Il “boom” dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la “tempesta perfetta”

Quando, poco più di un anno fa, l’epidemia cinese del SARS-CoV-2 è diventata una pandemia, in realtà per il nostro Paese temevo più gli impatti economico-sociali che non quelli sanitari, sebbene i primi tendano sempre a passare in secondo piano nelle valutazioni quantitative dei media, lasciando passare inconsciamente il messaggio che siano qualcosa di secondario, mentre così non è (non fosse altro perché impattano su una platea di persone di un paio di ordini di grandezza maggiore).Oggi è possibile capire molto meglio questo discorso. Quella che incombe sull’Italia è, infatti, la “tempesta perfetta”, combinazione tra: (1) effetti della pandemia sulle attività commerciali, (2) forte ascesa dei prezzi delle materie prime, dell’energia e dei trasporti che impatta su industrie e famiglie, e (3) ritardi nella campagna vaccinale italiana rispetto agli altri Paesi industrializzati, che rischiano di esacerbare ulteriormente gli effetti delle altre due componenti. Ciò aumenta di molto la fragilità rispetto a eventuali ulteriori “sorprese” negative e non di poco il rischio che la situazione possa degenerare sotto l’aspetto sociale e che si possa verificare, sul breve termine (12-24 mesi), un “cigno nero” con effetti sistemici che cambierebbe il corso della Storia. Per tali motivi, il rapporto rischio-beneficio dei lockdown sembra essere ormai pessimo.

L’aumento dei prezzi di materie prime, energia e trasporto merci

Rincari abnormi (quasi sempre a doppia cifra) e continui da mesi delle materie prime, irreperibilità dei materiali necessari per le lavorazioni e dei container per le esportazioni dei beni prodotti, allungamento dei tempi di consegna, aumento dei costi del trasporto: molte aziende manifatturiere italiane – dal Nord al Sud della penisola – stanno riscontrando tutte insieme queste criticità [15]. Anche i costi del petrolio, dei carburanti alla pompa e quello dell’energia sono in forte rialzo. Infine, a livello internazionale, i prezzi dei generi alimentari crescono da 9 mesi consecutivi, con il mais a tirare la volata [12].

La pandemia è stata accompagnata da significative interruzioni della catena di approvvigionamento che hanno causato molti diversi tipi di carenze che hanno afflitto il settore manifatturiero già durante i mesi invernali e che si stanno ora acuendo. Infatti, la rapida ripresa dell’economia globale iniziata alla fine della prima ondata è arrivata con una ripresa del commercio globale molto più rapida di quanto inizialmente previsto, e ciò non ha fatto altro che aumentare la richiesta di materie prime e di componenti. I risultati sono tempi di approvvigionamento più lunghi e prezzi di produzione aumentati.

Una delle principali interruzioni che incidono, ad esempio, sull’elettronica di consumo è rappresentata, al momento, dalla carenza di chip per computer. In parte a causa dello stesso problema che causa il picco della domanda di container – la rapida ripresa della domanda di beni (semi-)durevoli – la domanda di semiconduttori è aumentata rapidamente negli ultimi mesi, anche perché è supportata da altri fattori a lungo termine, come il lancio del 5G, che sta aumentando la domanda di nuovi telefoni cellulari e l’elettrificazione dei veicoli che aumenta la domanda di chip per computer.

Il rapido ritorno del commercio mondiale ha inoltre causato un aumento inaspettato della domanda di spedizioni e container già dopo la fine della prima ondata del coronavirus. Con le partenze a vuoto – cioè le partenze annullate delle navi merci – ancora elevate e con i container molto richiesti, i tempi di approvvigionamento sono aumentati, le scorte sono diminuite drasticamente e le tariffe di trasporto sono aumentate vertiginosamente dalla fine del 2020. L’indice dei costi di spedizione suggerisce un aumento del 200% dall’inizio della pandemia, circa un quarto del quale si è verificato quest’anno [1].

Sebbene non ci si aspetti che l’intero aumento dei costi delle materie prime e delle tariffe di trasporto venga trasferito al consumatore, esso dovrebbe avere comunque un effetto al rialzo sui prezzi al consumo, che ovviamente si concentreranno – oltre che sui costi dei carburanti e dell’energia – principalmente sul costo delle materie prime e delle merci importate, e in particolare di quelle che hanno costi di trasporto più alti. L’impatto sui prezzi alla produzione, per un Paese come l’Italia che dipende quasi totalmente dall’estero per materie prime e merci, potrebbe quindi essere presto notevole.

I prezzi delle materie prime hanno storicamente eseguito cicli che spesso si svolgono nel mondo di un determinato mercato – il prezzo del petrolio greggio, ad esempio, può aumentare mentre quello del mais crolla – ciascuno per ragioni separate. Ma cosa succede se un gruppo di materie prime si unisce alla festa nello stesso momento? Ciò è chiamato un “superciclo” delle materie prime e vari professionisti del mercato ritengono che un tale fenomeno stia accadendo ora [2, 14]. Ciò, non sarebbe una novità, poiché ciò è già successo dopo la SARS del 2003, culminando con la grande crisi finanziaria del 2008.

Andamento storico dell’indice dei prezzi delle materie prime (include sia carburanti che metalli e altri tipi di commodities). Si vede molto bene il “superciclo” iniziato proprio dopo l’epidemia di SARS del 2003 e culminato nel 2008, quando il petrolio (e altre materie prime) erano “alle stelle”, a seguito della grossa crisi bancaria innescata da quella dei mutui sub-prime, avvenuta nel 2007 negli Stati Uniti.

I dati, d’altra parte, sembrano parlare chiaro. Il rame e altri metalli industriali sono già aumentati enormemente di prezzo, così come i semi di soia. Pare che la crescente domanda globale di cibo, petrolio e metalli, così come la domanda di automobili e cibo in Cina, stiano guidando un nuovo superciclo che potrebbe durare nel tempo, con tutte le conseguenze del caso. Infatti, oggi non è necessario scambiare materie prime per trovare opportunità in un superciclo, ovvero per fare speculazione, ma ciò non fa altro che incrementare il problema, come avvenne già nel già citato periodo 2003-2008.

Dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione

Nel 2007, vi è stata la famosa crisi dei mutui subprime. A causarla sono stati gli hedge fund, le banche e le compagnie di assicurazione. Infatti, gli hedge fund e le banche hanno creato titoli garantiti da ipoteca. Le compagnie di assicurazione li hanno coperti con i cosiddetti “credit default swap” (CDS). E la domanda di mutui ha portato a una bolla patrimoniale nel settore immobiliare. Quando la Federal Reserve americana ha alzato il tasso sui fondi federali, ha fatto salire alle stelle i tassi di interesse sui mutui regolabili. Di conseguenza, i prezzi delle case sono crollati e i mutuatari sono andati in default [3].

I derivati – e alcuni dei prodotti derivati più complessi sono proprio i CDS all’origine alla crisi dei mutui subprime – diffondono il rischio in ogni angolo del globo, specie se sono “in pancia” alle banche. Ciò ha causato la crisi bancaria del 2007, la crisi finanziaria del 2008 (con il crollo dei mercati delle materie prime e azionario) e la cosiddetta “Grande Recessione”, la peggiore recessione dalla Grande Depressione, la grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni Venti, cui fece seguito il crollo della Borsa valori del 24 ottobre 1929, dopo anni di boom azionario.

In pratica, la crisi dei mutui subprime scoppiata nell’agosto 2007 si è trasformata in pochissimo tempo nel più grande shock finanziario dalla Grande Depressione, infliggendo gravi danni ai mercati e alle istituzioni al centro del sistema finanziario. Ma alla fine la crisi finanziaria ha iniziato ad avere gravi effetti sull’economia reale, portando il mondo in una profonda recessione. Dunque, i mutui subprime sono stati l’innesco di un incendio che si è poi propagato alle banche (come la Lehman Brothers, il più grande fallimento bancario della Storia), successivamente ai mercati finanziari e, infine, all’economia reale.

È però importante tornare indietro ed esaminare gli eventi che hanno portato alla crisi dei mutui subprime [4]. All’inizio del 2000, l’economia era a rischio di una profonda recessione dopo lo scoppio della bolla delle dotcom. Prima dello scoppio della bolla, le valutazioni delle società tecnologiche erano aumentate notevolmente, così come gli investimenti nel settore. Le società junior e le startup che non producevano ancora entrate stavano ottenendo denaro da venture capitalist e centinaia di aziende si quotarono in borsa. Questa situazione fu aggravata dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.

Le banche centrali di tutto il mondo cercarono allora di stimolare l’economia come risposta. Creavano liquidità di capitali attraverso una riduzione dei tassi di interesse. A loro volta, gli investitori cercavano rendimenti più elevati attraverso investimenti più rischiosi. I prestatori si assumevano anche rischi maggiori, approvando prestiti ipotecari subprime a mutuatari con scarso credito, nessun patrimonio e, a volte, nessun reddito. Questi mutui sono stati riconfezionati dai prestatori in titoli garantiti da ipoteca e venduti agli investitori. Ciò ha portato alla bolla immobiliare, che dopo un po’ è scoppiata.

Nel frattempo, però, erano accadute anche altre cose che ci interessano molto da vicino. Dal novembre 2002 al luglio 2003, la SARS, una grave polmonite atipica di origine virale apparsa nel Guandgong (in Cina) produsse un’epidemia che causò 774 decessi in 17 Paesi, per un tasso di letalità finale (CFR) del 9,6%. Sebbene la SARS sia scoppiata nel novembre 2002, non iniziò a influenzare i mercati finanziari fino ad aprile 2003, quando l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) emise un avviso globale su questa nuova malattia. L’impatto negativo sulle borse cinesi (indice MSCI China) segnò quasi un -10%.

All’inizio dell’epidemia di SARS, il mercato azionario USA (che rappresenta il punto di riferimento per gli investitori di tutto il mondo) stava appena uscendo da un mercato ribassista, ma raggiunse un altro minimo nel primo trimestre del 2003 a causa delle preoccupazioni per l’epidemia. Il risultato è stato un nuovo test dei minimi del 2002 nel marzo 2003, ma poi quella è stata la fine di quel mercato ribassista. Una situazione del tutto simile si è avuta per l’indice del mercato azionario mondiale (MSCI Global Index), che da allora ha galoppato nella sua crescita – insieme all’indice delle materie prime – fino al crash del 2008.

Andamento storico dell’indice del mercato azionario globale (MSCI World Index). Anche in questo caso si assiste a una galoppata dei prezzi azionari, iniziata dopo l’epidemia di SARS, fino agli eventi del 2007-2008 che provocano il crollo delle Borse e dei prezzi delle materie prime, portando alla Grande Recessione.

Il diverso impatto sui mercati della SARS nel 2003 e del SARS-CoV-2 oggi

È interessante vedere le differenze fra la situazione attuale e quella della SARS del 2003, a cominciare dagli indici di borsa e delle materie prime. L’indice azionario mondiale (MSCI Global Index) è crollato dai 2177 punti del 10 febbraio 2020 al minimo di 1694 (-22%) del 16 marzo 2020, dopodiché ha iniziato a risalire ed è ora in fase di forte crescita. Anche l’indice del prezzo del petrolio (WTI) è precipitato dai circa 61 $ al barile del 1° gennaio 2020 al minimo di 16,5 $ (-73%) del 20 aprile 2020, ma poi ha preso a salire ed è in forte ascesa, come il prezzo di varie altre materie prime diverse dai carburanti (metalli, mais, etc.).

Mentre l’impatto sui mercati finanziari globali della SARS nel 2003 fu sostanzialmente modesto (comportando un calo inferiore al 10% sia dell’indice azionario globale sia di quello delle materie prime) e passa quasi inosservato nei grafici storici, l’impatto del SARS-CoV-2 contro cui combattiamo oggi è stato notevolmente superiore, non tanto sul mercato azionario (dove il circa -30% avutosi si può considerare una forte “correzione”) quanto piuttosto sul mercato delle materie prime (in particolare, per quanto riguarda il prezzo del petrolio, crollato di ben due terzi raggiungendo valori di prezzo decisamente bassi).

L’indice del mercato azionario globale (MSCI World Index), dopo essere crollato all’incirca di un 30%, sta decollando anticipando la ripresa dell’economia, essendo ormai stata superata la fase più critica della pandemia. Il problema è che anche i prezzi delle materie prime stanno facendo altrettanto, in un rally che fa pensare a un nuovo “superciclo”, sulla falsariga di quanto accaduto nel periodo 2003-2008.

Infatti, l’improvvisa epidemia di COVID-19 ha portato a un declino globale nell’impiego delle materie prime, influenzando notevolmente la domanda e l’offerta. Il mercato del petrolio è stato gravemente colpito a causa del crollo della domanda principalmente a causa delle restrizioni di viaggio e dei lockdown. Anche i prezzi dei metalli preziosi e industriali sono diminuiti, sebbene tale calo sia stato inferiore a quello del petrolio. L’industria agricola (e relative materie prime) sono risultate invece meno colpite, finora, da questa pandemia a causa della sua relazione indiretta con le attività economiche [5].

Come ai tempi della SARS, l’economia cinese è stata relativamente poco colpita dal nuovo coronavirus, soprattutto se si confronta l’impatto con quello sull’Unione Europea e sugli Stati Uniti. Tuttavia l’economia cinese, le dinamiche di mercato e la geopolitica sono cambiate drasticamente negli ultimi 17 anni [6]. Da una prospettiva internazionale, la quota della Cina del PIL mondiale è balzata dal 4% nel 2003 al 16% nel 2019, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale. Sul piano interno, invece, l’economia cinese è passata da una crescita trainata dalle esportazioni a una più guidata dai consumi.

La Cina rimane il più grande esportatore di merci al mondo, spedendo il 17,1% dei suoi 2,5 trilioni di dollari di merci nell’Unione europea nel 2019, il 16,7% negli Stati Uniti e l’11,1% a Hong Kong secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica cinese. Rispetto al 2003, la Cina è cresciuta fino a diventare il “polo produttivo” del mondo, trainando il consumo di materie prime come petrolio greggio e gas naturale. Essere il secondo importatore al mondo (dopo gli Stati Uniti) implica che un rallentamento dell’economia cinese smorza la domanda globale di materie prime, mentre una ripresa lo accelera.

Pertanto, una frenata dell’economia cinese esercita pressioni al ribasso sui prezzi delle materie prime mentre, viceversa, un’impetuosa ripresa come quella che ci si aspetta con la fine della pandemia in USA ed Europa, li fa impennare. Allo stesso tempo, un rallentamento della produzione cinese interrompe le forniture per coloro che fanno affidamento sulle esportazioni cinesi per i loro processi di produzione (ad esempio, case automobilistiche, società tecnologiche e prodotti di consumo). L’importanza della Cina nella catena di fornitura globale sempre più intrecciata non può essere più sottovalutata.

In Italia ora i nodi verranno al pettine: gli errori nella gestione del Paese

L’analisi, fin qui fatta, della situazione a livello mondiale può forse apparire rassicurante per qualche politico italiano, ma non è purtroppo per nulla rappresentativa dello stato attuale in cui si trova il nostro Paese, il quale presenta delle peculiarità notevoli (che ora illustrerò in maniera sintetica) e tutti gli ingredienti per una “tempesta perfetta” sul breve o medio termine. Insomma, dopo essere stato l’“ombelico” del COVID in Europa, l’Italia rischia di esserlo anche della crisi post-COVID.

  1. L’Italia è fra i Paesi d’Europa con elettricità e gas più cari. Il nuovo sistema di tariffazione di recente introdotto, paradossalmente, ha penalizzato moltissimo chi consuma poco: su 100 euro, circa la metà se ne vanno fra cosiddetti “oneri di sistema”, tasse e accise, cioè vengono pagati anche se non si consuma nulla! Inoltre, il mercato libero in realtà ha sfavorito – anziché favorire – il calo dei prezzi dell’energia per famiglie e piccole imprese, come mostrato da un rapporto pubblicato dall’allora Autorità per l’Energia (oggi ARERA) [24]. Per molte famiglie, di fatto, le bollette di luce e gas sono oggi le più care d’Europa.
  2. L’Italia ha il prezzo del carburante fra i più cari d’Europa. In Italia i costi di benzina, gasolio e altri carburanti sono fra i più alti d’Europa, essenzialmente per due motivi. Il primo è la presenza di tasse e accise, che pesano per circa due terzi sul costo totale pagato per litro alla pompa. Il secondo – ma non meno importante – è il fatto che il prezzo dei carburanti alla pompa si comportano in modo molto rigido e lento rispetto al prezzo del petrolio quando quest’ultimo cala, mentre i rialzi dei prezzi dei carburanti sono forti e immediati quando il prezzo del petrolio cresce [10], come ad es. in questo periodo.
  3. I pedaggi delle autostrade italiane sono i più alti in Europa. Come se non bastasse, le tariffe autostradali in Italia sono di gran lunga le più elevate del Vecchio Continente. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono gratuite. In Svizzera si paga solo una vignette di circa 38 euro valida tutto l’anno. In Italia, ad es. già fare la tratta Ventimiglia-Bologna (460 km) sola andata costa 40 euro (pari a 8,7 euro ogni 100 km) [11]. Ciò impatta in modo estremamente rilevante sui trasporti su strada di persone e merci, specie per le piccole attività e le PMI, che non possono “spalmare” più di tanto questa voce di costo.
  4. L’Italia è ai primi posti nel trasporto su gomma in Europa. Secondo i dati forniti da Eurostat, nel 2017 in Italia circa il 60% delle merci totali (e ben l’80% di quelle movimentate su terra) erano veicolate da camion, mentre il resto era veicolato via nave, con solo una quota residuale che viaggiava via aereo. Delle merci movimentate su terra, il 20% che non viaggia su camion era veicolato da treni merci [9]. Nella graduatoria dei maggiori paesi d’Europa (inclusa la Gran Bretagna), l’Italia nel 2010 si collocava addirittura al secondo posto (dopo la Spagna) con la quota più elevata di trasporto su gomma. Ciò si traduce in maggiori costi e minore competitività.
  5. I ritardi nella campagna vaccinale. L’Unione Europea è in grande ritardo nella campagna vaccinale rispetto al Regno Unito, agli USA, etc. L’Italia, come ho illustrato nel mio precedente articolo [8] è ancora più in ritardo avendo usato per 3 mesi circa metà delle dosi per vaccinare persone con meno di 60 anni, mentre il 95% della mortalità per COVID si verifica fra gli over 60, perciò – complice la scarsità di vaccini – si è di molto dilatato il tempo di “uscita dal tunnel”. Ciò impatta sia sulle attività turistiche sia sui costi pagati per forniture e container, nel frattempo ordinati o opzionati da altri Paesi anche europei.
  6. La crisi e il caos all’ex Ilva. Senza acciaio un Paese non può funzionare e per la ripresa ce ne sarà tanto bisogno. La ex Ilva di Taranto, nel 2018, aveva una produzione annuale di acciaio stimata in 4,5 milioni di tonnellate. In base ai dati della World Steel Association, ciò corrispondeva a circa il 20% di quella italiana, che ammontava a 24,5 milioni di tonnellate, pari a circa il 15% della produzione europea, secondi solo alla Germania. La Cina conta da sola per poco più della metà della produzione globale, mentre l’Italia era decima in classifica [7]. Con uno stop dell’ex Ilva, i prezzi dell’acciaio avrebbero ulteriori picchi.

Gli effetti a medio e lungo termine della pandemia e l’incubo del “superciclo”

Quando, nel 1986, si verificò il disastroso incidente nucleare di Chernobyl, i morti nell’immediato furono solo poche decine, mentre furono 100 volte di più (secondo i dati ufficiali e 10.000 volte di più secondo alcune stime) nei vent’anni successivi, poiché le Autorità fecero diversi errori durante la gestione della crisi, fra cui quello di non far evacuare – se non con grandissimo ritardo – la popolazione delle città vicine e quello di non somministrare alle persone lo iodio-131 (come fatto invece in Polonia), causando così la morte di tantissime persone per tumore alla tiroide, che è l’organo più radiosensibile.

Verosimilmente anche nella crisi del COVID, a causa di una gestione largamente inappropriata, i danni avuti nell’immediato rischiano di essere relativamente modesti rispetto a quelli che il Paese pagherà sul breve termine (prossimi 12-24 mesi) e sul medio termine (anni). Naturalmente, mentre i morti immediati sono facili da contare, i danni a breve e medio termine – esattamente come nel caso di Chernobyl – sono più difficili da quantificare e sono di varia natura: morti per mancata cura e prevenzione di malattie croniche, aumento dei suicidi, della povertà e della disoccupazione, solo per limitarsi a quelli più ovvi.

Sostanzialmente, gli impatti della crisi da COVID sono – e saranno – di tre tipi: sanitari, economici e sociali. In realtà, vi sono forti interconnessioni fra questi tre aspetti, mentre la lettura che viene di solito superficialmente fatta si limita a evidenziare la sola connessione fra salute ed economia, che per quanto importante è solo un aspetto della questione. Inoltre, mentre conosciamo piuttosto bene le soglie del sistema sanitario, poco o nulla sappiamo delle soglie dei sistemi economici e sociali in un Paese avanzato, e quindi non abituato a gestire crisi caratterizzate da stress molto forti di varia natura.

I tre grandi impatti prodotti dalla pandemia sul nostro Paese: l’impatto sanitario da una parte e quello sui sistemi economici e sociali dall’altra. La loro quantificazione o stima è necessaria per determinare il rapporto rischi-benefici dei lockdown, una grandezza che non è fissa ma evolve nel tempo e che, come sarà chiaro alla fine dell’articolo, ha ormai raggiunto un valore enorme (nel senso che i potenziali rischi derivanti dall’impatto economico e sociale appaiono superare quelli – calcolabili – derivanti dall’impatto sanitario).

A differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei, l’impatto economico su centinaia di migliaia fra attività commerciali al dettaglio (in Italia nel 2018 erano circa 735.000) e piccole e medie imprese (che erano circa 148.000 a inizio 2020), nonché su intere filiere (cultura, turismo, ristorazione, sport, etc.), è stato disastroso, soprattutto perché da noi i “ristori” sono stati praticamente simbolici e non accompagnati da altre misure tese a mitigare i danni, per cui in questi mesi un numero enorme di attività hanno già chiuso per sempre i battenti e ancor più sono, a loro volta, sull’orlo della chiusura definitiva. Fra l’altro si noti che, Grecia a parte, nessun Paese europeo ha una quota di lavoro autonomo alta come l’Italia.

Ma nell’analisi dell’impatto economico della pandemia ci si limita di solito, nel dibattito pubblico ad es. sui media televisivi, a evidenziare solo questi effetti assolutamente “ovvii” mentre, come ho illustrato in precedenza, vi sono tutti i presupposti per un impatto ancora più forte – e riguardante una platea di soggetti economici più vasta, comprendente la media e grande industria manifatturiera – nel prossimo futuro, per la prevedibile dinamica di aumento dei prezzi di materie prime e trasporti, che presto si potrebbe tradurre anche in rincari generalizzati per ortofrutta, alimentari e quant’altro.

Infatti, mentre un ciclo normale delle materie prime può durare pochi mesi o alcuni anni, un superciclo, al contrario, può durare un decennio o più e di solito include (o è guidato da) molte delle materie prime industriali più utilizzate e negoziate attivamente come petrolio greggio, rame e cereali [2]. E chi conosce il trading sa bene che entrambi i cicli – normale o “super” – sono caratterizzati da più fasi, e noi ora siamo appena nella prima fase, quella in cui la domanda supera l’offerta ed i primi investitori cominciano a investire “online” nelle materie prime, esacerbando ulteriormente la salita dei prezzi.

E nonostante siamo solo all’inizio del rally di un superciclo, gli effetti si sentono già, come ben illustrato da un articolo di Bloomberg [14]. Il petrolio è salito del 75% dall’inizio di novembre, da quando cioè le principali economie hanno iniziato a vaccinare le loro popolazioni ed a riaprire dopo la pandemia che ha chiuso fabbriche e bloccato aerei. Il rame, utilizzato in tutto, dalle automobili alle lavatrici e alle turbine eoliche, è scambiato ai livelli visti l’ultima volta ben dieci anni fa. I prezzi del cibo sono aumentati ogni mese da maggio. Il flusso di denaro che ne è derivato è stato un sollievo solo per i Paesi esportatori.

Un impatto sottovalutato del mix di fattori: quello su industria, edilizia, etc.

Insomma, le ripartenze disallineate tra diversi paesi con filiere che invece restano globali hanno creato e creano diversi scompensi che stanno già presentando il conto alle nostre imprese manifatturiere [15]. Innanzitutto quello dei prezzi. Quasi tutti i fornitori hanno aumentato i prezzi. Le quotazioni di materie prime come i metalli sono infatti salite ai massimi livelli. L’altro problema è quello del reperimento dei materiali: c’è scarsità sul mercato. L’anno scorso molte aziende italiane si sono fermate per il COVID, mentre quest’anno rischiano di fermare le produzioni per i materiali che non arrivano.

Negli ultimi mesi sono raddoppiati i prezzi di molte materie prime provenienti da Cina, Corea, USA, etc. e si sono dimezzate le forniture, il che potrebbe far “saltare” ad esempio il sistema edilizia in Italia e non solo quello [13]. Si fa sempre più fatica a reperire sul mercato materie plastiche, materiali ferrosi e i semilavorati con cui confezionare i propri prodotti [15]. Alla Electrolux, la grande fabbrica di lavastoviglie, le linee di produzione sono già ferme per la mancanza di componenti elettronici e di circuiti stampati [16]. Perfino le concerie sono in ginocchio, con i prezzi delle pelli bovine che crescono senza sosta da mesi.

Possono sembrare casi isolati, ma in realtà si tratta di una situazione generalizzata legata ai rincari delle materie prime, con aumenti che per il legname hanno raggiunto il 20%, con forti ripercussioni per il comparto dell’arredo, mentre per acciai e lamiere si parla di incrementi dal 15% al 45%, a seconda delle tipologie, con apici che addirittura arrivano al 60-70% [16]. Stesso discorso per la plastica, con prezzi cresciuti alle stelle. Molteplici le ragioni, a iniziare dall’accelerazione dei mercati di Stati Uniti e Cina, che hanno visto l’impennata della domanda a cui è seguito il rialzo dei prezzi.

Le dinamiche della domanda, però, non giustificano da sole questi aumenti. In effetti, il trend è sostenuto e amplificato dagli investimenti finanziari (non a caso i grandi investitori si sono spostati dall’oro, il cui prezzo sta crollando, alle materie prime, che permettono grandi guadagni tramite i futures, gli ETF, etc.), con riflessi sui trasporti che – a loro volta – hanno registrato aumenti delle tariffe, il che ora induce le aziende a rallentare la produzione nonostante la ripresa degli ordini. Questa crescita abnorme dei prezzi è per l’Italia destabilizzante e rischia di inibire qualsiasi potenziale ipotesi di strenua ripartenza.

Anche le  imprese del settore plastica si trovano ad affrontare un passaggio molto delicato [13]: “per tutti i polimeri di interesse per il settore – dal polietilene al PVC e al PET, compresi i biopolimeri ed i riciclati – gli incrementi di prezzo superano in molti casi il 100%. Questo quando li si trova: ma le quantità a disposizione sui mercati mondiali sono nettamente inferiori ai bisogni e quindi accade spesso di non riuscire affatto a reperire i materiali necessari alla produzione. Con la plastic tax prevista a luglio, il risultato è una marginalità troppo bassa, che mette a repentaglio gli equilibri di bilancio delle imprese”.

Come spiega molto bene un ingegnere, le cose non vanno bene neppure nel settore edilizio: “I container ed i bancali per le spedizioni non si trovano e ora costano il triplo. Molte resine – fondamentali per le costruzioni – sono introvabili, e con aumenti di prezzo superiori al 100%. Non si trova l’acciaio. Di conseguenza i fornitori e le imprese bloccano la firma di nuovi contratti, ed a rischio ci sono le forniture di molti cantieri. Infatti, la normativa attuale non prevede, purtroppo, adeguati meccanismi di revisione prezzi; in tale contesto, quindi, i contratti non risultano più economicamente sostenibili”.

Il rischio, insomma, è che nelle prossime settimane si debbano bloccare non solo le attività più piccole,che saranno le prime ad andare in crisi (non potendo contare su grandi scorte, economie di scala e sul maggiore potere contrattuale), ma anche i grandi cantieri delle opere pubbliche. Pure l’ANCE ha lanciato l’allarme [13]: “Il caro materiali non è più sostenibile per le imprese. Con un aumento del 130% dell’acciaio, del 40% dei polietileni, con i rincari di rame e petrolio e con la conseguente difficoltà di approvvigionamento, tanti cantieri pubblici e privati rischiano di bloccarsi con gravi ripercussioni economiche e sociali”.

L’impatto sul tessuto economico e sociale: la prevedibile crisi post-COVID

Se si considera che per l’industria manifatturiera il prezzo di un prodotto è composto da cinque elementi fondamentali – (1) il costo delle materie prime e/o dei componenti utilizzati, (2) il costo dell’energia usata per la lavorazione, (3) il costo del trasporto per consegnare il prodotto al cliente, (4) costi di manodopera, spese fisse, tasse, etc., (5) il margine di guadagno – è evidente che, poiché i costi dei prime tre fattori sono in aumento e destinati a crescere ulteriormente, il margine di guadagno per aziende già colpite dalla pandemia si riduce di parecchio e il mix può facilmente risultare “letale”.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Il fenomeno fin qui illustrato preoccupa e la soluzione non sembra a portata di mano perché le manovre speculative, che non rispondono alla normale legge della domanda e dell’offerta, sono difficili da arginare e governare. Il risultato è che il rischio di impresa si accentua di molto, e le aziende sono costrette a scegliere se accettare una forte riduzione dei margini di utile attesi e che variano al basso fra il momento dell’offerta e quello dell’ordine o proporre la ricontrattazione del prezzo definito, cosa che rischia di far perdere la commessa – o addirittura il cliente – a favore dei concorrenti stranieri che hanno costi più bassi.

Mentre i negozi sono stritolati soprattutto dalle chiusure del lockdown, dalle tasse dei rifiuti cresciute e dagli affitti insostenibili, le imprese sono in forte sofferenza perché i citati forti incrementi di costi si aggiungono alle già ingenti sofferenze finanziarie e patrimoniali connesse all’evento pandemico. Se a tutto ciò si aggiunge il divario temporale nell’“uscita dal tunnel”, dovuto ai ritardi nella campagna vaccinale italiana, rispetto alle maggiori economie mondiali (Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, etc.), si capisce come – a livello economico – il nostro Paese rischi di pagare un prezzo triplo per la pandemia.

Primo, perché il lockdown ha avuto un impatto enorme sulle piccole attività commerciali e su interi settori dell’economia; secondo, perché il boom dei prezzi di materie prime, semi-lavorati, energia, container e trasporti impatta (e impatterà) in modo pesante sull’industria; terzo, perché – complice anche la mancanza di programmazione del nostro Governo – si rischia di perdere pure il treno della ripresa costituito dalla stagione turistica, e che le nostre imprese siano le ultime perfino in Europa a fare gli ordinativi ed a cercare di rimpinguare le scorte, incontrando quindi maggiore scarsità e costi rispetto ai concorrenti.

Non è certo incoraggiante il fatto che, secondo il Rapporto sulla Competitività 2021 dell’Istat, già a novembre scorso quasi un terzo delle imprese italiane considerassero a rischio la propria sopravvivenza. Il crollo del valore aggiunto registrato nel 2020 è stato, secondo l’Istituto di statistica, dell’11,1% nell’industria in senso stretto, dell’8,1% nei servizi, del 6,3% nelle costruzioni e del 6,0% nell’agricoltura. Tra i servizi, commercio, trasporti, alberghi e ristorazione (-16%) hanno pagato il conto più alto; e nella manifattura il comparto del tessile, abbigliamento e calzature ha subito il crollo più grave (-23%).

Anche le famiglie non se la cavano meglio, e non solo per la crescita vertiginosa dei disoccupati. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari mette sotto pressione, a livello internazionale, i Paesi più poveri e, nel nostro Paese, le persone sotto la soglia di povertà, che spendono più di un terzo del loro reddito in cibo. Finora i prezzi sono aumentati solo di 2-3 punti percentuali nell’Unione Europea [12], ma solo perché, esattamente come i morti per COVID, sono l’ultimo anello della catena di eventi e quindi l’impatto vero si vedrà più avanti, e potrà superare di molto i bassi livelli di inflazione degli ultimi anni.

Nel passato, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari ha coinciso nel mondo con periodi di disordini sociali. Già solo un continuo aumento dei prezzi potrebbe scatenare rivolte sociali, specie nei Paesi più poveri ed economicamente e politicamente meno stabili, scatenando un effetto a catena che potrebbe coinvolgere anche le regioni in cui la pandemia sta creando tensioni politiche e difficoltà economiche [12]. Inoltre, la scarsità di offerta in economie interconnesse rischia di generare un nuovo protezionismo. E questo colpirebbe i Paesi meno autosufficienti e con uno scarso potere negoziale.

Il rischio del superamento di soglie critiche a causa dei trend crescenti

Come anche la casalinga di Voghera ha imparato durante la pandemia, quando si superano soglie critiche nascono grossi problemi, e ancor più quando le si superano in tempi rapidi, cosa che facilmente manda un sistema in crisi. Lo abbiamo ben visto, infatti, con le terapie intensive, che sono andate in tilt quando il numero di ricoverati ha superato una determinata soglia. Ma mentre la soglia delle terapie intensive è ben nota quantitativamente, non altrettanto si può dire per le soglie dei sistemi economici e sociali. Pertanto, queste soglie potrebbero venire a un certo punto superate, con conseguenze imprevedibili.

La crisi economica generata dalla pandemia ha colpito in modo generalizzato tutto il settore privato, cioè quello che genera entrate per lo Stato, risparmiando solo i dipendenti pubblici, che però dipendono da tali entrate. Inoltre, ha esacerbato in pochissimo tempo le disuguaglianze. Tra i più colpiti vi sono stati i giovani – tanto che la metà dei nuovi poveri ha meno di 35 anni – le famiglie di immigrati e quelle più numerose, con più di cinque componenti. Ma i rischi maggiori sono previsti per quest’anno, quando gli effetti della congiuntura economica negativa si acuiranno e gli ammortizzatori sociali termineranno.

Una delle cose che colpiscono della crisi attuale è che impatta negativamente su quasi tutti i soggetti economici privati, quelli che producono ricchezza ed entrate per lo Stato. Si salvano per il momento dagli effetti della crisi solo i dipendenti pubblici, che però vivono grazie alle entrate prodotte dai primi. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Negli ultimi dati Istat è segnalato il fatto che l’anno della pandemia, nonostante il blocco dei licenziamenti imposto dal Governo, ha mandato in fumo quasi un milione di posti di lavoro, 945.000 per la precisione. Le ripetute flessioni congiunturali dell’occupazione , registrate dall’inizio dell’emergenza sanitaria fino a gennaio 2021– spiega l’Istituto di statistica – hanno determinato un crollo dell’occupazione del 4,1%. La diminuzione coinvolge uomini e donne, dipendenti (-590.000) e autonomi (-355.000 se si adotta la nuova definizione Istat di occupato, se no la diminuzione è minore) e tutte le classi d’età. Il tasso di occupazione è sceso, in un anno, di 2,2 punti percentuali toccando il 56,5%.

Si può immaginare cosa potrà succedere una volta che verrà tolto il blocco dei licenziamenti, che comunque ha già un costo perché mette ancor più in difficoltà le piccole imprese già alla canna del gas. Non a caso, nel 2020 il tasso di mortalità delle aziende rispetto al 2019 risulta quasi raddoppiato per quelle del commercio (dal 6,6% all’11,1%) e addirittura più che triplicato per i servizi di mercato (dal 5,7% al 17,3%). In pratica, oltre 390.000 imprese del commercio non alimentare e nei servizi di mercato hanno chiuso i battenti nel 2020, un fenomeno certamente non compensato dalle sole 85.000 nuove aperture [18].

Pertanto, la riduzione del tessuto produttivo nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305.000 imprese (-11,3%). C’è poi tutta la filiera del tempo libero che, tra attività artistiche, sportive e di intrattenimento, fa registrare complessivamente un vero e proprio crollo, con la sparizione di un’impresa su tre. Alla perdita di imprese va poi aggiunta quella dei lavoratori autonomi: Confcommercio ha stimato la chiusura, nel solo 2020, di circa 200.000 partite Iva di persone operanti nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, amministrazione e servizi, attività culturali, sportive e altro.

E nel 2021, come spiega Andrea Muratore, “sull’economia italiana aleggia lo spettro di un’ondata di fallimenti nel mondo delle imprese all’esaurimento delle misure di sostegno economico alla liquidità e di rimborso di cassa integrazione e strumenti di sostegno simili. Ritorna a gravare sulla nostra società, in prospettiva, il fantasma della povertà e dell’esclusione sociale, che secondo uno studio di Unimpresa riferito a fine 2020 minaccia oltre 10 milioni di italiani. Il perimetro della minaccia riguarda oltre 1,2 milioni di soggetti in più rispetto a un’analoga rilevazione relativa al 2015, con una crescita del 13%” [17].

L’impatto della crisi pandemica sullo Stato e sulle banche italiane

Infine, la crisi provocata dal coronavirus ha peggiorato i conti pubblici. Secondo Carlo Cottarelli, nel 2021 il deficit per gli “scostamenti” (compreso quello di questo mese) sarà, verosimilmente, di almeno 195 miliardi e sarà coperto per intero da acquisti della BCE [19]. L’aumento del deficit si riflette anche sull’andamento del debito pubblico italiano, che secondo le stime arriverà quest’anno al 160% del PIL, dal 135% del 2019. Nella migliore delle ipotesi, questa cifra potrebbe stabilizzarsi nei prossimi due anni. Inoltre, nel 2020 la recessione ha causato un crollo del PIL dell’8,9%, a 1652 miliardi, maglia nera nell’UE [25].

Famiglie, imprese, banche, Stato: le prime due sono sotto forte stress, gli altri due potrebbero esserlo presto. Pur se non venissero superate soglie critiche, anche grazie al sostegno delle istituzioni europee (che alla fine dell’anno deterranno il 27% del debito pubblico), i margini di manovra per far fronte a eventuali future emergenze sono sempre più ridotti. Un discorso analogo si può fare per le attività, per le imprese e per le famiglie che non “salteranno” nel frattempo: saranno comunque assai più fragili nei confronti di nuove “sorprese” negative, e in questo senso il “boom” generalizzato dei prezzi non aiuta.

Ancor meno aiuta – anzi rappresenta un pericoloso “catalizzatore” negativo – la normativa imposta dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) che dal 1° gennaio comporta, in caso di scoperto per 90 giorni di 100 euro per le persone fisiche e di 500 euro per le aziende, il blocco del conto corrente (impedendo quindi la riscossione di eventuali crediti attesi) e la segnalazione alla centrale rischi come “cattivi pagatori”. Ciò nel migliore dei casi frena gli investimenti degli imprenditori, ma nel caso peggiore può tradursi, in pratica, nel fallimento per un’azienda ed in una sorta di “espulsione” dalla società per le persone fisiche.

Ci sono diversi modi per pagare come Paese il prezzo di una crisi, la peggiore che potesse capitare in oltre 70 anni di storia italiana ed europea. Bisogna sempre ricordare che lo Stato italiano, per funzionare, ha bisogno di circa 700-800 miliardi l’anno, forniti dalle tasse sotto forma di entrate tributarie (dirette e indirette) e dai contributi sociali. Mentre le centinaia di miliardi di liquidità che ci vengono “prestati” dai mercati finanziari acquistando i nostri Titoli di Stato sono rinnovi del debito pubblico che viene a scadenza (e che ci costa circa 60-70 miliardi all’anno di interessi). Una domanda che bisogna allora porsi, perché se la faranno – prima o poi – anche gli investitori è la seguente: come può un Paese nella situazione fin qui illustrata sostenere il debito pubblico terzo al mondo per volume (2.500 miliardi)?

Anche se la BCE al momento protegge con una sorta di “paracadute” il nostro Paese dall’esposizione verso i mercati finanziari e dalle relative speculazioni, non sappiamo fino a quando ciò potrà avvenire, né fino a quando riusciremo a evitare un downgrade a “spazzatura” dei nostri Titoli di Stato da parte delle agenzie di rating, cosa che potrebbe [20]: (1) fermare l’acquisto dei titoli italiani da parte dei grandi fondi sovrani e degli investitori istituzionali; (2) far impennare lo spread (costringendo lo Stato a promettere un alto premio di rischio per collocare il debito); (3) portare le banche italiane a pagarne lo scotto.

Infatti, le nostre banche di Titoli di Stato italiani ne hanno “in pancia” ben 370 miliardi. Se i nostri Titoli di stato fossero declassati a “spazzatura”, gli Istituti di credito stessi andrebbero successivamente incontro a svalutazioni, con tutti i riflessi del caso. I rischi sarebbero quindi: da una parte, dei fallimenti bancari, poiché ciò si aggiungerebbe ai crediti deteriorati prodotti dal fallimento delle imprese; e, dall’altra, quello di una ristrutturazione del nostro debito – verosimilmente coinvolgendo anche l’FMI, in uno scenario che ricorda vagamente quello già vissuto dalla Grecia – se non quello di un default più o meno pilotato.

L’impatto della pandemia sui conti pubblici e sulle banche italiane. In questa tabella ho riassunto i principali numeri illustrati nel testo. Dal primo scostamento di bilancio per 20 miliardi dell’11 marzo 2020, al secondo del successivo 24 aprile per 55,3 miliardi, per finire con i 25 miliardi del terzo scostamento (23 luglio), gli 8 miliardi del quarto (20 novembre) – più i 40 miliardi della Legge di Bilancio 2021 (anche per vaccini, assunzione medici, mascherine, etc.) – le risorse stanziate nei famosi “decreti Conte” sono servite solo in piccola parte per indennizzi e ristori, peraltro poco più che simbolici. I recenti D.L. Sostegni arrivano quindi, in molti casi, ormai “a babbo morto”. (fonti: Carlo Cottarelli [19], Istat e altre citate nel testo)

Se pensate che tutto ciò sia fantasia, guardate le righe rosse della tabella qui sopra. Non notate nulla di strano? Nel 2020 i soldi della Legge di Bilancio e dei vari scostamenti di bilancio con indebitamento netto (deficit) da parte dello Stato all’apparenza compensano il crollo del PIL. Ma in realtà non è così, perché sono stati impiegati per il Fondo di garanzia per i finanziamenti delle banche alle PMI (ne sono stati usati 83 miliardi), per pagare la cassa integrazione COVID (16 miliardi anticipati dall’INPS) e per numerose altre cose (a cominciare dall’acquisto di materiali sanitari, il cash-back, il Superbonus 110%, etc.). Difatti, sappiamo che le imprese più colpite hanno ricevuto fra il 2% e il 5% del fatturato perso: in pratica “briciole”.

Il “cigno nero”: l’impatto devastante dell’altamente (ma ora non poi così tanto) improbabile

Infine, con la pandemia è aumentato anche il rischio del cosiddetto “cigno nero”, l’evento inatteso che travolge tutto e tutti, cambiando il corso della Storia. Si noti che il coronavirus non è tecnicamente un cigno nero poiché manca una connotazione essenziale, l’imprevedibilità, anche se – a posteriori – molti eventi in realtà vengono giudicati prevedibili solo con il senno di poi. La teoria del cigno nero è però utile per capire il ruolo sproporzionato di eventi a forte impatto, rari e difficili da prevedere rispetto alle aspettative, e che potrebbero avere delle conseguenze addirittura sistemiche per l’economia e la società.

In realtà, quel che potrebbe accadere nei prossimi mesi o 1-2 anni non sembra così imprevedibile né così improbabile. Già a ottobre scorso il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati: “Questo shock senza precedenti della crisi COVID potrebbe causare qualche vittima fra le banche” [21]. Ed a novembre la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ma l’Europa è ancora una volta in ritardo, perché nel frattempo non ha varato veicoli appositi per gestire i crediti non deteriorati né ha modificato le norme sul tema.

Già a gennaio nelle banche italiane c’erano circa 70 miliardi di crediti deteriorati a causa della pandemia. Tale cifra salirà certamente di molto nel corso dell’anno, quando potrebbe avvenire il grosso dei fallimenti delle imprese. C’è quindi il rischio del tutto concreto che, per la prima volta, a pagare le conseguenze di un default bancario siano anche i correntisti, come previsto dalla nuova normativa sul bail-in. E se la banca è abbastanza grande, potrebbero facilmente essere coinvolti anche i conti dei risparmiatori sotto i 100.000 euro, poiché il Fondo interbancario di garanzia dei depositi non sarebbe in tal caso sufficiente.

Ciò, però, avrebbe verosimilmente due effetti già di per sé assai pericolosi: il primo è il panico e il caos più totali, con la corsa agli sportelli e non solo; il secondo è la propagazione di questo ben più veloce e temibile “contagio” ad altre banche italiane “pericolanti”. Infatti, come ha spiegato lo stesso Visco, “non c’è nulla nel quadro dell’Unione Europea di gestione delle crisi in grado di evitare che le difficoltà delle banche non sistemiche si trasformino in liquidazioni disordinate”. Insomma, se nei prossimi mesi si verificasse per più banche questo scenario, la pandemia sarebbe probabilmente l’ultimo dei nostri problemi.

Infatti, il rischio è che questi fallimenti iniziali facciano da “innesco” (trigger) per il fallimento di una o più banche italiane sistemiche (le famose “too big to fail”), che in quanto tali potrebbero estendere il problema ad altri Paesi europei, portandolo a una dimensione tale da non essere più gestibile. In tal caso si aprirebbero – verosimilmente  – scenari tali da far gelare il sangue nelle vene. Difatti, ciò non solo rischierebbe di far saltare l’area Euro ma anche, attraverso i derivati di cui sono imbottite alcune banche (ad es. Deutsche Bank), di propagare il contagio con fallimenti a catena al di fuori dell’area UE.

Come Andrea Muratore ha molto ben illustrato nei suoi articoli [22, 23], “il rischio di fallimenti a catena di imprese e istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shock bancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile. Con la fine del blocco dei licenziamenti e con l’onda lunga delle garanzie sui prestiti, lo Stato dovrà affrontare una tempesta estremamente problematica”. E infine, come ricorda Il Sole 24Ore: “Rimuovere troppo presto gli aiuti potrebbe avere l’effetto collaterale di provocare un aumento dei crediti deteriorati nei bilanci bancari. Nonché problemi per gli stessi governi a cui gli istituti potrebbero escutere le garanzie pubbliche che i governi hanno stanziato in abbondanza durante la crisi sanitaria”.

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari.

In conclusione, l’impatto economico della pandemia sull’Italia è ormai enorme, e non sembra che ci si possa permettere ulteriori chiusure (lockdown) né nelle prossime settimane né, tanto meno, nel caso in cui la variante sudafricana – o altre nuove varianti ancora non emerse – dovessero portare a una “quarta ondata”, ad esempio nel prossimo autunno. Per questo è fondamentale: (1) preparare quanto prima l’implementazione di un “piano B” (oggetto di un futuro articolo) che prescinda dai vaccini; (2) puntare fin d’ora alla produzione nel nostro Paese di vaccini a mRNA (facili e veloci da aggiornare alle nuove varianti e da produrre), per garantire in tempi ultra-rapidi le dosi quando saranno necessarie.

 

Riferimenti bibliografici

[1]  ING, “Container and shipping sgortage piles pressures on prices”, Hellenic Shipping News, 2 aprile 2021.

[2]  Blythe B., “COVID-19 Recovery May Be Driving New Commodity Supercycle”, The Ticker Tape, 22 marzo 2021.

[3]  Estevez E., “The Causes of the Subprime Mortgage Crisis”, The Balance, 17 settembre 2020.

[4]  Investopedia Staff, “Who Was to Blame for the Subprime Crisis?”, Investopedia, 12 gennaio 2020.

[5]  Rajput H., “A shock like no other: coronavirus rattles commodity markets”, Environ. Dev. Sustain., 11 agosto 2020.

[6]  FactSet Insight, “The stress of coronavirus”, FactSet, 20 febbraio 2020.

[7]  Pagella politica di AGI, “Come va la produzione di acciaio in Italia, in Europa e nel mondo”, AGI, 6 dicembre 2019.

[8]  Menichella M., “Un’analisi interdisciplinare: come (e perché) ottimizzare la campagna vaccinale in Italia”, Fondazione David Hume, 3 aprile 2021.

[9]  Massariolo A., “Trasporto merci: più del 60% avviene ancora su strada”, Il Bo Live, 22 febbraio 2019.

[10]  Rubini F., “Prezzo benzina non crolla con il petrolio: ecco perché”, Money.it, 23 aprile 2020.

[11]  Gabanelli M., “Perché le autostrade italiane sono le più care d’Europa”, Corriere.it, 10 giugno 2018.

[12]  Paganini P., “Tutti i rischi della geopolitica dei prezzi delle materie prime”, Formiche.net, 14 marzo 2021.

[13]  Dari A., “Aumento senza precedenti dei costi delle materie prime: salta l’edilizia?”, Ingenio, 26 marzo 2021.

[14]  Wallace P., “The Winners and Losers From Surging Oil and Commodity Prices”, Bloomberg.com, 11 marzo 2021.

[15]  Loschi I., “Rincari delle materie prime fino al 25% e difficoltà nel reperimento: aziende trevigiane in difficoltà”, Oggi Treviso, 30 marzo 2021.

[16]  Spezia M., “Materie prime scarse e troppo care, Electrolux in difficoltà”, TGR Friuli Venezia Giulia, 2 aprile 2021.

[17]  Muratore A., “Come l’Italia può reagire alla catastrofe economica in corso”, InsideOver, 6 aprile 2021.

[18]  Redazionale, “Covid e calo dei consumi, Confcommercio: ‘Sparite oltre 390mila imprese in un anno’”, LaStampa.it , 28 dicembre 2020.

[19]  Cottarelli C., “La terza ondata Covid peggiora i conti pubblici: verso 2.750 miliardi di debito. Ma sarà ancora di più nelle mani delle istituzioni UE”, Repubblica.it, 27 marzo 2021.

[20]  Zapponini G., “E se il rating dell’Italia fosse ‘spazzatura’? La mannaia S&P e la carta Bce”, Formiche.net, 23 aprile 2020.

[21]  Scorzoni M.T., “Visco: “Covid, shock senza precedenti: farà qualche vittima tra le banche”, First online, 22 ottobre 2020.

[22]  Muratore A., “Lo Tsunami bancario che può travolgere l’Europa”, InsideOver, 30 gennaio 2021.

[23]  Muratore A., “La marea crescente del debito privato ci sommergerà”, InsideOver, 14 gennaio 2021.

[24]  Comunicato stampa di ARERA, “Energia: mercati di massa dinamici, ma concorrenza ancora non matura”, Arera.it, 12 febbraio 2015.

[25]  Comunicato stampa dell’Istat, “PIL e indebitamento delle AP”, Istat.it, 1° marzo 2021.




Un’analisi interdisciplinare: come (e perché) ottimizzare la campagna vaccinale in Italia

“La via per uscire passa dalla porta. Chissà perché nessuno la prende mai”, diceva il filosofo cinese Confucio. Forse avrebbe pensato la stessa cosa se avesse assistito all’inizio della campagna vaccinale italiana anti-COVID, che fino a tutto marzo è stata praticamente un disastro, sia in termini assoluti sia se la si confronta con quelli di altri Paesi non solo extra-UE, ma anche della stessa Unione Europea. Ciò non solo per le disparità nei criteri adottati fra le varie regioni e per il fenomeno degli “imbucati” o “saltafila”, ma perché sono state vaccinate scientemente milioni di persone di fasce di età (ad esempio, quelle dei 20, 30 e 40 anni) che non avrebbero dovuto essere neanche vagamente considerate in questa fase, salvo poche eccezioni. In questo articolo vedremo come – e perché – sarebbe necessario ottimizzare quanto prima la campagna di vaccinazione per non pagare assai più caramente le conseguenze del ritardo accumulato.

Analisi spazio-temporale della mortalità da COVID-19 in Italia

L’ottimizzazione di una campagna vaccinale per il COVID-19 in presenza di una scarsità di vaccini non può prescindere dall’approfondita comprensione della mortalità per tale malattia attraverso un’attenta analisi della sua evoluzione nel tempo e della sua distribuzione nello spazio. In altre parole, non ci si può limitare alla sola (banale) constatazione che la mortalità è maggiore al crescere della classe di età.

E per poter analizzare questi aspetti aggiuntivi a cui facevo cenno non si può, naturalmente, prescindere dai dati. Partiamo quindi dalla seguente tabella fornita dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) [1], che mostra la percentuale di morti per COVID-19 in Italia per regione e per periodo, dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Viene mostrata, in particolare, la percentuale di morti nella prima “ondata” (marzo-maggio 2020), nella seconda “ondata” (ottobre 2020-marzo 2021) e nel periodo relativamente tranquillo fra le due ondate (giugno-settembre 2020), quando a molti politici il peggio sembrava passato. 

Tabella 1. Percentuale di morti per COVID-19 in Italia per regione e per periodo, dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Viene mostrata, in particolare, la percentuale di morti nella prima ondata (marzo-maggio 2020), nella seconda ondata (ottobre 2020-marzo 2021) e nel periodo fra le due (giugno-settembre 2020). (fonte: Rapporto ISS [1])

In questa tabella risulta interessante notare, innanzitutto, come vi siano state – analizzando i totali dopo un anno di pandemia – delle regioni italiane nettamente più colpite delle altre in termini di percentuale di morti sul numero totale dei deceduti per COVID: la Lombardia (29,2% dei morti totali), l’Emilia Romagna (11,0%), il Veneto (10,2%), il Piemonte (8,6%), il Lazio (6,1%). Tutte le altre regioni mostrano percentuali inferiori al 5%, mentre le 5 regioni considerate hanno visto morire ben il 65,1% dei deceduti totali per COVID-19, ovvero ben i due terzi del totale, cosa ben illustrata dal seguente grafico a torta.

Percentuale di morti per COVID-19 in Italia per regione dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Si noti come circa i due terzi dei morti siano concentrati in appena cinque regioni delle 21 che compongono il nostro Paese. (fonte: elaborazione dell’Autore)

L’altra cosa che è interessante notare nella tabella dell’Istituto Superiore di Sanità è il fatto che ben 4 di queste 5 regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte) sono state in testa a questa spiacevole classifica della percentuale di morti in tutte e tre le fasi considerate (1a ondata, 2a ondata, interregno fra le due). La Lombardia è sempre stata di gran lunga prima, ma nella prima ondata è stata seguita dall’Emilia-Romagna e dal Piemonte, mentre nella seconda ondata è stata seguita dal Veneto e dall’Emilia-Romagna (come, del resto, era avvenuto anche nel periodo di interregno fra le due ondate).

Per comprendere quanto questa distribuzione della percentuale di morti da COVID-19 a livello italiano sia del tutto anomala basta guardare la Tabella 2 qui sotto in cui ho mostrato, oltre alla percentuale di morti da COVID per regione dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021, anche: la popolazione di ciascuna regione; la percentuale della popolazione che risiede in quella regione rispetto al totale della popolazione italiana (59,6 milioni di persone) al 1° gennaio 2020; la mortalità da COVID-19 per regione, ovvero il rapporto fra i morti COVID nel periodo considerato e la popolazione della regione.

Tabella 2. Distribuzione per regione della popolazione italiana e dei morti da COVID-19 dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Viene mostrata anche la mortalità da COVID-19 per regione (ovvero la percentuale dei morti sulla popolazione della regione stessa) nel medesimo periodo di tempo. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati Istat e ISS)

Come si può facilmente vedere da questa mia Tabella 2, la mortalità da COVID-19 (cioè la percentuale di morti sulla popolazione della regione) – che è il parametro davvero importante in quanto disconnesso dal numero assoluto di abitanti residenti nella regione – è maggiore per certe regioni (non necessariamente le 5 citate in precedenza o le più popolose, come illustra il caso della Val d’Aosta) e minore per altre. Per capire se c’è uno schema che emerge dalla distribuzione della mortalità da COVID-19, è necessario ordinare le regioni in ordine inverso di mortalità, cosa che ho fatto nel grafico qui sotto (parte superiore).

Parte superiore: Andamento decrescente della mortalità da COVID-19 fra le varie regioni italiane (sempre nel periodo che va dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021), alla ricerca di uno schema interpretativo. Parte inferiore: come la precedente, ma con la mortalità riferita non alla popolazione totale della regione, ma alla sola popolazione over 70 (fonte: elaborazione dell’Autore su dati Istat [2] e ISS)

Il grafico in alto mostra chiaramente che le regioni caratterizzate da una maggiore mortalità da COVID-19 sono tutte regioni del Nord Italia (Valle d’Aosta, Lombardia, Emilia-Romagna. Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Veneto, Piemonte), seguite da regioni del Centro Italia (Marche, Toscana, Umbria, Lazio) con l’aggiunta di 2 del Sud (Abruzzo e Molise), a loro volta seguite da tutte regioni del Sud Italia e Isole (Puglia, Sicilia, Campagna, Sardegna, Basilicata, Calabria). Dunque, lo schema emerge eccome! Al Nord si muore di COVID-19 più che al Centro, ed al Centro più che al Sud.

Poiché è interessante capire se questo schema sia dovuto – ed eventualmente, in che misura – alla diversa percentuale di anziani nelle varie regioni, nel grafico in basso sono mostrate le regioni in ordine decrescente di mortalità ma quest’ultima è calcolata relativamente alla sola popolazione over 70: in altre parole, è ottenuta dividendo i morti totali per COVID in quella regione per il numero di over 70 di quella regione. Il risultato, come si vede, a parte qualche piccolo spostamento di alcune regioni, sostanzialmente non cambia: la mortalità mostra un gradiente, diminuendo dal Nord verso il Centro e il Sud. Insomma, la cosa sembra non essere casuale (e in effetti, in un futuro articolo, vedremo che non lo è).

Importanza dell’uscire velocemente dalla pandemia

A differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei, l’impatto economico su centinaia di migliaia fra attività commerciali al dettaglio (in Italia nel 2018 erano circa 735.000) e piccole e medie imprese (che erano circa 148.000 a inizio 2020), nonché su intere filiere (cultura, turismo, ristorazione, palestre, etc.), è stato disastroso, soprattutto perché da noi i “ristori” sono stati praticamente simbolici e non accompagnati da altre misure tese a mitigare i danni, per cui in questi mesi un numero enorme di attività hanno già chiuso per sempre i battenti e ancor più sono, a loro volta, sull’orlo della chiusura definitiva.

Purtroppo, la maggior parte dei politici che ci governano – dispiace dirlo, ma basta aver ascoltato un qualsiasi talk show negli ultimi mesi per potersene rendere conto – appaiono totalmente disconnessi dalla realtà (oltre ad avere davvero seri problemi con la matematica e con la logica). Non sembrano capire che anche soli 2 o 3 mesi di ritardo nel raggiungimento dell’obiettivo della campagna vaccinale (per un’errata strategia messa in atto dalle Autorità nazionali e locali) possono fare una differenza abissale per quanto riguarda l’impatto sul sistema economico e su quello sociale, anche per la presenza in tali sistemi di soglie critiche poco conosciute che si può scoprire di aver superato quando ormai è troppo tardi [3].

Secondo un’analisi [4] svolta a febbraio da Euler Hermes & Allianz Economic Research, un team di economisti esperti che analizzano i settori e i rischi paese per fornire una visione globale per i responsabili delle decisioni, il ritardo di 5 settimane nelle vaccinazioni accumulato dall’Europa costerà al Vecchio Continente qualcosa come 90 miliardi di euro nel 2021. Inoltre, secondo questi analisti, le implicazioni negative dovute al ritardo per alcuni Paesi dell’Unione Europea saranno enormi: “i Paesi che toccheranno per primi il traguardo saranno premiati con forti moltiplicatori positivi, mentre i ritardatari resteranno bloccati in modalità crisi, trovandosi ad affrontare costi economici e politici sostanziali”.

Le difficoltà di approvvigionamento dei vaccini, con i colli di bottiglia emersi nella produzione e nella distribuzione degli stessi, hanno portato l’UE, nel gennaio 2020, a un ritmo di vaccinazioni quattro volte inferiore a quello del Regno Unito e degli Stati Uniti. Poiché ogni settimana di prolungamento delle restrizioni sanitarie riduce di 0,4 punti percentuali la crescita del PIL trimestrale dell’Unione Europea, secondo il team di economisti “l’attuale ritardo equivale a circa 2,0 punti percentuali in meno, ovvero circa 90 miliardi di euro”. La cosa interessante è che questo valore “supera di ben 4 volte quello degli accordi che la Commissione Europea ha firmato con i produttori di vaccini per le dosi ordinate”.

Secondo lo studio citato, il costo economico del ritardo nelle vaccinazioni risulta essere dunque in rapporto di 4 a 1 con il costo di acquisto dei vaccini. In altre parole, un euro speso per accelerare la vaccinazione (ad esempio per realizzare infrastrutture per l’aumento della produzione di vaccini) potrebbe far risparmiare ai Paesi dell’UE quasi quattro volte questa cifra. Il vaccino agisce inoltre da “moltiplicatore degli investimenti e di consumi privati” e può permettere di “far ripartire l’economia dei servizi, liberare i risparmi forzati accantonati a titolo precauzionale e recuperare gli investimenti delle imprese”. Portare avanti le vaccinazioni il più celermente possibile è, dunque, fondamentale per il nostro Paese.

Fra l’altro, è interessante notare come i Governi dei diversi Paesi abbiano seguito strategie diverse per i vaccini. Ad esempio, gli Stati Uniti si sono comportati da “venture capital”, finanziando lautamente lo sviluppo di vaccini e raccogliendone ora i dividendi. La Svizzera ha puntato invece tutto sui vaccini di nuova generazione (quelli a mRNA Pfizer e Moderna) e alla data del 18 marzo la sua agenzia regolatoria ancora risultava non aver approvato il vaccino Astrazeneca. Il Regno Unito ha puntato sulla rapidità della vaccinazione con accordi “lampo” con le case farmaceutiche. L’Unione Europea, invece, ha puntato a spuntare il prezzo migliore, salvo farsi raggirare bellamente nelle clausole contrattuali.

Come lo studio concludeva, “per permettere una ripresa economica almeno nella seconda metà del 2021, i Paesi dell’UE devono intraprendere urgentemente un programma di vaccinazione mirato sulle persone a rischio (20-30% del totale, a seconda della composizione demografica) entro la metà del 2021, così da allentare le restrizioni senza pesare sul sistema sanitario”[4]. Ciò significa, in pratica, aumentare fortemente il numero delle somministrazioni giornaliere di vaccini e cercare di far salire anche la disponibilità a breve termine dei vaccini, autorizzandone di nuovi e stringendo nuovi accordi con i relativi produttori, nonché cercando di rimuovere i “colli di bottiglia” nella produzione di quelli già in commercio, ad esempio con lo sviluppo di nuovi siti produttivi, che torneranno molto utili nelle future campagne di richiamo.

La vaccinazione come metodo di controllo di un’epidemia

Nell’epidemiologia delle malattie infettive, l’efficacia di una strategia di controllo è spesso espressa nella capacità della strategia di ridurre il potenziale naturale di riproduzione del patogeno (Ro) o il numero di riproduzione calcolato nel corso del tempo (Rt) o, ancora, il numero giornaliero di contagiati, poiché si dà per scontato che, riducendo ad es. l’Rt a un valore inferiore a 1, siccome ciò vuol dire che una persona tende in media a infettarne meno di una l’epidemia tende gradualmente a estinguersi e, di conseguenza, prima o poi deve calare necessariamente anche il numero dei decessi giornalieri associati.

Vi sono molti modi per intervenire nel corso di un’epidemia per ridurre il numero delle infezioni e il numero dei morti. Gli interventi si possono distinguere, fondamentalmente, in due diversi tipi: (1) quelli farmaceutici (comprendenti l’uso domiciliare o ospedaliero di integratori, farmaci, anticorpi monoclonali, vaccini, etc.) e (2) non farmaceutici. Questi ultimi includono l’uso delle mascherine, il distanziamento sociale, misure come le restrizioni sui viaggi e la chiusura delle scuole, etc. La vaccinazione è uno dei più efficaci modi per ridurre il numero delle infezioni (se si usano vaccini cosiddetti “sterilizzanti”) o anche solo la mortalità (come nel caso dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio) [5].

I principali mezzi usati fino ad oggi dalle autorità politiche e sanitarie per ridurre il numero di infezioni e/o di morti per COVID-19. (fonte: elaborazione dell’Autore)

Infatti, i vaccini sviluppati dall’uomo per sé o per gli animali possono essere fondamentalmente di due tipi: vaccini sterilizzanti (cioè che impediscono a un agente patogeno di replicarsi nelle cellule e quindi di trasmettere l’infezione ad altri, come avviene ad esempio con il vaccino del morbillo e con altri vaccini tradizionali) oppure vaccini “leaky” (letteralmente “che perdono”), cioè che bloccano i sintomi e impediscono la morte delle persone ma non prevengono l’infezione o la trasmissione successiva ad altri. Quest’ultimo è verosimilmente il caso degli attuali vaccini anti-COVID [6], che prendono di mira la sola proteina “spike”, l’uncino che si lega alle cellule in cui verrà poi iniettato l’RNA da replicare.

In linea del tutto generale, una vaccinazione permette alle persone di sfuggire all’infezione in due modi: o direttamente o indirettamente. L’effetto diretto è misurato come la proporzione di individui che vengono vaccinati e quindi immunizzati. L’effetto indiretto – noto come “immunità di gregge” [7]  – è misurato come la proporzione di individui non vaccinati che sfuggono all’infezione grazie alla “terra bruciata” creata dalla vaccinazione. Si noti che il numero finale di infetti al termine di un’epidemia è uguale al numero totale di persone che si sono infettate, ovvero alla popolazione meno il numero di quelle che sono sfuggite all’infezione, perciò viene limitato dall’effetto totale della vaccinazione, diretto e indiretto.

In generale, la vaccinazione protegge gli individui inducendo una risposta immunitaria, che può durare per un certo periodo di tempo. Mentre la vaccinazione pediatrica è però una forma di vaccinazione pre-pandemica (cioè gli individui vengono vaccinati per evitare un’epidemia), quella attualmente in corso in Italia e in molti altri Paesi è una vaccinazione durante una pandemia, che, a causa del tipo di vaccini molto specifici e non sterilizzanti al momento usati, pone numerosi rischi a medio termine [6], oltre che un problema di ottimizzazione per riuscire a ridurre nel più breve tempo possibile l’impatto sul sistema sanitario e quindi, a cascata, su quello economico per via dei lockdown imposti.

L’ottimizzazione matematica di una campagna vaccinale è un’affascinante problema di matematica applicata [5] e dipende innanzitutto dall’obiettivo della campagna vaccinale. Essa ha interesse rilevante non solo in una situazione di scarsità di vaccini – come quella attuale – ma anche per il futuro, poiché tale necessità si potrebbe ripresentare in un prossimo futuro o per l’emergere di altri virus (questo è il terzo coronavirus in pochi anni ad aver fatto il “salto di specie”, dopo quelli responsabili della SARS e della MERS) o per l’emergere di nuove varianti del SARS-CoV-2 in grado di “bypassare” i vaccini attuali, situazione che potrà essere risolta solo quando si disporrà di vaccini “universali” (ad es. a virus inattivato) [6].

I possibili obiettivi di una campagna vaccinale, in generale, possono essere diversi. Uno potrebbe essere, ad esempio, quello di minimizzare il numero degli infetti, cosa possibile però con i vaccini sterilizzanti o solo debolmente “leaky”. Un altro potrebbe essere l’abbattimento del numero di morti legati alla diffusione del virus. Un altro ancora potrebbe essere il raggiungimento dell’immunità di gregge. Infine, un altro obiettivo – ancora più ambizioso – potrebbe essere l’eradicazione del virus, cosa che richiede non soltanto l’impiego di vaccini sterilizzanti ma anche una vaccinazione rapida ed estesa alla popolazione dell’intero globo (non a caso l’unico virus eradicato con la vaccinazione è stato quello del vaiolo).

Importanza della pianificazione di una campagna vaccinale

La pianificazione di una campagna vaccinale (tanto più quella fatta durante una pandemia con vaccini autorizzati in emergenza con procedura “fast track”) non dovrebbe essere in alcun caso trascurata o data per scontata – come invece sembra essere accaduto in Europa e in particolar modo in Italia con la vaccinazione anti-COVID – e, come avviene solitamente per le vaccinazioni “normali”, dovrebbe essere incardinata intorno all’analisi accurata di quattro aspetti fondamentali [5]:

  1. Prodotto – Che tipo di vaccino dovrebbe essere usato?
  2. Produzione – Quante dosi devono essere prodotte o acquistate?
  3. Allocazione – Chi dovrebbe essere vaccinato?
  4. Distribuzione – Come fornire i vaccini alle persone?

I vaccini sono beni di pubblico interesse, per tale motivo vengono di solito acquistati da un’autorità centrale a livello nazionale o dell’Unione Europea (quest’ultima, però, non ha alcuna esperienza in tal senso). Non è facile stimare la dose di vaccini da ordinare quando i prodotti sono solo “promesse” o “scommesse”. Inoltre, se ci si tiene stretti negli ordini, una consegna in ritardo o un taglio nelle consegne previste per le più svariate ragioni si possono tradurre in una carenza di vaccini sul breve o sul medio termine, anche se il rifornimento è di solito garantito sul lungo termine. Per tali ragioni, è largamente raccomandabile avere una produzione di vaccini nazionale e il controllo dell’intera filiera sul proprio territorio.

Uno degli aspetti cruciali di una vaccinazione di successo è il tempo. Poiché un’infezione si può propagare rapidamente attraverso una popolazione, in generale prima le persone vengono immunizzate e meglio è, se i vaccini sono sterilizzanti. Poiché questo sappiamo non essere, verosimilmente, il caso degli attuali vaccini anti-COVID, i decisori politici e sanitari devono ottimizzare la velocità della vaccinazione e l’efficacia della risposta in termini di vite salvate: quest’ultima non è solo legata all’efficacia del vaccino nei trial e alla sua efficienza nel proteggere la popolazione sul campo (due concetti diversi che ho illustrato in un precedente articolo [8]), ma anche al vaccinare per prime le persone “giuste” (e non i parenti o “gli amici degli amici”); mentre la velocità dipende anche dalla logistica, dall’organizzazione, etc.

L’allocazione ottimale dei vaccini dovrebbe, in generale, massimizzare il beneficio per la salute, che nel caso italiano non significa minimizzare il numero di infetti bensì il numero di quelli che, essendo più suscettibili a forme gravi della malattia, più rischiano il ricovero in terapia intensiva e la morte. Poiché la maggior parte dei vaccini anti-COVID attuali necessitano di due dosi, quando le dosi sono scarse l’impiego di una singola dose su un numero doppio di persone (ritardando quindi un po’ la seconda dose) può essere un’opzione da valutare, come fatto ad es. nel Regno Unito, che pensa già alla somministrazione di una terza dose agli over 70 in autunno, poiché gli effetti dell’immunità possono svanire nel tempo e potrebbero arrivare intanto delle varianti che la “bypassano” (un vaccino a mRNA può essere adattato ad esse in un mese).

Tale strategia, infatti, consente: (1) di massimizzare il numero di vite salvate (una dose basta ad abbattere la probabilità di effetti gravi); (2) di guadagnare tempo prezioso (specie per quei Paesi, come l’Italia, che non hanno ancora un vaccino proprio e tantomeno, attualmente, la presenza dell’intera filiera di produzione di vaccini terzi sul proprio territorio; (3) di avere una prospettiva a medio e a lungo termine (dove pesa come una spada di Damocle l’incognita di possibili nuove e più temibili varianti, “sorprese” che possono emergere in qualsiasi momento e in qualsiasi Paese), una visione che sembra mancare del tutto nella miope campagna di vaccinazione italiana, fatta piuttosto come “se non ci fosse un domani”. Ma il “vivere alla giornata”, in questo tipo di crisi, è un errore che può costare davvero molto caro.

Un numero relativamente limitato di dosi singole possono sembrare una goccia nell’oceano se rapportate alla popolazione dell’intero Paese, ma queste possono avere un impatto piuttosto rapido sulla curva dei morti giornalieri se vengono somministrate alle persone “giuste”, ovvero a quelle che presentano almeno i primi due dei tre fattori di rischio che ormai sappiamo essere associati alle morti per COVID-19 [9, 10]: (1) un’età avanzata; (2) la presenza di comorbidità; (3) l’avere un basso livello di vitamina D nel sangue. Per tale ragione, fra l’altro, l’invito (ad es. con spot televisivi) a integrare la vitamina D3 (con la cui assunzione si ha poco da perdere ma potenzialmente tanto da guadagnare) sarebbe una misura da adottare in parallelo – oltretutto sarebbe a costo zero – ed i cui effetti sarebbero quasi immediati [9].

La forte relazione fra mortalità per COVID-19 e la classe di età, relativa ai 96.149 deceduti COVID in Italia dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Dunque l’età rappresenta un importante fattore di rischio per l’esito infausto della malattia. (elaborazione dell’Autore su dati ISS [1] e Istat)

Infine, la campagna vaccinale anti-COVID andrebbe organizzata non tanto come una soluzione di emergenza, bensì con una visione a lungo termine: è infatti probabile che la vaccinazione debba essere ripetuta con i dovuti richiami, e che in ogni caso negli anni a venire ci si trovi ad affrontare situazioni simili. Proprio per questo diventa necessario consolidare le conoscenze in modo da avere, in qualsiasi momento sia necessario, una risposta rapida ed efficiente. In questo senso, risulta molto utile il “Decalogo sulle vaccinazioni” [11], di recente redatto dalla Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica in collaborazione con l’Osservatorio italiano della prevenzione (OIP) e la Fondazione Smith Kline.

Qual è l’obiettivo reale della vaccinazione anti-COVID?

I possibili obiettivi di una campagna vaccinale – come abbiamo visto – possono essere diversi. Nel caso italiano, poiché il nostro Paese è andato in lockdown molte volte a causa dell’elevato livello di ospedalizzazioni di malati da COVID-19 in reparti a bassa intensità di cura (complice la mancanza di prevenzione e di terapie domiciliari adeguate) e dell’elevato livello di occupazione delle terapie intensive, l’obiettivo dovrebbe essere semplicemente quello di ridurre quanto prima questi numeri, per avere il più presto possibile due risultati: (1) la possibilità di riaperture e (2) abbassare il numero di morti giornalieri.

Purtroppo, però, molte persone – inclusi i decisori politici e sanitari regionali – hanno mostrato di avere le idee alquanto confuse sugli obiettivi di una campagna vaccinale anti-COVID: alcuni pensano che i vaccini siano utili anche ai giovani e che vaccinando le persone si possa renderle non infettive, e molti appaiono convinti che si possa raggiungere l’“immunità di gregge”. Purtroppo, però, si tratta allo stato solo di “credenze”, che per ora non trovano fondamento nei dati pubblicati ufficialmente, che anzi vanno, semmai, nella direzione opposta. Inoltre, pare esserci una profonda crasi fra la comunità scientifica e la classe politica, poiché i messaggi rilevanti a riguardo non paiono arrivare a chi decide.

Nel mio articolo “Pillole” anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato” [8], ho mostrato come, se si analizza il rapporto costi-benefici per i vaccini attualmente usati in Italia (Pfizer, Moderna, Astrazeneca), questo risulti raggiungere un punto di pareggio per i giovani di circa 25 anni. Infatti, la mortalità legata ai tre vaccini risulta essere, sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito, di 20-30 casi per milione di dosi. Tenendo conto della diversa letalità del virus per le varie classi di età, si scopre che il rischio di morire per il vaccino piuttosto che per il COVID-19 è maggiore per i giovani al di sotto di circa 25 anni, che pertanto – considerati anche i rischi a medio e lungo termine cui sarebbero esposti – non dovrebbero vaccinarsi.

In generale, la vaccinazione produce benefici in due modi: direttamente per le persone che vengono vaccinate, e indirettamente per quelli che non sono vaccinati riducendo la loro esposizione alla malattia nel corso dell’epidemia, fino al raggiungimento – se si vaccina una certa percentuale della popolazione – della cosiddetta “immunità di gregge”. Ma questo vale per i vaccini sterilizzanti, come ad es. quello per il morbillo, la poliomelite, etc. Per i vaccini “leaky”, che come sappiamo non impediscono a un vaccinato di trasmettere l’infezione, l’immunità di gregge è un’utopia. E nessuno finora ha portato alcuna prova scientifica che i vaccini anti-COVID attuali non si comportino così [6].

Inoltre, come illustrato molto bene da un articolo pubblicato su Nature [12], comunque l’immunità di gregge sarebbe raggiungibile: (1) solo con elevati tassi di vaccinazioni, cioè con una campagna vaccinale di breve durata; e (2) con una somministrazione coordinata su scala globale, poiché l’Italia non è certo isolata dagli altri Paesi, come ad esempio il Sud del mondo; inoltre, (3) con le nuove varianti più trasmissibili la soglia per l’immunità di gregge si innalza e bisognerebbe vaccinare una percentuale della popolazione ben più elevata, giovani compresi; infine, (4) se nascono nuove varianti resistenti ai vaccini, l’immunità acquisita potenzialmente svanisce e ci possiamo trovare a dover affrontare future ondate; e, in ogni caso, (5) l’immunità di un vaccino così specifico non dura per sempre.

Dunque, vaccinare i più suscettibili di infezione con i vaccini anti-COVID attuali, in una situazione di scarsità di vaccini, non ha senso. Infatti, l’idea di fondo dietro questa strategia è che la popolazione può essere suddivisa in tre gruppi [5]: (a) i suscettibili di infezione; (b) gli infetti e (c) i “rimossi”. Questi ultimi possono diventare tali in tre modi: (1) perché guariscono (oppure sono già guariti) e quindi vengono immunizzati naturalmente; (2) perché vengono immunizzati tramite il vaccino; (3) perché muoiono. Di conseguenza, se vaccino i più suscettibili di infezione in realtà non risolvo il problema, se non alla lunga; lo risolvo assai prima se vaccino prioritariamente le persone con più alta probabilità di morire per COVID.

Poiché il 96% dei morti per COVID-19 in Italia sono over 60 (con una percentuale di letalità che in generale tende ad aumentare al crescere della classe di età), gli “utilizzatori finali” dei vaccini anti-COVID dovrebbero quindi essere, essenzialmente, gli over 60 e le persone “fragili” (immunodepressi, diabetici, obesi, etc.), ed in via prioritaria – all’interno della categoria degli over 60 – le persone con comorbidità, poiché l’analisi di un campione di 6.713 pazienti deceduti per COVID [1] ha mostrato come il 66,6% avessero 3 o più patologie pregresse, il 18,5% 2 patologie e l’11,9% 1 patologia. Si noti come la popolazione da proteggere sia, sostanzialmente, simile a quella oggetto delle campagne di vaccinazione antinfluenzale.

Il disastro italiano: come “predicare bene e razzolare male”

Perciò, secondo il “Piano strategico sulle vaccinazioni” approvato dal Parlamento italiano lo scorso 2 dicembre, dopo i medici, gli infermieri e gli ospiti delle RSA, avrebbero dovuto essere vaccinati gli over 80 (circa 4,5 milioni di persone), poi, procedendo per età decrescenti, entro l’estate gli over 60 (altre 13,4 milioni di persone) e coloro che hanno almeno due patologie croniche, immunodeficienza o fragilità, e così via. Tutto bellissimo e perfetto, sulla carta. Ma le cose sono andate davvero così?

Alla data del 27 marzo, dei 9 milioni di dosi di vaccini somministrate in Italia, incredibilmente solo 3,77 milioni (pari ad appena il 42% del totale) erano state somministrate a over 70 [13], quando è ben noto che la popolazione di medici e infermieri (l’unica con priorità assoluta) in Italia ammonta a circa 1 milione di persone, per cui tutte le altre (tolto solo un numero relativamente piccolo di dosi di Astrazeneca quando questo vaccino era ancora limitato agli under 55 o 65) sarebbero dovute andare agli over 80, a cominciare dalle RSA, e poi agli over 70. Ma mentre gli ospiti di queste ultime sono state vaccinati (anche perché erano fisicamente facili da raggiungere), la maggior parte degli over 70 sono stati del tutto ignorati.

Il numero di dosi di vaccini anti-COVID somministrate in Italia alla data del 30 marzo 2020, ovvero dopo circa 3 mesi di campagna vaccinale. Si noti come, addirittura, il numero di dosi date ai ventenni sia maggiore di quelle date ai settantenni. (fonte: Ministero della Salute)

Le regioni italiane, anche per incapacità propria e pressate dalle lobby più varie, hanno invece seguito una strategia “ibrida” del tutto inefficace ed inutile, vaccinando a destra e a manca persone giovani o di mezza età che non rientravano affatto fra gli obiettivi prioritari della vaccinazione, come si può capire rileggendo il “Piano strategico delle vaccinazioni” sbandierato dal Ministero della Salute (e questo per tacere del circa 15% di “imbucati”, che non avrebbero dovuto essere tollerati), quasi inseguendo una sorta di “equità” sociale invece che una pragmatica efficacia. Il tutto senza che il Governo centrale – e men che mai il Ministero della Salute – muovessero un dito per impedire questa anarchia delle regioni.

Ben diversamente sono andate le cose negli altri Paesi, ed in particolare nel Regno Unito, che avremmo invece dovuto seguire come esempio. Là, infatti, si è adottata la strategia dell’avere come obiettivo principale la rapidità nel risultato. Pertanto, si sono vaccinati “a tappeto” – e prioritariamente – gli anziani, sia con Pfizer che con Astrazeneca (impiegato in due casi su tre), il che ha contribuito al rapido declino nella curva del numero di morti giornalieri, come del resto era già avvenuto in Israele, il Paese più avanti di tutti nella campagna di vaccinazione anti-COVID. Dunque, la strada era chiaramente tracciata da questi coraggiosi Paesi “apripista”, e bastava solo seguirla: in altre parole, “copiare”.

Si noti che la strategia del Regno Unito di una dose singola al maggior numero di persone corrisponde a una strategia rapida, mentre la strategia seguita pedissequamente dall’Italia – quella delle due dosi – ha, sulla carta, una più alta efficacia, ma ha senso solo quando si ha a disposizione un grandissimo numero di dosi, che non era certamente il caso del nostro Paese, con i tagli annunciati dai produttori di due dei vaccini su cui avevamo puntato di più. Si potrebbe obiettare che il vaccino Astrazeneca non copre granché dalla variante sudafricana, ma nella situazione attuale era assolutamente idoneo a svolgere la funzione che gli si chiedeva anche usandolo sugli over 70, e cioè farci uscire il prima possibile dalla crisi in atto.

L’AIFA, dal canto suo, ha contribuito non poco al disastro della campagna vaccinale italiana. Il 18 gennaio l’EMA autorizza il vaccino Astrazeneca per gli over 18. Ma il 2 febbraio l’AIFA lo autorizza solo per gli under 55, ed il 23 gennaio, su pressione del Ministero della Salute, per gli under 65, togliendo solo il 19 marzo i limiti di età. Mi duole dirlo – anche perché conosco e stimo molto il suo presidente, il prof. Palù – ma l’AIFA, nella persona del suo Direttore si è mostrata a mio parere del tutto inadeguata nel gestire questa materia, come già del resto era successo con i protocolli delle cure domiciliari (tema trattato in un mio precedente articolo [8]): l’ha gestita come se fossimo in uno scenario normale, “business as usual”, non nel mezzo di una pandemia che sta completamente paralizzando il Paese, e dove il tempo è un fattore.

L’andamento, nel mese di marzo 2020, del numero di morti COVID-19 per milione di persone della popolazione residente in tre diversi Paesi dell’Europa (geograficamente intesa): Italia, Francia, Germania, Regno Unito. Già da questo grafico si capisce come il nostro Paese si trovi in una pessima situazione, tanto più rispetto agli altri tre, come in una vera e propria guerra con tanto di morti e feriti, non certo uno scenario “business as usual”. (fonte: elaborazione dell’Autore con il tool online Our World in Data)

Fra i vari motivi della disastrosa campagna vaccinale italiana vi è poi il fatto che si è trattato di un evento che ha colto tutti di sorpresa (e il problema è che questa non è una battuta! Ad es. per fare la piattaforma di vaccinazione in Lombardia ci si è ridotti agli ultimi giorni utili, con l’esito noto), lasciando spazio alla più totale improvvisazione: non a caso solo “in corso d’opera” sono stati incaricati di occuparsene la Protezione civile e le Forze Armate, ovvero le uniche due strutture statali che hanno la necessaria flessibilità e capacità di pianificazione operativa. Ma ormai era troppo tardi: il gap accumulato con gli altri Paesi e con il Piano vaccinale del Ministero era abissale. Inoltre, probabilmente non ci si è resi conto del fatto che non sono tanto gli over 70 a dover andare verso i centri vaccinali, bensì il vaccino dagli over 70.

Infatti, molti over 70 vivono in piccoli paesini, tanti non guidano più, altri sono malati cronici, e pretendere che si facciano 50 km o più accompagnati da non si sa bene chi per scoprire che l’sms di chiamata era arrivato per errore (non a caso sto citando alcuni dei numerosi incredibili fatti realmente capitati) non sta né in cielo né in terra. Del resto, a parte Pfizer, gli altri vaccini sono facilmente trasportabili, almeno finché non arriva il caldo (un altro motivo per cui è fondamentale la velocità della campagna): ad es. Moderna può resistere fuori dal frigo fino a 6 ore, un tempo sufficiente per portarne uno stock in un piccolo paese e per vaccinare localmente gli over 80 e molti (se non tutti gli) over 70 presenti, con il supporto delle Autorità locali e dei volontari opportunamente coordinati. Sempre che lo si voglia fare.

Come ottimizzare la campagna vaccinale in Italia

I decisori politici e sanitari devono tipicamente confrontarsi con risorse limitate all’inizio di una pandemia o – come nel caso, in particolare, dell’Italia – anche nelle fasi successive a causa della scarsa capacità di organizzazione e di pianificazione. Le disponibilità di vaccini anti-COVID per la popolazione italiana sono attualmente limitate. Ciò porta a problemi di allocazione ottimale. Come dovrebbero essere suddivisi e somministrati i vaccini disponibili per raggiungere l’obiettivo desiderato (che, lo ricordiamo, non è vaccinare chi rischia di più l’infezione ma chi rischia di più di morire)?

In generale, la dinamica non lineare di un’epidemia rende il problema dell’allocazione dei vaccini difficile da ottimizzare. Tuttavia, si può trovare la migliore allocazione possibile in accordo a dei criteri ben definiti [5], ed in funzione dell’obiettivo da raggiungere. Nel caso italiano, si tratta di dividere fra popolazioni multiple (quelle di 21 regioni) un numero limitato di vaccini che poi devono essere somministrati dalle regioni stesse alle persone in modo tale non da eradicare il virus o da minimizzare il numero di infetti, bensì l’impatto sulle ospedalizzazioni per COVID e sui ricoveri di malati COVID in terapie intensive (ed, a cascata, sulle morti per COVID). Il tutto con un’epidemia in corso e anche piuttosto galoppante.

Attualmente, le dosi dei vari vaccini anti-COVID vengono distribuite alle varie regioni semplicemente in quantità proporzionali alle popolazioni delle regioni. Questa allocazione, però, è assolutamente non ottimizzata, poiché – come abbiamo visto in precedenza – le popolazioni delle varie regioni sono: (1) colpite dalla mortalità del COVID in modo tutt’altro che omogeneo a livello nazionale; e (2), poiché sono debolmente interagenti fra loro per le restrizioni poste agli spostamenti fra regioni, tali disomogeneità sono destinate a permanere. Dunque, si presenta il seguente problema di ottimizzazione: come somministrare i vaccini in modo da ridurre nel più breve tempo possibile la mortalità verso zero?

Per ottimizzare l’intervento vaccinale e, al tempo stesso, misurarne l’impatto, possiamo utilizzare come guida la distribuzione dei morti per COVID nella popolazione italiana, che come abbiamo visto è maggiore in determinate regioni, oltre che in ben note classi di età. Anche se solo circa il 15% dei morti da COVID-19 in Italia in realtà muore passando per le terapie intensive (il resto delle persone muoiono in altri reparti o a casa), minimizzando con la campagna vaccinale il problema della mortalità da COVID verrebbe automaticamente ridotta anche la pressione sulle strutture ospedaliere, giacché le persone che arrivano in Pronto Soccorso appartengono, in gran parte, alle stesse classi di età dei morti.

Dunque, dovendosi semplicemente minimizzare i morti da COVID-19 – e non disponendo di vaccini per l’intera popolazione che si intende vaccinare – si tratta semplicemente, in prima approssimazione, di “replicare”, nella distribuzione del vaccino: (1) la distribuzione per fasce di età della letalità del COVID-19 (quindi procedere partendo rigorosamente dai più anziani e passando via via a quelli un po’ meno anziani: prima over 80, poi over 70, etc.) e (2) la distribuzione geografica della mortalità per l’allocazione delle dosi alle diverse regioni, dando quindi più dosi in particolare (o quanto meno) alle 4-5 regioni che hanno avuto in questa pandemia la mortalità più alta, e menzionate all’inizio di questo articolo.

Un ulteriore livello di ottimizzazione della campagna vaccinale si avrebbe, infine, implementando il sistema di prioritizzazione basato sullo studio “Stress” dell’Università di Milano-Bicocca, il quale assegna un punteggio prognostico in grado di attribuire a ogni cittadino di età compresa fra 18 e 79 anni un “indice di fragilità” rispetto al rischio di sperimentare forme cliniche critiche del COVID-19. L’indice di fragilità viene calcolato incrociando le informazioni della banca dati regionale degli assistiti con i flussi di sorveglianza dei tamponi, dei ricoveri e dei decessi per COVID. Ciò ha consentito di identificare e pesare le 23 condizioni patologiche che, oltre all’età e al genere, sono risultate predittori del rischio clinico.

I benefici forniti da un insieme limitato di dosi di vaccini anti-COVID diminuiscono, evidentemente, quando (e tanto più) ci si allontana dalla strategia appena illustrata per andare in altre direzioni. In alcune situazioni, però, non sono le dosi di vaccino che limitano una vaccinazione, bensì la partecipazione della popolazione al programma di vaccinazione. L’Italia dovrebbe quindi considerare anche l’uso di incentivi quasi simbolici (come ad es. la birra gratis offerta in Israele ai vaccinati più giovani) per convincere tutti – o quasi – gli appartenenti ai gruppi vulnerabili (in particolare gli over 65), che più beneficeranno della vaccinazione, e in pratica gli unici che, vaccinandosi, possono farci uscire da questo dramma.

In conclusione, se il Governo centrale e il Ministero della Salute non si danno una bella regolata facendo il proprio dovere, che è quello di imporre le linee guida e sanzionare gli amministratori locali ed i sanitari che non le rispettano – invece che fare inutili multe a cittadini senza colpa – non è difficile prevedere che il disastro italiano proseguirà. Soprattutto ora che si avvicina la bella stagione e la gente si renderà conto che, per farsi una bella vacanza all’estero o per partecipare a certi eventi, servirà il pass vaccinale e quindi molti giovani o persone che non avrebbero reale bisogno del vaccino (specie in questa fase) faranno di tutto per “saltare la fila” e ritardare ancor più la vaccinazione completa degli over 70 e degli over 60.

Riferimenti bibliografici

[1]  Istituto Superiore di Sanità, “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia – Dati al 1° marzo 2021”, EpiCentro, marzo 2020.

[2]  Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), “Popolazione per età, sesso e stato civile 2020 – Piramide per età delle singole regioni”, Tuttitalia.it, 2021.

[3]  Menichella M., “Mondi futuri. Viaggio fra i possibili scenari”, SciBooks Edizioni, Pisa, 2005.

[4]  Ludovic S. et al., “Il ritardo delle vaccinazioni costerà all’Europa 90 miliardi di euro nel 2021”, Allianz Research, 2 febbraio 2021.

[5]  Duijzer L.E., “Mathematical Optimization in Vaccine Allocation”, Tesi di laurea, Università di Rotterdam, 2017.

[6]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[7]  Fine P., “Herd immunity: history, theory, practice”, Epidemiologic Reviews, 15, pp. 265-302, 1993.

[8]  Menichella M., “’Pillole’ anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato”, Fondazione David Hume, 25 marzo 2021.

[9]  Menichella M., “Vitamina D e minore mortalità per COVID: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura”, Fondazione David Hume, 23 febbraio 2021.

[10]  Infante M. et al., “Low Vitamin D Status at Admission as a Risk Factor for Poor Survival in Hospitalized Patients With COVID-19: An Italian Retrospective Study”, J. Am. Coll. Nutr., Febbraio 2021.

[11]  Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica, “Decalogo per il piano vaccinale anti-COVID-19”, Vaccinarsi.org, marzo 2020.

[12]  Aschwanden C., “Five reasons why COVID herd immunity is probably impossible”, Nature, 591,  pp. 520-522, 18 marzo 2021.

[13]  Ministero della Salute, “Report vaccini anti COVID-19” aggiornato al 27 marzo 2021, Governo.it.




“Pillole” anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato

Una delle cose che mi hanno più colpito negativamente in questo anno di pandemia è stata la quasi più totale assenza – se si eccettua lo spot iniziale sull’igiene delle mani e quello sull’app Immuni – di campagne di informazione e prevenzione del Ministero della Salute attraverso il mezzo televisivo, e in particolare la mancanza di una comunicazione rivolta agli anziani, che, oltre a rappresentare la stragrande maggioranza delle vittime del COVID, sono persone che, in molti casi, si informano esclusivamente attraverso la televisione. Oltre a ciò, ho notato che vari temi rilevanti per la prevenzione del COVID non sono stati trattati tout court, neppure in trasmissioni giornalistiche e medico-scientifiche. In questo articolo affronterò, perciò, 10 fra le principali questioni che la gente a casa si è posta o trovata ad affrontare in questi mesi senza ricevere, a mio parere, delle risposte o delle indicazioni soddisfacenti.

In particolare, cercherò di fornire qui, nei limiti di una trattazione divulgativa ed al meglio delle conoscenze attuali disponibili, delle “pillole” di informazioni utili che purtroppo non sono mai state date da chi avrebbe dovuto farlo: (1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia? (2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19? (3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali? (4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19? (5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura scientifica? (6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19? (7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere? (8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a casa? (9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID? (10) I vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione della malattia?

Gli studi nella letteratura medica pubblicata in questo anno di pandemia riportano che i pazienti ammalati di COVID-19 possono presentare, come sintomi all’esordio: febbre, tosse secca, fame d’aria e affaticamento. Sono stati segnalati come possibili sintomi in pazienti infetti anche mal di gola, congestione nasale e naso che cola. Un numero significativo di pazienti (20%-60%) sembra avere una perdita dell’olfatto (nota anche come anosmia), che può essere il primo sintomo di presentazione [1].

Secondo quanto diffuso dai Centers for Diseases Control (CDC) di Atlanta, che negli Stati Uniti si occupano di epidemie e malattie emergenti, nei pazienti infetti sono stati segnalati anche brividi e tremore persistente, dolori muscolari, mal di testa, nonché cambiamenti nel senso del gusto. Un sintomo del contagio è talvolta la congiuntivite, per chi entra a contatto con il virus attraverso la mucosa degli occhi. Un altro disturbo che può emergere è la comparsa di vescicole sulla pelle, lesioni pruriginose e necrosi.

Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite virale. Ed in circa il 90% delle diagnosi di ricovero ospedaliero di pazienti italiani morti per COVID-19 nel 2020 sono menzionate o condizioni (ad es. polmonite, insufficienza respiratoria) o sintomi (ad es. febbre, affanno, tosse) riconducibili, per l’appunto, al SARS-CoV-2 [2]. Nei ricoverati in Cina nel gennaio 2020 (relativi a 552 ospedali del Paese), la febbre era presente nel 44% dei pazienti all’ammissione, il secondo sintomo più comune era la tosse (68%), mentre nausea e vomito (5%) e diarrea (3,8%) erano poco comuni [3].

Il COVID-19 è una malattia caratterizzata da tre fasi [4], la prima delle quali è una fase virale che dura 7-10 giorni a partire dalla prima manifestazione dei sintomi. In approssimativamente il 20% dei casi è seguita da un secondo stadio – quello infiammatorio – annunciato da marcatori pro-infiammatori (ferritina, proteina C reattiva, etc.) e caratterizzato dall’apparizione di infiltrati nei polmoni, che sono seguiti in alcuni casi dal calo del livello di ossigeno nel sangue (ipossemia), rivelabile tramite un comune saturimetro.

Quest’ultima terza fase – che si verifica solo in un piccolo sottoinsieme dei pazienti iniziali (circa il 5%) – è caratterizzata da un’iperinfiammazione, che porta a una cosiddetta “tempesta citochinica” (una reazione immunitaria sistemica con cui il sistema immunitario combatte i microrganismi patogeni e induce le cellule a produrre altre citochine), che causa la “Sindrome di Distress Respiratorio Acuto” (ARDS), patologia potenzialmente fatale per la quale i polmoni non sono in grado di funzionare correttamente.

Le tre fasi della malattia COVID-19. Come vedremo, è molto importante agire già sulla prima fase, sia attraverso una prevenzione fai-da-te con opportuni integratori sia con il supporto di terapie domiciliari adeguate somministrate dai medici di base o dalle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). Tutto ciò è ancora più determinante con la comparsa di varianti del SARS-CoV-2 più virulente.

Come spiega il prof. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, “la prima fase, quella asintomatica che dura da 3 a 5 giorni, è caratterizzata da un’alta carica virale, che aumenta ulteriormente con la comparsa dei sintomi. La malattia va quindi affrontata prima che scenda ai polmoni. Se si parte presto, di solito è possibile evitare il ricovero” [5]. È ovviamente fondamentale, allo scopo, avvertire ai primi sintomi il medico, cui spetta di indicare i farmaci da assumere e le dosi (alcuni possono avere effetti collaterali, specie se presi in concomitanza con altri).

Con la cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7), oggi predominante anche in Italia, la prima fase si è però ridotta a soli 2-3 giorni. Ciò suggerisce che il virus si replichi più velocemente dando meno tempo al nostro sistema immunitario per sviluppare gli anticorpi. Ma, soprattutto, secondo uno studio di Grind et al. [10], la variante inglese del SARS-CoV-2 risulta essere più letale rispetto alla variante originale, con un rischio di morte di ben il 67% maggiore, a conferma della maggior virulenza di questa variante. Come vedremo nella risposta all’ultima domanda, quest’ultimo è un effetto che potrebbe essere legato ai vaccini oggi usati.

2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il COVID-19?

Sono ormai noti tre diversi fattori di rischio che caratterizzano un esito infausto nel COVID-19: (1) l’età, dato che ben l’85% delle vittime italiane hanno più di 70 anni (e circa il 95% delle vittime ha più di 60 anni); (2) la presenza di comorbidità (anche i pochi morti italiani sotto i 40 anni presentano, nella maggior parte dei casi, gravi patologie preesistenti: cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità [2]); (3) la carenza di vitamina D (nel sangue), come evidenziato da numerosi studi nel mondo [6, 7].

Si noti che, all’interno del 20% di pazienti la cui condizione, dopo la prima settimana di malattia COVID-19, può all’improvviso deteriorare si trovano anche persone che inizialmente avevano una sintomatologia lieve [4]. Di conseguenza risulta vantaggioso avere la capacità di distinguere – al di là della semplice valutazione dei fattori di rischio – i casi che avranno un andamento clinico non complicato da quelli che hanno maggiore probabilità di sviluppare distress respiratorio e che necessitano di terapie precoci.

Uno studio svolto da Cabanillas et al. [4] ha mostrato che, sebbene fra i malati di COVID-19 vi fossero differenze statisticamente significative fra i casi a basso rischio di morte e quelli a basso rischio, tuttavia non era possibile identificare uno o più fattori nella manifestazione clinica della malattia che potevano essere usati in modo affidabile per classificare i pazienti in gruppi a basso rischio o a ad alto rischio, in modo da riservare il ricovero ospedaliero soltanto a quelli del secondo gruppo e da curare a casa gli altri.

Infatti uno si aspetterebbe, intuitivamente, che la frequenza dei sintomi sia minore nei casi a basso rischio. Ma, contrariamente alle aspettative degli autori dello studio, la maggior parte dei casi seguiti – e rivelatisi a posteriori a basso rischio – presentavano, al momento della diagnosi, due o tre sintomi, il che indica come non potessero essere identificati come tali sulla base della sola sintomatologia.

Tuttavia, gli stessi autori hanno suggerito dei criteri nuovi sulla base dei quali i casi a basso rischio possono essere identificati e monitorati a casa, anche senza trattamento farmacologico (l’integrazione di vitamina D3 è comunque consigliabile anche in questi casi, dato l’elevato profilo di sicurezza nelle dosi consigliate dagli esperti a scopo preventivo: 4.000 UI al giorno, in particolare per anziani e persone “fragili” [8]), piuttosto che ricorrere all’ospedalizzazione o alla cura ambulatoriale del paziente COVID.

Il loro approccio è basato su una serie di parametri misurabili (Interleuchina-6, ferritina, D-dimero, proteina C reattiva, colesterolo HDL, linfopenia, saturazione dell’ossigeno) comprendenti essenzialmente marcatori infiammatori basati sul sangue. Questo metodo ha mostrato un’eccellente correlazione con l’esito clinico e costituisce un miglioramento rispetto al metodo del “Punteggio CALL” (che considera l’età, la presenza di comorbidità, il livello HDL e la linfopenia per assegnare un punteggio prognostico).

Infine, molte fonti di informazioni suggeriscono che in una grossa percentuale di casi la trasmissione virale avvenga in casa. Quando possibile, e in assenza di COVID hotel, gli altri contatti stretti sani dovrebbero lasciare il domicilio o quanto meno rimanere isolati in modo assai stretto. Ciò riduce la re-inoculazione del virus attraverso l’inspirazione di bioaerosol virale [9] in caso di successiva (o precedente) infezione di altri conviventi, cosa che può potenzialmente aumentare la gravità della malattia. Dunque, le persone che vivono in famiglia possono essere più a rischio rispetto a quelle che vivono da sole.

3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono fondamentali?

Nella pandemia da COVID-19, in Italia a livello sanitario ci si è concentrati principalmente su due tipi di risposta: (1) il contenimento della diffusione dell’infezione e (2) la riduzione della mortalità dei pazienti ricoverati. Sebbene questi sforzi fossero ben giustificati, nella prima fase si sono trascurati del tutto i pazienti rimasti a casa [6], cui veniva negato l’accesso alle cure ambulatoriali del proprio medico curante. In seguito le cose non sono migliorate molto, poiché in quasi tutte le regioni le unità USCA nate allo scopo sono poche ed i loro medici sono spesso giovani con poca esperienza e iniziativa.

D’altra parte, l’attento studio dell’epidemiologia dei ricoverati suggerisce fortemente che si dovrebbe, al contrario, puntare moltissimo proprio sulle cure a domicilio dei pazienti COVID. Infatti, la maggior parte dei pazienti che arrivano ai Pronto soccorso degli ospedali con sintomi di COVID-19 non necessitano, inizialmente, di cure mediche avanzate: solo il 25% ha bisogno di ventilazione meccanica, supporto circolatorio avanzato o di terapia sostitutiva renale (per il filtraggio del sangue dei reni) [9].

Quindi, è ragionevole pensare che una buona parte – se non la maggior parte – dei ricoveri potrebbero essere tranquillamente evitati con una cura a casa dei pazienti come primo approccio, cosa che richiede il solo potenziamento dell’accesso ai farmaci ed all’ossigeno, nonché a un fondamentale dispositivo low-cost di monitoraggio come il pulsossimetro. Quest’ultimo, peraltro, potrebbe venire anche acquistato del tutto autonomamente dal paziente, se questi solo venisse meglio informato, anche con degli spot, della sua utilità, soprattutto nel rilevare forme silenti di scarsa ossigenazione del sangue (ipossemia) [11].

In altri Paesi, e anche in Italia, le cure domiciliari – per quei pochi medici che le hanno praticate e in più usando un protocollo di cura autogestito in deroga a quello stabilito dall’AIFA – hanno contribuito a trattare in sicurezza i pazienti con diversi gradi di complessità raggiungendo bassissimi tassi di ospedalizzazione e di mortalità se confrontati con quelli delle case di cura [12] oppure con quelli dei pazienti “trattati” con il protocollo dell’AIFA del 9/12/20, basato essenzialmente su un antipiretico, la tachipirina (dal prof. Remuzzi ritenuta inutile e controproducente) e sulla “vigile attesa” (come dire: aspetta e spera…).

Dunque le cure domiciliari, se fatte con protocolli opportuni, non solo (1) riducono gli accessi agli ospedali dei malati di COVID, ma anche – a cascata – (2) i ricoveri in terapia intensiva e (3) i morti, che sono i tre numeri che l’Italia non è riuscita a controllare, al punto da dover ricorrere a lockdown prolungati. Se ciò poteva forse essere tollerabile nella prima fase primaverile del 2020, quando si era del tutto impreparati, ciò non avrebbe dovuto ripetersi nell’autunno, quando c’erano tutto il tempo e il know-how necessari per spostare gran parte delle cure dalla fase tardiva ospedaliera a quella precoce domiciliare.

In Italia, alcuni medici di base di tutte le regioni si sono riuniti in un gruppo, il “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19”, che ha messo a punto e testato sui propri pazienti un protocollo di cura. È grazie a loro e all’efficacia dimostrata sul campo dal loro protocollo che l’Italia ha avuto un po’ meno morti di quelli che avrebbe potuto avere, dato che solo una percentuale del tutto irrisoria dei loro pazienti ha richiesto in seguito il ricovero. Tuttavia si è trattato di una goccia del mare, poiché tutti gli altri medici di base e quelli delle USCA si sono invece attenuti al protocollo ufficiale, quello dell’“aspetta e spera” [13].

Il Comitato in questione – che comprende anche uno stimato medico ospedaliero, l’oncologo Luigi Cavanna – è nato inizialmente sui social, dove è seguito da oltre 100.000 persone, e poi si è tramutato in un’associazione, la quale da tempo chiede che il proprio protocollo di cura basato sull’uso precoce di certi farmaci (quali idrossiclorochina, azitromicina, eparina, etc. e anche vitamina D) venga riconosciuto ufficialmente a seguito dell’efficacia mostrata dai numeri. Esso è in contatto con medici all’estero (Brasile, Stati Uniti, etc.) che hanno sperimentato con analogo successo protocolli molto simili.

4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del COVID-19?

Sebbene ora siano disponibili opzioni di cura per i pazienti con malattia COVID grave che richiedono il ricovero in ospedale, è urgentemente necessaria l’adozione di interventi che possano essere somministrati precocemente a casa durante il corso dell’infezione per prevenire la progressione della malattia e le complicanze a lungo termine [14]. I trattamenti precoci per il COVID-19, tanto più se associati a un vaccino efficace, avrebbero implicazioni rilevanti per la capacità di porre fine a questa pandemia.

Il vantaggio di curare precocemente le infezioni da agenti patogeni (e ridurre così la probabilità di ricoveri e di esiti infausti) è noto da oltre un secolo, ma per ridurre i costi e gli effetti collaterali i farmaci sono tipicamente prescritti come trattamento terapeutico, il che significa solo dopo che si sono manifestati i sintomi della malattia [15]. Inoltre, in Italia molte persone sono morte di COVID perché anche quei 2-3 giorni o più per aspettare l’esito del tampone prima di dare dei farmaci ha fatto spesso la differenza.

I medici di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19” hanno avuto successo non solo perché hanno usato un buon protocollo di cura, ma anche perché non hanno aspettato l’esito di tamponi, bensì hanno dato subito i farmaci (come del resto suggerito pubblicamente anche dal prof. Remuzzi). Chi disponeva di un ecografo portatile l’ha usato per diagnosticare la polmonite interstiziale, e l’acquisto di tale strumentazione – che è poco costosa – per medici di base e USCA sarebbe stato un investimento del Governo molto più saggio rispetto a quello per i banchi di scuola.

Lo studio sulla risposta immunitaria al COVID-19 suggerisce che un intervento precoce potrebbe aiutare a bilanciare la risposta immunitaria efficace contro l’azione dannosa causata dal SARS-CoV-2, in modo da costruire una risposta forte per combattere il virus. Poiché i pazienti con malattia moderata non hanno ancora sviluppato danni agli organi terminali, i dati suggeriscono che l’inizio del decorso della malattia è il momento migliore per intervenire con varie opzioni di trattamento per prevenire gli squilibri immunitari, proteici e metabolici osservati con la malattia più grave degli stadi successivi [16].

È proprio la fase iniziale  del COVID-19, quella in cui appaiono i primi sintomi, ad essere quella più ottimale per trattare la malattia, prima che la risposta infiammatoria passi da utile a dannosa in quanto assolutamente eccessiva. In parole povere, questi risultati suggeriscono che l’intervento con vari integratori antivirali e immunomodulanti nelle prime fasi del COVID-19 (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.) potrebbe limitare la disfunzione nella risposta del sistema immunitario alla lotta contro il virus [16].

La cosa non è difficile da capire. Nella prima fase della malattia, assistiamo a una sorta di gara fra, da una parte, la replicazione del virus che si moltiplica creando sempre più unità di se stesso e, dall’altra, il sistema immunitario che deve produrre velocemente sempre più anticorpi per neutralizzare le particelle del virus. Gli integratori a loro volta agiscono, da una parte, rallentando la replicazione del virus (azione antivirale) e, dall’altra, favorendo la produzione di anticorpi (azione immunomodulante). Dunque, facilitano di molto il rapido prevalere dei “difensori” (gli anticorpi) rispetto agli “attaccanti” (le particelle virali).

La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è, inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste particelle virali. Alcuni integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di prevenzione della progressione della malattia verso stadi più gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle particelle di virus e aiutano le difese immunitarie.

L’importanza del favorire i nostri “difensori” naturali, del resto, è palese anche con gli attuali vaccini anti-COVID, che stimolano l’organismo umano a produrre anticorpi (e una memoria immunitaria) contro la famosa proteina “spike” (una delle 26 proteine del SARS-CoV-2), che è l’uncino con cui si lega alle nostre cellule. Infatti, quando una persona viene infettata da questo virus, la risposta del sistema immunitario di un vaccinato è rapida e imponente proprio poiché “l’esercito” di anticorpi è già pronto e l’organismo non è preso alla sprovvista, come invece avviene a un non vaccinato (e non immunizzato).

5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura?

La patogenesi del COVID-19 è altamente complessa e comporta la soppressione della risposta immunitaria innata e antivirale dell’ospite, l’induzione di stress ossidativo seguita da iperinfiammazione descritta come “tempesta di citochine”, che causa il danno polmonare acuto, fibrosi tissutale e polmonite [17]. Attualmente, ancora diversi farmaci sono in fase di valutazione per la loro efficacia, sicurezza e per la determinazione delle dosi per il COVID-19, ma ciò richiede molto tempo per la loro convalida.

Pertanto, esplorare la riproposizione di composti naturali contro il COVID-19 può fornire alternative sul breve termine, in quanto questi non presentano effetti collaterali e sono di basso costo e di facile reperibilità per il grande pubblico. Diversi nutraceutici hanno una comprovata capacità di potenziare il sistema immunitario e di agire come antivirali, antiossidanti e antinfiammatori. Questi includono la vitamina D, la vitamina C, la lattoferrina, lo zinco, la curcumina, i probiotici, la quercetina, etc.

Assumere alcuni di questi fitonutrienti sotto forma di integratore alimentare può dunque aiutare a rafforzare il sistema immunitario, rallentare la replicazione del virus, precludere la progressione della malattia allo stadio grave e sopprimere ulteriormente l’iperinfiammazione fornendo supporto sia profilattico che terapeutico contro il COVID-19, come sottolineato da uno studio [17] svolto da un gruppo di ricercatori indiani e pubblicato su una importante rivista di immunologia. Tra l’altro, potrebbe non essere un caso che l’India abbia avuto 10 volte meno morti COVID (per milione di abitanti) rispetto all’Italia.

La carenza di vitamina D è risultata essere, secondo svariati studi scientifici anche a livello di meta-analisi [5], un fattore di rischio indipendente per le forme gravi di COVID-19, per cui può essere usata sia in ambito preventivo (in dosi di 4.000 UI al giorno nella sua forma di vitamina D3), sia in ambito terapeutico (ad alte dosi). Pure la lattoferrina – una proteina che, come la vitamina D, ha proprietà antivirali, immunomodulanti e anti-infiammatorie – ha mostrato una notevole efficacia negli studi clinici [18, 19] nell’abbattere il rischio di forme gravi di COVID-19, e viene perciò assunta da tempo da moltissimi medici e farmacisti.

La vitamina C può potenzialmente proteggere dalle infezioni a causa del suo ruolo essenziale sulla salute immunitaria. Questa vitamina supporta la funzione di varie cellule immunitarie e migliora la loro capacità di proteggere dalle infezioni. È stato dimostrato che l’integrazione con Vitamina C riduce la durata e la gravità delle infezioni delle vie respiratorie superiori (la maggior parte delle quali si presume siano dovute a infezioni virali), compreso il comune raffreddore, che può essere prodotto da alcuni tipi di coronavirus con cui la nostra specie convive da tempo [20]. La dose raccomandata di Vitamina C varia da 1 a 3 g / giorno.

Lo zinco è un metallo essenziale coinvolto in una varietà di processi biologici grazie alla sua funzione di cofattore, molecola di segnalazione e elemento strutturale. Regola l’attività infiammatoria e ha funzioni antivirali e antiossidanti. Lo zinco è considerato il potenziale trattamento di supporto contro l’infezione da COVID-19 a causa dei suoi effetti antinfiammatori, antiossidanti e antivirali diretti. Quest’ultimo effetto è ottenuto riducendo l’attività dell’ACE-2, la proteina delle cellule a cui l’uncino (spike) del SARS-CoV-2 si lega per entrare nella cellula [17]. La dose raccomandata da vari studi varia da 20 a 92 mg / settimana.

La curcumina, che possiamo assumere aggiungendo un cucchiaino di curcuma al cibo, ha un ampio spettro di azioni biologiche, comprese attività antibatteriche, antivirali, antimicotiche, antiossidanti e antinfiammatorie [21]. Inoltre inibisce la produzione di citochine pro-infiammatorie nelle cellule, ed esercita un effetto antivirale su un’ampia gamma di virus, tra cui virus dell’influenza, adenovirus, epatite, virus del papilloma umano (HPV), virus dell’immunodeficienza umana (HIV), etc. [22]. Pertanto, la curcumina potrebbe essere un altro integratore interessante nella lotta alla patogenesi del COVID-19.

6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da COVID-19?

Come per qualsiasi altro agente patogeno (batteri, funghi, etc.) o veleno, i virus sono di solito più pericolosi quando si presentano in quantità maggiori. Sola dosis venenum facit, ovvero “è la dose che fa il veleno”, dicevano i latini e il concetto si applica, mutatis mutandis, anche ai virus. “Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono risultare letali”, come ha spiegato molto bene il professore di chimica e genomica Joshua Rabinovitz.

Lo sappiamo bene nel caso dei batteri, in quanto è proprio la concentrazione di noti batteri indicatori di contaminazione fecale – l’Escherichia coli e gli enteroccchi intestinali – a definire se un’acqua costiera è balneabile o meno. Ad es., il valore limite dei primi è di 500 UFC (Unità Formanti Colonie) / 100 ml di acqua. Oltre questa soglia la balneazione è vietata, poiché alcuni ceppi di questi batteri possono causare nell’uomo infezioni a carico del tratto digerente, delle vie urinarie o di molte altre parti del corpo.

La cosiddetta “carica virale” è invece un’espressione numerica della quantità di virus in un dato volume di fluido corporeo (ad es. l’espettorato, il plasma sanguigno, etc.). Ogni virus ha la capacità di sopravvivere per un certo tempo nell’ambiente all’interno del fluido, ma è necessaria una carica virale minima per produrre l’infezione negli esseri umani: ad es. sono sufficienti circa 100 particelle virali nel caso del norovirus [23] – il virus a RNA responsabile della diarrea – e tale quantità minima è diversa da virus a virus.

Pertanto, per proteggersi dal COVID-19, occorre cercare di prevenire l’esposizione ad alte dosi di virus. In pratica, entrare in un palazzo di uffici in cui qualcuno è stato con il coronavirus non è così pericoloso come sedersi accanto a quella persona per un’ora in treno. Perciò, la durata breve dell’esposizione – così come il distanziamento sociale e una corretta igiene – aiutano a ridurre la dose di virus che possiamo inalare. Anche le mascherine FFP2 possono contribuire ad abbattere di molto la dose in questione.

L’esposizione ad alte dosi di SARS-CoV-2 è più probabile nelle interazioni ravvicinate fra le persone, come nel corso di riunioni o in bar affollati, o nel toccarsi il naso o la bocca dopo aver ricevuto quantità sostanziose di virus sulle mani. Le ricerche hanno mostrato che le interazioni interpersonali sono più pericolose in spazi chiusi e a breve distanza, con un’escalation nelle dosi che aumenta con il tempo di esposizione. Quest’ultimo rappresenta quindi una variabile molto interessante.

Più tempo si trascorre in un ambiente chiuso o semichiuso con aria infetta dal virus e maggiori sono le probabilità di infettarsi, a parità di altre condizioni. L’uso della mascherina, se questa è scelta e indossata correttamente, può abbattere quindi di molto la probabilità di contagio e, quando anche quest’ultimo si verificasse, la barriera costituita dalla mascherina permette di assorbire una carica virale inferiore.

Un esperimento effettuato dall’Istituto per le Malattie infettive americano (NIAD) [24] ha mostrato come il virus SARS-CoV-2 possa rimanere sospeso nell’aria, sotto forma di aerosol, fino a 3 ore. Tuttavia, la quantità di virus si dimezza nel giro di un’ora ed è bassa negli spazi aperti. Pertanto, la minaccia di contagio può arrivare soprattutto dai luoghi chiusi (o semi-chiusi) e affollati, con i mezzi di trasporto (metropolitane, autobus, tram, treni locali, etc.) a farla da padrone per l’elevata densità di persone associata.

Una volta capito il concetto di carica virale, si può comprendere facilmente perché il COVID-19 ha spesso sterminato intere famiglie: in Cina come in Italia e in altri Paesi sono state innumerevoli le famiglie i cui membri si sono tutti ammalati e sono morti uno dopo l’altro in casa (per la saturazione degli ospedali e per la mancanza dei cosiddetti “COVID hotel”). Infatti, il non usare le mascherine in famiglia e il non isolare subito i contagiati espone gli altri familiari a dosi di virus assai elevate, donde gli esiti infausti.

7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere?

Secondo uno studio anticipato dal The New England Journal of Medicine [25], la carica virale del SARS-CoV-2 rilevata nei pazienti COVID asintomatici era simile a quella dei sintomatici, il che dà un’idea quantitativa del potenziale di trasmissione dei soggetti asintomatici o minimamente sintomatici rispetto ai sintomatici. Dato che non possiamo sapere se siamo nei pressi di un soggetto asintomatico o paucisintomatico che potrebbe trasmetterci l’infezione, l’indossare una mascherina di protezione è fondamentale.

La mascherina non serve solo a impedire l’infezione, ma anche a ridurre la carica virale cui potremmo essere esposti. Oltre all’utilità nella protezione individuale, l’uso di massa delle mascherine può ridurre di molto la trasmissione dei virus respiratori. Ad es., secondo uno studio di Wu et al. [26], durante l’epidemia di SARS del 2003 l’abbattimento della trasmissione virale è stato addirittura del 70%. E, sempre grazie all’uso delle mascherine, nell’inverno 2002-2003 a Hong Kong l’influenza di fatto non circolò.

Esistono, come è noto, tre diversi tipi di mascherine di tipo medico: (1) chirurgiche (di forma rettangolare, sono inadatte a un filtraggio superiore al 65%, non essendo aderenti al viso); (2) respiratorie di tipo FFP2 (o N95), che filtrano almeno il 95% delle particelle di 0,6 micron o più grandi; (3) respiratorie di tipo FFP3 (o N99), che filtrano almeno il 99% delle particelle di 0,6 micron o più grandi. Queste ultime, però, se espellono l’aria della persona tramite una valvola non proteggono le altre persone (sono perciò dette “egoiste” e non devono mai essere usate per la protezione dal SARS-CoV-2).

Poiché le nuove varianti attecchiscono molto più facilmente, è senza dubbio raccomandabile l’utilizzo di mascherine FFP2, ma è importante accertarsi che siano prodotte in Italia e che forniscano una certificazione rilasciata da un ente del settore. Oggi le si possono trovare facilmente digitando nei siti di commercio elettronico “mascherine ffp2 italiane certificate”. Ovviamente, vanno poi indossate bene adattando l’archetto metallico alla forma del proprio naso. Una FFP2 è garantita per un uso di almeno 8 ore, ma se la usate solo negli ambienti chiusi (e all’esterno usate una chirurgica) di solito dura di più.

Le mascherine e le superfici possono essere sterilizzate in modo assai efficace con una soluzione idroalcolica al 70%, come illustrato in un mio articolo sull’argomento [3]. Gli ambienti, invece, possono essere sterilizzati facilmente usando lampade germicide a raggi UV-C, che vanno usate sempre solo in assoluta assenza di persone, poiché i raggi UV-C sono cancerogeni per la pelle e molto pericolosi per gli occhi. Per sterilizzare una grande stanza in 10 minuti, servono circa 5 W di UV-C [4]. Sconsiglio invece l’uso di ozonizzatori, perché potrebbero operare nella regione “tossica” per i polmoni.

Consiglio inoltre di avere a casa un saturimetro, detto anche pulsossimetro (tenetevi invece alla larga dalle app per misurare l’ossigeno). I modelli con il miglior rapporto qualità / prezzo sono quelli marchiati GIMA, usati anche dagli equipaggi delle ambulanze, mentre eviterei quelli cinesi low-cost, quasi del tutto inutili. Un normale livello di ossigeno nel sangue (SpO2), per polmoni sani, è compreso in genere fra il 95% ed il 100%. In generale, una lettura del saturimetro inferiore al 95% è considerata bassa. Pertanto, già al di sotto di questa soglia – specie se il trend è decrescente – andrebbe avvisato il medico.

Nel caso ci si dovesse mai trovare in una situazione come quella verificatasi nella primavera del 2020 – con gli ospedali pieni e le persone malate di COVID che si dovevano curare a casa da sole, ma il loro numero era tale che c’era scarsità di bombole di ossigeno – è bene sapere che, in assoluta mancanza di alternative, per una persona che ha difficoltà nel respirare si può usare, in associazione a una maschera per ossigenoterapia, un concentratore di ossigeno, che lo produce da solo per cui il gas non si esaurisce mai. Ormai ne esistono sul mercato vari modelli, ed i migliori producono 6-8 litri al minuto [4].

8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a casa?

Come in tutte le aree della medicina, anche per le cure domiciliari il grande studio clinico “randomizzato, controllato con placebo, a gruppi paralleli in pazienti appropriati a rischio con esiti significativi” rappresenta il gold standard teorico per raccomandare la terapia. Questi standard, però, non sono abbastanza rapidi o rispondenti alla pandemia COVID-19 [9], in quanto seguire i pazienti a casa per uno studio controllato rappresenta uno sforzo organizzativo ed economico molto grande da affrontare.

Se gli studi clinici controllati sui pazienti a casa non sono facili, è evidentemente necessario esaminare altre informazioni scientifiche relative all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci. Pertanto, nel contesto delle attuali conoscenze, data la gravità della malattia e la relativa disponibilità, costo e tossicità delle terapie, ogni medico e paziente devono fare una scelta: vigile attesa passiva in auto-quarantena o trattamento attivo più o meno “empirico” allo scopo di ridurre le probabilità ospedalizzazione e la morte [9], ad es. sfruttando il protocollo dei colleghi medici di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari COVID-19”.

Quest’ultimo si basa principalmente sull’idrossiclorochina in associazione con l’azitromicina, nonché sull’eparina e altri farmaci, secondo lo schema molto dettagliato pubblicato in uno studio di McCoullogh et al. [9], coordinato dall’epidemiologo statunitense Harvey Risch. Uno studio condotto in Francia su pazienti ricoverati e positivi al SARS-CoV-2, e confermato da uno successivo più ampio, ha in effetti evidenziato che l’aggiunta di azitromicina all’idrossiclorochina ha determinato una riduzione della carica virale e un significativo miglioramento del decorso della patologia [29].

Algoritmo di trattamento per la malattia COVID-19 confermata in pazienti ambulatoriali a casa in quarantena automatica. BMI = indice di massa corporea; CKD = malattia renale cronica; CVD = malattia cardiovascolare; DM = diabete mellito; Dz = malattia; HCQ = idrossiclorochina; Mgt = gestione; O2 = ossigeno; Ox = ossimetria; Yr = anno. (fonte: McCoullogh et al. [9])

L’infezione da SARS-CoV-2, come molte altre, può essere più suscettibile di terapia nelle prime fasi del suo corso, ma probabilmente non risponde agli stessi trattamenti molto tardi nelle fasi ospedaliere e terminali della malattia. Perciò, è necessario iniziare il trattamento prima che i risultati di tamponi PCR siano noti. Inoltre, poiché il COVID-19 esprime un ampio spettro di malattie che progrediscono dall’infezione asintomatica a quella sintomatica fino alla fulminante sindrome da distress respiratorio e al cedimento del sistema multiorgano, è necessario personalizzare la terapia [9].

L’estensione a livello nazionale del protocollo adottato di recente dal Piemonte, mutuato dall’esperienza del“Comitato per le Cure Domiciliari” (e basato sull’impiego della vitamina D  della idrossiclorochina, etc.) – e che pare aver dato risultati notevoli, sebbene non pubblicati per le ragioni di cui sopra – sarebbe forse preferibile rispetto all’adozione di linee guida “teoriche” (come quelle proposte da Remuzzi [30], da Matteo Bassetti, etc.), che si basano su studi di farmaci testati in fasi di cura del COVID più avanzate, ma non ancora in fase precoce con studi controllati (tuttavia uno studio sull’approccio Remuzzi è in corso).

In ogni caso, perfino uno di questi ipotetici protocolli “sintetici”, teorici, non ancora validati in fase precoce rappresenterebbe, quasi certamente, un notevole “upgrade” rispetto alle indicazioni terapeutiche fornite a novembre dal Ministero della Salute nella circolare dal titolo “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” [31], basata sulle raccomandazioni dell’AIFA (e sospesa dal TAR del Lazio il 4/3/21). In base a tale documento, si possono usare antinfiammatori come paracetamolo (ad es. Tachipirina) o FANS per pazienti sintomatici, in particolare in caso di febbre, dolori articolari o muscolari.

Il testo dichiara, inoltre, che “l’uso dei corticosteroidi è raccomandato nei soggetti con malattia COVID-19 grave che necessitano di supplementazione di ossigeno”. Invece, l’eparina è indicata solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto. Al medico, infine, la circolare suggerisce di avere un approccio di “vigile attesa” con “misurazione periodica della saturazione dell’ossigeno” tramite il saturimetro. Nel documento si suggerisce poi di monitorare i parametri vitali tramite un punteggio: quello consigliato è il “Modified Early Warning Score”. Ma quanti medici di base hanno l’hanno davvero calcolato?

9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID?

Nel valutare i vaccini, in realtà, si usano due diversi tipi di indicatori – l’efficacia e l’efficienza – e poiché i media non spiegano mai la differenza fra i due, è facile che nei lettori si ingeneri una grande confusione, poiché non si può confrontare ad es. l’efficacia di un vaccino X con l’efficienza di un vaccino Y, poiché sarebbe un po’ come confrontare le mele con le pere: semplicemente non ha senso. Inoltre, quella che ci interessa da un punto di vista pratico è più l’efficienza che non l’efficacia.

La cosiddetta “efficacia” (efficacy) di un vaccino è la percentuale di riduzione dell’incidenza della malattia in un gruppo vaccinato rispetto a un gruppo non vaccinato in condizioni ottimali. La cosiddetta “efficienza” (effectiveness) del vaccino, invece, è la capacità del vaccino nel prevenire esiti di interesse per il “mondo reale” [2]. La seconda dà una valutazione meno rigorosa (anche perché non è ottenuta attraverso uno studio controllato randomizzato su un campione prescelto) ma più rilevante dal punto di vista sanitario.

In termini statistici, l’efficacia è un’unità di misura che definisce quanto un vaccino riduce il rischio di contrarre una malattia, come ad esempio il COVID-19. In pratica, nei trial si osserva quante persone vaccinate con il vaccino in esame hanno contratto il SARS-COV-2 e si compara questo dato con quante persone (che hanno ricevuto soltanto il placebo) si sono ammalate. La differenza risulta nella percentuale di efficacia dichiarata dai produttori (ad es. 95% per il Pfizer contro la variante originale del virus).

Zero efficacia significa che i vaccinati corrono lo stesso rischio delle persone che non hanno ricevuto il vaccino. Un’efficacia del 100% vuol dire che il rischio di contrarre la malattia è risultato azzerato. Solitamente, però, l’efficacia varia a seconda del Paese in cui viene effettuato lo studio. Ad esempio, le sperimentazioni dei vaccini anti-COVID in genere mostrano un’efficacia più bassa in Sudafrica o in Sud America, dove sono largamente presenti due varianti verosimilmente indotte dai vaccini stessi [32].

L’efficienza di un vaccino, invece, è la sua capacità di ridurre esiti spiacevoli per la persona o per il sistema sanitario, che nel caso del COVID-19 sono, essenzialmente tre: (1) l’ospedalizzazione in reparti a bassa intensità di cura; (2) il ricovero nel reparto di terapia intensiva; (3) la morte del paziente. Da questo punto di vista, ad esempio, il vaccino Pfizer con cui in Israele si è vaccinato oltre il 95% della popolazione ha mostrato di avere una capacità assai elevata di prevenire tutti e tre questi esiti.

Dunque, per poter confrontare i vari vaccini anti-COVID, in realtà conoscere la sola efficacia risultante dai trial (in cui il vaccino è somministrato a un campione di persone sane selezionate ad hoc) risulta utile fino a un certo punto. Una volta che il vaccino viene impiegato sul campo per la vaccinazione di massa, è l’efficienza il dato che dobbiamo valutare e confrontare, anche se la somministrazione a una popolazione non selezionata può introdurre dei bias, e quindi i dati ottenibili sono meno “solidi”.

Dai dati disponibili finora, i vaccini attualmente usati in Italia (Pfizer, Moderna e Astrazeneca) mostrano tutti una buona efficienza contro la variante inglese (B.1.1.7), che dunque non è resistente agli anticorpi neutralizzanti da essi indotti. Al contrario, la variante sudafricana (B.1.351) pone maggiori problemi, non tanto per i vaccini a mRNA (Pfizer e Moderna), quanto per Astrazeneca, i cui anticorpi neutralizzanti hanno mostrato un’attività molto bassa contro questa variante, un serio segnale di allarme sui problemi che i virus resistenti possono porre nel prossimo futuro [33].

10) I vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

La sicurezza di un vaccino dipende dai suoi effetti collaterali. Questi possono essere divisi, essenzialmente, in tre diversi tipi: (1) effetti a breve termine (minuti, ore, pochi giorni), (2) effetti a medio termine (settimane, mesi), e (3) effetti a lungo termine (anni). In un vaccino normale vengono studiati tutti e tre i tipi di effetti, ma nel caso dei vaccini anti-COVID – sviluppati frettolosamente per uso “in emergenza”: (a) gli effetti a lungo termine non sono stati studiati; (b) si tratta, fondamentalmente, di vaccini “leaky” (vedi  [32]), il che può comportare una serie di conseguenze imprevedibili sul medio termine.

Ma vediamo le cose più in dettaglio. Gli effetti a breve termine dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio in Italia (Pfizer, Moderna, Astrazeneca) non pongono particolare motivo di preoccupazione, se non forse per le donne incinte, per chi avesse un’infezione COVID in corso (altra circostanza non testata nei trial, per cui potrebbe essere prudente realizzare un test antigenico prima del vaccino), e – verosimilmente – per la popolazione più giovane. Infatti, come ora vedremo, il rapporto rischi/benefici sembra invertirsi al di sotto di una certa età, sebbene non esistano dati diretti sull’argomento.

Grazie al database USA degli effetti avversi (VAERS), l’ing. A. Tsiang ha stimato [34], in modo semplice ed elegante, che le morti per milione di dosi somministrate associate ai vaccini Pfizer + Moderna sono state circa 100 volte maggiori di quelle segnalate per la vaccinazione antinfluenzale 2019-20 (vedi l’Appendice qui sotto). In pratica, le morti imputabili a questi due vaccini anti-COVID sono pochissime: solo 23 per milione di dosi (in ottimo accordo con i 21,2 e 28,3 morti/milione segnalati, rispettivamente, per Pfizer e Astrazeneca nel database del Regno Unito (MHRA) [35]. Ciò significa che il rischio di morire per il vaccino uguaglia quello di morire per COVID-19 per i ragazzi di circa 25 anni (vedi Appendice).

Il rischio di morire per una dose di vaccino anti-COVID posto nella giusta prospettiva. Anche considerando un numero di dosi ricevute di vaccino anti-COVID pari a 2 o 3, si tratta comunque di un rischio di morte statisticamente molto basso rispetto ad altri cui siamo esposti comunemente nel corso della nostra vita. (fonte degli altri rischi: U.S. National Safety Council – Center for Health Statistics)

Per quanto riguarda invece gli effetti a medio termine dei vaccini anti-COVID in commercio, attualmente non si conosce la loro incidenza (ad es. quella di complicazioni tromboemboliche o di eventuali risposte infiammatorie che portino a condizioni autoimmuni) a molte settimane dalla dose ricevuta (quando tali eventi vengono più difficilmente inseriti nei database degli affetti avversi) e tanto meno conosciamo gli effetti di tali vaccini quando l’immunità tende a svanire, verosimilmente dopo molti mesi. Inoltre, prima o poi potrebbero emergere nuove varianti del virus che “bypasseranno” del tutto i vaccini attuali e/o saranno più virulente e pericolose per la popolazione, come ho illustrato con vari esempi storici qui [32].

Il virologo e grande esperto di vaccini Geert Vanden Bossche (che ha lavorato per OMS, FDA, CDC, GAVI, Bill e Melinda Gates Foundation, etc.) è assai preoccupato: fare una vaccinazione di massa a pandemia in corso, con vaccini “non sterilizzanti” (come quelli ora usati [32]) ha un’altra importante conseguenza: la soppressione temporanea del baluardo contro questo virus costituito dall’immunità naturale “innata”, cosa assai problematica (specie fra i più giovani), poiché prima o poi la pressione evolutiva esercitata dai vaccini può selezionare ceppi mutanti di SARS-CoV-2 resistenti ai vaccini – come sta già accadendo con la resistenza agli antibiotici – rendendo addirittura controproducente l’immunità artificiale indotta dagli attuali vaccini, che è solo “proteina spike-specifica” [36, 37].

Infine, normalmente il processo per approvare un nuovo vaccino richiede un decennio, così da poter escludere effetti a lungo termine. La durata troppo breve degli studi fatti per ottenere le autorizzazioni “in emergenza” dalle autorità regolatorie (FDA, EMA, etc.) – la FDA ad es. richiede solo 2 mesi di dati raccolti – non consente una stima realistica degli effetti tardivi. Ad esempio, per i vaccini a mRNA (mai usati prima!) non è stato studiato l’impatto sulla fertilità e l’eventuale trasmissione alla progenie di mutazioni dannose e, per quelli a vettore virale, l’eventuale cancerogenesi. Non a caso, a chi fa il vaccino anti-COVID in Italia viene fatto firmare un modulo di consenso informato che nell’allegato  recita “non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza”.

In conclusione, poiché i vaccini devono essere somministrati solo se i benefici superano i rischi, in considerazione: (1) di quanto fin qui illustrato, (2) del fatto che i vaccini “leaky” non producono immunità di gregge, e (3) tenendo conto del fatto che circa il 96% dei morti per COVID in Italia sono costituiti da over 60 [38] (più alcuni individui fragili), a mio avviso si dovrebbe vaccinare solo la popolazione a rischio – appunto, over 60 e persone “fragili” di ogni classe di età (ad es. immunodepressi, etc.), come del resto avviene da sempre per la vaccinazione contro i virus dell’influenza – senza far correre alla popolazione più giovane anche i rischi sul medio e lungo termine, oggi del tutto imprevedibili per dei vaccini sperimentali.

APPENDICE – Stima della mortalità legata ai vaccini anti-COVID negli USA

L’ing. A. Tsiang dell’Environmental Health Trust (EHS) statunitense, ispirato da un articolo apparso sulla testata The Epoch Times [39], ha stimato i tassi di mortalità legati ai due vaccini anti-COVID usati negli USA (Pfizer e Moderna) tramite un attento confronto, possibile grazie al database pubblico VAERS, con i tassi di mortalità riscontrati nella vaccinazione antinfluenzale 2019-20, che sono risultati essere di circa 100 volte più bassi. Infatti, se le morti segnalate come affetti avversi dei vaccini anti-COVID fossero per la maggior parte casuali, logicamente dovrebbero essere simili (in percentuale sulle dosi somministrate) a quelle segnalate per l’influenza, e non due ordini di grandezza più grandi. Ma ecco quanto ha trovato.

Poiché i morti negli USA segnalati al VAERS nella campagna antinfluenzale 2019-2020 sono stati circa 45 su 170 milioni di vaccinati, l’incidenza è stata dello 0,000026%, pari a circa 0,26 morti per milione di dosi. Viceversa, poiché i morti segnalati in relazione ai vaccini anti-COVID negli USA sono stati, dal 14 dicembre 2020 al 19 febbraio 2021 (circa 2 mesi), 966 su 41.977.401 dosi somministrate, l’incidenza è stata dello 0,0023%, pari a circa 23,0 casi per milione di dosi. Dunque, i morti in eccesso prodotti dai 2 vaccini anti-COVID Pfizer + Moderna sono stimabili in (23,0 – 0,26 =) 23 morti per milione di dosi somministrate. Siamo quindi ora in grado di stimare il rapporto rischi-benefici per le varie classi di età.

Si noti che il tasso di mortalità da infezione COVID negli USA è stato, secondo i CDC di Atlanta, dello 0,003% per la fascia di età 0-19 anni, e dello 0,02% per la fascia di età 20-49 anni. Quindi il rapporto rischi-benefici nel fare questi due vaccini sembra essere maggiore solo per le persone di età, verosimilmente, maggiori di circa 25 anni. Per le persone più giovani di (all’incirca) questa età, il rischio di morire per il vaccino o per il COVID-19 sembra essere dunque praticamente equivalente, e ciò dovrebbe essere un aspetto da valutare con attenzione in una seria politica di salute pubblica, anche in considerazione del fatto che poco o nulla si sa sui possibili effetti a medio o a lungo termine dei vaccini a mRNA (mai usati prima sull’uomo).

Vorrei sottolineare che questo risultato si può considerare molto “solido”, poiché:

  1. La platea dei vaccinati per l’antinfluenzale è composta per lo più da anziani, quindi in realtà se si facessero le correzioni per età il rapporto in questione (100 x) risulterebbe ancora più grande.
  2. Entrambe le vaccinazioni sono state fatte a una platea di persone vastissima (decine di milioni di persone), perciò l’errore statistico risulta essere del tutto ininfluente.
  3. Vi è un ottimo accordo con i dati ottenuti per il Regno Unito dal database MHRA [35] e con quelli ottenibili, sia pure indirettamente, per l’Italia (ciò sarà mostrato in un futuro articolo).
  4. Secondo l’ultimo rapporto dell’AIFA, il numero di segnalazioni (per 100.000 dosi) degli effetti avversi dei vaccini anti-COVID appare essere maggiore per le classi di età più giovani [40].

Riferimenti bibliografici

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[21]  Catanzaro M. et al., “Immunomodulators inspired by nature: a review on curcumin and Echinacea”, Molecules, 2018.

[22]  Chen T.Y. et al., “Inhibition of enveloped viruses infectivity by curcumin”, PLoS ONE, 2013.

[23]  Robilotti, E. et al., “Norovirus”, Clinical Microbiology Reviews, 2015.

[24]  Doremalen N. et al., “Aerosol and Surface Stability of SARS-CoV-2 as Compared with SARS-CoV-1”, Letter, The New England Journal of Medicine, Aprile 2020.

[25]  Zou L. et al., “SARS-CoV-2 Viral Load in Upper Respiratory Specimens of Infected Patients”, Letter, The New England Journal of Medicine, Marzo 2020.

[26]  Wu J. et al., “Risk Factors for SARS among Persons without Known Contact with SARS Patients, Beijing, China”, Emerging Infectious Diseases, 2004.

[27]  Menichella M., “Come sterilizzare e ‘riciclare’ una mascherina”, Esperimentanda, 2020.

[28]  Cicala L., “Coronavirus – Concentratori di ossigeno”, Theremino, 2020.

[29]  Gautret P. et al., “Hydroxychloroquine and azithromycin as a treatment of COVID-19: results of an open-label non-randomized clinical trial”, Int. J. Antimicrob. Agents, 2020.

[30]  Perico N. et al., “A recurrent question from a primary care physician: How should I treat my COVID-19 patients at home?”, Clinical and Medical Investigations, Novembre 2020.

[31]  Direzione Generale della Programmazione sanitaria, “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2”, Portale web del Ministero della Salute, 30 novembre 2020.

[32]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un future pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[33]  Moore J.P., “Approaches for Optimal Use of Different COVID-19 Vaccines Issues of Viral Variants and Vaccine Efficacy”, JAMA, 4 marzo 2021.

[34]  Tsiang A. (Environmental Health Trust, USA), “200X Higher Overall Deaths after COVID-19 vs. Flu vaccines”, Comunicazione tramite mailing list, 11 marzo 2021.

[35]  Ricolfi L., Analisi dei dati del database MHRA degli effetti avversi nel Regno Unito (per un articolo in preparazione), Comunicazione personale, 19 marzo 2021.

[36]  Vanden Bossche G., “Mass Vaccination in a Pandemic – Benefits versus Risks”, Intervista effettuata dal Dr. Philip McMillan, YouTube, 6 marzo 2021.

[37]  Vanden Bossche G., “Public Health Emergency of International Concern”, appello indirizzato alle principali Autorità sanitarie di tutto il mondo, Agenzia Stampa Italia, 2020.

[38]  Menichella M., “Perché la vaccinazione degli anziani va maneggiata con cura: un’analisi per scenari”, Fondazione David Hume, 4 febbraio 2021.

[39]  Farber C., “Adverse incident reports show 966 deaths following vaccination for COVID-19”, The Epoch Times, Febbraio 2021.

[40]  Agenzia Italiana del Farmaco, “Secondo Rapporto sulla sorveglianza dei vaccini COVID-19 (27/12/2020 – 26/2/2021)”, Sito web dell’AIFA, 2020.

 




I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite

Essendo il comunicatore scientifico l’interfaccia, il trait d’union, fra gli scienziati e il mondo politico, la divulgazione scientifica ha fra i suoi compiti principali quello – assai elevato ma spesso disatteso – di informare la classica “casalinga di Voghera” e, soprattutto, il politico di turno di quel che davvero si pensa nel mondo internazionale della ricerca su temi di attualità, affinché i singoli individui, ma principalmente i decisori politici, possano adottare a ragion veduta misure e comportamenti quanto più consoni e lungimiranti possibile, non limitandosi ad “inseguire gli eventi” come è finora accaduto nella gestione italiana della pandemia di COVID-19. Perché stanno nascendo nuove e preoccupanti varianti del virus SARS-CoV-2? Quali sono i rischi conseguenti per una campagna multi-vaccinale ed, a cascata, per la nostra società sempre più stremata dal punto di vista economico e sociale? Quali sono gli scenari futuri che dobbiamo aspettarci nel caso migliore e in quello peggiore? Questo articolo cerca di rispondere in modo chiaro e documentato a tutte queste domande, o quanto meno di fornire al lettore gli elementi fattuali e gli strumenti culturali affinché possa arrivare da solo a una facile risposta.

Se non venissero usati vaccini per cercare di indurre un’immunità protettiva, la pandemia di COVID-19 – secondo i maggiori esperti mondiali – si attenuerebbe lentamente nel tempo fino a diventare una malattia endemica, come l’influenza. Quest’ultima famiglia di virus ha mostrato lo stesso andamento almeno quattro volte negli ultimi 100 anni, così come i coronavirus stagionali. Ma nonostante la maggior parte dei vaccini anti-COVID provochino una reazione immunitaria molto più forte dell’infezione naturale con il virus, senza i vaccini anti-COVID e senza un piano di prevenzione e cura domiciliare precoce vi sarebbero nel frattempo (cioè fino alla svilupparsi di un’immunità naturale nella popolazione) molti morti in poco tempo fra gli over 70 e/o si sarebbe costretti, in Paesi come l’Italia che non sono stati in grado di implementare alcuna misura alternativa, a frequenti lockdown per non saturare terapie intensive e ospedali.

Immagine ottenuta mediante microscopio elettronico a trasmissione (MET) di particelle del virus SARS-CoV-2 (in rosso), isolate da un paziente affetto da COVID-19, mentre attaccano le cellule del tessuto polmonare circostante. (fonte: NIAID Integrated Research Facility in Fort Detrick, Maryland).

Ora, sebbene la pressione di selezione operi raramente durante una pandemia, poiché l’infezione di solito si risolve rapidamente (anche prima che la produzione di anticorpi sia completa), durante la fase endemica la situazione è diversa, poiché la presenza di anticorpi in individui già guariti e in persone che ricevono un’immunità passiva sotto forma di plasma convalescente, o anticorpi monoclonali terapeutici, esercita una pressione selettiva sul virus. Ciò determinerà quindi la selezione di varianti virali con la capacità di eludere questi anticorpi. Negli individui, nel tempo possono emergere diverse varianti dello stesso virus, dando origine a quasi-specie che possono soppiantare le versioni preesistenti [1].

I vaccini tentano di contrastare questo problema, ma possono introdurre anch’essi una pressione selettiva.  L’impiego di vaccini, dunque, non è neutrale rispetto a un virus, ma in generale ne può influenzare l’evoluzione, come del resto possono farlo anche altri tipi di misure di sanità pubblica. Ciò può portare all’emergere di mutazioni nel genoma virale, per cui il ceppo endemico può eludere la risposta immunitaria provocata da ceppi precedenti dello stesso virus, complicando potenzialmente la vita sia ai ricercatori (che devono monitorare l’efficacia dei vaccini ed eventualmente adattarli alle nuove varianti) sia alle persone (cui potrebbero essere date nei prossimi mesi o anni “terze” dosi e forse anche “quarte” o “quinte”).

L’importanza della “teoria evolutiva della virulenza” nel controllo delle epidemie

L’opinione che la maggior parte dei medici e degli autori di testi di medicina aveva, fino a non molti anni fa, sull’evoluzione della “virulenza” – cioè, in pratica, del grado di aggressività per l’ospite umano – di un agente patogeno (virus, batterio o altro parassita), era che, quando la nostra specie e il parassita coevolvono per un lungo periodo di tempo, quest’ultimo tende a diventare meno virulento, evolvendo in definitiva verso una forma più benigna per l’uomo. Quest’idea era peraltro supportata da esempi famosi come quello del virus della mixomatosi, in cui un “nuovo” virus introdotto dall’uomo fra i conigli australiani si era evoluto, nel giro di pochi anni, in un germe assai meno virulento [2].

Sin dalla fine degli anni Settanta, tuttavia, alcuni biologi evoluzionisti, tra cui il prof. Paul W. Ewald dell’Università di Louisville (USA), hanno proposto un modo completamente nuovo di vedere le cose, che ha permesso di giungere a una vera e propria “teoria evolutiva della virulenza”, ben illustrata dallo stesso Ewald nel suo bel libro Evolution of Infectious Disease [3], che ebbi modo di studiare poco dopo la sua pubblicazione, quasi 25 anni fa. Secondo questi scienziati, la coevoluzione tra un agente patogeno e l’ospite umano – e, più in generale tra un parassita e una specie ospite – non evolve necessariamente verso una coesistenza benigna, bensì può rendere il germe più o meno virulento.

Il biologo evolutivo Paul Ewald e il suo libro in cui illustra la “teoria evolutiva della virulenza”.

Difatti, secondo la teoria evolutiva della virulenza, che ha reso ormai superata la vecchia teoria dei medici (basata sull’idea che i parassiti arrecanti poco o nessun danno ai loro ospiti hanno, come specie, la massima probabilità di sopravvivere sul lungo termine: essi prosperano – si pensava – perché anche gli organismi loro ospiti prosperano, per cui la selezione naturale deve favorirne una minore virulenza), in realtà la selezione naturale premia i parassiti che hanno la massima probabilità di sopravvivere sul lungo termine non come specie, bensì come singoli individui, secondo una visione darwiniana dell’evoluzione applicabile perfettamente non solo agli animali e alle piante ma anche ai microrganismi (e di cui il recente sviluppo della resistenza dei batteri agli antibiotici non è altro che l’ennesima conferma) [28].

Ma è proprio questo il punto, secondo gli evoluzionisti. Un patogeno resta innocuo o poco virulento finché le probabilità di contagio sono basse. Se però quel parassita “scopre” che passare da un individuo all’altro è diventato facile (come avvenne ad es. all’influenza “Spagnola” durante la Prima guerra mondiale, quando l’infezione poteva trasmettersi facilmente fra i soldati nelle trincee), allora può avere tutto l’interesse a riprodursi – e quindi a diffondersi – più rapidamente, anche a costo di uccidere il suo ospite. Viceversa, se nel caso di un patogeno altamente virulento il contagio di altre persone diventa per qualche ragione più difficoltoso, il germe avrà interesse a diventare meno virulento, per permettere all’ospite di restare attivo e assicurare al parassita la possibilità di entrare in contatto con altri potenziali ospiti.

Pertanto, la virulenza di un agente patogeno può diminuire o aumentare nel tempo, a seconda di quale opzione sia più vantaggiosa per i suoi geni, e ciò dipende dalla complessa influenza e interazione reciproca di vari: (1) fattori biologici, come la modalità e capacità di trasmissione del parassita, la sua capacità di sopravvivere per lunghi periodi di tempo al di fuori di un organismo ospite e la resistenza opposta dal sistema immunitario dell’ospite stesso; (2) fattori sociali, quali la densità di popolazione di una comunità umana, l’ambiente di vita e il comportamento delle persone (quest’ultimo, in particolare, determina la via e il momento della trasmissione del patogeno tra gli individui) [3].

Più della modalità di trasmissione e degli altri fattori biologici, comunque, è il comportamento dell’uomo a giocare, insieme agli altri fattori sociali, un ruolo fondamentale nell’evoluzione della virulenza di un agente patogeno che affligga la nostra specie. Certe scelte comportamentali delle singole persone nella vita di tutti i giorni, e quelle collettive in tema di sanità pubblica, oltre a preservare direttamente i singoli individui dal contrarre una determinata infezione, hanno un effetto meno immediato, ma fondamentale, nel ridurre il grado di virulenza del patogeno associato. In questo senso, il distanziamento sociale ed i lockdown con il COVID hanno avuto un’utilità accessoria: tenere sotto controllo la virulenza.

La letteratura medica offre ampie prove a favore di tali effetti, prodotti per lo più ostacolando la trasmissione degli agenti patogeni per via “culturale”: cioè, nel caso di molte malattie batteriche, informando sulla necessità di migliorare le condizioni igieniche (personali, delle fonti idriche, ospedaliere, eccetera); nel caso dell’AIDS, spingendo i soggetti delle categorie a rischio a usare siringhe non contaminate e ad adottare pratiche sessuali sicure (uso di preservativi, diminuzione della promiscuità e dei comportamenti ad alto rischio), e così via. Non è un caso, secondo Ewald, che del virus HIV si sia prodotta, in Africa, una variante molto più virulenta di quella che circola in Europa. [3]

L’applicazione sistematica alla medicina dell’approccio darwiniano alla virulenza costituisce, insomma, una nuova strada assai utile per contrastare i nuovi agenti patogeni, soprattutto virali, compresi quelli che attaccheranno in futuro l’uomo – per i quali non saranno disponibili subito vaccini – e per tenere sotto controllo quelli che già ci affliggono, sempre più difficilmente contrastabili dai trattamenti tradizionali con antibiotici o con altri farmaci. Infatti, esaminando i vari fattori biologici e sociali che influenzano la virulenza di un determinato patogeno, i biologi evoluzionisti possono prevedere i suoi decorsi evolutivi, scoprire ciò che più ci rende vulnerabili ad esso, e mettere a punto le terapie e i comportamenti sociali più adeguati per trasformare un pericoloso parassita in un germe meno temibile [2].

La “resistenza ai vaccini”: un pericolo legato a certi nuovi tipi di vaccini

La maggior parte delle persone ha sentito parlare di “resistenza agli antibiotici”, ma difficilmente di resistenza ai vaccini. Questo perché la resistenza agli antibiotici è un enorme problema globale che uccide ogni anno quasi 25.000 persone in Europa e egli Stati Uniti, e più del doppio in India. Invece, la maggior parte dei programmi di vaccinazione in tutto il mondo hanno avuto – e continuano ad avere – un enorme successo nel prevenire le infezioni e nel salvare vite umane. Addirittura, grazie ai vaccini il virus del vaiolo è stato del tutto eliminato dalla faccia della Terra, sebbene ciò abbia richiesto molto tempo.

Ma l’immunizzazione vaccinale sta anche rendendo più diffuse varianti genetiche di patogeni una volta rare o inesistenti, presumibilmente perché gli anticorpi sviluppati dai vaccinati non possono riconoscere e attaccare facilmente i ceppi mutanti che sembrano diversi dai ceppi vaccinali. Ed i vaccini in fase di sviluppo contro alcuni dei patogeni peggiori del mondo – ad esempio, malaria, antrace, etc. – si basano su strategie che potrebbero potenzialmente, secondo modelli evolutivi ed esperimenti di laboratorio, incoraggiare i patogeni a diventare ancora più pericolosi [4]; e, come vedremo, lo stesso potrebbe in linea teorica accadere con i vaccini anti-COVID, o almeno con alcuni di essi, dato che in realtà ne sono in corso di sviluppo nel mondo davvero moltissimi: circa 200.

I biologi evolutivi, in realtà, non sono sorpresi che ciò stia accadendo. Si tratta, infatti, di un ennesimo esempio della teoria evolutiva della virulenza al lavoro. Un vaccino rappresenta una nuova pressione selettiva esercitata su un agente patogeno e, se il vaccino non sradica completamente il suo bersaglio, i patogeni rimanenti maggiormente adattatisi – quelli in grado di sopravvivere, in qualche modo, in un mondo immunizzato – diventeranno più comuni. Questi agenti patogeni, insomma, si evolvono in risposta ai vaccini per il processo di selezione naturale applicata ai microrganismi.

La scienza dei vaccini è incredibilmente complicata, ma il meccanismo sottostante è in realtà molto semplice. Un vaccino espone il tuo corpo a dei patogeni vivi ma indeboliti o uccisi, o anche solo a determinati frammenti di essi (come nel caso della maggior parte dei vaccini anti-COVID, che utilizzano quale antigene, o bersaglio, la famosa proteina “spike”, una sorta di uncino che aggancia le cellule dell’ospite, in particolare – inizialmente – quelle delle vie respiratorie superiori). Questa esposizione incita il tuo sistema immunitario a creare degli eserciti di cellule immunitarie, alcune delle quali secernono proteine ​​anticorpali per riconoscere e combattere i patogeni, se mai invadono di nuovo il corpo.

Questa immagine è un modello generato dal computer della proteina “spike” di una cellula SARS-CoV-2 (COVID-19), che si lega al recettore della proteina ACE-2 di una cellula umana. Attraverso questa connessione, le cellule virali sono in grado di trasferire il loro DNA e riprodursi.

Anche l’immunità indotta dai vaccini può variare, diminuendo nel tempo. Dopo aver ricevuto il vaccino per il tifo, ad esempio, i livelli di anticorpi protettivi di una persona diminuiscono nel corso di diversi anni, motivo per cui le agenzie di sanità pubblica consigliano richiami periodici per coloro che vivono o visitano regioni in cui il tifo è endemico. La ricerca suggerisce che un simile calo della protezione nel tempo si verifica anche con il vaccino contro la parotite. E ci aspettiamo che lo stesso accada con i vaccini anti-COVID, che quindi verosimilmente richiederanno dei richiami, con cadenze ancora non ben chiare.
I fallimenti dei vaccini causati dall’evoluzione indotta dal vaccino, invece, sono di natura diversa. Questi cali dell’efficacia del vaccino sono stimolati dai cambiamenti nelle popolazioni di patogeni che certi vaccini stessi causano direttamente. Gli scienziati hanno di recente iniziato a studiare in parte il fenomeno perché oggi possono farlo: i progressi nel sequenziamento genetico, infatti, hanno reso più facile vedere come i patogeni cambiano nel tempo. E molti di questi nuovi vaccini – come vedremo – hanno rafforzato la velocità con cui i patogeni mutano e si evolvono in risposta ai segnali ambientali.
Si può pensare alla vaccinazione come a una specie di setaccio, che impedisce a molti agenti patogeni di passare e sopravvivere. Ma se ne passano alcuni, quelli in quel campione non casuale che sopravviveranno preferenzialmente si replicheranno e, alla fine, cambieranno la composizione della popolazione patogena. I “quelli” citati potrebbero essere: (1) “ceppi mutanti di fuga” con differenze genetiche che consentono loro di sfuggire agli anticorpi innescati dal vaccino, o (2) semplicemente sierotipi che non sono stati presi di mira dal vaccino. In entrambi i casi, il vaccino altera il profilo genetico della popolazione patogena.

Alcuni esempi di evoluzione non desiderabile indotta da vaccini

I batteri che causano la pertosse illustrano molto bene come ciò possa accadere. Nel 1997, negli Stati Uniti le raccomandazioni [5] dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) iniziarono a promuovere l’adozione di un nuovo vaccino per prevenire l’infezione di questi batteri. Mentre il vecchio vaccino era realizzato utilizzando dei batteri interi uccisi, che stimolavano una risposta immunitaria efficace ma anche rari effetti collaterali, come convulsioni, la nuova versione – nota come vaccino “acellulare” – conteneva solo da due a cinque proteine ​​della membrana esterna isolate dal patogeno.

Gli effetti collaterali indesiderati sono così scomparsi, ma sono stati sostituiti da nuovi problemi inaspettati. In primo luogo, per ragioni non chiare, nel corso del tempo la protezione conferita dal vaccino acellulare è diminuita. Di conseguenza, le epidemie hanno cominciato a scoppiare in tutto il mondo. Nel 2001, degli scienziati nei Paesi Bassi [6] hanno proposto un motivo aggiuntivo per l’indesiderata rinascita: forse la vaccinazione stava stimolando l’evoluzione, facendo sì che ceppi di batteri privi delle proteine​-bersaglio, o che ne avevano versioni diverse, sopravvivessero in modo preferenziale.

Da allora gli studi hanno confermato questa idea. In un articolo del 2014 [7] pubblicato su Emerging Infectious Diseases, dei ricercatori australiani, guidati dal medico e microbiologo Ruiting Lan, presso l’Università del New South Wales hanno raccolto e sequenziato campioni del batterio della pertosse da 320 pazienti tra il 2008 e il 2012. La percentuale di batteri che non hanno espresso la pertactina, una proteina bersaglio del vaccino acellulare, è balzata dal 5% nel 2008 al 78% nel 2012, il che suggerisce che la pressione di selezione del vaccino stava consentendo ai ceppi privi di pertactina di diventare più comuni.

Anche il virus dell’epatite B, che causa danni al fegato, racconta una storia simile. L’attuale vaccino, che prende di mira principalmente una parte del virus noto come “antigene di superficie” dell’epatite B (l’antigene è una molecola in grado di essere riconosciuta dal sistema immunitario come estranea), è stato introdotto negli Stati Uniti nel 1989. Un anno dopo, in un articolo pubblicato su Lancet [8], i ricercatori hanno descritto strani risultati di una sperimentazione su un vaccino in Italia. Avevano rilevato virus dell’epatite B circolanti in 44 soggetti vaccinati, ma in alcuni di essi al virus mancava una parte di quell’antigene bersaglio. Si erano, dunque, sviluppati i già citati “ceppi mutanti di fuga”.

Negli Stati Uniti Andrew Read, professore di biologia alla Penn State University ed esperto di genetica evolutiva delle malattie infettive, sta studiando con i suoi collaboratori come l’herpesvirus che causa la cosiddetta “malattia di Marek” – un disturbo altamente contagioso, paralizzante e in definitiva mortale che costa all’industria dei polli più di 2 miliardi di dollari all’anno – potrebbe evolversi in risposta al suo vaccino. La malattia di Marek sta colpendo i polli in tutto il mondo da oltre un secolo; gli uccelli la prendono inalando polvere carica di particelle virali versate nelle penne di altri uccelli.

Questa malattia fornisce l’esempio meglio documentato dell’evoluzione della resistenza ai vaccini [9]. Il primo vaccino è stato introdotto nel 1970, quando la malattia stava uccidendo interi stormi. Funzionò bene, ma nel giro di un decennio iniziò misteriosamente a fallire; focolai di Marek hanno iniziato a scoppiare in stormi di polli vaccinati. Un secondo vaccino è stato autorizzato nel 1983 nella speranza di risolvere il problema, ma anch’esso ha gradualmente smesso di funzionare. Oggi, l’industria del pollame è al suo terzo vaccino. Funziona ancora, ma Read e altri temono che anch’esso un giorno possa fallire e non c’è un quarto vaccino in attesa. Peggio ancora, negli ultimi decenni il virus è diventato più letale.

La malattia di Marek, una patologia che colpisce i polli, ci fornisce l’esempio meglio documentato del fenomeno della resistenza ai vaccini. Nella foto, un pulcino viene vaccinato contro di essa.

In un articolo del 2015 apparso su PLOS Biology [10], Read e colleghi hanno vaccinato 100 polli, lasciandone altri 100 non vaccinati. Hanno poi infettato tutti gli uccelli con ceppi di Marek che variavano per virulenza – cioè in quanto erano pericolosi e contagiosi. Il team ha scoperto che, nel corso della loro vita, gli uccelli non vaccinati immettono molto più ceppi meno virulenti nell’ambiente, mentre gli uccelli vaccinati immettono molto più ceppi più virulenti. I risultati suggeriscono quindi che il vaccino di Marek incoraggia la proliferazione di virus più pericolosi, che di conseguenza supererebbero le risposte immunitarie degli uccelli innescate dal vaccino e quelle degli stormi vaccinati ammalati.

I vaccini non sterilizzanti ed i potenziali rischi connessi

Proprio come gli agenti patogeni hanno modi diversi di infettarci e influenzarci, i vaccini che gli scienziati sviluppano impiegano strategie immunologiche diverse. La maggior parte dei vaccini che riceviamo durante l’infanzia (ad es. contro il morbillo) impediscono agli agenti patogeni di replicarsi dentro di noi e quindi ci impediscono anche di trasmettere le infezioni ad altri: sono, cioè, i cosiddetti vaccini “sterilizzanti”. E l’immunità sterilizzante è stata un fattore chiave per eliminare il vaiolo, eradicato ufficialmente nel 1980.

Ma finora gli scienziati non sono stati in grado di produrre questo tipo di vaccini sterilizzanti per patogeni complicati, come ad esempio la malaria e l’antrace. Per sconfiggere queste malattie, alcuni ricercatori hanno quindi sviluppato dei vaccini immunizzanti che prevengono le malattie senza effettivamente prevenire le infezioni: sono i cosiddetti vaccini “leaky”. E questi nuovi vaccini possono provocare un tipo di evoluzione microbica diversa e potenzialmente più spaventosa, di cui occorre tenere conto soprattutto nello scenario attuale dei molteplici vaccini anti-COVID già autorizzati o candidati (come detto, sono oltre 200 quelli in corso di sviluppo, e spesso molto diversi l’uno dall’altro per tecnologia usata).

La virulenza, come tratto di un patogeno, è direttamente correlata alla replicazione: più agenti patogeni ospita il corpo di una persona, e generalmente più malata diventa quella persona. Di conseguenza, la virulenza è definita come “la capacità di un agente patogeno di creare danni a un ospite”. Un alto tasso di replicazione fornisce però vantaggi evolutivi: più microbi nel corpo portano a più microbi nel moccio, nel sangue o nelle feci, il che offre ai microbi maggiori possibilità di infettare gli altri, ma ha anche dei costi, poiché può uccidere gli ospiti prima che abbiano la possibilità trasmettere la loro infezione.

Se un vaccino è completamente sterilizzante, il virus non può entrare nelle cellule, quindi non può evolvere perché non ha mai una possibilità di farlo. Ma se entra e si replica, c’è una pressione selettiva perché eviti gli anticorpi generati dal vaccino inefficiente. E in questa situazione non si sa mai quale sarà il risultato, che potrebbe trasmettersi in seguito ad altri contagiati. Il problema con i vaccini leaky è che consentono agli agenti patogeni di replicarsi senza controllo proteggendo allo stesso tempo gli ospiti da malattie e morte, eliminando così i costi associati all’aumento della virulenza.

Nel tempo, quindi, in un mondo di vaccinazioni fatte con vaccini leaky – come è quello in cui siamo entrati per prevenire il COVID-19 – l’agente patogeno potrebbe evolversi fino a diventare più mortale per gli ospiti non vaccinati, perché può raccogliere i benefici della virulenza senza, appunto, i costi, proprio come la malattia di Marek è diventata lentamente più letale per i polli non vaccinati [4]. E questa maggiore virulenza può anche far sì che il vaccino inizi a fallire, causando malattie negli ospiti vaccinati. Si tratta di due rischi molto importanti che dobbiamo potenzialmente aspettarci anche con i vaccini anti-COVID.

In un articolo del 2012 pubblicato su PLOS Biology [11], Andrew Read e Victoria Barclay hanno inoculato nei topi un vaccino anti-malaria leaky, usando questi topi infetti ma non malati per infettare altri topi vaccinati. Dopo che i parassiti sono circolati attraverso 21 cicli di topi vaccinati, Barclay e Read li hanno studiati e confrontati con quelli circolati attraverso 21 cicli di topi non vaccinati. Hanno così scoperto che i ceppi dei topi vaccinati erano diventati molto più virulenti, in quanto si erano replicati più velocemente e avevano ucciso più globuli rossi, rimanendo gli unici parassiti mortali alla fine dei 21 cicli di infezione.

Nel marzo 2017, Read e il suo collega David Kennedy della Penn State University hanno pubblicato, negli Atti della Royal Society B [9], un importante articolo scientifico in cui hanno delineato diverse strategie che gli sviluppatori di vaccini potrebbero utilizzare per garantire che i vaccini futuri non vengano puniti dalle forze evolutive. Una raccomandazione generale è che i vaccini dovrebbero indurre risposte immunitarie contro più bersagli. In una situazione del genere, diventa infatti molto più difficile per un agente patogeno accumulare tutti i cambiamenti necessari per sopravvivere.

Aiuta anche se i vaccini prendono di mira tutte le varianti o sottopopolazioni conosciute di un particolare patogeno, non solo quelle più comuni o pericolose. I vaccini dovrebbero pure impedire agli agenti patogeni di replicarsi e trasmettersi all’interno degli ospiti inoculati. Uno dei motivi per cui con i vaccini sterilizzanti la resistenza ai vaccini è meno problematica della resistenza agli antibiotici, è che essi vengono somministrati prima dell’infezione e limitano la replicazione, il che riduce al minimo le opportunità evolutive. Mentre questo non è vero, evidentemente, per i vaccini leaky. E se virus e batteri cambiano rapidamente in parte è proprio perché si replicano come matti all’interno dell’ospite.

Il materiale genetico di tutti i virus, infatti, è codificato in DNA o RNA; una caratteristica interessante dei virus a RNA è che cambiano molto più rapidamente dei virus a DNA. Ogni volta che fanno una copia dei loro geni commettono uno o pochi errori. Quando un virus a RNA si replica, il processo di copia genera un nuovo errore, o mutazione, per 10.000 nucleotidi, un tasso di mutazione fino a 100.000 volte maggiore di quello riscontrato nel DNA umano. Proprio come le persone – ad eccezione dei gemelli identici – hanno tutte genomi distintivi, le popolazioni di un virus tendono ad essere composte da una miriade di varianti genetiche, alcune delle quali se la cavano meglio di altre durante le battaglie con anticorpi addestrati al vaccino. I vincitori seminano la popolazione patogena del futuro.

I vaccini contro il SARS-CoV-2 sono sterilizzanti o vaccini “leaky”?

Il virus SARS-CoV-2 che produce il COVID-19 è un betacoronavirus, appartenente alla famiglia dei coronavirus (CoV), che comprende sia il virus della SARS che quello della MERS. Questi sono virus a RNA con genomi molto grandi, di circa 30 kb di lunghezza. La famiglia prende il nome dalla caratteristica “corona” di proteine, o ​​spike, che sporge dalla superficie del virus. L’accumulo di molteplici cambiamenti nella proteina spike ha portato, negli scorsi mesi, alla nascita di alcune varianti del SARS-CoV-2, come la variante inglese (nota come B.1.1.7), la variante sudafricana (nota come B.1.351) e la variante brasiliana (nota come B.11.28).

I primi vaccini contro l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2) ad essere autorizzati si sono dimostrati variamente efficaci nel ridurre la malattia da COVID-19 nel ceppo originale, il Wuhan-Hu-1. Nonostante ciò, non sappiamo ancora se questi vaccini – e tantomeno, eventualmente, quali e in che misura – possano indurre l’immunità sterilizzante. Si prevede che i dati che affrontano queste fondamentali domande saranno presto disponibili dagli studi clinici sui vaccini in corso. Intanto sappiamo che la variante sudafricana (B.1.351) può sfuggire agli anticorpi nel sangue di persone precedentemente infette [27], il che evidenzia la prospettiva di una reinfezione con varianti antigenicamente distinte e può prefigurare una ridotta efficacia degli attuali vaccini basati sulla proteina spike. Ma anche se l’immunità sterilizzante – che, ripeto, con questi primi vaccini è tutta da dimostrare! – venisse indotta inizialmente, essa potrebbe comunque cambiare nel tempo con il diminuire delle risposte immunitarie e con l’evoluzione virale.

Per l’immunità sterilizzante occorre un particolare tipo di anticorpo noto come “anticorpo neutralizzante”. Questi anticorpi bloccano l’ingresso del virus nelle cellule e ne impediscono la replicazione. Il virus infettante dovrebbe essere identico al virus del vaccino per indurre l’anticorpo perfetto. Non a caso, molti vaccini virali tradizionali presentano l’intero virus in un forma viva attenuata (morbillo, parotite, rosolia, varicella, rotavirus, poliovirus orale Sabin, febbre gialla e alcuni vaccini antinfluenzali) o in una forma inattivata (polio virus Salk, epatite A, rabbia e altri vaccini antinfluenzali), portando a una risposta multipla, diretta non solo verso un’unica proteine virale, ma verso numerose proteine ​​virali contemporaneamente.

Questa molteplicità di risposte anticorpali, probabilmente, spiega perché per questi vaccini non sono stati documentati “ceppi di fuga” del virus dal vaccino. L’eccezione è rappresentata dal virus dell’influenza, in cui la cosiddetta “deriva virale antigenica” (ovvero le mutazioni che si accumulano nel tempo nelle due proteine ​​bersaglio) e lo spostamento o riassortimento antigenico (ricombinazione dei segmenti proteici che porta a una diversa combinazione nelle due proteine) significano che la risposta immunitaria a precedenti ceppi influenzali (o vaccini) non è più efficace nel prevenire l’infezione dai nuovi ceppi.

Tuttavia, la lunghezza della proteina spike usata dai vaccini autorizzati contro il SARS-CoV-2 è relativamente breve (circa 1270 aminoacidi) e un articolo in forma di preprint [12] ha indicato che la risposta anticorpale naturale alle infezioni (e presumibilmente anche a un vaccino basato sulla proteina spike) è concentrata in sole due sezioni della proteina. Dato che la risposta anticorpale alla proteina spike è così concentrata, occorre domandarsi, come hanno fatto T. Williams & W. Burgers su Lancet [13]: “potrebbero delle semplici mutazioni in queste sequenze limitate portare a un vaccino meno efficace, se la risposta immunitaria umana è così specifica a causa della sequenza ridotta usata dal vaccino?”.

I geni nel genoma di SARS-CoV-2 che contengono istruzioni per costruire parti del virus sono mostrati in colori diversi. Ad esempio, la sezione marrone nell’immagine contiene istruzioni genetiche per costruire la proteina “Spike”, che consente al virus di attaccarsi alle cellule umane durante l’infezione. Questa sezione del genoma funge da regione chiave per il monitoraggio delle mutazioni.

Ora, è vero che il SARS-CoV-2 non è un virus “segmentato” come quelli dell’influenza e che il suo tasso di mutazione risulta essere inferiore a quello di altri virus a RNA. Tuttavia, i risultati di un preprint del 2020 [14], esaminando il plasma convalescente per altri coronavirus umani – come il coronavirus umano 229E – suggeriscono che, come per l’influenza, le naturali mutazioni nell’uomo del coronavirus 229E con il tempo potrebbero rendere gli individui meno in grado di neutralizzare i nuovi ceppi. Dunque, qualcosa del genere potrebbe succedere anche per il SARS-CoV-2, e portare alla fine a un vaccino meno efficace.

Oggi è in uso un numero minore di vaccini virali ricombinanti, più simili nell’approccio a quelli recentemente concessi in licenza per il SARS-CoV-2. Essi sono fatti tramite l’ingegneria genetica: il gene che crea la proteina per il virus viene isolato e posizionato all’interno dei geni di un’altra cellula; quando quella cellula si riproduce, produce proteine vaccinali, il che significa che il sistema immunitario riconoscerà la proteina e proteggerà il corpo da essa. Uno di questi vaccini è quello per il virus dell’epatite B, che usa una delle proteine ​​dell’involucro virale, la superficie dell’antigene HBV. Gli anticorpi neutralizzanti sono mirati principalmente a una sequenza di 25 amminoacidi, dal 124 al 149. Ebbene, mutazioni puntiformi che provocano un’arginina rispetto al residuo di glicina nella posizione 145 in questa sequenza portano a un fallimento degli anticorpi neutralizzanti indotti dal vaccino e ad infezioni negli individui vaccinati [15].

I vaccini contro l’influenza, in genere, inducono protezione dalle malattie, ma non necessariamente protezione dalle infezioni. Ciò è in gran parte dovuto ai diversi ceppi di influenza che circolano, una situazione che può verificarsi anche con il SARS-CoV-2. Un fattore protettivo è il tasso di mutazione relativamente basso del SARS-CoV-2, ma l’infezione prolungata negli ospiti immunocompromessi potrebbe accelerare la mutazione, tant’è che nei pazienti affetti da HIV la resistenza agli antivirali si sviluppa rapidamente [9] (per tale ragione i pazienti con HIV non sono stati inclusi nei trial sui vaccini anti-COVID). Ed il fatto che esistano così tanti diversi vaccini anti-COVID in uso o in sperimentazione sulla popolazione facilita, con la pressione selettiva esercitata, il crearsi di “ceppi di fuga”.

Gli esperimenti con gli anticorpi monoclonali e lo sviluppo di una resistenza

Nei vaccini anti-COVID, queste mutazioni indesiderate potrebbero essere guidate da (1) deriva antigenica, o (2) per selezione, durante l’infezione naturale oppure a causa del vaccino stesso. Quando un virus viene coltivato sotto la pressione selettiva di un singolo anticorpo monoclonale che prende di mira un singolo epitopo (la piccola parte dell’antigene che lega l’anticorpo specifico) su una proteina virale, le mutazioni in quella sequenza proteica porteranno alla perdita di neutralizzazione, e alla generazione di “ceppi di fuga”. Questa sequenza di eventi è stata mostrata in laboratorio per la polio, il morbillo e il virus respiratorio sinciziale [16], e nel 2020 anche per il SARS-CoV-2 [17].

Un’altra scoperta importante è che il SARS-CoV-2, anche in presenza di anticorpi policlonali (nella forma dei sieri di convalescenti), può mutare e sfuggire alla neutralizzazione da parte degli anticorpi multipli del plasma di altre persone. Infatti, in una serie di esperimenti in vitro descritti in un preprint del 2020, il SARS-CoV-2 è stato coltivato in presenza di plasma neutralizzante di un convalescente [18]. Dopo alcuni passaggi seriali, erano state generate tre mutazioni nelle due sezioni-bersaglio della proteina spike che hanno permesso la formazione di una nuova variante del tutto resistente alla neutralizzazione del plasma. Quando questo virus è cresciuto in presenza di plasma convalescente di altri 20 pazienti, tutti i campioni hanno mostrato una riduzione dell’attività di neutralizzazione.

La sostituzione di amminoacidi osservata in questo esperimento si trova – guarda caso – nella stessa posizione delle mutazioni riportate in un preprint che descrive esperimenti di selezione di anticorpi monoclonali (con le varianti mutanti che sfuggono alla neutralizzazione di sieri umani convalescenti) [19] e di quella trovata nella famosa “variante sudafricana” del SARS-CoV-2 che si sta diffondendo rapidamente in Sud Africa e che ha mostrato di essere meno suscettibile alla neutralizzazione da parte di plasma convalescente di individui esposti alle precedenti varianti del coronavirus. E, sempre guarda caso, le varianti inglese, sudafricana e brasiliana sono emerse in Paesi dove erano in corso trial di vaccini anti-COVID.

In linea di principio, questi risultati suggeriscono che le varianti di SARS-CoV-2 potrebbe evolversi, in alcune persone, sviluppando una resistenza all’immunità indotta da vaccini ricombinanti diretti alla proteina spike (che sono basati sulla sequenza originale, la Wuhan-Hu-1). Ma solo gli studi clinici in corso mostreranno se gli individui vaccinati riconoscono le varianti SARS-CoV-2 in modo diverso, e se le mutazioni riducono la protezione del vaccino in alcuni individui vaccinati. La sperimentazione di fase 3 in corso di un vaccino a base di spike con vettore di adenovirus (Johnson & Johnson) in Sud Africa, dove la variante sudafricana sta sostituendo le varianti preesistenti, può fornire un’opportunità per esaminare questa domanda.

A causa dell’efficiente apparato di correzione di bozze del SARS-CoV-2, il tasso di sostituzione dei nucleotidi è più lento rispetto ad altri virus a RNA. Ciò ha portato alla speranza che l’antigene spike sarebbe rimasto stabile e che tutti i ceppi attualmente in circolazione sarebbero stati quindi suscettibili agli anticorpi neutralizzanti sviluppati in risposta ai primi vaccini. Uno studio di McCarthy et al. [20] riporta, tuttavia, che il coronavirus si sta adattando alla presenza di immunità – come segnalato da mutazioni di delezione ripetute in siti specifici della proteina spike – causando la rapida evoluzione della diversità antigenica, e soprattutto questa “mutazione di fuga” viene trasmessa anche ad altri individui. La spiegazione più ovvia è che questa delezione sia sorta in risposta a una forte e comune pressione selettiva.

In definitiva, la maggior parte dei vaccini anti-COVID addestrano il sistema immunitario a rilevare gli antigeni sulla superficie del SARS-CoV-2 e l’antigene più usato è la proteina spike, che viene vista come il bersaglio vaccinale più efficace. Quindi, ora che sta emergendo la prova che quelle particolari varianti sembrano influenzare l’efficacia del vaccino, dovrebbe essere necessario riformulare periodicamente i vaccini così che si adattino meglio ai ceppi circolanti. Per questa ragione, Moderna (e probabilmente anche altri produttori) stanno considerando due strategie “booster”, cioè di potenziamento dell’immunità nei vaccinati: (1) una terza dose dello stesso vaccino odierno; (2) in alternativa, una terza dose con un mRNA in cui sono state opportunamente incorporate le mutazioni della nuova variante sudafricana [21].

La struttura del virus SARS-CoV-2, con alcune importanti proteine superficiali e interne.

Le mutazioni nella proteina spike sono alla base delle principali varianti che destano preoccupazione. Dunque, i vaccini anti-COVID che prendono di mira questa proteina sul breve termine risolvono un problema ma dall’altro possono crearne di nuovi, soprattutto nel tempo e guardando quindi al futuro. Inoltre, anche i vaccini che usano due dosi potrebbero favorire la creazione di “ceppi mutanti di fuga”, dato che dopo la prima dose l’immunizzazione è solo parziale. Anche la lenta introduzione delle vaccinazioni in alcuni Paesi può dare il tempo al virus di mutare la sua proteina spike e sfuggire al vaccino (donde l’importanza di una politica globale di vaccinazione e della fornitura di vaccini ai Paesi che non possono permettersi di pagarli). Con il passare del tempo, alcuni vaccini potrebbero persino iniziare ad esacerbare le infezioni da COVID-19 attraverso un fenomeno noto come “potenziamento dipendente dall’anticorpo”, dove alcuni anticorpi si attaccano al virus in modo errato e finiscono per contribuire all’infezione [26].

Conclusione: verso un futuro davvero pieno di incognite

Sebbene l’immunità sterilizzante sia spesso l’obiettivo finale della progettazione del vaccino, raramente viene raggiunto. Fortunatamente, ciò non ha impedito in passato a molti vaccini diversi di ridurre sostanzialmente il numero di casi di infezioni da virus. Riducendo i livelli di malattia negli individui, si riduce anche la diffusione del virus attraverso le popolazioni. Pertanto, essa potrebbe essere stata un obiettivo troppo elevato per i produttori di vaccini COVID-19, ma secondo molti esperti potrebbe non essere necessaria per frenare la malattia e portare l’attuale pandemia sotto controllo [22].

Il caso del rotavirus, che causa vomito grave e diarrea acquosa ed è particolarmente pericoloso per neonati e bambini piccoli, è abbastanza semplice in questo senso. La vaccinazione limita, ma non ferma, la replicazione dell’agente patogeno. In quanto tale, non protegge da malattie lievi. Riducendo la carica virale di una persona infetta, tuttavia, diminuisce la trasmissione, fornendo una protezione indiretta sostanziale. Secondo i Centers for Disease Control (CDC) statunitensi, 10 anni dopo l’introduzione nel 2006 di un vaccino contro il rotavirus negli USA, il numero di positivi ai test per la malattia è sceso del 90% [22]. Quindi, anche con i vaccini anti-COVID si potrebbero avere nuovi infetti asintomatici o paucisintomatici.

Tuttavia gli imprevisti sono dietro l’angolo, come abbiamo visto essere successo con vaccini non sterilizzanti che prendevano di mira una sola o poche proteine virali. E quando, l’anno scorso, più di 1.000 scienziati del vaccino si sono riuniti a Washington D.C. (USA), al World Vaccine Congress, la questione dell’evoluzione indotta dal vaccino – incredibilmente – non è stata al centro di nessuna sessione scientifica. I ricercatori sono nervosi nel parlare e richiamare l’attenzione sui potenziali effetti evolutivi perché temono che, così facendo, potrebbero alimentare più paura e sfiducia nei confronti dei vaccini da parte del pubblico, anche se l’obiettivo è, ovviamente, garantire il successo del vaccino a lungo termine.

Al contrario, alcuni degli esperti di virus a cui non sfuggono i potenziali effetti evolutivi si sono espressi preoccupati del fatto che l’aggiunta di una “pressione evolutiva” all’agente patogeno mediante l’applicazione di quello che potrebbe non essere un vaccino completamente protettivo – come uno dei tanti vaccini sperimentali anti-COVID – possa alla fine peggiorare le cose. “Una protezione meno che completa potrebbe fornire una pressione selettiva che spinga il virus a eludere l’anticorpo presente, creando ceppi che poi eludono tutte le risposte ai vaccini”, secondo Ian Jones, professore di virologia presso la Reading University (UK). “In questo senso, un cattivo vaccino è peggio di nessun vaccino!” [23, 4]. Tuttavia, va sottolineato che al momento si tratta di un “peggior scenario” teorico, e che comunque – sia ben chiaro – non mette in discussione l’importanza della vaccinazione di massa.

Se quello appena illustrato è uno degli scenari peggiori, lo scenario migliore non lo è poi tanto di più, visto che, come ritiene Alexandre Le Vert, CEO e co-fondatore della casa di vaccini francese Osivax, “dovremmo aspettarci che più varianti appaiano periodicamente e molto probabilmente raggiungeremo una situazione simile all’influenza, dove più varianti circoleranno ogni stagione invernale” [26]. Dunque, si prospettano vaccinazioni a go-go per la popolazione e un business multi-miliardario per le case farmaceutiche. Un modo per aggirare la “corsa agli armamenti” del vaccino è lo sviluppo di un vaccino universale che sia a prova di futuro contro il coronavirus in evoluzione. Per capire come un tale vaccino potrebbe funzionare, un indizio chiave sta nell’esaminare – come abbiamo fatto in precedenza – i vaccini per altre infezioni virali che sono rimasti efficaci per decenni: stiamo parlando dei già citati vaccini sterilizzanti.

Poche aziende stanno sviluppando vaccini vivi attenuati per il COVID-19, anche se questi possono fornire una protezione molto forte: sono difficili da trasportare e potrebbero non essere sicuri per le persone con sistemi immunitari indeboliti. La maggior parte degli sviluppatori ha quindi optato per altri approcci, come vaccini inattivati (Sinovac, Novovax, etc.), vettori virali (Astrazeneca, Johnson & Johnson, Sputnik, etc.) e vaccini a mRNA (Pfizer, Moderna, CureVac, etc.). Nel caso del SARS-CoV-2, non ci sono ancora dati di efficacia dei vaccini inattivati in fase 3, ed i dati parziali apparsi sulla stampa mostrano al momento risultati controversi. Bisogna inoltre tener presente che la produzione dei vaccini inattivati richiede bioreattori per la crescita di virus vivo in alte condizioni di contenimento. Al contrario, i vaccini a mRNA e quelli a vettore virale sono fra i più semplici e veloci da realizzare.

Se i vaccini vivi attenuati sono fuori dal tavolo, come possono altri tipi di vaccini ottenere una protezione duratura? Emergex è uno dei numerosi sviluppatori di vaccini che si concentrano sui cosiddetti “linfociti T” – una parte fondamentale della nostra “memoria” immunitaria per infezioni future – e sugli antigeni interni del SARS-CoV-2. Come ha spiegato il suo CEO, Thomas Rademacher: “I nostri risultati suggeriscono che prendere di mira le proteine ​​di superficie, e in particolare la proteina spike, potrebbe non produrre una risposta immunitaria altrettanto sicura, efficace e di lunga durata rispetto a quella osservata con i vaccini vivi attenuati” [26]. Osivax sta usando un approccio simile, sviluppando un vaccino che consiste in nanoparticelle che trasportano copie di antigeni COVID-19 interni. Va detto, comunque, che anche per gli altri tipi di vaccini si è riscontrata la capacità di indurre la citata “risposta T”, come illustrato ad esempio, per il vaccino Pfizer, dal lavoro di Prendecki et al. [29].

Credo che al lettore risulterà a questo punto chiaro come la corsa ai vaccini sia in realtà soltanto all’inizio, mentre le nostre economie e il tessuto sociale sono sempre più provati. Pertanto, negli altri Paesi molti esperti si chiedono se saremo in grado di stare dietro – come progettazione e produzione dei vaccini, nonché accettazione degli stessi da parte della popolazione – alle ulteriori future varianti di SARS-CoV-2 che molto verosimilmente sorgeranno, indotte in molti casi dai vaccini medesimi [24]. In Italia questo dibattito non è mai partito, nonostante la conoscenza di questi temi e dei relativi risvolti dovrebbe essere portata anche all’attenzione della politica già in questa fase, non certo “a babbo morto”, al fine di prendere le decisioni migliori e di effettuare la pianificazione conseguente, uscendo dalla logica dell’inseguire gli eventi che ha guidato finora la gestione della pandemia nel nostro Paese.

In Italia, invece, i medici che in televisione informano il grande pubblico si limitano a ripetere il mantra “che un calo della velocità di trasmissione significa meno infezioni; una minore replicazione del virus porta a minori opportunità di evoluzione del virus negli esseri umani; e con meno possibilità di mutare, l’evoluzione del virus rallenta e c’è un minor rischio di nuove varianti”. Ma, come purtroppo abbiamo visto in dettaglio, se i vaccini anti-COVID utilizzati nei trial o approvati sono “leaky” – o se anche solo alcuni di essi lo sono – pure una vaccinazione di massa degli italiani / europei lascerebbe al virus ampie opportunità di creare nuovi “ceppi di fuga” (da noi o nei Paesi poveri) e, qualora questi ultimi eludessero i vaccini da noi usati, ciò rischierebbe di farci tornare, da un momento all’altro, quasi alla casella di partenza.

Proprio per tutte queste ragioni è – a mio modesto parere – importante, per la politica sanitaria anti-COVID, non solo riflettere con molta più obiettività e lungimiranza su tutta la faccenda, ma soprattutto implementare contemporaneamente un “piano B” che sia del tutto svincolato dai vaccini e mirato a risolvere il problema (saturazione delle terapie intensive e dei reparti di cure a bassa intensità degli ospedali) alla radice, ovvero facendo in modo che meno persone ricorrano all’ospedale, grazie: (1) alla prevenzione tramite opportune campagne di informazione che invitino almeno la popolazione più a rischio a compensare i bassi livelli di vitamina D (questione chiave già illustrata in un mio articolo [25]), e comunque non per ridurre il rischio di infezione bensì la gravità della stessa; e (2) alla cura ai primi sintomi attraverso un serio ed efficace protocollo di cura domiciliare, oggi di fatto assente.

Desidero ringraziare, per la lettura critica del manoscritto e gli utili suggerimenti forniti, il dr. Piergiuseppe De Berardinis (direttore del Laboratorio di immunologia presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR), che in questi anni si è occupato di studiare la risposta immunitaria e la problematica dei vaccini sia dal punto di vista sperimentale che divulgativo. Naturalmente, la responsabilità di eventuali inesattezze o errori residui è solo ed esclusivamente dell’Autore.

 

Riferimenti bibliografici

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[21] Kupferschmidt K., “Vaccine 2.0: Moderna and other companies plan tweaks that would protect against new coronavirus mutations”, Science, 26 gennaio 2021.

[22] McKenna S., “Vaccines Need Not Completely Stop COVID Transmission to Curb the Pandemic”, Scientific American, 18 gennaio 2021.

[23] Kelland K., “Russia vaccine roll-out plan prompts virus mutation worries”, Reuters, 21 agosto 2020.

[24] Kuhn R., “Coronavirus variants, viral mutation and COVID-19 vaccines: The science you need to understand”, The Conversation, 2 febbraio 2021.

[25] Menichella M., “Vitamina D e minore mortalità per COVID-19: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura, Fondazione David Hume, 23 febbraio 2021.

[26] Smith J., “Can Covid-19 Vaccines Keep up with an Evolving Virus?”, Labiotech, 11 febbraio 2021.

[27] Wang P. et al., “Increased Resistance of SARS-CoV-2 Variants B.1.351 and B.1.1.7 to Antibody Neutralization”, preprint, bioRxiv, 26 gennaio 2021.

[28] Ewald, P.W., “Evolution of virulence”, Infectious Disease Clinics of North America, 2004.

[29] Prendecki et al., “Effect of previous SARS-CoV-2 infection on humoral and T-cell responses to single-dose BNT162b2 vaccine”, The Lancet, 25 febbraio 2021.

 

 




Vitamina D e minore mortalità per COVID-19: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura

Sulla base di sempre più numerose evidenze epidemiologiche riportate nella letteratura medico-scientifica, appare ogni giorno più chiaro come il raggiungimento – tramite esposizione al sole o semplice integrazione quotidiana – di adeguati livelli di vitamina D nel sangue sia necessario non soltanto per prevenire le numerose patologie croniche che possono ridurre l’aspettativa di vita nelle persone anziane e creare “comorbidità” che aggravano il COVID-19, ma anche per determinare direttamente una maggiore resistenza al COVID-19 e, di conseguenza, un netto calo non del numero di infezioni (con cui non è stata trovata alcuna correlazione), bensì della mortalità e dei ricoveri in terapia intensiva. Ciò non stupisce, sia alla luce del ruolo protettivo della vitamina D in numerose altre patologie virali grazie alla sua attività immunomodulante e antivirale, sia del fatto che, in Italia, nel 2020 il numero di ricoverati in terapia intensiva in rapporto ai casi attivi sia crollato proprio nei mesi estivi, quando maggiore è l’irradiazione solare ultravioletta, responsabile della produzione naturale della vitamina D. L’Italia, fra l’altro, è – come ben noto ai medici di base – uno dei Paesi europei (insieme a Spagna e Grecia) con maggiore carenza di vitamina D nella popolazione. Pertanto, il compenso a scopo preventivo della carenza di vitamina D, in associazione alle ben note misure di ordine generale, potrebbe senza dubbio contribuire a superare questa difficile emergenza (non è un caso che l’Inghilterra stia già distribuendo la vitamina D agli anziani), insieme all’auspicabile impiego terapeutico in ambito ospedaliero in aggiunta alle cure attuali, come già avvenuto con successo in studi condotti in altri Paesi. Il costo irrisorio della vitamina D, il suo elevatissimo profilo di sicurezza  e la sua indipendenza (a differenza dei vaccini) dalle diverse varianti del SARS-CoV-2, rendono dunque l’affiancare alla campagna vaccinale (1) la prevenzione con la vitamina D e (2) l’informazione al pubblico sull’argomento una strategia win-win, attuabile in pochi giorni anziché i molti mesi della vaccinazione di massa, e nella quale non si ha nulla da perdere ma potenzialmente molto da guadagnare. Infine, fa riflettere che oltre 150 fra docenti universitari e medici ospedalieri italiani di alto livello abbiano firmato un appello in tal senso promosso a inizio dicembre dall’Accademia di Medicina di Torino, ma inascoltato dalle Istituzioni preposte alla gestione della pandemia.

L’azione di protezione della vitamina D contro le più varie infezioni virali

La vitamina D è un ormone che modula la risposta immunitaria, ad effetto antinfiammatorio e antimicrobico. Esistono due principali forme di vitamina D: la vitamina “D2” (ergocalciferolo) e la vitamina “D3” (colecalciferolo). La vitamina D2 è assunta tramite una dieta a base di vegetali (ad es. funghi irradiati con raggi UV-B). Il colecalciferolo naturale (vitamina D3), invece, si ottiene in piccola quantità dal cibo animale, ma è principalmente sintetizzato nella pelle dopo l’esposizione alla luce solare. In pratica, la radiazione ultravioletta fornisce circa l’80% della vitamina D naturale, il resto lo dà la dieta.

La produzione di vitamina D / D3 è influenzata principalmente dalla intensità dei raggi ultravioletti solari di tipo UV-B (280-315 nm), dalla durata dell’esposizione al sole, dalla pigmentazione della pelle e dalla superficie della pelle disponibile per l’esposizione. L’esposizione di 10-15 min al sole di tutto il corpo, a mezzogiorno in piena estate, in un individuo di carnagione chiara può produrre un aumento dei livelli di vitamina D nel sangue equivalente a quello indotto da una dose orale fino a 625 microgrammi (pari a 250.000 UI), ben maggiore dei circa 70-125 microgrammi al giorno (28.000-50.000 UI) equivalenti al livello sintetizzato alla fine della stagione estiva dalla pelle normale, non chiara, di un lavoratore esposto cronicamente al sole [26, 28]. Viceversa, l’indossare vestiti con le maniche o lo stare quasi sempre all’ombra riduce il livello di vitamina D nel sangue. E anche in un lockdown è lecito attendersi che i livelli di vitamina D negli individui coinvolti siano destinati rapidamente a calare.

Variazione stagionale dei livelli di concentrazione della vitamina D nel sangue, rilevata su un gruppo di 7.437 britannici dell’età di 45 anni. Si noti come tali livelli siano massimi nel mese di settembre e minimi nel mese di febbraio, un andamento stagionale temporalmente piuttosto simile a quello che incontreremo più avanti per i raggi ultravioletti solari (fonte: Hopkin et al. 2020 [1])

È stato da tempo dimostrato, nella letteratura medica, che la vitamina D potenzia l’attività antimicrobica contro diversi agenti patogeni, inclusi i virus respiratori. Infatti, sia le osservazioni in vitro che le prove con l’assunzione di vitamina D come integratore hanno ampiamente dimostrato il carattere protettivo della vitamina D contro vari virus respiratori (tra cui virus sinciziale, influenza) e altri virus non respiratori (come il virus dell’immunodeficienza umana virus, il virus dell’epatite C e il virus della dengue) [2].

Già quasi dieci anni fa, Beard et al. (2011) [3] hanno concluso che studi epidemiologici interventistici e osservazionali forniscono la prova che la carenza di vitamina D nel sangue può conferire un aumento del rischio di influenza e di infezioni acute delle vie respiratorie [4]. Inoltre, uno studio controllato randomizzato aveva dimostrato che l’integrazione di vitamina D per i pazienti ad alto rischio di infezione delle vie respiratorie riduce i sintomi e la necessità di terapia antibiotica [5]. E una recente meta-analisi basata su otto studi osservazionali ha riportato che i soggetti con una carenza (<20 ng/ml) di vitamina D nel sangue avevano un rischio aumentato del 64% di polmonite acquisita in comunità [6].

Una recente meta-analisi di Martineau et al. (2017) [7] mostra che l’assunzione regolare di vitamina D3 per via orale (a dosi fino a 2.000 UI / giorno) è al tempo stesso sicura e protettiva contro le infezioni acute delle vie respiratorie, specialmente nei soggetti con carenza di vitamina D [8]. Anche una recente meta-analisi di diversi studi, svolta da Nurshad Ali [6], ha dimostrato il ruolo della vitamina D nel ridurre il rischio di infezioni virali acute del tratto respiratorio e della polmonite, attraverso (1) l’inibizione diretta della replicazione virale o (2) tramite azione antinfiammatoria o (3) immunomodulazione.

L’ipotesi di un ruolo protettivo della vitamina D anche nei confronti del COVID-19

Alcuni ricercatori hanno dunque ipotizzato che l’insufficienza di vitamina D possa compromettere la funzione immunitaria respiratoria, aumentando il rischio di gravità e mortalità anche nel caso del COVID-19 [6]. Il COVID-19, infatti, è una malattia che può essere suddivisa, sostanzialmente, in tre fasi: (1) una fase asintomatica; (2) una fase sintomatica non grave con il coinvolgimento del tratto delle vie respiratorie superiori; (3) una fase di grave malattia potenzialmente letale, caratterizzata da carenza di ossigeno nel polmone e progressione alla “sindrome da distress respiratorio acuto” (ARDS) [9].

I recenti dati clinici suggeriscono che questi sintomi gravi siano dovuti all’attivazione della risposta immunitaria che porta alla tempesta di citochine, responsabile dello sviluppo dell’ARDS. La tempesta di citochine è solitamente una risposta infiammatoria incontrollata culminante con la secrezione di citochine proinfiammatorie e chemochine, che porta a distress respiratorio acuto, insufficienza multiorgano e, infine, morte. Le citochine proinfiammatorie che sono responsabili della tempesta di citochine sono state trovate a un livello più in alto nei pazienti COVID-19 che richiedono il ricovero in terapia intensiva [9].

La vitamina D è ben nota inibire la risposta immunitaria infiammatoria patologica; di conseguenza, essa potrebbe ridurre al minimo il verificarsi della tempesta di citochine [9]. Attraverso le sue interazioni con una moltitudine di cellule, la vitamina D può avere, in realtà, diversi modi per ridurre il rischio di infezioni acute del tratto respiratorio e di COVID-19, nonché il danno a più organi da esso indotto: riduzione della sopravvivenza e replicazione dei virus, riduzione del rischio di produzione di citochine infiammatorie, etc. [10]. Pertanto, la vitamina D potrebbe avere effetti protettivi e terapeutici contro il COVID-19.

L’effetto protettivo della vitamina D contro il COVID-19 sarebbe correlato, secondo l’opinione diffusa fra i ricercatori, soprattutto alla soppressione della risposta delle citochine e alla riduzione della gravità / rischio di sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), verosimilmente secondo lo schema un po’ più tecnico illustrato in figura, relativo a persone con comorbidità. Qui le linee solide indicano stimolazione / induzione, mentre quelle tratteggiate indicano inibizione / blocco. (fonte: Ferder et al., 2020 [23])

Un apporto inadeguato di vitamina D, inoltre, ha una varietà di effetti scheletrici e non scheletrici. Esistono ampie prove che varie malattie non trasmissibili (ipertensione, diabete, sindrome metabolica) siano associate a bassi livelli di vitamina D nel sangue. Queste comorbidità, insieme con la carenza di vitamina D spesso concomitante, aumentano il rischio di eventi COVID-19 gravi [11]. Dunque, una deficienza di vitamina D ha sicuramente un effetto indiretto sulla mortalità del COVID-19 (favorendo le comorbidità), ma – come fra poco vedremo – sembra avere anche un effetto più diretto.

Pertanto, si dovrebbe prestare molta più attenzione all’importanza dei livelli della vitamina D per lo sviluppo e il decorso della malattia da COVID-19. In particolare, nei metodi utilizzati in Europa per controllare la pandemia (lockdown), la sintesi naturale della vitamina D della pelle viene ridotta, in quanto le persone hanno poche opportunità di essere esposte al sole. La breve emivita della vitamina D rende quindi una crescente carenza di questa vitamina più probabile in caso di lockdown [11], con tutte le conseguenze del caso, che risulteranno più chiare nel seguito di questo articolo.

Il legame fra i livelli di vitamina D e due variabili stagionali: irraggiamento UV e inquinamento

La carenza di vitamina D è un problema diffuso, ben documentato nella letteratura accademica, nella popolazione adulta in generale. Tale insufficienza sembra essere associata anche a un aumentato rischio di malattie croniche e del cancro [10], sebbene un rapporto causa-effetto non sia mai stato dimostrato. Pertanto, pur non esistendo un consenso uguale per tutti i Paesi sui livelli ideali di integrazione di vitamina D, le linee guida per l’Italia raccomandano un’assunzione giornaliera compresa fra 1.000 e 2.000 UI di vitamina D, in funzione dell’età e dell’esposizione solare [12]. L’oncologa Debora Rasio raccomanda, anche come possibile ausilio per la prevenzione del cancro, un’integrazione giornaliera di 2.000 UI [13].

Le infezioni delle vie respiratorie sono più frequenti nei mesi invernali (e soprattutto alle latitudini settentrionali) piuttosto che in estate. Questo vale anche per la malattia infettiva COVID-19, che si è diffusa velocemente in tutto il mondo, divenendo una pandemia, nei mesi invernali. Una caratteristica comune dei mesi invernali e degli abitanti di tutti i Paesi a nord del 42-esimo parallelo è una carenza di vitamina D che si verifica frequentemente durante questo periodo. Ciò solleva la questione se un apporto inadeguato di vitamina D abbia un’influenza sulla diffusione e sulla gravitàdella malattia COVID-19 [20].

In effetti, De Natale et al. [14], analizzando il periodo che va 1° marzo-1° ottobre 2020, hanno osservato per l’Italia: (a) per quanto riguarda la diffusione, una anticorrelazione fra il numero di infezioni giornaliere da COVID-19 e l’intensità della radiazione ultravioletta (indice UV) al suolo; (b) per quanto riguarda la gravità, una progressiva decrescita, con un minimo ad agosto, sia del rapporto “Ricoverati in Terapia Intensiva/Casi Attivi” sia di quello “Numero di Morti/Casi Attivi”, usati dagli Autori come indicatori della gravità della malattia. Mentre il calo della diffusione può essere spiegato dal lockdown attuato, quello della gravità può essere ben spiegato con la crescente radiazione UV, e la conseguente maggiore produzione di vitamina D, spiegazione suggerita anche da uno studio ecologico sui fattori ambientali di Isaia et al. [32].

L’effetto di mitigazione dell’epidemia di COVID-19 da parte dei raggi UV-B sembrerebbe trasparire anche analizzando solo l’andamento del numero delle infezioni, sebbene la relazione osservata fra le due variabili possa essere dovuta – in misura difficile da stimare –  anche a fattori estranei (come ad esempio gli effetti del lockdown), per cui non può di per sé evidenziare un nesso causale. Si noti, comunque, la netta anticorrelazione fra il numero di infezioni giornaliere e l’intensità della radiazione solare ultravioletta (registrata da due stazioni meteo, una a Roma e una ad Aosta), che raggiunge un massimo nei mesi estivi, ed è stata elevata da marzo a ottobre 2020. (fonte: De Natale et al., 2020 [14])

Anche l’inquinamento atmosferico gioca un ruolo nell’abbassare i livelli di vitamina D nel sangue, poiché riduce l’esposizione alla luce solare. Ad esempio, il livello di polveri sottili (PM2.5) e di biossido di azoto (utilizzato come tracciante dell’inquinamento atmosferico nelle rilevazioni via satellite) sono elevati nei mesi che vanno da ottobre a marzo, in particolare nella Pianura Padana, che d’inverno risulta essere una delle tre zone più inquinate del mondo, insieme all’area intorno a Pechino ed a quella intorno a New York. Inoltre, anche la nebbia tipica della Val Padana riduce i raggi UV-B, e quindi i livelli di vitamina D.

Come osservato da Hamad et al. [9], i Paesi africani hanno il privilegio del sole nella maggior parte delle stagioni dell’anno, e ciò aiuta a sintetizzare la vitamina D3, il che potrebbe spiegare il basso numero di casi di COVID-19 rispetto a quelli dei paesi europei: fino alla data del 22 agosto 2020, la regione europea ha riferito 3.633.633 casi confermati e 208.959 morti (rapporto 17:1), mentre in Africa i casi confermati sono stati 1.246.185 ed i morti 29.586 (rapporto 42:1). Sebbene i lockdown siano stati implementati sia dai paesi europei che africani, in questi ultimi il rapporto morti/positivi è 2,5 volte più basso.

Il fatto che l’’infezione da COVID-19 sia più diffusa in Europa rispetto all’Africa, molto probabilmente, può  essere attribuito in gran parte alla differenza di immunità, osservano ancora gli autori del citato articolo: gli studi condotti in Africa, in generale, hanno mostrato livelli adeguati o addirittura un’elevata concentrazione media di vitamina D nel sangue, mentre in Europa essa è risultata non ottimale, soprattutto nell’Europa meridionale (Spagna e Italia). E ricordiamo il ruolo della vitamina D nel sopprimere la risposta immunitaria e nel diminuire la tempesta di citochine che rende i casi di COVID-19 gravi e spesso letali [9].

L’assenza di correlazione fra livello di vitamina D e numero di casi di COVID-19

Come evidenziato da Nurshad Ali [6] nel suo già citato articolo di rassegna, è stata osservata una significativa correlazione negativa (p = 0,033) tra i livelli medi di vitamina D ed il numero di casi di COVID-19 per milione di abitanti nei paesi europei [6]. Tuttavia, un altro studio scientifico ha rilevato che, dopo il controllo dei fattori di confondimento, i pazienti con un livello basso di vitamina D nel sangue (<30 ng/mL) hanno una probabilità leggermente maggiore (OR = 1,45, p = <0,001) di essere infettati da COVID-19 rispetto ai pazienti con livello di vitamina D maggiore o uguale a 30 ng/mL [5].

In conclusione, nonostante livelli più elevati di vitamina D siano associati a difese immunitarie migliori e ad una prognosi favorevole in altre infezioni virali, al momento non ci sono prove sufficienti sull’associazione tra i livelli di vitamina D e il numero di casi di COVID-19. Pertanto, sono necessari studi di controllo randomizzati e studi di coorte per verificare ulteriormente questa specifica ipotesi [6], dato che, fino ad ora, nessuna relazione causale è stata testata e, d’altra parte, normalmente sangue e livelli di vitamina D non sono stati valutati nei pazienti infetti di SARS-CoV-2.

Anche secondo una rassegna sistematica e una meta-analisi effettuata da Pereira et al. [15], la carenza di vitamina D non è risultata essere associata a una maggiore probabilità di infezione da COVID-19, tuttavia l’analisi ha evidenziato che i casi gravi di COVID-19 presentano una carenza di vitamina D maggiore rispetto ai casi lievi; inoltre, un’insufficienza di concentrazione di vitamina D ha comportato un aumento dell’ospedalizzazione e della mortalità da COVID-19. Infine, gli Autori hanno osservato un’associazione positiva tra la carenza di vitamina D e la gravità della malattia.

In questo senso, essi hanno osservato che i pazienti con casi gravi di COVID-19, caratterizzati da difficoltà nelle vie respiratorie, saturazione di ossigeno a riposo <93%, o con complicanze della malattia – come la necessità di ventilazione meccanica, shock settico o insufficienza di organi non respiratori – sono anche coloro che tendono a presentare livelli di vitamina D nel sangue inadeguati. Una possibile spiegazione è che la concentrazione di vitamina D sia inversamente associata alle citochine pro-infiammatorie. Uno studio retrospettivo nel sud dell’Asia rafforza questa ipotesi, in quanto mostra livelli di vitamina D significativamente più bassi secondo la gravità della malattia [15].

Apparentemente, dunque, la vitamina D è correlata al controllo della progressione del COVID-19 nel paziente (i famosi tre stadi di cui abbiamo parlato all’inizio) e con l’evoluzione della mortalità a causa dell’infezione. Tuttavia, dovrebbero essere collegati alla carenza di vitamina D anche altri fattori osservati, come la precedente esistenza di comorbidità in questi pazienti e, soprattutto, la loro età, poiché i livelli ridotti di vitamina D nel sangue sono più prevalenti nella parte anziana della popolazione [15]. Il risultato netto è che vi è un effetto della carenza di vitamina D sulla mortalità per COVID-19.

Il ruolo dei vari fattori coinvolti nella mortalità per COVID-19. Si noti come la carenza di vitamina D giochi un ruolo assolutamente centrale e fondamentale nel determinare un’elevata mortalità per COVID-19. Pertanto, è anche il principale fattore su cui agire. (fonte: elaborazione dell’Autore – Uso libero con licenza CC)

Gli evidenti effetti della carenza di vitamina D sulla mortalità da COVID-19

Un postulato importante sulla possibile associazione fra deficit di vitamina D e la malattia COVID-19 è l’elevata mortalità registrata tra la popolazione di anziani, che in virtù di vari fattori (mobilità generalmente più ridotta rispetto alla popolazione attiva, minore frequenza di uscita, etc.) hanno maggiori probabilità di avere livelli più bassi di vitamina D nel sangue. Ad esempio, Ilie et al. (2020) hanno riferito che la popolazione anziana nei paesi con livelli più elevati di mortalità per COVID-19 – come Italia e Spagna – presenta dei livelli medi di vitamina D nel sangue significativamente inferiori [5].

E in effetti, come mostrato dalla rassegna sistematica di Samad et al. [5], “i pazienti con insufficienza di vitamina D (<25 ng/mL) sono risultati avere ben 5,84 volte più probabilità di morire di COVID-19 rispetto alle persone con livelli sufficienti di vitamina D. Anche un altro studio ha scoperto che una carenza di vitamina D è associata a un rischio di morte più elevato: le persone con carenza di vitamina D (<12 ng/mL) avevano una probabilità 2,2 volte maggiore di sviluppare COVID-19 grave dopo l’aggiustamento per età, sesso, obesità, malattie cardiache e malattie renali rispetto alla persone con vitamina D sufficiente” [5].

Interpretazione dei vari livelli di vitamina D nel sangue. (fonte: Italiano et al., 2018)

I risultati degli studi inclusi nella citata meta-analisi di Samad et al. [5] suggeriscono che “la vitamina D può servire come effetto attenuante per la gravità e la mortalità dell’infezione da COVID-19”. Gli Autori della stessa raccomandano, perciò, “la necessità di incoraggiare persone a mangiare cibi ricchi di vitamina D come pesce, carne rossa, fegato e tuorli d’uovo, ed allo stesso tempo di fornire integratori di vitamina D per le persone con COVID-19 al fine di aumentare la risposta del loro sistema immunitario, e quindi riducendo il rischio o la gravità dei disturbi immunomediati respiratori acuti e infiammatori”.

Smarandashe et al. [17] in un articolo di rassegna hanno mostrato che, considerando le latitudini, è stata trovata anche a livello globale – cioè in tutto il mondo, non solo localmente – una piccola correlazione inversa tra il livello della vitamina D nel sangue e il tasso di mortalità. Tuttavia, sebbene a causa di molteplici limitazioni questo studio non consenta di quantificare un valore della vitamina D “raccomandabile” con piena fiducia, permette almeno di capire quale potrebbe essere l’importanza della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19, e che sarebbe prudente investire in questa direzione attraverso ampi studi clinici randomizzati [17].

Pugach et al. [18] hanno indagato, in particolare, la situazione in 10 Paesi d’Europa, trovando una forte correlazione (con r = 0,76, p = 0,01) tra il tasso di mortalità per milione da COVID-19 e la prevalenza di una grave carenza di vitamina D. La correlazione è rimasta significativa, anche dopo l’adeguamento all’età struttura della popolazione. Inoltre, nel tempo, la correlazione si è rafforzata e il coefficiente r è aumentato in maniera asintotica (v. figura). Gli Autori suggeriscono che ciò dovrebbe spingere a un possibile trattamento e prevenzione del COVID-19 tramite integrazione di vitamina D.

Grafico in alto: La prevalenza di grave carenza di vitamina D vs. le morti di COVID-19 per milione in 10 diversi Paesi europei. Grafico in basso: L’andamento nel corso del tempo della correlazione fra morti per COVID-19 e carenza di vitamina D. Si noti comunque che, in entrambi i casi, il legame fra le due variabili – sebbene interessante e suggestivo – potrebbe essere dovuto almeno in parte ad altri fattori estranei, perciò di per sé non è sufficiente a provare un nesso causale. (fonte: Pugach et al., 2020 [18])

L’abbattimento della mortalità con l’integrazione ad alte dosi di vitamina D3

Un altro modo di notare il legame fra vitamina D e mortalità è nella profilassi con integrazione. In una rassegna sistematica e meta-analisi effettuata da Nikniaz et al. [19], l’analisi aggregata di quattro studi ha mostrato una diminuzione solida e statisticamente significativa del tasso di mortalità tra i pazienti con integrazione di vitamina D. Inoltre, ha rivelato che l’integrazione di vitamina D può migliorare in modo significativo: (1) la sopravvivenza dei pazienti, (2) ridurre le complicanze cliniche, (3) diminuire il tasso di ricovero in terapia intensiva e (4) abbassare i livelli sierici dei marker infiammatori.

In pratica, l’integrazione di vitamina D sembra diminuire il tasso di mortalità, la gravità della malattia ed i livelli di marcatori infiammatori tra i pazienti infetti da COVID-19, portando a una prognosi migliore e ad un aumento del tasso di sopravvivenza. Sebbene i risultati siano completamente a favore della vitamina D, riducendo essa il tasso di mortalità, non si può ancora trarre una conclusione definitiva a causa della mancanza di studi ad hoc: servono ulteriori studi per determinare il dosaggio ottimale dell’integrazione di vitamina D nella profilassi e per indagare ulteriormente i potenziali effetti terapeutici [19].

Ma qualche primo dato importante è arrivato a novembre scorso. In uno studio osservazionale incrociato condotto da Ling et al. [20], a 151 pazienti è stata somministrata una terapia booster, ovvero ad alte dosi di vitamina D3 (approssimativamente di 280.000 UI per un periodo di tempo fino 7 settimane). Questa, indipendentemente dai livelli basali di vitamina D nel sangue inizialmente presenti, è risultata essere associata a un rischio di mortalità notevolmente ridotto (del 62-87%) nei pazienti acuti ricoverati con COVID-19. Inoltre, più recentemente, Nogues et al. [33] in Spagna hanno trovato, somministrando la vitamina D3 ai pazienti di COVID-19 ammessi in ospedale, risultati molto simili: una riduzione dell’80% dei ricoveri in terapia intensiva e un calo del 60% nella mortalità. La vitamina era somministrata come segue: prima dose di 2 capsule (266 microgrammi / capsula, pari a 100.000 UI / capsula) al basale (giorno 0), una seconda dose di 1 capsula al giorno 3 e dosi successive di 1 capsula ai giorni 7, 15 e 30.

Pertanto, il trattamento con vitamina D3 sembra essere fortemente protettivo contro la mortalità per COVID-19 e mostra come l’integrazione di vitamina D3 sia necessaria per mantenere la salute immunitaria e rappresenti una potenziale opzione terapeutica per il COVID-19 [20]. L’impiego della vitamina D3 come potenziale opzione nella terapia per il COVID-19 risulta, evidentemente, una prospettiva attraente, data l’ampia disponibilità e il basso costo, nonché l’elevato profilo di sicurezza, in combinazione con un monitoraggio regolare dei livelli nel sangue.

Gli studi clinici su piccola scala stanno già iniziando a popolare la letteratura peer-reviewed. In uno studio pilota su 76 pazienti ricoverati con COVID-19 in un centro spagnolo, Entrenas Castillo et al. [21] hanno scoperto che un numero ben il 99,7% inferiore di pazienti trattati con vitamina D3 sono stati ricoverati in terapia intensiva rispetto ai controlli [20]. I pazienti trattati ricevevano per via orale 532 microgrammi (210.000 UI) il giorno del ricovero, e 266 microgrammi nei giorni 3 e 7, e poi settimanalmente fino alla dimissione o al ricovero in terapia intensiva.

Inoltre, Rastogi et al. [22] hanno recentemente completato in India un studio randomizzato controllato con placebo sulla terapia con vitamina D3 ad alte dosi (60.000 UI per 7 giorni) in 40 pazienti positivi al SARS-CoV-2 che erano asintomatici o solo lievemente sintomatici. Nei pazienti del gruppo di trattamento, alla fine del periodo di studio di 14 giorni è stata raggiunta una percentuale maggiore di negatività al SARS-CoV-2 ed i livelli di fibrinogeno (utilizzati come un biomarcatore della risposta infiammatoria) sono risultati significativamente più bassi rispetto al gruppo di controllo [20].

Perché le prove raccolte sono già convincenti e quanta vitamina D si può prendere

Come illustrato da Mercola et al. [10], “quattordici studi osservazionali provano che le concentrazioni di vitamina D nel sangue sono inversamente correlate con l’incidenza o la gravità del COVID-19. Le prove raccolte fino ad oggi soddisfano generalmente i famosi “criteri di Hill” per la causalità in un sistema biologico, vale a dire: forza dell’associazione, coerenza, temporalità, gradiente biologico, plausibilità (ad es. meccanismi) e coerenza. Dunque, la relazione causa-effetto poggia su solide basi”.

Anche se la conoscenza del ruolo della vitamina D è ancora scarsa, i dati raggruppati supportano il suo ruolo di strategia adiuvante volto a fornire una protezione rapida ed efficace contro il rischio di effetti gravi legati all’infezione da SARS-CoV-2. In questo scenario, sono stati provati diversi approcci, come dosi giornaliere di vitamina D per poco tempo o l’uso di una dose di carico iniziale seguita da alte dosi di vitamina D (booster) per un breve periodo. In ogni caso, e in tempi di pandemia, ciò consente di raggiungere concentrazioni plasmatiche all’interno di intervalli appropriati di 30-50 ng/mL o superiori [23].

Più specificamente, strategie come quella suggerita da Grant et al. [25] propongono una dose di 10.000 UI / giorno per un mese per raggiungere rapidamente l’obiettivo di 40-60 ng/mL di vitamina D, seguita da 5.000 UI / giorno per alcune altre settimane. Il livello proposto di alte dosi di vitamina D è sorprendente, trascurando i suoi possibili effetti tossici; tuttavia, a questo riguardo, alcuni studi dimostrano che una dose di 10.000 UI al giorno per 4-6 mesi non ha nessun effetto negativo: ad esempio, Amir et al. [24] non hanno verificato effetti tossici in donne canadesi con cancro al seno e metastasi ossee [23].

Come osservano Grant et al. [25], “un altro gruppo ha lavorato con 10.000 UI / giorno per 6 mesi senza causare ipercalcemia e ottenendo livelli di vitamina D dell’ordine di 79 ng/mL. la scommessa è stata più alta in altri studi con proposte per una dose iniziale di 100.000 UI per raggiungere subito concentrazioni nel sangue superiori a 20 ng/mL, o di 300.000 UI per livelli superiori a 30 ng/mL, e anche di una dose iniziale di 500.000 UI per adulti sani. In un altro studio clinico, una dose mensile di 100.000 UI non ha aumentato né il tasso di incidenza di eventi di calcoli renali né il tasso di incidenza dell’ipercalcemia”.

In un consensus pubblicato di recente, è stato suggerito che le dosi che vanno da 4.000 UI a 10.000 UI sono sicure ed efficaci per ottenere il vantaggio degli effetti della vitamina D [23]. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per confermare quale sia la migliore soglia di protezione contro il COVID-19 o per il trattamento di pazienti con infezione recente. Sulla base di scarse informazioni, confrontando una dose singola elevata rispetto alle dosi giornaliere di vitamina D, alcuni autori hanno notato che i dati mostrano risultati migliori con dosi giornaliere di vitamina D, che dunque sembrano essere preferibili [23].

La prevenzione del COVID-19 con la vitamina D ha già senso, per la cura ci serve il dosaggio  

L’assunzione preventiva giornaliera di vitamina D dovrebbe migliorare molto la salute dei pazienti in modo che possano essere in una forma migliore per affrontare il COVID-19, qualora venga contratto il relativo coronavirus, e aumentare le loro difese contro questa infezione. Inoltre, dovrebbe essere tenuto presente che il lockdown (come pure la quarantena), come strategia di protezione per il popolazione contro l’infezione, complica i meccanismi immunitari di difesa a causa di un calo significativo dei livelli sierici di vitamina D conseguenti alla ridotta esposizione al sole, specie nei mesi invernali.

Pertanto, un aumento della concentrazione di vitamina D nel sangue potrebbe ridurre drasticamente i sintomi più gravi della malattia, e ancora di più diminuire il numero di morti. L’aumento dei livelli di vitamina D può essere ottenuto o (1) per via naturale aumentando l’esposizione alla luce solare (i classici 20 minuti al giorno con almeno braccia e gambe totalmente scoperti) o (2), in maniera più controllata e quasi esclusiva nei mesi invernali, tramite integrazione con vitamina D3, preferibilmente con assunzione quotidiana (a scopo preventivo) di una dose simile a quella suggerita dall’oncologa Debora Rasio (2.000 UI).

In Italia, il Ministero della Salute dovrebbe quindi senz’altro valutare di consigliare – attraverso una campagna di sensibilizzazione trasmessa sulle principali emittenti nazionali – una maggiore esposizione al sole delle persone [31] e un’integrazione di vitamina D almeno pari [30] alle linee guida nazionali preesistenti. Idealmente, il livello di integrazione dovrebbe tener conto anche dell’età (gli anziani e i soggetti fragili necessitano in generale di un’integrazione ben maggiore), del periodo dell’anno (l’irraggiamento solare a dicembre-gennaio è meno della metà rispetto a quello a luglio, e con la scarsa esposizione fa sì che i livelli di vitamina D d’inverno siano circa 10 volte inferiori che d’estate), dei livelli di inquinamento atmosferico (elevato fra ottobre e marzo), dell’esposizione al sole e di dove essa avviene (gli edifici e le vetrate attenuano le lunghezze d’onda biologicamente significative, cioè le UV-B).

Se per la prevenzione delle carenze di vitamina D il da fare è già chiaro, per la cura del COVID-19 una volta che si avvertano sintomi c’è ancora da approfondire. Sebbene gli studi al momento disponibili suggeriscano che la vitamina D3 in alte dosi possa essere usata anche a scopo terapeutico, in quanto a tale assunzione sembra essere associata una assai rilevante diminuzione del rischio di morte, è necessario svolgere ulteriori studi per determinare quale livello di alto dosaggio sia adeguato. Studi sulla popolazione effettuati in tal senso potrebbero quindi spianare la strada, a breve, ad applicazioni cliniche su larga scala.

Ad ogni modo, “Hathcock et al. (2007) [26] affermano che il corpo può gestire senza problemi dosaggi di integrazione orale di vitamina D3 fino a 10.000 UI (ovvero 25 microgrammi) al giorno per diversi mesi, che pertanto rappresenta un sicuro “livello massimo tollerabile” basato su evidenze scientifiche, mentre soglie più basse e restrittive non sono basate su evidenze. Recentemente, dunque, un dosaggio fino a 10.000 UI è considerato di base, come quello fisiologico che si produce naturalmente attraverso l’esposizione al sole del corpo (con busto, braccia e gambe scoperte e senza crema solare) per 10-15 minuti, dalle 10:00 alle 16:00” [4]. Di conseguenza, i medici di base possono già usare o raccomandare alte dosi di integratori di vitamina D per trattare il COVID-19 alla luce della loro sicurezza e dell’ampia finestra terapeutica.

Perché si tratta di una misura auspicabile parallelamente alla vaccinazione

Le restanti alternative per contrastare la malattia COVID-19 e la relativa pandemie sono attualmente basate su: (1) l’impiego di un ampio spettro di farmaci (in particolare, antivirali e antinfiammatori, ma anche anticorpi monoclonali) che potrebbero attenuare gli effetti dell’infezione e della progressione della malattia; (2) l’isolamento sociale delle popolazioni a rischio per evitare la propagazione; (3) la vaccinazione di massa, che però con la maggior parte dei vaccini previsti ha un’efficacia limitata, lasciando quindi un larga fetta della popolazione priva dell’immunità sperata (anche di quella “di gregge”).

Tuttavia, date le pesantissime conseguenze economiche dell’isolamento sociale, la vulnerabilità della campagna vaccinale a eventuali varianti vaccino-resistenti che ne vanificherebbero gli effetti, e l’elevato costo e l’incertezza per il trattamento specifico con i farmaci (il remdevisir, ad esempio, è un antivirale molto costoso che si è rivelato alla fine un “flop”, nonostante la forte campagna di “promozione” messa in atto dal produttore americano, mentre le terapie monoclonali sono estremamente costose per il Sistema Sanitario Nazionale), è fondamentale sviluppare – e affiancare alla strategia vaccinale – delle strategie terapeutiche rapide e convenienti per proteggere la popolazione vulnerabile.

In questo momento l’età avanzata, la presenza di malattie preesistenti (comorbidità) e la carenza di vitamina D sono tre caratteristiche che risultano essere associate a una elevata mortalità per COVID-19. Di queste tre, solo la carenza di vitamina D è modificabile. Pertanto, intervenire in tal senso è fondamentale, tanto più che si tratta di una sostanza dall’elevato profilo di sicurezza e dal costo praticamente nullo: un’integrazione di 2.000 UI a giorno costa a una persona circa 2 euro al mese, per cui il costo è totalmente sostenibile dai cittadini e risulta essere del tutto irrisorio rispetto alle possibili alternative.

Due tabelle che dovrebbero far molto riflettere sia i decisori politici sia quelli sanitari, che – evidentemente – non attuando una strategia “win-win” come quella proposta, e di fatto sostenuta da ben 155 medici italiani di alto livello accademico tramite un appello promosso dall’Accademia di Medicina di Torino (vedi il documento [30] citato in bibliografia), se ne assumono in pieno la responsabilità. (fonte: elaborazione dell’Autore – Uso libero con licenza CC)

In pratica, poiché la vitamina D è venduta in Italia (senza necessità di alcuna ricetta medica) in capsule da 1.000 o 2.000 IU, ed è universalmente accettato che dosi fino a 4.000 UI al giorno sono sicure, “una raccomandazione di (minimo) 1.000 UI per giorno (25 microgrammi al giorno) per tutti gli adulti sarebbe sicura e dovrebbe essere promossa con urgenza” [27]. I casi di tossicità da vitamina D sono rari, e si riferiscono sempre a dosi estremamente elevate assunte per un periodo di tempo prolungato. In letteratura, i dati che mostrano la sicurezza per la salute di un’integrazione di vitamina D a 50 microgrammi (2000 UI) al giorno (o anche più) abbondano [28].

Ciò è assai importante soprattutto nel Nord Italia e nella Pianura Padana, dove l’inquinamento – nei mesi che vanno da ottobre a marzo compresi – contribuisce ulteriormente ad abbassare i livelli di vitamina D, già bassi naturalmente per la ridotta irradiazione solare invernale di raggi UV-B. E la riduzione delle carenze di vitamina D tramite integrazione orale con la D3 è tanto più importante nei soggetti over 70 (che nel nostro Paese rappresentano circa l’85% di quelli che muoiono per COVID-19), nei diabetici, negli obesi e nelle persone fragili o in cui la carenza di vitamina D è più prevalente. Tant’è che, in Inghilterra, il Governo ha già avviato la distribuzione di vitamina D agli anziani. Ma in Italia non si può pensare di puntare a tale obiettivo se, come purtroppo è finora accaduto, la popolazione non viene neppure informata sul tema!

Anzi, il Ministero della Salute si spinge addirittura oltre, facendo di fatto – a mio modesto parere – una disinformazione sull’argomento, come si può leggere (al 14/2/21) sul portale istituzionale sotto la voce “Fake News” [29]: “Non ci sono attualmente evidenze scientifiche che la vitamina D giochi un ruolo nella protezione dall’infezione da nuovo coronavirus. La Circolare del 30 novembre 2020 del ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” sottolinea che “non esistono, ad oggi, evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercitina), il cui utilizzo per questa indicazione non è, quindi, raccomandato”. Ogni commento è superfluo (per tacere del fatto che la vitamina D si chiama così, ma non è una vitamina bensì un ormone!).

Un esempio di comunicazione istituzionale molto discutibile (per usare un gentile eufemismo). Certamente la vitamina D non impedisce affatto l’infezione, come abbiamo visto nel presente articolo, ma altrettanto certamente risulta essere tutt’altro che inutile a scopo preventivo, come ampiamente documentato dalla bibliografia oggi disponibile, per cui – non ponendo oltretutto rischi ma solo benefici, per cui non c’è niente da perdere ma potenzialmente tanto da guadagnare – oggi non appare più sostenibile il NON raccomandarne l’uso, soprattutto alla popolazione (anziana e non) che ne è carente!

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Desidero ringraziare il prof. Giancarlo Isaia (endocrinologo e internista, docente di Geriatria e Malattie metaboliche dell’osso all’Università di Torino) per la revisione critica del manoscritto, nonché per aver portato il tema qui trattato all’attenzione del Ministero della Salute, del CTS, dell’ISS e dell’AIFA. Naturalmente, la responsabilità di eventuali errori o inesattezze residui è esclusivamente dell’Autore. Vorrei esprimere la mia gratitudine anche al mio amico C. Puosi, medico con 2 specializzazioni e oltre 25 anni di esperienza, per le utili discussioni sull’argomento avute in questi mesi di pandemia. Infine, vorrei dedicare questo articolo alla memoria del recentemente scomparso Pietro Greco, decano dei giornalisti scientifici italiani, che è stato mio maestro e tutor al Master in Comunicazione della Scienza, quasi 25 anni fa.

Riferimenti bibliografici

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[21] Entrenas Castillo M. et al., “Effect of calcifediol treatment and best available therapy versus best available therapy on intensive care unit admission and mortality among patients hospitalized for COVID-19: A pilot randomized clinical study”, J. Steroid Biochem. Mol. Biol., Ottobre 2020.

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[26] Hathcock J.N. et al., “Risk assessment for vitamin D”, American Journal of Clinical Nutrition, 2007.

[27] Hopkin J., “Preventing vitamin D deficiency during the COVID-19 pandemic: UK definitions of vitamin D sufficiency and recommended supplement dose are set too low”, Clinical Medicine, 21 gennaio 2021.

[28] McCartney D. et al., “Optimisation of Vitamin D Status for Enhanced Immuno-protection Against Covid-19”, Irish Medical Journal, Aprile 2020.

[29] Ministero della Salute, “La vitamina D protegge dall’infezione da coronavirus?”, in Fake News.

[30] Isaia G., D’Avolio A., e (al 14/2/21) altri 153 medici italiani, promosso dall’Accademia di Medicina di Torino, “Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze”, versione del 3/12/20,

[31] Isaia G., Medico E., “Associations between hypovitaminosis D and COVID-19: a narrative review”, Aging Clin. Exp. Res., Settembre 2020.

[32] Isaia G., Diémoz H., Maluta F. et al., “Does solar ultraviolet radiation play a role in COVID-19 infection and deaths? An environmental ecological study in Italy”, Science of the Total Environment, 25 febbraio 2021.

[33] Nogues X. et al., “Calcifediol treatment and COVID-19-related outcomes”, Preprint with The Lancet.