Hume PageHume Page

Il maschilismo è anche in noi donne?

28 Novembre 2024 - di Paola Mastrocola

In primo pianoPoliticaSocietà

Se vivessimo in un sistema patriarcale, noi donne saremmo tutte chiuse in casa. A pranzo e a cena serviremmo i nostri mariti e parleremmo solo se interrogate. Invece andiamo ogni giorno dove ci pare e parliamo ovunque e a chiunque, dicendo quel che pensiamo.

Se vivessimo in uno stato fascista, saremmo costretti ad andare alle adunate e, se ci opponessimo al regime verremmo incarcerati, torturati e uccisi. Invece mi pare che godiamo ancora e ampiamente di libertà di azione, di pensiero e di parola (sempre che la parola non ce la tolgano dei facinorosi invasati: ma questo è un altro discorso).

Stiamo attenti a usare bene le parole. Se le cause per cui vogliamo combattere sono giuste, non vanifichiamo le nostre lotte usando le parole sbagliate, perché le parole sbagliate rischiano di inficiare la giustezza delle nostre cause.

Se al bell’articolo di Viola Ardone, apparso su La Stampa tre giorni fa, sostituiamo la parola patriarcato con la parola maschilismo, tutto torna. Se non la sostituiamo, in alcuni di noi lettori può insinuarsi qualche perplessità. Per una semplice e banale ragione lessicale, e cioè perché nella parola patriarcato c’è sì la parola àrchein che vuol dire detenere il potere, comandare; ma c’è anche la parola pater. E se c’è una cosa che è sparita da decenni nel nostro mondo, è proprio il potere del padre. Già
solo andando a una sessantina d’anni fa, se penso a mio padre, non mi viene in mente la parola patriarcato. Mio padre, abruzzese, figlio di contadini, emigrato a Torino e poi grazie alle scuole serali ragioniere assunto alla Fiat, non m’impediva né di uscire né di parlare. Mi imponeva di tornare a mezzanotte, questo sì. Non era un patriarca, però faceva il padre. Un padre severo che educa i figli ponendo delle regole, ovvero insegnando loro l’esistenza di un limite: se lo oltrepassi, avrai un rimprovero o una punizione. Punto e basta. Allora esistevano i padri. Oggi fior di studiosi e psicanalisti ci avvertono da tempo che la figura del padre è evaporata. E questo è, semmai, uno dei problemi che affligge la nostra attuale società.

Che certe frange di patriarcato ancora esistano, in qualche anfratto del mondo occidentale e quindi anche da noi in Italia, non si può negare. Certamente esiste un macroscopico patriarcato nel mondo islamico, e quindi nelle famiglie di origine islamica che vivono da noi in Italia. Ed è terribile che non stiamo facendo niente per contrastarlo. È la loro cultura, diciamo. Quindi, in nome del nostro illuminato multiculturalismo, lasciamo imperterriti che certe atrocità dei maschi contro le donne si compiano sotto i nostri occhi. Imperterriti. Indifferenti. E, aggiungerei, ipocriti.

Di maschilismo invece è sacrosanto parlare. Non solo, è sacrosanto combatterlo.

Il maschilismo è un concetto più sfuggente e sottile, legato anche, a fattori naturali insiti nell’essere umano. È il risultato di una combinazione complessa di tratti storici, psicologici, sociali, ma anche biologici. E introdurre nel dibattito il fattore natura non ci piace. Preferiamo pensare che la civiltà sia un fatto solo di cultura. Anzi, che la cultura consista proprio nel riuscire a debellare quei rimasugli di natura che ancora restano in noi.

Maschilismo è l’idea che l’uomo debba essere virile, forte, dominante.

Da cui la violenza sulle donne, ma anche certa avversione o fastidio, ancora ahimè serpeggiante, verso il mondo omosessuale che palesemente contravviene a tale modello.

Combattiamo dunque il maschilismo. Ma in che modo?

Siamo sicure, noi donne, di combatterlo sempre e in ogni forma?

Penso alla nostra accettazione passiva di fronte ai messaggi pubblicitari che inondano ogni giorno le nostre vite, attraverso la televisione, i giornali e i social su cui passiamo tanto amenamente ore intere. Lì domina un’immagine della donna inequivocabile: femmina oggetto delle brame maschili, dove strumento primo e unico della seduzione è la bellezza, intesa in senso univoco e totalizzante, una bellezza dove giocano un ruolo principale il trucco, gli abiti, il corpo esposto. È un’immagine che portiamo
stampata dentro durante la nostra giornata, quando siamo al lavoro, a scuola, a casa, al bar, in palestra. Ovunque. Un modello a cui, forse inconsapevolmente, aderiamo in molte, un modello che abbiamo introiettato e a cui non ci sogniamo minimamente di opporci. Noi ci adeguiamo a quel modello, lo facciamo nostro. Se no perché mai decideremmo di uscire, di andare al cinema, al ristorante o a un convegno, truccandoci per ore, mettendo i tacchi 12, e scegliendo abiti con spacchi e scollature?

Non mi si venga a dire che lo facciamo per piacere a noi stesse. Non ci mettiamo i tacchi 12 per stare tutto il giorno in casa da sole a leggerci un libro. Lo facciamo per piacere agli altri, maschi o femmine che siano. E questo va benissimo, s’intende. La cosa deleteria è che pensiamo che, per piacere agli altri, occorra uniformarsi al modello femminile imperante. Eccolo, l’impero del maschio, il dominio maschile, il maschilismo: che è prima di tutto in noi donne.

Se volessimo combattere il maschilismo, ci sarebbe una strada più facile e ben più efficace che scendere in piazza con gli striscioni contro il patriarcato riempiendoci la bocca di slogan. Sarebbe uscire vestite come ci pare, senza ogni volta comporre (mettendoci quanto tempo e denaro!) il quadro artefatto di una bellezza omologata, così come la vuole il maschio dominante. Sarebbe l’idea che la bellezza vera di una donna passa attraverso ben altro, è infinitamente più composita, misteriosa. E potente.

Non sarebbe una grande rivoluzione?

Articolo uscito su La Stampa il 27/11/2024

Schiaffi, Sexting e libertà

28 Febbraio 2024 - di Paola Mastrocola

In primo pianoSocietà

Notizia. Il Tribunale assolve la madre che, nel 2016, aveva schiaffeggiato la figlia dodicenne che su Instagram aveva mandato foto osé a un diciannovenne.

Mi stupisce che una madre, otto anni fa, tirasse ancora schiaffi ai figli. Mi stupisce che si finisca in tribunale per aver tirato uno schiaffo ai figli. E mi stupisce che il giudice abbia oggi dato ragione alla madre.

  Non si fa più da anni di educare a suon di schiaffi. La sberla è stata abolita nell’uso comune familiare, rimpiazzata dalla lezioncina morale e dalla contrattazione eterna. La parola, il dialogo hanno vinto. Ti spiego perché hai sbagliato, voglio che tu capisca, non farlo più e chiudiamola qui. Oppure: tu figlio vuoi uscire, io ti dico di no, ti spiego perché, e poi accetto che tu esca a patto che mangi la minestra, studi storia, o altro.

Non so se sia un bene o un male. Dico solo che mi è capitato spesso di assistere a queste negoziazioni, e le ho trovate ogni volta estenuanti, e molto imbarazzanti per il genitore, il quale 99 volte su 100 finisce per capitolare acconsentendo all’iniziale richiesta del figlio: eh, mi prende sempre per sfinimento, dice il genitore. Lo schiaffo era più breve, certamente. Diretto, non ambiguo, e decisamente spiccio. Ma abbiamo deciso che appartiene all’era troglodita di quando c’era l’autorità, e pronunciare quella parola non era un delitto.

E ora invece che succede? I giudici danno ragione alla madre schiaffeggiante e non alla figlia schiaffeggiata. Dicono che esiste un “potere/dovere di educazione e correzione dei figli”. Certo, forse “ha ecceduto nell’impiego della forza per redarguire la figlia”, ma trattasi in ogni caso di episodio penalmente irrilevante. Insomma, i giudici ammettono lo “schiaffo educativo”, per così dire. Bene. Pendiamo atto. Lo schiaffo, così assolto, potrebbe tornare utile a quei genitori che, di fronte alla bocciatura del figlio, fanno ricorso al Tar o accoltellano l’insegnante: da oggi in poi potranno decidere di dare uno scappellotto al figlio che non ha studiato. Naturalmente non saranno esenti dalla giudicante e severissima comunità dei social.

Il punto però è che una ragazzina di dodici anni mandi in giro messaggi e foto osé a un diciannovenne. Non so se si possa, oggi, fermare una ragazzina e impedirle di usare i social per mandare foto osé. E non so se lo schiaffo sia il modo migliore, ma penso che la ragazzina andasse comunque fermata. Per due motivi. Uno riguarda la libertà e l’altro la questione femminile. Entrambe mi stanno parecchio a cuore.

Ricordo il suicidio di Tiziana Cantone, che fece molto scalpore. S’impiccò il 13 settembre 2016, a 33 anni. Aveva inviato dei filmati sui suoi rapporti sessuali a conoscenti che poi li avevano divulgati, e tentò invano di far rimuovere i video hard, invocando il diritto all’oblio. Ricordo che molti, dolendosi dell’accaduto, difesero comunque la pratica del sexting come gesto di libertà sessuale, dissero che filmarsi o fotografarsi in intimità e poi mandarsi video era assolutamente normale, e che solo una mentalità bigotta e bacchettona poteva condannare comportamenti come quello di Tiziana. Ricordo che pensai allora quel che penso adesso: una cosa è la libertà, un’altra è la prudenza. Prudenza come perfezionamento (e non riduzione!) della libertà. Vorrebbe dire non essere così arroganti e prepotenti da esigere una libertà assoluta e illimitata. Riconoscere che esiste il male ed esiste il caso, e che il mondo ideale purtroppo è solo un’utopia. Abbiamo tutto il diritto di passare sulle strisce pedonali senza guardare l’auto che arriva (va rieducato l’automobilista, non il pedone?), ma poiché esiste l’automobilista distratto e l’imprevisto, potrei ritenermi libero di passare sulle strisce ma al contempo essere prudente. Allo stesso modo, i social non sono il mondo ideale. Esiste il revenge porn, per esempio…

Questione femminile. Facciamo tanto oggi (e tanto abbiamo fatto ieri!) per combattere il potere maschile maschilista che ci riduce a meri oggetti sessuali, e poi noi donne, noi ragazzine, non troviamo di meglio che usare i social per gareggiare a chi si mostra più bella e più sexy, riproponendo noi stesse l’immagine della femmina preda del maschio? È questa la libertà che vogliamo?

Infine ci sarebbe la questione del pudore. Ma inutile parlarne. Parola sparita. Sentimento archiviato. Il pudore è démodé, e molto reazionario.

Il ritorno della talpa: il diritto di ricevere risposte

26 Novembre 2020 - di Paola Mastrocola

In primo pianoSocietà

Essendo di nuovo rinchiusa, passo molto tempo davanti alla tivù. Voglio sapere, essere informata, ascoltare opinioni. La sera, al buio della mia galleria, mi metto in poltrona e guardo: telegiornali, inchieste speciali, talkshow. Giro per canali e ne pesco uno qua uno là, non importa dove sia e chi parli. Sono avida di gente che parla. Mi aspetto ogni volta che qualcuno m’illumini, che mi dica la verità. Sono affetta da masochismo e vacue speranze, destinata quindi a perenni delusioni e frustrazioni, lo so.   Leggi di più

image_print
1 2 3 9
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy