi andare a scuola), ma, visto che tu non sei d’accordo e non cambi idea nemmeno di fronte alle ragioni che ti espongo con rigore logico adamantino, va bene, allora recedo dalle mie convinzioni, annullo la regola che ti ho appena esposto, mi contraddico, calpesto la mia stessa autorità, vengo a compromessi, accetto il tuo punto di vista e le tue preferenze. Preferisci andare a dormire più tardi? E va bene, fai come vuoi.

Che fatica! Mi affatico anche solo a scriverla, una scena simile, figuriamoci a viverla! La punizione sarebbe anche un modo per tagliar corto: ultimo gesto, basta con le sceneggiate estenuanti: io ti punisco (non ti mando a giocare da Francesco), tu patisci questo (piccolo) dolore, ne tieni memoria, impari il concetto e non ripeti il comportamento: vai a dormire alle nove. Semplice. E riposante. Cosa c’è che non va?

C’è che punire ci fa molto soffrire. È entrare in uno stato di conflitto che non siamo capaci di sostenere. Dopo aver inflitto una punizione, siamo scontenti di noi, pensiamo a come deve sentirsi l’altro, al male che gli abbiamo fatto e ci chiediamo perché abbiamo agito così, e se non era evitabile. Sapere che il colpevole soffre a causa nostra ci è insopportabile. Non punire, dunque, è pensare (soprattutto) al nostro bene. È un gesto egoistico e salvifico, salva noi stessi da un abisso di domande, dubbi, pentimenti e insoddisfazioni.

Inoltre punendo ci sentiamo immediatamente dalla parte sbagliata dell’umanità, gli unici che ancora persistono in questa pratica ignobile e datata. Ecco un ulteriore aspetto negativo: la punizione ai nostri occhi appartiene al passato, a un tempo remoto che viene automaticamente bollato come incivile. In effetti, noi degli anni ’50 siamo stati, a volte, puniti. Abbiamo preso qualche schiaffetto o sculacciata. Ma, a una rapida e superficiale occhiata ai miei coetanei, non mi pare che questo abbia prodotto “guasti” rilevanti, scatenato odi profondi, disagio psichico o difficoltà nelle relazioni interpersonali.

Il malessere che proviamo punendo è dunque il segno che è sbagliato punire? O è la spia che oggi rifuggiamo da tutto ciò che ci fa provare malessere?

Benessere è la parola clou dei nostri tempi. Abbiamo eretto i più svariati templi alla religione del benessere, fisico e mentale: centri massaggio, terme, palestre, corsi di meditazione, spa. Abbiamo imparato a vivere meglio pensando di più a noi stessi: lavorare meno, fare più viaggi, mangiar fuori, prendere l’aperitivo. Specularmente, sappiamo di dover evitare il male-essere, tutto ciò che ci fa vivere male: stress, ansia, superlavoro, solitudine. Il proprio piacere innanzi tutto, il dovere meno che mai. Punire è un dovere (sociale, innanzi tutto), che produce malessere.

Quand’ero insegnante ho dato poche note, direi soltanto quando mi sentivo impotente e disperata di fronte a comportamenti intollerabili dei miei allievi: sapevo che niente e nessuno sarebbe venuto in mio aiuto, quindi brandivo la spuntata arma della nota. Dare note è avvilente, e svilente: svilisce il nostro operato, intacca la nostra fiducia nel potere della parola persuasiva e nella capacità umana di capire gli sbagli. Ma è anche l’unico strumento rimasto, l’unico modo visibile di reagire, di non subire, di mostrare al resto della classe (e alle famiglie) che esiste ancora un barlume di ordine morale, con regole definite.

So che molti pensano che dare una nota sia come ammettere il proprio fallimento di educatore. Ma non sono d’accordo. Penso che dovremmo prenderla in un modo più tranquillo e sereno, più sul tecnico-oggettivo: ispirandoci davvero alla semplice chiarezza del regolamentato mondo del calcio. La nota è molto simile a una ammonizione: è il cartellino giallo mostrato al calciatore colpevole di un fallo. Gesto chiaro e immediato. Direi un rito abbreviato. E anche indolore: nessuno muore, nessuno si offende. Al massimo, se per due volte un calciatore viene ammonito, il cartellino giallo diventa rosso ed egli verrà espulso dal campo. Tutto lì, poi a un certo punto rientra… D’altronde, ce lo immaginiamo un arbitro che in piena partita, invece di ammonire, convoca il giocatore e per un quarto d’ora gli spiega dove e perché ha sbagliato?

Una volta, alle medie, mi capitò di prendere una nota. Avevo dimenticato a casa un quaderno. Uscii da scuola quel giorno provando una enorme vergogna. Mi chiedo se oggi un ragazzo che prende una nota vada a casa con un po’ di quella vergogna. Mi auguro di sì, ma non ci giurerei. Una nota oggi sortisce il seguente, unico effetto: che il genitore si precipiti immediatamente al “colloquio parenti” e, molto risentito, esiga una spiegazione dall’insegnante (non certo dal figlio). E, a meno che il suddetto allievo non prenda un numero spropositato di note, tutto finisce lì.

Alla fine, cara signora che mi scrive, la vera domanda che mi sta a cuore è la seguente: siamo sicuri di voler esimere i nostri figli dal sentimento, certo sgradevole e doloroso ma anche molto benefico, della vergogna di sé, di quella insoddisfazione del proprio operato, da cui però poi sgorga il desiderio di riscattarsi, comportarsi bene, presentare agli altri la parte buona di sé? Siamo sicuri che provare almeno un po’ questo sentimento di – come possiamo dire? – contrizione, non li potrebbe aiutare a migliorare, come studenti, come cittadini, come esseri umani nel mondo?

Non so. Per quel che mi riguarda, non sono sicura di niente. Ma se ancora facessi l’insegnante, qualche nota ogni tanto la metterei.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore del 26 maggio 2019