“Errore imporre i vaccini ai giovani” – Intervista a Mario Menichella

La Verità (nella persona di Daniele Capezzone, ndr) ha conversato con Mario Menichella, fisico e divulgatore impegnato con la Fondazione David Hume, guidata da Luca Ricolfi.

Partiamo dal tema più delicato e spinoso, e cioè la vaccinazione dei ragazzi e poi quella dei bambini. Lei è stato il primo in Italia a individuare un “punto di break even”: sopra i 25-30 anni vaccinarsi è certamente vantaggioso (i rischi legati al vaccino sono senz’altro inferiori ai rischi delle conseguenze del Covid). Sotto quel limite di età, invece, le cose si invertono. Vuole spiegarci meglio?
Il rischio di morte per Covid si abbassa – e davvero di molto – al diminuire dell’età dei contagiati. Purtroppo, come abbiamo imparato nel caso delle trombosi legate ai vaccini, non altrettanto si può dire del rischio di morte per gli effetti collaterali. Pertanto, a un certo punto i due rischi si equivalgono, e ciò avviene grosso modo intorno ai 25-30 anni di età, come mostrato in un’analisi che ho reso pubblica a marzo e come in seguito ammesso ufficialmente anche dall’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali.

Tra l’altro, un conto era la situazione 8-9 mesi fa: l’ipotetica positività di un ragazzo poteva davvero portare il virus in famiglia, con conseguenze pesanti per gli anziani di casa. Ma ora genitori e nonni sono vaccinati. Quindi perché far correre un rischio ai più giovani?
Sì, a livello individuale un giovane ha più da perdere che da guadagnare nel vaccinarsi. A livello di società, invece, l’apparente beneficio sarebbe di non far circolare il coronavirus. Tuttavia, se si analizza la questione dal punto di vista quantitativo, come ho fatto in un’altra analisi più recente pubblicata anch’essa nel sito della Fondazione Hume, si scopre che, perfino se si vaccinasse il 100% dei giovani, il virus potrebbe in teoria ancora tranquillamente circolare, poiché i dati provenienti dal Regno Unito indicano che una buona percentuale dei vaccinati non impediscono la trasmissione del virus se contagiati. Il piccolo contributo alla riduzione dell’Rt fornito dalla vaccinazione dei giovani potrebbe essere quindi ottenuto in altro modo, senza mettere necessariamente a rischio giovani vite.

In generale, non le pare che con i ragazzi si sia esagerato? Tra open day, notti bianche del vaccino, per non dire dell’associazione di idee tra vaccino e vacanza, non le pare che si sia spinto troppo verso di loro?
Sì, non solo non è stata fatta per loro un’analisi rischio-beneficio come ci si aspetterebbe prima di prendere decisioni così importanti, ma più in generale non si è voluto prendere realmente atto del fatto che il problema Covid riguarda – come del resto avviene anche per l’influenza – principalmente gli over 60. Aver voluto coinvolgere i giovani può essere parso politicamente corretto, ma dal punto di vista matematico, ad esempio del minimizzare l’impatto sul tessuto economico e sociale, mi suscita più di qualche dubbio. Perciò, mi pare davvero curioso che nel CTS non vi sia un matematico o almeno uno statistico, nonostante l’importanza degli aspetti quantitativi e dell’ottimizzazione nelle decisioni da prendere.

Vogliamo ribadire un punto che mi pare troppo sottovalutato? Per forza di cose, cioè vista la miracolosa rapidità con cui i vaccini sono stati realizzati, stiamo parlando di vaccini necessariamente in fase sperimentale. Voglio dire che non ne conosciamo gli effetti nel medio e lungo termine. È giusto?
Esattamente. Senza creare inutili allarmismi, è così. E il fatto che un tale modo di procedere normalmente non sarebbe accettabile è il motivo per cui si è derogato alle normali procedure di sperimentazione – che di solito durano molti anni – con l’autorizzazione all’uso di emergenza. Vorrei evidenziare che si sta anche creando un pericolosissimo precedente per altre tecnologie, come ad esempio il 5G, che secondo esperti indipendenti assai qualificati, se fosse un farmaco, non supererebbe neppure la sperimentazione preclinica.

È vero o è falso che alcune delle tecnologie usate non erano mai state utilizzate prima nella vaccinazione umana?
Vero. È ben noto che i vaccini a mRNA non sono mai stati usati prima sull’uomo, per cui questa inattesa occasione di sperimentarli senza troppi “lacci e lacciuoli” ha rappresentato una grossa opportunità per l’industria farmaceutica, che ora evidentemente ha forte interesse a testarli anche su ragazzi e bambini.

A questo punto, la interrogo su due conseguenze. La prima: non dovremmo essere specialmente prudenti verso i ragazzi ed i bambini? La seconda: davanti a farmaci sperimentali, parlare di eventuale obbligatorietà del vaccino sarebbe una ipotesi gravissima, irricevibile, inaccettabile. È così?
Sì, dovremmo essere prudenti con i ragazzi e tanto più con i bambini, perché sul Covid sappiamo tantissimo, ma mi sembra assai poco sugli effetti dei vaccini attuali, al di là di poche scarne statistiche: che io sappia – ma sarei molto felice di sbagliarmi – nessun soggetto terzo rispetto alle case farmaceutiche ha testato un campione di vaccinandi con semplici esami del sangue e monitoraggio dei parametri vitali per vedere l’azione dei vaccini sul livello di coagulazione sanguigna, sulla frequenza cardiaca, etc., nonostante non fosse difficile o costoso farlo. Insomma, ci si è fidati a occhi chiusi dell'”oste” e del suo vino. L’obbligo a sottoporsi a un vaccino di fatto sperimentale mi pare quanto meno eticamente sbagliato, soprattutto per i giovani, tanto più che si è costretti a firmare una manleva dalle responsabilità su eventuali effetti collaterali.

Lei ha detto che l’immunità di gregge è una chimera, perché anche i vaccini attuali, pur per molti versi efficaci, sono “leaky”. Vuole spiegarci meglio?
Come mostrano i dati contenuti nei rapporti periodici di Public Health England, gli attuali vaccini anti-Covid prevengono molto bene la malattia grave ma in una buona percentuale di vaccinati non prevengono l’infezione e, in molti di questi, neppure la trasmissione a terzi della stessa, perciò si dicono “leaky”. L’immunità di gregge è un concetto nato per i vaccini cosiddetti sterilizzanti, cioè che impediscono a un agente patogeno di replicarsi nelle cellule e quindi di trasmettere l’infezione ad altri, come quello per il morbillo, la poliomelite, etc. Se si vuole estendere il concetto di immunità di gregge ai vaccini leaky anti-Covid, come ho mostrato quantitativamente in due modi diversi nella mia analisi pubblicata dalla Fondazione Hume, si scopre che troppi vaccinati contribuirebbero alla circolazione del virus, per cui l’immunità di gregge con i vaccini attuali non sembra essere raggiungibile.

Veniamo agli anziani. Ferma restando la libertà di ciascuno di vaccinarsi o no, mi pare che il punto sia qui: negli oltre 2 milioni di over 60 che ancora non si sono vaccinati. Sono loro i soggetti potenzialmente a rischio a settembre-ottobre?
Principalmente, poiché circa il 95% dei morti per Covid è costituito da over 60. Nel mio articolo, sotto ipotesi oggi del tutto ragionevoli, ho mostrato come il bacino di potenziali nuove vittime nel prossimo autunno-inverno sarà verosimilmente costituito soprattutto da anziani non vaccinati e, in misura minore, da quella piccolissima percentuale di anziani vaccinati su cui i vaccini non risultano essere efficaci.

Dunque occorrerebbe informarli e convincerli razionalmente. Condivide?
Assolutamente, e anche raggiungerli capillarmente, ma non mi pare che in tutte le regioni ciò sia stato fatto.

Non dobbiamo trascurare un’altra carta importantissima: le cure domiciliari. Nello scenario che lei ha descritto può essere uno strumento decisivo in autunno.
Per gli anziani non vaccinati avere un protocollo di cura serio e ufficiale sarà fondamentale. Quello proposto dal gruppo del prof. Remuzzi è assai efficace nel ridurre la mortalità. Lo dimostra il loro studio pubblicato a giugno su una prestigiosa rivista peer-reviewed. Ora Aifa e Cts, a mio parere, non hanno più “scuse” per non adottarlo, anche perché in caso di ulteriore inerzia in tal senso qualche magistrato potrebbe magari trovare i presupposti per aprire un caso giudiziario, come già accaduto per il piano pandemico non aggiornato.

La Fondazione Hume e Luca Ricolfi hanno suggerito altri due interventi di buon senso: attivarsi da ora per un notevole potenziamento dei trasporti in vista della ripresa scolastica, e spendere un po’ di soldi (ne basterebbero forse meno dei 300 milioni spesi per i banchi a rotelle) per mettere in tutte le aule impianti di purificazione dell’aria. Conferma?
Sì. Il ricambio d’aria è un approccio interessante e non solo a scuola, non a caso la questione sarà affrontata in dettaglio proprio nella mia prossima analisi quantitativa, che uscirà a settembre. Suggerirei poi una misura a costo zero: eseguire controlli e test a campione sulle mascherine in commercio, anche online, ritirando quelle – temo ancora numerose – che non garantiscono quasi alcuna protezione a chi le indossa.

 Se facciamo tutto questo, possiamo ragionevolmente sperare di trattare le varianti più o meno come le malattie respiratorie stagionali, insomma come delle influenze? Ogni anno ci sono vittime, lo sappiamo bene. Ma nessuno ha mai proposto un lockdown contro l’influenza…
Sì, la matematica ci suggerisce che, ampliando l’arsenale delle armi per ridurre l’Rt e vaccinando più anziani possibile, arriveremo prima a una convivenza pacifica con questo coronavirus. I vaccini ed i farmaci di nuova generazione, probabilmente, faranno il resto.

Intervista rilasciata a Daniele Capezzone e pubblicata su “La Verità” del 12 luglio 2021
(riprodotta per gentile concessione di D. Capezzone / La Verità)




Quale potrebbe essere l’impatto del COVID-19 in Italia nel prossimo autunno-inverno?

Credo che oggi molti italiani (persone comuni e anche medici) si stiano chiedendo, soprattutto per le notizie che arrivano dal Regno Unito: dobbiamo preoccuparci della variante “Indiana”? E cosa succederà il prossimo autunno / inverno? Ci saranno ancora dei morti? E, se sì, quanti? Probabilmente, anche molti medici non saprebbero rispondere a questa domanda, perché all’apparenza il problema presenta troppe incognite: non sappiamo quante persone si vaccineranno, quali varianti emergeranno eventualmente nel frattempo, quanti dei vaccinati possono trasmettere il virus, etc. etc.  In realtà, però, se ipotizziamo che le varianti peggiori in autunno restino quelle attuali, dunque salvo sorprese inattese quale l’emergere di una o più varianti che bypassino “bellamente” i vaccini – una possibilità che, come ho illustrato in un mio articolo pubblicato il 10 marzo [1], è contemplata dalla storia di altri vaccini “leaky” (cioè che prevengono la malattia senza prevenire l’infezione), quali sono quelli anti-COVID che stiamo oggi utilizzando – allora si possono fare delle considerazioni piuttosto interessanti con i dati che già abbiamo a disposizione.

L’efficacia dei vaccini nel Regno Unito come sta emergendo dalla letteratura scientifica

In particolare, a questo scopo risulta molto utile una pubblicazione periodica inglese a cura di Public Health England (PHE), un’agenzia esecutiva del Dipartimento di Health and Social Care dell’Inghilterra. Questo organismo – che incorpora ben 5.500 fra scienziati, ricercatori e professionisti della salute, e fornisce al Governo ed al Parlamento inglese expertise scientifica basata su prove – pubblica ogni settimana un rapporto riguardante i vaccini: il “COVID-19 Vaccine Surveillance Report”.

Nell’ultimo rapporto di questa serie (Week 25, [2]), pubblicato il 24 giugno, si legge, in relazione all’efficacia dei vaccini anti-COVID impiegati contro lo sviluppo della malattia sintomatica: “L’efficacia del vaccino contro il COVID-19 sintomatico è stata valutata in Inghilterra sulla base di dati di test collegati ai dati di vaccinazione. Le prove attuali provengono principalmente da adulti più anziani, che erano tra i primi gruppi vaccinati. Le stime sull’efficacia del vaccino vanno dal 55 al 70% dopo 1 dose, con poca evidenza di variazione per vaccino o gruppo di età [3, 4, 5]. I dati su 2 dosi indicano un’efficacia di circa il 65-90% [3, 6].

Tabella 1. Il riassunto delle evidenze sull’efficacia dei due vaccini anti-COVID utilizzati nel Regno Unito (Pfizer e Astrazeneca) nei confronti di diversi esiti di interesse: malattia sintomatica, ospedalizzazione, mortalità, infezione, trasmissione. (fonte: COVID-19 Vaccine Surveillance Report – Week 25)

Per quanto riguarda invece la mortalità, recita: “Stanno emergendo dati che suggeriscono alti livelli di protezione contro la mortalità. I dati sulla vaccinazione e i dati sulla mortalità indicano che entrambi i vaccini Pfizer-BioNTech e Oxford-AstraZeneca sono efficaci intorno al 75-80% nel prevenire la morte con COVID-19 dopo una singola dose [3, 7]. I dati su 2 dosi sono attualmente disponibili solo per il vaccino Pfizer-BioNTech e ne indicano l’efficacia contro la morte con COVID-19 di circa il 95-99% [7]”.

Si è osservata anche un’alta efficacia contro il ricovero in ospedale (ospedalizzazioni): “Diversi studi hanno stimato l’efficacia contro l’ospedalizzazione negli anziani, che indicano tutti livelli più elevati di protezione contro l’ospedalizzazione dopo una singola dose rispetto a quelli osservati contro la malattia sintomatica, circa dal 75 all’85% dopo 1 dose del vaccino Pfizer-BioNTech o Oxford-AstraZeneca [3, 8, 9, 10]. I dati su 2 dosi sono attualmente disponibili solo per il vaccino Pfizer-BioNTech e indicano un’efficacia contro l’ospedalizzazione di circa il 90-95% [10]”.

Per quanto riguarda invece l’efficacia nel ridurre l’infezione, il rapporto recita: “Sebbene gli individui possano non sviluppare sintomi di COVID-19 dopo la vaccinazione, è possibile che possano essere ancora infettati dal virus e possano trasmettersi ad altri. Gli studi hanno ora riportato l’efficacia contro l’infezione negli operatori sanitari, nei residenti nelle case di cura e nella popolazione generale. Con Pfizer-BioNTech, le stime di efficacia contro l’infezione variano da circa il 55 al 70%, con il vaccino Oxford-AstraZeneca variano dal 60 al 70% circa [5, 11, 12, 13]. Le stime per 2 dosi sono attualmente disponibili solo per il vaccino Pfizer-BioNTech e indicano un’efficacia contro l’infezione dal 70 a 90% [5, 11]”.

Per quanto concerne l’efficacia nel ridurre la trasmissione virale, lo stesso report ci dice: “Gli individui non infetti non possono trasmettere; quindi, i vaccini sono efficaci anche nel prevenire la trasmissione”. Ciò è ovvio, peccato però che molti di quelli vaccinati infetti possono invece trasmetterla (vedi Tabella 1). E continua: “I dati dalla Scozia hanno dimostrato che i contatti familiari degli operatori sanitari vaccinati hanno un rischio ridotto di diventare un caso, in linea con gli studi sull’infezione [14]. [..] Uno studio sulla trasmissione domestica in Inghilterra ha scoperto che i contatti familiari di casi vaccinati con una singola dose avevano circa il 35-50% di riduzione del rischio di diventare un caso confermato di COVID-19. Questo studio utilizzava i dati dei test di routine, quindi includeva solo i contatti familiari che avevano sviluppato sintomi e hanno richiesto un test. Non si possono escludere casi secondari asintomatici o lievemente sintomatici che hanno scelto di non richiedere un test per il COVID-19 [15]”.

Si noti che nel Regno Unito la maggior parte dei dati disponibili si riferiscono a un periodo in cui il principale virus circolante era la variante B.1.1.7 (chiamata anche Alfa o variante Inglese). Di seguito vengono riassunti anche i dati emergenti sull’efficacia contro la malattia sintomatica con la variante B.1.617.2 (chiamata anche Delta o variante Indiana). Dopo una singola dose si è verificata una riduzione assoluta del 14% dell’efficacia del vaccino contro la malattia sintomatica con la variante Delta rispetto alla Alfa, ma solo una modesta riduzione (pari al 10%) dell’efficacia del vaccino dopo 2 dosi (v. Tabelle 2 e 3).

Tabelle 2 e 3. Efficacia dei vaccini contro la malattia asintomatica e le ospedalizzazioni per le varianti Alfa (Inglese) e Delta (Indiana). Quest’ultima risulta essere leggermente più resistente ai vaccini. (fonte: COVID-19 Vaccine Surveillance Report – Week 25)

L’efficacia del vaccino Pfizer in Israele ed in Scozia secondo gli studi pubblicati su Lancet

In Israele, il Ministero della Salute ha lanciato per primo nel mondo una campagna di vaccinazione di massa per immunizzare i 6,5 milioni di residenti dai 16 anni in su con un unico tipo di vaccino: Pfizer. Perciò Israele rappresenta, meglio ancora del Regno Unito, uno straordinario banco di prova per capire l’efficacia sul campo (quelle che in gergo si chiama in realtà “efficienza”) di questo vaccino.

Uno studio pubblicato a maggio sulla prestigiosa rivista The Lancet [16] ha stimato l’efficacia reale di due dosi di Pfizer contro una serie di esiti del SARS-CoV-2 (infezione asintomatica, infezione sintomatica e ospedalizzazione correlata a COVID-19, ospedalizzazione grave o critica e morte), per valutare l’impatto a livello nazionale sulla salute pubblica a seguito della diffusa introduzione del vaccino. L’efficacia del vaccino contro tali esiti è stata calcolata sulla base dei tassi di incidenza in individui completamente vaccinati (definiti come quelli per i quali erano passati almeno 7 giorni dalla seconda dose di vaccino) rispetto ai tassi di individui non vaccinati (che non avevano ricevuto qualsiasi dose del vaccino),

Le stime dell’efficacia del vaccino a 7 giorni o più dopo la seconda dose sono risultate essere: 95,3% contro l’infezione da SARS-CoV-2; 91,5% contro l’infezione asintomatica, 97,0% contro l’infezione sintomatica; 97,2% contro il ricovero in ospedale correlato a COVID-19; 97,5% contro il ricovero grave o critico correlato a COVID-19 e 96,7% contro la morte correlata al COVID-19. L’incidenza degli esiti da SARS-CoV-2 è diminuita in tutte le fasce di età con la copertura vaccinale. Gli 8.472 campioni testati hanno mostrato una prevalenza stimata della variante B.1.1.7 (Inglese) del 94,5% tra le infezioni da SARS-CoV-2.

Tabella 4. L’efficacia di 2 dosi del vaccino Pfizer (dopo almeno 7 giorni dalla somministrazione) nei diversi gruppi di età della popolazione israeliana. Si noti come le stime di efficacia rispetto a tutti gli esiti del COVID-19 siano superiori al 96% tra le persone di età pari o superiore a 75 anni per gli esiti più seri (dall’infezione sintomatica alla morte). (fonte: Haas et al. [16])

L’efficacia “sul campo” di un vaccino, come detto, viene stimata confrontando i tassi di malattia negli individui vaccinati con i tassi negli individui non vaccinati. Il tasso di incidenza delle infezioni da SARS-CoV-2 tra gli adulti di età pari o superiore a 16 anni è risultato essere di 91,5 per 100.000 giorni-persona nel gruppo non vaccinato e di 3,1 per 100.000 giorni-persona nel gruppo dei soggetti completamente vaccinati, con un’efficacia stimata del vaccino (aggiustata per fascia di età, sesso e settimana di calendario) contro l’infezione da SARS-CoV-2 che è risultata pertanto essere del 95,3%, come ho già anticipato in precedenza.

Si noti come l’efficacia del vaccino Pfizer contro la mortalità riscontrata sulla popolazione israeliana sia analoga (circa 97%) a quella riscontrata sulla popolazione del Regno Unito. Vi sono invece delle piccole differenze per quanto riguarda gli altri esiti, nei confronti dei quali in Israele si è riscontrata un’efficacia leggermente maggiore. Ciò potrebbe essere forse spiegato con la crescente diffusione, in Gran Bretagna, della variante Delta o Indiana, che oggi è responsabile di oltre il 98% di tutti i nuovi casi di COVID (e in Italia di almeno il 17% dei casi, secondo l’ultima stima ufficiale dell’ISS). Ad essa risulta essere associato un rischio di ospedalizzazione maggiore (nonché un rischio di infezione fra le mura domestiche del 64% maggiore e outdoor del 40% maggiore) rispetto alla variante Alfa o Inglese [2].

Da quando è apparso il SARS-CoV-2 nella popolazione umana, e cioè a Wuhan (Cina) nel corso del 2019, vi sono stati alcuni grossi aumenti nella trasmissibilità dello stesso. Il primo è avvenuto con la variante Alfa, o Inglese (B.1.1.7), del 40-80% più trasmissibile rispetto alla variante originale del SARS-CoV-2 e caratterizzata anche da un tasso di mortalità di ben il 67% maggiore, a conferma della maggior virulenza di questa variante [17], nata probabilmente da eventi di ricombinazione in individui immunocompromessi (nei quali possono verificarsi un numero enorme di mutazioni). L’altro grosso aumento della trasmissibilità è avvenuto più di recente proprio con la comparsa della variante Indiana (B.1.617.2), che a sua volta ha un rischio di ospedalizzazione doppio  [18] ed è del 40% (ma secondo alcune stime addirittura del 100%) più trasmissibile rispetto alla variante Inglese [19], mentre il suo tasso di mortalità è ancora ignoto.

Un altro recentissimo articolo pubblicato su Lancet [18], relativo alla vaccinazione in corso in Scozia, mostra che il vaccino Oxford-Astrazeneca si è rivelato meno efficace del vaccino Pfizer-BioNTech nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2 nei contagiati dalla variante Indiana (Delta). Infatti, l’efficacia dei due vaccini nel prevenire, contro la variante Delta, l’infezione confermata da tampone molecolare (PCR) è risultata essere del 92% per Pfizer ma di “solo” il 73% per Astrazeneca. Tuttavia, data la natura osservazionale di questi dati – non trattandosi cioè di uno studio controllato randomizzato –  le stime di efficacia del vaccino vanno interpretate con cautela. Se però la cosa verrà confermata, vuol dire che il Regno Unito avrà presto un po’ di problemi, avendo vaccinato circa metà degli anziani con Astrazeneca, a differenza dell’Italia, che almeno inizialmente ha vaccinato gli anziani con i vaccini migliori, cioè quelli a mRNA.

Verso un limite superiore per i morti da COVID-19 in Italia nel prossimo autunno-inverno

Mi è sempre piaciuto cercare di prevedere il futuro, cosa possibile entro certi limiti e con opportuni approcci e modelli, come illustrato nel mio libro Mondi Futuri [20]. Ma prevedere il numero preciso di morti da COVID-19 in Italia che possiamo aspettarci nel prossimo autunno-inverno è, in generale, impossibile, per cui non avrebbe neppure senso provarci. Tuttavia, quello che invece si può fare è stimare almeno un limite superiore per il numero di possibili morti da COVID, ovvero un valore oltre il quale è difficile che si vada se la protezione fornita dai vaccini nel frattempo somministrati durerà per tutto l’inverno (cosa abbastanza verosimile secondo i dati forniti dalla letteratura scientifica e che illustrerò più avanti).

Infatti, se non ci saranno “sorprese” eclatanti – ovvero la comparsa di uno o più ceppi “mutanti di fuga” che rendano di fatto inutili uno o più dei vaccini attuali – in uno scenario “business as usual” (naturalmente nei limiti di quanto la situazione attuale si possa considerare usuale!) è possibile fare due “conti della serva” per capire quale potrebbe essere il numero massimo di morti nel caso peggiore. Dove, appunto, il caso peggiore non è per davvero quello peggiore in assoluto, bensì il peggiore fra quelli più realistici. Il punto chiave, difatti, è che vi sono già degli elementi per impostare matematicamente il problema.

La questione è molto semplice. Nel caso peggiore realistico, la variante Indiana si potrebbe diffondere anche in Italia e circolare – con una velocità impossibile oggi da stimare – grazie al fatto che non tutta la popolazione è vaccinata e che una percentuale per nulla trascurabile della popolazione vaccinata è in grado di trasmettere il SARS-CoV-2 (generando casi secondari) se si infetta. Quindi, si tratta semplicemente di stimare innanzitutto il numero massimo di morti possibili fra i non vaccinati e poi il numero massimo di morti possibili, invece, fra le persone vaccinate (giacché anche loro, come abbiano appena visto, possono morire, sebbene con probabilità circa 10 volte più bassa). Il totale di questi due contributi ci darà, evidentemente, il limite superiore cercato, salvo piccole correzioni di cui parlerò più avanti.

Naturalmente, dato che la campagna vaccinale italiana è ancora in corso e tutt’altro che conclusa (nel senso che non si è ancora vicini a un plateau nel numero cumulativo di vaccinati con due dosi), un calcolo che utilizzi il numero di vaccinati attuali porterebbe a uno scenario irrealistico, tuttavia come vedremo anch’esso risulta assai utile per capire meglio in che direzione spingere la campagna vaccinale. Pertanto, calcolerò poi un secondo scenario più realistico, basato su numeri prevedibili per la campagna vaccinale al termine dell’estate, quando chi voleva vaccinarsi avrà senz’altro avuto modo di farlo.

La percentuale di italiani vaccinati nelle varie fasce di età, come disponibile da dati pubblici pubblicati online il 25 giugno. Questi valori sono stati utilizzati in uno dei due scenari, formulato principalmente a scopo di benchmark, per la stima del limite superiore sul numero di possibili morti in Italia nel prossimo autunno-inverno, che illustrerò più avanti in questo articolo. (fonte: Lab24 – Il Sole 24 Ore)

Naturalmente, è difficile prevedere il futuro perché sono in gioco molti fattori, tra cui: nuove varianti con il potenziale per un aumento della trasmissione (nel momento in cui scrivo, preoccupano già tre sottotipi della variante Indiana, e soprattutto quella denominata Delta 2, cui si è aggiunta, negli ultimi giorni, la Delta Plus); cambiamenti nel nostro comportamento mentre la pandemia si trascina; effetti stagionali che possono aiutare a ridurre la trasmissione nei mesi estivi e, viceversa, aumentarla nei mesi autunnali ed invernali. Inoltre, la vaccinazione sta trasmettendo a molte persone un falso senso di sicurezza, e questo è spesso un “nemico”, come quando, diversi decenni or sono, l’introduzione delle cinture di sicurezza in Inghilterra portò a un aumento dei morti per incidenti stradali – anziché a una loro diminuzione – poiché la gente, sentendosi più sicura, guidava più velocemente.

Una cosa positiva che sta chiaramente emergendo anche dalla letteratura scientifica è la cosiddetta “convergenza evolutiva” della proteina spike (il bersaglio dei vaccini) verso un maggiore adattamento evolutivo (fitness), nonostante i programmi di vaccinazione globali spostino la pressione verso “mutazioni di fuga” dalle difese immunitarie. In biologia, la convergenza evolutiva è il fenomeno per cui lo stesso tratto emerge in diversi lignaggi indipendenti nel tempo, di solito quando si adattano ad ambienti simili. Infatti, un recente studio [21] mostra che, del vasto numero di mutazioni rilevate nei genomi SARS-CoV-2, solo alcune sono salite ad alte frequenze. In altre parole, le varianti del SARS-CoV-2 finora non sembrano altamente variabili: sono soggette a un insieme limitato di mutazioni, per cui non ci sarà la guerra multifronte che molti temono, con un numero infinito di nuove versioni virali [22]. La prevedibilità dell’evoluzione convergente della proteina spike può aumentare le probabilità che i vaccini “universali” di seconda generazione proteggano efficacemente la popolazione mondiale dalle varianti virali attuali e future.

Fra le varie cose, invece, che ancora non sono affatto chiare – e che dunque rendono impossibile fare previsioni precise – è se questo autunno-inverno vi sarà o meno la somministrazione di “terze dosi” di vaccini alla popolazione più anziana, magari come scusa per liberarsi di assai probabili rimanenze. Di certo, da una parte le lobby delle Big Pharma hanno interesse a promuovere nuovi vaccini “aggiornati” contro le più recenti varianti (un po’ come i produttori di software fanno con i loro sistemi operativi o con gli antivirus), tanto che si sono già inventati perfino il vaccino unico per COVID e influenza [23]; dall’altra, alcuni esperti mettono in guardia dall’improvvisazione vaccinale ormai dilagante che ha portato prima al “pasticciaccio brutto” della vaccinazione eterologa Astrazeneca-Pfizer per gli under 60 e ora al caso, purtroppo passato in sordina, sollevato dallo stimabile prof. Roberto Cauda, il quale rileva come “chi si è vaccinato con vaccini a mRNA (come Pfizer o Moderna) dovrebbe usare un vaccino diverso, come quelli proteici (ad es. Novavax, ndr) poiché gli effetti avversi potrebbero aumentare a ogni richiamo” [24].

Il fatto che la variante Indiana non sia ancora molto diffusa in Italia non deve trarre in inganno, poiché altrove si è diffusa assai velocemente (fra l’altro in India sta già diffondendosi la variante “Delta Plus”, che è ancora più veloce nel trasmettersi e che potrebbe causare anche una malattia più grave). Alcuni si sono domandati perché da noi la variante Indiana fosse poco diffusa rispetto al Regno Unito. In un ottimo pezzo pubblicato di recente sul Messaggero [25], Luca Ricolfi ha sottolineato una delle possibili ragioni: la scelta del Regno Unito di allungare il tempo fra una dose e l’altra, sommata al fatto che una sola dose di vaccino è assai meno efficace contro la trasmissione virale. Mi permetterei, però, di aggiungere una ragione più semplice e ovvia: nel Regno Unito vi sono circa 1,5 milioni di residenti di etnia indiana (prima di guadagnare l’indipendenza nel 1947, l’India era infatti una colonia britannica), mentre in Italia, al 31 dicembre 2017, i cittadini indiani erano appena 151.800, cioè 10 volte di meno.

Il modello di calcolo impiegato: il semplice simulatore “MorSup”

In pratica, ho realizzato una tabella Excel in cui, come al solito, le caselle di colore verde sono quelle con i dati forniti in ingresso, quelle di colore rosso sono frutto di calcoli e quelle azzurre sono dati in ingresso che si possono considerare fissi. Nella tabella ho considerato solo le classi di età più anziane (maggiori o uguali a 50 anni), poiché sappiamo che il 95% dei morti sono over 60, mentre quasi il 98% dei morti sono over 50; pertanto, il contributo ai possibili morti per COVID-19 (passati, presenti e futuri) da parte delle classi di età non considerate è, evidentemente, del tutto trascurabile. Guardiamo ora la parte alta della Tabella 5.

Tabella 5. La tabella del simulatore “MorSup” sviluppato dall’Autore per stimare il limite superiore dei morti che ci si potrebbe attendere, per il prossimo autunno-inverno, in uno scenario “business as usual”, ovvero con le percentuali attuali di vaccinati. La parte superiore e quella inferiore della tabella si devono intendere come poste su un’unica riga, sono state raffigurate su due solo per esigenze di maggiore leggibilità.

Per ciascuna classe di età, è riportata nella seconda colonna la popolazione italiana secondo i più recenti dati Istat disponibili. Nella terza colonna, invece, ho riportato la letalità reale del virus per i non vaccinati. Ricordo al lettore che la letalità apparente è quella ottenuta dai dati epidemiologici dividendo il numero di morti per COVID-19 per il numero di contagiati sintomatici ufficiali, mentre la letalità reale è un numero alquanto più basso perché tiene conto della presenza rilevante di soggetti asintomatici. Ho spiegato in un mio articolo del 4 febbraio [26] come si ricavano i valori di letalità reale che ho riportato nella tabella.

Nella quarta colonna della tabella, ho riportato la percentuale di vaccinati con una dose, come fornita dai dati ufficiali riportati da Lab24 Il Sole 24 Ore [27]. L’idea implicita dietro questa scelta è che queste persone, prima o poi, si vaccineranno con la seconda dose (come visto in precedenza, l’efficacia di un vaccino è ben diversa con 1 o 2 dosi). La quinta colonna, invece, mostra il numero massimo di morti attesi fra i non vaccinati, calcolato sottraendo alla popolazione italiana di una determinata fascia di età il numero di vaccinati in quella stessa fascia di età e moltiplicando il valore così ottenuto per la letalità reale.

La parte inferiore della Tabella 5, invece, stima il numero massimo di morti attesi fra i vaccinati. In particolare, nella seconda colonna viene prima calcolata la popolazione vaccinata, data dal prodotto della popolazione italiana in una determinata fascia di età per la percentuale di vaccinati nella medesima fascia di età. Nella terza colonna, invece, è inserita l’efficacia dei vaccini anti-COVID contro la mortalità (per semplicità ho ipotizzato un’efficacia (“flat”, cioè uguale per tutte le fasce di età) pari al 97% di media, come risulta dagli studi scientifici mostrati prima relativi alla vaccinazione in Israele e nel Regno Unito.

I morti fra i non vaccinati sono dati, semplicemente, dai vaccinati moltiplicati per (100% – l’efficacia suddetta, cioè dei vaccini anti-COVID contro la mortalità), e sono riportati nella quarta colonna, sempre della parte inferiore della tabella. Infine, l’ultima colonna della tabella inferiore riporta il totale dei morti attesi fra i vaccinati ed i non vaccinati. Questo numero rappresenta il limite superiore cercato. Ma è interessante valutare non solo tale valore, bensì anche – come ora vedremo – il diverso contributo al totale portato dalle varie classi di età, poiché esso ci fa capire come si debba migliorare la campagna vaccinale.

Analisi dei risultati ottenuti nello scenario “attuale” e in quello atteso di “fine campagna”

Nello scenario “attuale” riportato nella Tabella 5, in cui i vaccinati italiani attuali con 1 dose sono stati immaginati vaccinarsi a breve anche con la seconda dose (per cui per l’efficacia del vaccino ho adottato il valore relativo a 2 dosi), vediamo che il numero di possibili morti in autunno-inverno supera i 70.000, che vanno confrontati con i morti per COVID-19 fino a oggi (oltre 128.000 alla data del 25 giugno). Ricordiamo però che questi rappresentano solo i deceduti ufficiali per COVID, cioè quelli segnalati al sistema di Sorveglianza Nazionale Integrata COVID-19 dall’inizio dell’epidemia nel nostro Paese.

Ma, come mostrato l’anno scorso da un noto rapporto dell’Istat realizzato in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità [28], durante la prima “ondata” della pandemia – cioè quella della primavera 2020 – vi è stato a livello nazionale (ma soprattutto nel Nord Italia) un aumento significativo della mortalità rispetto ai valori degli anni precedenti. Essendo la pandemia una novità rispetto al periodo precedente, questo eccesso può essere ragionevolmente attribuito proprio alla pandemia stessa. Secondo i dati Istat si tratta, detratti da questo eccesso i morti ufficiali per COVID, di circa 12.000 morti aggiuntivi, per cui il totale dei decessi dall’inizio dell’epidemia in Italia sale a circa 140.000 morti.

Pertanto, se avessimo 70.000 morti aggiuntivi nel prossimo autunno-inverno, si tratterebbe praticamente di circa la metà dei morti avuti finora, dunque un numero davvero ragguardevole, che potrebbe portare le Autorità sanitarie italiane a scelte già viste (alcune delle quali però non più sopportabili dal tessuto socio-economico del Paese [29]) nel tentativo di impedirli. Tuttavia, per avere una stima più realistica del limite superiore di morti, anziché adottare la percentuale di vaccinati attuale occorre adottare i valori attesi alla fine della campagna vaccinale. Ho quindi ipotizzato un secondo scenario, che chiamerò “di fine campagna”, che ipotizza per le varie fasce di età le percentuali di vaccinati con 2 dosi riportate nella Tabella 6 (parte in alto, quarta colonna), che sono comunque tutte superiori all’80% (che è la percentuale di vaccinati che il generale Figliuolo si è prefisso di raggiungere entro settembre per la popolazione italiana).

Tabella 6. Il limite superiore dei morti che ci si potrebbe attendere in Italia, per il prossimo autunno-inverno, adottando le percentuali di vaccinati ipotizzabili (sebbene forse leggermente ottimistiche) alla fine della campagna vaccinale, cioè in pratica al termine dell’estate. Al solito, la parte superiore e quella inferiore della tabella si devono intendere come poste su un’unica riga. (fonte: elaborazione dell’Autore)

In questo scenario più realistico (corrispondente a una percentuale media di vaccinati complessiva, per le 5 classi di età considerate, di circa l’86%), si può vedere che il numero massimo di morti attesi è di circa 60.000, ovvero è calato solo di poco più del 20% rispetto allo scenario precedente. Inoltre, si noti come il contributo nettamente maggiore ai morti totali venga dai non vaccinati, e soprattutto fra quelli di età compresa fra 70 e 90 anni (che contribuiscono infatti per il 75% ai morti totali attesi). Potrebbe sembrare uno scenario che ha una possibilità remota di realizzarsi, tenendo conto che da noi il numero di contagi “ufficiali” è in costante calo; ma non dimentichiamo che la variante Delta o Indiana nel Regno Unito e in Portogallo sta facendo rapidamente crescere il numero di contagiati, e pertanto in un prossimo futuro potrebbe succedere – come molte persone in cuor loro temono – lo stesso nel nostro Paese.

Dunque, la situazione potenzialmente non è rosea, sebbene sia decisamente migliorata rispetto alla scenario calcolato nel mio articolo del 4 febbraio [26] praticamente “al buio” (poiché all’epoca ancora non si conosceva la reale efficienza sul campo dei vaccini anti-COVID poi usati, ma solo l’efficacia nei trial, che è una cosa abbastanza diversa): in quel caso, sotto l’ipotesi di una popolazione over 70 vaccinata per l’80% e di un’efficacia media dei vaccini del 62%, si trovava un numero di morti residue possibili pari a 212.000, che – come mostrai nel medesimo articolo – sono circa la metà dei circa 450.000 morti che verosimilmente avremmo avuto in Italia se all’inizio della pandemia si fosse lasciato circolare liberamente il virus, cioè senza attuare lockdown, usare mascherine e attuare restrizioni varie.

Inoltre, occorre considerare che ora la campagna vaccinale in Italia si sta orientando prevalentemente alla vaccinazione delle classi di età intermedie (trentenni e quarantenni) e dei giovani (under 30 fino a 12 anni, poiché la Circolare del 4 giugno del Ministero della Salute ha esteso l’indicazione di utilizzo del vaccino Pfizer a tale età [30]), le quali però contribuiscono pochissimo (o, nel caso dei giovani, sostanzialmente per nulla, rappresentando meno dello 0,02% dei morti totali), alla riduzione della mortalità complessiva. Per di più, al momento la popolazione under 12 non è previsto che sia vaccinata, ed essa comprende poco meno di 5 milioni di persone, per cui rappresenta quasi il 10% della popolazione italiana.

Come se non bastasse, vi è l’esercito degli immigrati irregolari (ovvero senza permesso di soggiorno): circa 650.000 stranieri non raggiungibili dal vaccino, in quanto senza tessera sanitaria i sistemi informatici non li riconoscono [31]. In realtà, quella illustrata è quasi certamente una stima per difetto, poiché si tratta di persone che vivono sommerse, senza documenti e senza diritti, nelle nostre città e nelle relative periferie, contribuendo inoltre al crescente degrado del Bel Paese. Pertanto, dato che in genere gli irregolari circolano liberamente in barba a divieti e restrizioni, né ovviamente hanno interesse a interagire con le Istituzioni in virtù della loro posizione, rappresentano una sorta di nutrita “quinta colonna” che può contribuire anch’essa a mantenere viva la circolazione del virus nel nostro Paese.

Il contributo alla circolazione virale fornito dai non vaccinabili (essenzialmente giovanissimi e immigrati, più le persone fragili per le quali il vaccino è sconsigliato, come ad es. gli immunodepressi) è tuttavia certamente compensato dall’esistenza, nella popolazione italiana, di una buona percentuale di immunizzati per via naturale dal SARS-CoV-2 (percentuale che in teoria andrebbe sottratta dalle persone non vaccinate), ed è per questo che non ho tenuto esplicitamente conto di tutte queste correzioni nel mio foglio di calcolo MorSup, visto che lo avrebbero appesantito di molto senza cambiare sostanzialmente il risultato. Infatti, tenendo conto anche degli asintomatici, gli italiani immunizzati per via naturale potrebbero essere oggi circa il 20% della popolazione, ma si è scoperto che negli asintomatici gli anticorpi durano pochissimo, per cui gli immunizzati naturali che avranno ancora anticorpi quest’inverno dovrebbero essere assai meno.

Dove si dovrebbe a mio avviso “indirizzare” la campagna vaccinale

Probabilmente, nello scenario “di fine campagna” appena illustrato ho adottato perfino delle percentuali di vaccinazione leggermente ottimistiche, poiché – fra l’altro – si ipotizza che tutti i vaccinati over 80 attuali ricevano una seconda dose, cosa non necessariamente scontata data la notevole confusione nella comunicazione del rischio dei vaccini fatta dalle Autorità sanitarie italiane, che ha portato in altre fasce di età una percentuale significativa di persone alla rinuncia della seconda dose. Per capire se le percentuali ipotizzate siano abbastanza realistiche, possiamo però confrontarle con quelle di altri Paesi, a cominciare da Israele, quello in cui la vaccinazione è proceduta in modo di gran lunga più spedito.

La percentuale di persone vaccinate con almeno una dose di vaccino, alla data del 25 giugno, nei Paesi più avanti con la campagna vaccinale, fra cui Israele, Regno Unito, Italia e altri (fonte: Our World in Data)

Come si vede dalla figura qui sopra, la percentuale di persone che in Israele hanno ricevuto almeno una dose di vaccino è attualmente del 63,9% (peraltro di poco inferiore a quella del Regno Unito, pari al 64,3%), mentre in Italia è di circa il 54%. In realtà, come si può vedere dalla figura, il Paese con la maggiore percentuale di vaccinati è diventato da poco tempo il Canada, sebbene sia partito lentamente, con il 67% di persone che hanno già ricevuto almeno una dose. L’Italia si colloca quindi nel gruppetto più in basso, in compagnia di Stati Uniti, Germania e Francia. Non benissimo, quindi, ma neppure così male, se non fosse per il fatto che – come abbiamo visto con il mio scenario di MorSup – andrebbero vaccinate soprattutto le persone di età compresa fra 70 e 90 anni (che contribuiscono per ben il 75% ai morti totali attesi).

Il trend ripido della curva relativa al nostro Paese suggerisce che la percentuale di vaccinati con una dose (e quindi anche con 2) da noi possa ancora crescere molto, sebbene si noti l’esistenza di un punto cosiddetto “di flesso”, che segnala come il numero di vaccinati giornalieri stia diminuendo. Il punto, però, è che la gran parte dei nuovi vaccinati appartengono a classi di età che sono sostanzialmente ininfluenti ai fini del possibile bilancio di morti futuri. O, almeno, certamente non lo sono direttamente. Peraltro, come illustrato in un mio precedente articolo [32], si stanno esponendo i giovani (in particolare gli under 25) a rischi reali (a causa di un rapporto rischio/beneficio sfavorevole) e potenziali sul medio e lungo termine.

Perché, quindi, si sta esponendo a tali rischi i giovani (e anche quelli un po’ meno giovani, poiché il punto di pareggio fra rischi e benefici della vaccinazione anti-COVID è calcolato in una situazione di pandemia galoppante, ma in realtà si sposta verso classi di età più elevate man mano che la campagna vaccinale procede) senza che tutti questi soggetti ne abbiano alcun vantaggio personale? La questione è stata sollevata anche da Luca Ricolfi in una trasmissione televisiva (Quarta Repubblica del 14 giugno) alla quale era presente il prof. Guido Rasi (già direttore esecutivo dell’EMA), il quale ha fornito una motivazione – “vaccinare i giovani serve per non far circolare la variante Indiana” – che, come mostrerò fra poco, appare reggere fino a un certo punto, per usare un cortese eufemismo.

Come avevo già illustrato il 4 febbraio nel mio articolo “Perché la vaccinazione degli anziani va ‘maneggiata con cura’: un’analisi per scenari” [26], con l’entrata in gioco dei vaccini le fasce più anziane della popolazione – ovvero quelle responsabili delle morti e delle ospedalizzazioni che rischiano di paralizzare il Sistema Sanitario Nazionale – dovrebbero essere gestite in modo diverso dal resto della popolazione. In particolare, si dovrebbe puntare a vaccinare, realizzando campagne di persuasione sotto forma di spot televisivi e contattandoli uno per uno, la percentuale di anziani più elevata possibile e nel minor tempo possibile con due dosi e, come sottolineai all’epoca, riservando loro i vaccini più efficaci.

Purtroppo, attualmente non si sta andando in questa direzione, poiché l’attenzione è indirizzata piuttosto: (1) a vaccinare i giovani e le fasce di età intermedia (riservando loro una fetta rilevantissima dei vaccini migliori ora che Astrazeneca è stato riservato, ahimè, agli over 60); (2) a “sbolognare” i vaccini in eccesso o meno efficaci (in particolare Astrazeneca) con open day; (3) a promuovere alla popolazione sempre più disorientata “mix” – per il momento quanto meno dubbi poiché gli studi sulla sicurezza di tale pratica sono assai limitati – fra dosi di vaccini diversi (vaccinazione eterologa). Insomma, l’attenzione di chi conduce la campagna vaccinale è ormai assorbita da problemi che poco hanno a che fare con il raggiungimento dell’obiettivo di gran lunga primario, che è la “messa in sicurezza” della quasi totalità degli anziani.

Infatti, come ebbi a dimostrare quantitativamente con delle semplici simulazioni numeriche nel medesimo mio articolo [26], poiché i potenziali bersagli del COVID dati dalla percentuale di persone non vaccinate si combinano con quelli costituiti dalla percentuale di persone che – come mostrato dai dati relativi a Israele e Regno Unito – non sono protette contro la mortalità da COVID-19, pure il raggiungere una soglia di vaccinati all’apparenza alta (come può essere l’80% degli anziani) in realtà non è così rassicurante. Ciò spiega perché con lo scenario ottenuto con MorSup si trova un limite superiore così elevato per i possibili morti in autunno-inverno. E un discorso analogo si applica anche all’esito “trasmissione da parte dei vaccinati” del virus, poiché questa si combina con la trasmissione da parte dei non vaccinati, impedendo nei prossimi mesi il raggiungimento della famosa “immunità di gregge”.

Perché la vaccinazione degli under 30 non ci regala l’immunità di gregge

La questione della vaccinazione dei giovani è, a mio avviso, un altro esempio di come si concentrino risorse rilevanti (in termini di denaro, personale, e ore-lavoro) su un problema relativamente secondario anziché su quelli primari (ricordo che, se ad es. oggi il tracciamento dei contagiati in Italia è quasi inesistente, è perché una rilevante parte del personale che se ne occupava è stato dirottato sulla campagna vaccinale, poiché come sappiamo l’arruolamento di infermieri e medici che si cercò di fare con “due spicci” all’inizio della stessa andò quasi del tutto deserto). Cercherò dunque di spiegare nel modo più chiaro possibile come stanno le cose, perché ho la sensazione che, a parte pochi esperti e persone con un buon background matematico, a tutti gli altri – compresi i decisori politici – sfugga purtroppo l’essenza della questione.

L’idea originaria alla base della vaccinazione dei giovani era quella di poter raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge”, o protezione di gregge, così chiamata perché quando la maggior parte di una popolazione è immune a una malattia infettiva, ciò fornisce protezione indiretta alla parte di popolazione non vaccinata (perché non vuole o, in certi casi, perché non è indicato sottoporsi alla vaccinazione, come nel caso dei bambini e degli immunocompromessi, quali ad es. i soggetti portatori del virus Hiv). Ad esempio, se l’80% di una popolazione è immune a un virus, quattro su cinque persone che incontrano qualcuno con la malattia non si ammaleranno (e non diffonderanno ulteriormente la malattia). È uno dei possibili modi per tenere sotto controllo la diffusione delle malattie infettive [33].

Come spiegato da Randolph & Barreiro [34], a seconda della prevalenza dell’immunità (totale: da vaccino + naturale) esistente a un agente patogeno in una popolazione, l’introduzione di un individuo infetto porterà a esiti diversi. Se una frazione della popolazione è immune al medesimo patogeno, la probabilità di un contatto efficace tra ospiti infetti e suscettibili è ridotta, poiché molti ospiti sono immuni e, quindi, non possono trasmettere il patogeno. Se la frazione di individui suscettibili in una popolazione è troppo bassa, l’agente patogeno non può diffondersi con successo e la sua prevalenza diminuirà. Il punto in cui la proporzione di individui suscettibili scende al di sotto della soglia necessaria per la trasmissione è la soglia dell’immunità di gregge. Al di sopra di questo livello di immunità, l’immunità di gregge inizia ad avere effetto e gli individui suscettibili beneficiano di una protezione indiretta dall’infezione.

(A) L’immunità di gregge illustrata con un semplice modello SIR (S = Suscettibili, I = Infetti, R = immunizzati) per un’infezione completamente immunizzante e R0 = 4 (R0 è il numero medio di infezioni secondarie causate da un singolo individuo infetto introdotto in una popolazione completamente suscettibile). Il modello assume una popolazione chiusa in cui nessuna persona esce e non vengono introdotti nuovi casi. In seguito all’introduzione di un singolo individuo infetto, la proporzione di individui infetti (linea rossa) aumenta rapidamente fino a raggiungere il suo picco, che corrisponde alla soglia di immunità di gregge. Dopo questo punto, i nuovi individui infetti infettano meno di un individuo suscettibile, poiché una percentuale sufficiente della popolazione è diventata resistente, impedendo un’ulteriore diffusione del patogeno (linea arancione). (B) Rappresentazione schematica delle dinamiche di propagazione della malattia quando un individuo infetto viene introdotto in una popolazione completamente suscettibile (pannello superiore) rispetto a una situazione in cui un individuo infetto viene introdotto in una popolazione che ha raggiunto la soglia di immunità di gregge (pannello inferiore). Nella popolazione completamente suscettibile (naive), emerge rapidamente un focolaio, mentre nello scenario dell’immunità di gregge, il virus non riesce a diffondersi ed a persistere nella popolazione. (fonte: Randolph & Barreiro [34])

Matematicamente, la soglia di immunità di gregge è definita da 1 – 1/R0 (ad esempio, se R0 = 4, la corrispondente soglia di immunità di gregge è 0,75, cioè 75%) [34]. Pertanto, più un agente patogeno è trasmissibile, maggiore è l’R0 associato e maggiore è la proporzione della popolazione che deve essere immune per bloccare la trasmissione sostenuta. Un parametro simile importante per comprendere l’immunità a livello di popolazione è il numero effettivo di riproduzione (Rt), definito come il numero medio di casi secondari generati da un singolo caso indice in un periodo infettivo in una popolazione parzialmente immune. A differenza di R0, Rt non presuppone una popolazione completamente suscettibile e, di conseguenza, varierà a seconda dello stato immunitario di una popolazione, che cambierà dinamicamente quando si verifica un evento epidemico o – come nel nostro caso – una campagna di vaccinazione.

Peccato, però, che questo sia un discorso del tutto teorico, giacché, come sottolineai nel mio articolo del 3 aprile sull’ottimizzazione della campagna vaccinale [35], il modello semplicistico appena illustrato alla base dell’immunità di gregge vale per i vaccini cosiddetti sterilizzanti (cioè che impediscono a un agente patogeno di replicarsi nelle cellule e quindi di trasmettere l’infezione ad altri, come ad es. quello per il morbillo, la poliomelite, etc.). Per i vaccini “leaky”, che come sappiamo bloccano i sintomi e impediscono la morte delle persone ma non prevengono l’infezione o la trasmissione successiva ad altri [1], l’immunità di gregge è piuttosto utopica. E non esiste alcuna prova scientifica che i vaccini anti-COVID attuali non siano “leaky”, anzi come abbiamo visto prima i dati del Regno Unito lo confermano, evidenziando un’efficacia tutt’altro che vicina al 100% contro l’infezione e contro la trasmissione, oltre a un aumento delle infezioni nonostante la campagna vaccinale sia più avanti rispetto alla nostra.

Inoltre, come illustrato molto bene da un articolo pubblicato ad aprile su Nature [36], comunque l’immunità di gregge sarebbe raggiungibile: (1) solo con elevati ritmi di vaccinazione, cioè con una campagna vaccinale di durata relativamente breve; e (2) con una somministrazione coordinata su scala globale, poiché l’Italia non è certo isolata dagli altri Paesi, come ad esempio il Sud del mondo; inoltre, (3) con le nuove varianti più trasmissibili la soglia per l’immunità di gregge si innalza e bisogna vaccinare una percentuale della popolazione ben più elevata che non con la variante originale di Wuhan, giovani compresi; infine, (4) se nascono nuove varianti fortemente resistenti ai vaccini (i cosiddetti “ceppi mutanti di fuga” [1]), l’immunità acquisita potenzialmente svanisce e ci possiamo trovare a dover affrontare future ondate; e, in ogni caso, (5) l’immunità di un vaccino così (proteina spike-)specifico non dura per sempre.

La soglia attuale per la pseudo-immunità di gregge e la stima del limite inferiore per i morti

Nel settembre 2020, Fontanet & Cauchemez [37] stimarono che per la Francia la soglia di immunità di gregge per il SARS-CoV-2 avrebbe richiesto, con le varianti circolanti all’epoca, circa il 67% di immunità della popolazione. Un valore simile era ragionevole anche per l’Italia. Ma le varianti tanto più alzano la soglia dell’immunità di gregge quanto più alta è la loro trasmissibilità. Ad esempio, con la variante Indiana la soglia richiesta per la (pseudo-)immunità di gregge della popolazione è, secondo il fisico Roberto Battiston (con cui ho avuto il piacere di collaborare quando eravamo entrambi all’INFN), all’incirca dell’88% [38]; ma probabilmente ha usato il limite superiore dell’intervallo di incertezza – oppure “si è portato avanti con il lavoro” immaginando future sottovarianti più contagiose – poiché in realtà, come tra poco vedremo, per la variante Indiana la soglia “teorica” per la pseudo-immunità di gregge è dell’80% (si noti, inoltre, che oggi circa il 20% della popolazione italiana potrebbe essere già naturalmente immune al SARS-CoV-2).

Per quanto all’immunizzazione della popolazione contribuiscano sia i vaccini sia l’immunizzazione naturale attraverso il contagio (sintomatico e, sul breve termine, anche quello asintomatico) – è il fatto che una percentuale dei vaccinati si possano infettare e trasmettere a loro volta l’infezione a far “saltare tutto”! Infatti, come spiegano ancora Randolph & Barreiro, “il modello dell’immunità di gregge si basa su diversi presupposti chiave, tra cui la mescolanza omogenea di individui all’interno di una popolazione e che tutti gli individui sviluppano un’immunità sterilizzante, cioè un’immunità che conferisce protezione permanente contro la reinfezione, dopo la vaccinazione o l’infezione naturale. Nelle situazioni del mondo reale – come nel caso del SARS-CoV-2 – questi presupposti immunologici non sono soddisfatti, e l’entità della protezione indiretta attribuita all’immunità di gregge dipenderà dalle variazioni di questi presupposti” [34].

Vi mostrerò due modi diversi per vedere quantitativamente perché nel caso del SARS-CoV-2 non si raggiunge l’immunità di gregge con la vaccinazione. Il primo è il seguente (il secondo, ancora più preciso, è illustrato graficamente nella figura qui sotto). Con la vaccinazione, il virus cesserà di diffondersi a condizione che R0 x (1 – VE x PV) < 1, dove VE è l’efficienza del vaccino e PV è la frazione della popolazione che è stata completamente vaccinata (cioè con 2 dosi) [46]. Se questa condizione è soddisfatta senza la necessità di restrizioni comportamentali, l’immunità della popolazione è stata raggiunta. Peccato, però, che – come abbiamo visto all’inizio dell’articolo – i dati provenienti dalla letteratura scientifica relativi al Regno Unito suggeriscano, verosimilmente, un’efficacia dei vaccini contro la trasmissione dell’ordine del 60-70%, mentre come percentuale di popolazione vaccinata ipotizzeremo quella pari alla soglia della pseudo-immunità di gregge, che per la variante Indiana (caratterizzata da R0 = 5, mentre l’Inglese ha R0 = 3,75 e la variante di Wuhan R0 = 2,5 [47]) è data da (1 – 1/R0) = 0,8, ovvero 80%. Dunque, R0 x (1 – VE x PV) = 5 x (1 – 6,5/10 x 8/10) = 5 x (1 – 0,52) = 2,4 che è molto maggiore di 1 (come volevasi dimostrare).

In questa figura ho schematizzato, in modo al tempo stesso grafico e quantitativo, i “contributi mancanti” all’immunità di gregge sulla base delle informazioni ricavabili dalla letteratura scientifica, e sotto l’ipotesi: (a) di una campagna vaccinale che vaccini l’80% della popolazione italiana, essendo l’obiettivo che il generale Figliuolo conta di raggiungere entro settembre; (b) di una percentuale di persone immunizzate naturalmente pari al 20%. Da semplici conti, risulta contribuire all’immunità di gregge solo il 56% della popolazione, mentre il 44% non vi contribuisce. Questi dati si riferiscono alla variante Inglese; con quella Indiana la situazione è, molto verosimilmente, ancora peggiore. (fonte: elaborazione dell’Autore)

Nella formula precedente ho usato l’efficienza dei vaccini contro la trasmissione perché, per stabilire l’immunità di gregge, l’immunità generata dalla vaccinazione o dall’infezione naturale deve prevenire la trasmissione successiva, non solo la malattia clinica [33]. Se non lo fa, occorre tenerne conto. Per alcuni agenti patogeni, come il SARS-CoV-2, le manifestazioni cliniche sono uno scarso indicatore di trasmissibilità, poiché gli ospiti asintomatici possono essere altamente infettivi e contribuire alla diffusione di un’epidemia. Inoltre, una volta raggiunta la soglia di immunità di gregge, l’efficacia dell’immunità di gregge dipende in gran parte dalla forza e dalla durata dell’immunità acquisita. Per i patogeni in cui viene indotta un’immunità permanente, come nel caso della vaccinazione o dell’infezione da morbillo, l’immunità di gregge è altamente efficace e può prevenire la diffusione del patogeno all’interno di una popolazione.

Tuttavia questa situazione è relativamente rara, poiché l’immunità per molte altre malattie infettive, come ad es. la pertosse e il rotavirus, diminuisce nel tempo. Di conseguenza, l’immunità di gregge è meno efficace e possono ancora verificarsi epidemie periodiche (qualora non si proceda a un “rinforzo” della protezione anticorpale con terze dosi o non si passi a vaccini “universali”). Ma almeno su questo versante ci sono buone notizie, poiché un recente studio pubblicato su Nature [39] ha dimostrato che i pazienti guariti da COVID-19 presentano ancora le cellule che producono gli anticorpi contro il virus a 11 mesi dalla guarigione, e un’analoga durata è stata dimostrata, da altri studi [40], per l’immunizzazione da vaccino anti-COVID (ma la durata dell’immunità potrebbe essere in realtà molto più lunga, solo che non è ancora passato abbastanza tempo dalle prime infezioni monitorate e dalle prime vaccinazioni per poterlo scoprire).

Precedenti studi in pazienti sintomatici confermati con la SARS del 2002-2003 hanno dimostrato che le risposte di anticorpi neutralizzanti persistevano da diversi mesi a 2 anni, sebbene tutti gli individui mostrassero titoli anticorpali bassi dopo circa 15 mesi [41]. Pertanto, il già citato studio di Nature lascia sperare che l’immunità naturale contro il virus abbia un orizzonte temporale alquanto più lungo di quanto temuto fino a oggi (e anche quella indotta dai vaccini, eccetto che nel caso dell’eventuale comparsa di un ceppo mutante di fuga), sebbene il livello di immunità potrebbe essere più basso tra le persone con un sistema immunitario più debole (come ad es. le persone anziane) ed è comunque improbabile che duri per tutta la vita. Inoltre, se l’immunità è distribuita in modo non uniforme all’interno di una popolazione, possono rimanere dei gruppi di ospiti suscettibili che si contattano frequentemente tra loro. Anche se la proporzione di individui immunizzati nella popolazione nel suo complesso superasse la soglia di immunità di gregge, queste sacche di individui suscettibili sarebbero ancora a rischio di epidemie locali [34].

Quindi, quand’anche si raggiungesse l’immunità di gregge, il virus potrebbe ancora circolare, sia pure più limitatamente, non è che non circoli affatto come alcuni ingenuamente pensano. Circolerà all’interno di “sacche” più o meno piccole qua e là per il Paese, dove l’epidemia tenderà comunque a estinguersi poiché il famoso “numero di riproduzione calcolato nel corso del tempo” (Rt) avrà a quel punto un valore inferiore a 1 (attualmente Rt è inferiore a 0,7): ciò vuol dire che una persona tende in media a infettarne meno di una, per cui l’epidemia tende per forza a estinguersi. Ma basta che ad es. un turista infetto entri senza controlli nel nostro Paese (come di solito accade alle frontiere stradali del Nord Italia) per far innescare abbastanza facilmente nuovi piccoli focolai, che come un incendio in una zona con rade sterpaglie finiranno alla lunga sempre per auto-estinguersi, se le varianti circolanti non sono in grado di resistere più di tanto ai vaccini.

Ciò spiega anche perché è irrealistico un limite inferiore pari a 0 per i morti attesi nel prossimo autunno-inverno. Vale a dire che, anche nello scenario più sfrenatamente ottimistico, non avremo 0 morti. Infatti, di tanto in tanto, nei piccoli focolai che permarrebbero anche nel caso in cui le cose procedessero davvero al meglio, potrebbe ammalarsi (e in alcuni casi morire) alcuni over 60 non coperti dal vaccino o perché non si sono vaccinati o perché fanno parte di quella percentuale di vaccinati sui quali il vaccino è inefficace. Si noti inoltre che, anche dopo il raggiungimento della soglia di immunità di gregge, ci vuole molto tempo prima che non ci siano più nuovi casi, e quindi nessun nuovo decesso [30]. Pertanto, come il lettore può comprendere, è difficile attribuire un valore numerico al limite inferiore per i morti italiani da COVID totali nel prossimo autunno-inverno (cioè da settembre a marzo): se però proprio dovessi sbilanciarmi, direi minimo qualche decina e forse, più realisticamente, qualche centinaia.

Perché la vaccinazione dei giovani non è così cruciale come si vuol far credere

Bene, ora abbiamo tutti gli elementi per capire come mai la vaccinazione degli under 30 non sia affatto così “decisiva” e irrinunciabile ai fini del controllo della situazione (e ciò a prescindere dal fatto di mettere “sotto il tappeto”, come si sta facendo, il discorso dei rischi corsi a livello individuale dai vaccinandi – peraltro non solo quelli giovani – non soltanto quelli noti sul breve termine, ma anche quelli del tutto ignoti sul medio e lungo termine). Potremo dunque ora capire meglio: (a) perché la frase di Rasi “vaccinare i giovani serve per non far circolare la variante Indiana” esprima una tesi alquanto difficile da sostenere; ma, soprattutto, (b) perché la vaccinazione dei giovani non sia così cruciale come si vuol far credere.

Innanzitutto, l’idea di Rasi che vaccinare i giovani non faccia circolare la variante Indiana si basa, evidentemente, sul presupposto che vaccinando i giovani si potrebbe raggiungere l’immunità di gregge. Ma, come abbiamo visto analizzando la letteratura scientifica sul tema, il concetto di immunità di gregge si applica per i vaccini sterilizzanti, e questo non è purtroppo il caso dei vaccini anti-COVID attuali, che sono leaky. E purtroppo i vaccini “leaky” sono, in generale, preoccupanti perché la storia dei vaccini insegna che, con questo tipi di vaccini, può – in teoria – succedere di tutto [1]: (1) possono portare alla nascita di nuove varianti (i “ceppi mutanti di fuga”, in quanto nel caso di un virus non gli impediscono di entrare nelle cellule e di replicarsi a dismisura); (2) possono promuovere l’evoluzione, nel tempo, di una maggiore virulenza dei patogeni (a scapito soprattutto dei non vaccinati); e (3), dopo un certo tempo, possono iniziare a fallire, causando gli effetti gravi anche nei soggetti vaccinati. Si noti, peraltro, che (1) e (2) si osservano già.

Dato che i vaccini anti-COVID attuali sono “leaky”, e trasmettono quindi in una certa percentuale di casi l’infezione generando casi secondari, la protezione della popolazione non immunizzata attraverso la pseudo-immunità di gregge che potrà essere realisticamente raggiunta con la campagna vaccinale italiana sarà, necessariamente, alquanto inferiore perfino vaccinando a tappeto i giovani; per cui l’obiettivo di non far circolare la variante Indiana – almeno nel periodo invernale, poiché come sappiamo i virus respiratori sono caratterizzati da un’elevata stagionalità – comunque non potrà essere raggiunto con la sola vaccinazione di massa, poiché bisognerebbe non solo vaccinare l’80% della popolazione (soglia per la pseudo-immunità di gregge) ma anche – e ciò appare alquanto utopico! – anche tutto il resto della popolazione (fino a coprire, quindi, il 100% della stessa), al fine di compensare il fatto che una percentuale assai significativa di vaccinati può trasmettere il virus.

A questo punto, probabilmente anche il lettore avrà capito che, ancora una volta, ci si è concentrati su un “falso” problema – quello di raggiungere un’immunità di gregge che nel caso dei vaccini leaky non può essere raggiunta – anziché concentrarsi sui due veri problemi, che sono: (a) mettere in sicurezza la maggior percentuale possibile di over 60; (b) implementare tutte le possibili misure di un “piano B”, complementare ai vaccini, per limitare sia la circolazione del virus sia la mortalità di chi non si vaccina. In definitiva, l’obiettivo dei programmi di vaccinazione con vaccini sterilizzanti è portare il valore del numero di riproduzione netto della malattia (il famoso Rt) al di sotto di 1. Ciò si verifica quando la percentuale della popolazione con immunità (da vaccini e/o naturale) supera la soglia di immunità di gregge [30]. A questo punto, la diffusione del patogeno non può essere mantenuta, quindi c’è un calo del numero di individui infetti all’interno della popolazione e, di conseguenza, anche dei morti.

Ma, come ormai sappiamo, vi sono in realtà molti altri modi per intervenire per ridurre il numero delle infezioni e il numero dei morti in un’epidemia, ovvero per mantenere Rt – il parametro chiave che determina se l’epidemia si estingue o meno – al di sotto di 1. La vaccinazione è sicuramente uno di questi, ma non è affatto l’unico! Gli interventi si possono distinguere, fondamentalmente, in due diversi tipi: (1) quelli farmaceutici (comprendenti l’uso domiciliare o ospedaliero di integratori, farmaci, anticorpi monoclonali, vaccini, etc.) e (2) non farmaceutici. Questi ultimi includono l’uso delle mascherine, il distanziamento sociale, misure come le restrizioni sui viaggi e la chiusura delle scuole, etc. La vaccinazione è uno dei più efficaci modi per ridurre il numero delle infezioni (specie se si usano vaccini “sterilizzanti”) e, soprattutto, la mortalità dei vaccinati (come nel caso dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio) [35], ma puntare solo su questa (e non sull’intero “arsenale” di possibili opzioni) è un errore.

I principali mezzi usati fino ad oggi dalle autorità politiche e sanitarie per ridurre il numero di infezioni e/o di morti per COVID-19. Si noti l’assenza, tuttora, di un (serio ed efficace) protocollo di cura domiciliare fra i possibili mezzi impiegati finora dalle Autorità sanitarie italiane, nonostante ora esso sia disponibile nella letteratura scientifica peer-reviewed. (fonte: elaborazione dell’Autore)

Infatti, il punto chiave è che ciascuno di questi possibili interventi è in grado di dare un contributo (sebbene spesso difficile da stimare quantitativamente, anche perché l’efficacia di una medesima misura può essere in realtà diversa da Paese a Paese) alla diminuzione dell’Rt, e quindi al controllo della pandemia. Non dimentichiamo, difatti, che l’obiettivo della campagna vaccinale italiana non è affatto quello di eradicare il virus – cosa successa nella storia solo contro il vaiolo, ma utilizzando un vaccino di tipo sterilizzante – bensì quello di diminuire il più possibile il numero di morti per COVID e, secondariamente, di diminuire il più possibile le ospedalizzazioni. Infatti, se incontrollata, la diffusione del SARS-CoV-2 travolgerebbe rapidamente i sistemi sanitari, e un esaurimento delle risorse sanitarie porterebbe non solo a un’elevata mortalità da COVID-19, ma anche a un aumento della mortalità per tutte le cause.

Occorre focalizzarsi sempre sugli aspetti che davvero contano

Paradossalmente, è più facile prevedere il futuro a lungo termine dell’attuale pandemia che non quello a breve e medio termine. Secondo i principali epidemiologi mondiali, infatti, il virus diventerà alla fine endemico – cioè continuerà a circolare fra la popolazione umana – come già successo in un lontano passato ad altri due coronavirus, che oggi ci provocano solo un semplice raffreddore. È inoltre interessante notare che la modellizzazione della dinamica di trasmissione del SARS-CoV-2 prevede che l’immunità a breve termine (∼10-12 mesi) nei confronti del SARS-CoV-2 darebbe luogo a epidemie annuali, mentre l’immunità a lungo termine (∼2 anni) porterebbe a epidemie biennali [42], quindi con analoghe tempistiche – pressioni delle lobby e varianti permettendo – per le “terze” dosi dei vaccini ed i successivi richiami.

Come ho illustrato in precedenza, il numero di morti (minimo e massimo) che ci si potrebbe aspettare in Italia nel prossimo autunno-inverno è compreso fra poche decine di morti (limite inferiore, peraltro alquanto ottimistico) e oltre 50.000 (limite superiore stimato con il mio simulatore MorSup, basato sul semplice modello illustrato in precedenza); vale a dire che potrebbero arrivare a essere circa 8 volte superiori ai morti annuali pre-pandemia dovuti all’influenza (che erano circa 8.000 l’anno). In realtà, il numero di morti reale si collocherà probabilmente in qualche punto intermedio fra questi due estremi, i cui valori saranno raffinabili nei prossimi due mesi via via che avremo dati più “solidi” per i due parametri chiave del simulatore. Ma quanti saranno realmente i morti – sempre nell’ipotesi che non emergano nel frattempo varianti più resistenti ai vaccini attuali – dipenderà moltissimo sia dalle misure che verranno prese dalle Autorità politiche e sanitarie sia dal comportamento e dalle scelte delle persone.

Infatti, se attualmente in Italia il virus sta abbassando la cresta, è perché il famoso Rt è minore di 1, e ciò è dovuto non solo alla campagna di vaccinazione ma anche a due altri motivi: (1) la stagionalità dei virus respiratori (dovuta al fatto che con il caldo le particelle di aerosol si disidratano in brevissimo tempo e il virus di conseguenza si degrada perché non ha più un supporto acquoso, all’innalzamento dei livelli di vitamina D nelle persone che prendono il sole, al maggior tempo trascorso all’aperto anziché in luoghi chiusi, al più frequente ricambio d’aria grazie alle finestre aperte, etc.); (2) il fatto che la gente stia ancora attuando delle precauzioni come ad es. l’uso delle mascherine negli ambienti indoor (almeno da quel che vedo nella zona in cui vivo). In autunno, il contributo della stagionalità verrà meno, e contribuirà notevolmente a innalzare l’Rt, insieme alla presenza della variante Delta, che avendo un R0 più grande (cioè un infetto contagia più persone, a parità di altre condizioni) fa aumentare anche l’Rt. Perciò, se non ci prepariamo per tempo con un “piano B”, in teoria fra alcuni mesi si rischiano ancora lockdown locali.

Un altro degli aspetti cruciali di una vaccinazione di successo è il tempo. Poiché un’infezione si può propagare rapidamente attraverso una popolazione, in generale prima le persone vengono immunizzate e meglio è, soprattutto se i vaccini sono sterilizzanti. Poiché questo sappiamo non essere il caso degli attuali vaccini anti-COVID, i decisori politici e sanitari devono ottimizzare la velocità della vaccinazione e l’efficacia della risposta, piuttosto, in termini di vite salvate: quest’ultima non è solo legata all’efficienza dei vaccini nel proteggere la popolazione sul campo, ma anche al vaccinare per prime le persone “giuste”: ovvero gli anziani e gli over 60, nonché le persone “fragili” di tutte le età, e non certo i ragazzi o ad es. i trentenni in perfetta salute); mentre la velocità della vaccinazione di questi soggetti dipende anche dalla logistica, dall’organizzazione, dalla capacità effettiva di contattare in maniera attiva le persone anziane e fragili, dai tipi di “premi” e “punizioni” applicati o meno per convincere gli indecisi, etc.

Se poi non vogliamo ripetere l’inerzia estiva dello scorso anno, occorre quanto prima implementare tutte le possibili misure di un “piano B” per limitare sia la circolazione del virus sia la mortalità di chi non è protetto dall’immunità. Queste misure comprendono, fra le altre: (1) l’adozione ufficiale di un protocollo di cure domiciliari serio, come quello del prof. Remuzzi et al., la cui elevatissima efficacia è provata da una pubblicazione peer-reviewed [43]; (2) la promozione di campagne di informazione per l’integrazione della vitamina D (consigliabile a prescindere dal COVID, data la carenza nella popolazione italiana); (3) una campagna di misurazione in tutti i luoghi pubblici dei livelli di anidride carbonica (CO2), che se elevati sono segno di un ricambio d’aria insufficiente (che comporterebbe un’elevata concentrazione di aerosol virale in presenza di individui infetti) [44]; (4) il controllo a tappeto e in modo rigoroso che tutte le mascherine vendute in Italia, soprattutto sul web, superino i test di laboratorio, pena il ritiro dal mercato.

Infatti, secondo uno studio scientifico recentemente pubblicato sul New England Journal of Medicine [45], il mascheramento facciale è uno dei pilastri del controllo della pandemia di COVID-19, e può aiutare anche a ridurre la gravità della malattia ed a garantire che una percentuale maggiore di nuove infezioni sia asintomatica. Ciò perché questa possibilità è coerente con una teoria di vecchia data sulla patogenesi virale, che sostiene che la gravità della malattia è proporzionale all’inoculo virale ricevuto. In realtà, questo è proprio quanto avevo affermato io nel mio articolo del 25 marzo [32], trattandosi a mio parere di una totale ovvietà, essendo l’emergere della malattia sintomatica e la sua gravità legate in prima istanza all’esito della “gara” che ha luogo nell’organismo fra moltiplicazione del virus da una parte e produzione di anticorpi neutralizzanti dall’altra (per cui più si assorbe un’elevata dose di virus e più si sposta il bilancio a suo favore). Ma fa sempre piacere ritrovare le stesse idee e conclusioni su una rivista peer-reviewed!

La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è, inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi neutralizzanti queste particelle virali. Per questo alcuni integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.), grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se presi quotidianamente come forma di prevenzione della progressione della malattia verso stadi più gravi, in caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle particelle di virus e aiutano le difese immunitarie. (fonte: elaborazione personale pubblicata nel mio articolo del 25 marzo)

Inoltre, oggi sarebbero necessari assai più sequenziamenti delle varianti virali, molto più contact tracing, una migliore strategia di screening per chi arriva dall’estero e – cosa di cui non si parla mai! – dei test sierologici di massa per determinare quanti individui sono immuni per infezione naturale e quanto siamo lontani dal raggiungere la soglia di pseudo-immunità di gregge; ma mentre questa indagine lo scorso anno in Italia è stata fatta, ora che servirebbe ancor di più non la si è nemmeno tentata su un campione più limitato! Per inciso, secondo vari medici andrebbe fatto il test sierologico anche prima della dose 1 dei vaccini anti-COVID, per individuare chi ha già sviluppato naturalmente gli anticorpi contro il SARS-CoV-2. Infatti, secondo il procuratore della Repubblica che ha seguito il caso della morte del giovane militare siciliano Stefano Paternò, avvenuta poco dopo la sua vaccinazione, egli aveva avuto il COVID in forma asintomatica, e l’interazione del vaccino proprio con questi anticorpi ha provocato la tempesta citochinica con conseguente insufficienza respiratoria e, infine, decesso.

In autunno-inverno torneranno le restrizioni o si andrà verso il “liberi tutti”?

Gli studi scientifici suggeriscono che la protezione contro la reinfezione con specie di coronavirus tende a diminuire dato un tempo sufficiente, sebbene siano necessari ulteriori studi sierologici longitudinali per valutare la durata effettiva dell’immunità nel caso del SARS-CoV-2. Se comunque ciò si dimostrasse vero anche per il SARS-CoV-2, la (pseudo-)immunità di gregge persistente potrebbe non essere mai raggiunta in assenza di vaccinazione ricorrente. Il che giustifica ulteriormente la necessità di lavorare a un “piano B” complementare ai vaccini, poiché non tutti si ri-vaccineranno. Detto questo, anche se la reinfezione può verificarsi dopo la sterilizzazione dell’immunità, le cellule di memoria durature del sistema immunitario adattativo probabilmente faciliterebbero il controllo immunitario del virus e limiterebbero la patologia della malattia, il che si spera possa diminuire la gravità clinica delle infezioni successive [30].

Si noti, inoltre, che in futuro avremo probabilmente vaccini sterilizzanti – quali sono ad es. i vaccini “inattivati” – che potrebbero permetterci di raggiungere realmente l’immunità di gregge, o quasi. Dunque, la corsa ai vaccini sembra essere in realtà soltanto all’inizio della sfida che ci aspetta, mentre le nostre economie e il tessuto sociale sono sempre più provati. Pertanto, negli altri Paesi molti esperti si chiedono se saremo in grado di stare dietro – come progettazione e produzione dei vaccini, nonché accettazione degli stessi da parte della popolazione – alle ulteriori future varianti di SARS-CoV-2 che potrebbero sorgere nel corso del tempo, indotte in molti casi dai vaccini medesimi [1]. Proprio per tutte queste ragioni è – a parere dell’Autore – importante, per la politica sanitaria anti-COVID, non solo riflettere con molta più obiettività e lungimiranza su tutta la faccenda, ma soprattutto implementare fin d’ora, indipendentemente dalla campagna di vaccinazione, un “piano B” che sia del tutto svincolato dai vaccini.

Se dovessimo davvero tornare a uno stile di vita pre-pandemia, avremmo bisogno dell’immunità di gregge (e quindi di vaccini sterilizzanti o “universali”) per mantenere basso il tasso di infezione senza restrizioni sulle attività. Ma questo livello, come sappiamo, dipende da molti fattori, tra cui l’infettività del virus (possono nel frattempo evolversi varianti ancora più infettive) e dal modo in cui le persone interagiscono tra loro. Ad esempio, quando la popolazione riduce il proprio livello di interazione (attraverso il distanziamento, l’uso di mascherine, etc.), i tassi di infezione rallentano. Ma man mano che la società si apre in modo più ampio e il virus muta per diventare più contagioso, i tassi di infezione aumenteranno di nuovo. Poiché attualmente non siamo a un livello di protezione che possa consentire alla vita di tornare alla normalità senza vedere un altro picco di casi e decessi, ora è una corsa tra infezioni e iniezioni [33].

Nel peggiore dei casi (ad esempio, se smettiamo di prendere le distanze di sicurezza reciproche e di indossare la mascherina e rimuoviamo i limiti alle riunioni affollate al chiuso), continueremo a vedere ulteriori ondate di infezione in aumento. Il virus infetterà e ucciderà ancora molte persone prima che la campagna di vaccinazione raggiunga tutti (cosa che, molto verosimilmente, non accadrà mai, trattandosi fra l’altro di vaccini di fatto sperimentali approvati solo “per l’uso in emergenza”, che quindi non possono essere imposti come avviene per certi vaccini normali). E le morti non sono l’unico problema. Più persone infetta il virus, più possibilità ha di mutare. Ciò può aumentare il rischio di trasmissione, ridurre l’efficacia dei vaccini e rendere la pandemia più difficile da controllare a lungo termine. Ancora una volta, quindi, si capisce perché è così importante avere un “piano B”, implementato e rodato fin d’ora.

Nel migliore dei casi, infatti, da una parte vacciniamo le persone il più rapidamente possibile, mantenendo le distanze e altre misure di prevenzione per mantenere bassi i livelli di infezione e, dall’altra, contemporaneamente implementiamo le misure del “piano B” per tenere bassa – di concerto con l’azione dei vaccini – la circolazione del virus (cioè Rt < 1 e, possibilmente, Rt << 1) e, quel che più ci interessa, i tassi di ospedalizzazione, di ricovero in terapia intensiva e di mortalità dei non immunizzati. Anche se di certo non ci sarà una “giornata dell’immunità di gregge” in cui la vita tornerà immediatamente normale, questo approccio ci offre la possibilità di evitare numerosi morti, di minimizzare l’impatto socio-economico della pandemia e fornisce delle possibilità a lungo termine di sconfiggere la pandemia senza ulteriori “bagni di sangue” in termini di mortalità e di conseguenze economiche su cittadini e imprese.

Il risultato più probabile è che il prossimo autunno ci si collochi da qualche parte nel mezzo di questi due estremi. Quando i tassi di mortalità e di infezione diminuiscono, possiamo allentare le misure di allontanamento e alcune altre misure con le quali abbiamo dovuto convivere con mesi, ma ciò può portare a un rimbalzo delle infezioni, poiché le persone interagiscono tra loro più da vicino [33]. In autunno potrebbe quindi essere necessario re-implementare queste misure per ridurre nuovamente le infezioni, se queste hanno un impatto rilevante in termini di ospedalizzazioni e di mortalità oppure se si pensa che lo avranno sia per il previsto effetto di “stagionalità” simile a quello dell’influenza, sia sulla base di quanto accaduto in altri Paesi, a cominciare dal Regno Unito. E questo dipende, ancora una volta, da quali varianti avremo di fronte quest’autunno-inverno, cosa che rappresenta senza dubbio la maggiore incognita.

Finché ci saranno popolazioni non vaccinate nel mondo, il SARS-CoV-2 continuerà a diffondersi ed a mutare ed emergeranno ulteriori varianti. In Italia e altrove, la vaccinazione di richiamo potrebbe rendersi necessaria prematuramente se sorgessero varianti che possono eludere la risposta immunitaria provocata dai vaccini attuali. Sarà probabilmente necessario ancora uno sforzo prolungato per prevenire un grave impatto su salute ed economia fino a quando la nuova generazione di vaccini non sarà pronta, testata nei trial, autorizzata dalle Autorità regolatorie e diffusa fra la popolazione. Anche allora, è molto improbabile che SARS-CoV-2 venga debellato; probabilmente infetterà ancora i bambini e altri che non sono stati vaccinati, e forse dovremo ugualmente aggiornare il vaccino e fornire dosi di richiamo su base regolare. Ma, via via che i vaccini saranno più efficaci anche contro la trasmissione, le continue ondate di diffusione esplosiva (a cui stiamo ancora assistendo in questo momento in altri Paesi) finiranno per scomparire [33].

Le strategie del piano B (di cui ne ho illustrato poco fa alcune fra le principali) potranno aiutarci fortemente a controllare la situazione. Inoltre, il semplice obbligo di indossare le mascherine in ambiente indoor proteggerà i non immunizzati (cioè sia i non vaccinati sia la percentuale di vaccinati che non è protetta dal vaccino). Inoltre, le mascherine contribuiscono in modo rilevante ad abbassare il valore dell’Rt, per cui sono un po’ come le barre di grafite in un reattore nucleare: aiutano a impedire una reazione (nel nostro caso una diffusione) incontrollata. Inoltre, poiché le mascherine possono ridurre la gravità della malattia, dovrebbero anche aumentare l’immunità della popolazione. Infatti, secondo il prof. Hassan Vally, epidemiologo a La Trobe University (Australia), “sappiamo che le mascherine proteggono le persone dall’infezione, ma anche se non si impedisce completamente che ciò accada – quindi se si lascia entrare solo un piccolo numero di particelle di virus – allora potenzialmente ci si espone a una quantità sufficiente di virus affinché tu possa organizzare una risposta immunitaria che ti proteggerà in futuro” [45].

AVVERTENZA. Onde evitare qualsiasi interpretazione errata da parte di chi avesse scorso solo fugacemente il presente articolo, vorrei chiarire che NON mi aspetto che nel prossimo autunno-inverno si verificheranno, in Italia, i numerosissimi morti qui stimati come possibile limite superiore, poiché questa stima è intesa verificarsi solo nel caso in cui non venisse adottata nessuna restrizione delle nostre libertà. Tuttavia, l’entità della posta in gioco in termini di vite umane ed i “contributi mancanti” alla pseudo-immunità di gregge che ho stimato nel testo fanno capire che, molto verosimilmente, anche in autunno-inverno dovremo portare le mascherine al chiuso, e che pure questo potrebbe non bastare, nel qual caso il Governo potrebbe ricorrere a misure “facili” ma dannose per l’economia (quali ad es. lockdown locali) se non avrà preparato nel frattempo, parallelamente alla vaccinazione, un opportuno “piano B”.


Riferimenti bibliografici

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COVID-19 e vaccini: un po’ di domande “impertinenti” all’immunologo De Berardinis (CNR)

Quando si parla della pandemia o dei vaccini anti-COVID, le questioni “spinose” che si vorrebbe discutere in modo aperto con uno specialista sono davvero numerose. Grazie alla sua grande disponibilità – ed avendo nel frattempo messo da parte diverse domande – ho potuto farlo con uno dei maggiori esperti italiani del settore, che ringrazio: Piergiuseppe De Berardinis, direttore del Laboratorio di immunologia presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR, che in questi anni si è occupato di studiare la risposta immunitaria e la problematica dei vaccini sia dal punto di vista sperimentale che divulgativo.

D.: Dottor De Berardinis, come in una sorta di “partita a scacchi con il virus”, non poteva certamente mancare, dopo la variante Inglese, una variante Indiana, che analogamente a quella Sudafricana presenta due diverse mutazioni. Ciò mi ricorda un po’ il film Wargames, dove il computer tenta di indovinare, un carattere dopo l’altro, il codice di lancio dei missili balistici, ed è solo questione di tempo perché vi riesca. Nel caso del SARS-CoV-2, però, ciò potrebbe significare rendere d’un colpo inutili i vaccini attuali, che non sono “universali”, bensì rivolti tutti verso la famosa proteina Spike. Come vede, da immunologo, questo rischio, cogliendone certamente meglio di un “non addetto ai lavori” gli aspetti sia qualitativi sia quantitativi?

Il Dr. Piergiuseppe De Berardinis insieme ad alcune ricercatrici del Gruppo che coordina presso il CNR.

R.: C’è un gioco molto popolare in Giappone che si chiama “Acchiappa la talpa” e consiste nel cercare di colpire con un martello le talpe che appaiono in modo casuale nel tabellone. È reale il timore che per contrastare la lotta alle varianti la comunità scientifica dovrà partecipare a questo gioco. C’è da dire che i dati finora ottenuti indicano che i vaccini che si stanno somministrando hanno la capacità di indurre anticorpi protettivi nei confronti delle varianti come quella inglese nella totalità dei casi, ma anche nei confronti delle varianti brasiliana e sudafricana. Ci auguriamo, pertanto, che sia così anche per la variante “indiana” che ricordiamo presenta (anche se in unico ceppo) due mutazioni già presenti  in  altre varianti. In ogni caso l’insorgenza delle varianti ci fa capire quanto sia urgente e di fondamentale importanza assicurare una vaccinazione globale nei tempi più brevi possibili allo scopo di limitare la circolazione virale.

Inoltre, come già anticipato nella domanda, un obiettivo primario per la comunità scientifica resta la realizzazione di un vaccino in grado di proteggere contro diversi coronavirus e, in prospettiva, anche nei confronti di quelli che potranno emergere nei prossimi anni. Un tale vaccino, a detta di chi lavora sul campo, sembrerebbe alla portata  nei prossimi anni per proteggere contro l’infezione,  se non  di tutti i coronavirus,  perlomeno  contro quelli del sottogruppo “sarbecovirus” a cui appartengono i virus SARS-CoV-2 e SARS-CoV. Infatti, a dispetto di molti aspetti ancora ignoti, il rapido successo dei vaccini anti SARS-CoV-2 ha sparso ottimismo. Il coronavirus non sembra difficile da combattere con un vaccino, a differenza di altri patogeni come il virus  HIV-1 o lo stesso virus dell’influenza.

Il razionale per tali vaccini pan-coronavirus si basa principalmente sulla presenza di sequenze conservate nei differenti virus (come sequenze di RNA in virus isolati dal pangolino e da diversi pipistrelli, o domini conservati nella proteina “spike” di molti coronavirus che infettano l’uomo). In questo ambito, diversi gruppi di ricerca stanno già lavorando in varie parti del mondo alla formulazione di vaccini basati su:  “mosaic vaccines”, proteine spike chimeriche, costruzione di nanoparticelle che assemblano RNA di diversi betacoronavirus e cocktails di virus inattivati.

C’è infine da dire che, su questa tematica, l’opinione della comunità scientifica è quasi radicalmente mutata in questi ultimi mesi. Nel 2017 l’agenzia statunitense che sovraintende e finanzia le ricerche sui vaccini – il “National Institute of Allergy and Infectious Diseases” (NIAID) diretto da  Anthony Fauci – giudicò di bassa priorità la richiesta di un finanziamento per un vaccino pan-Beta coronavirus (a quel tempo si parlava principalmente dei virus SARS-CoV e MERS). Ma, nel novembre 2020, l’Agenzia ha modificato il suo giudizio, sollecitando l’accettazione di finanziamenti per ricerche in condizioni di Emergenza. Inoltre, a marzo 2021 un’altra organizzazione sovranazionale, denominata CEPI (Coalition for Epidemic Prepardness Innovations) ha annunciato di finanziare con 200 milioni di dollari un nuovo programma per vaccini anti pan-betacoronovirus. È, d’altronde, opinione di molti esperti che nei prossimi 10-50 anni potremo verosimilmente assistere all’insorgere di nuove infezioni pandemiche causate da coronavirus.

D.: Il vaccino Astrazeneca – e pare non solo quello – ormai sappiamo in modo statisticamente abbastanza affidabile che produce dei trombi, almeno in alcune persone. Come è possibile che nessun soggetto terzo e indipendente rispetto ai produttori – come ad esempio il CNR – non abbia iniziato a esaminare, in un piccolo campione di vaccinandi, i livelli ematici, pre- e post-dose somministrata degli indicatori del livello di coagulazione del sangue e magari di altri parametri, al fine di capire se si tratti di un fenomeno comune (al di là dei casi in cui si manifesta in modo rilevante, che potrebbero rappresentare solo la punta dell’iceberg)? Cosa ne pensa? E lo suggerirebbe alle Autorità Sanitarie, visto che l’AIFA non lo fa?

R.: Sulle problematiche relative al vaccino Astrazeneca le autorità decisionali dei vari paesi hanno assunto una posizione non ben definita e basata più che altro sulla cautela e sull’attesa. Analogamente, il Comitato Tecnico-Scientifico del nostro paese non ha assunto, perlomeno inizialmente, una chiara linea di condotta e di conseguenza l’Autorità politica ha proceduto un po’ alla cieca. Oramai, nella terminologia scientifica relativa al COVID-19 è entrato l’acronimo VITT (Vaccine-induced Immune Thrombotic Thrombocytopenia). Si è chiaramente dimostrata la presenza, nel siero dei pazienti colpiti da tromboembolia piastrinopenica, di anticorpi contro il fattore piastrinico 4 (pF4).

È stato inoltre dimostrato, in studi in vitro su vaccini adenovirali, che l’aggiunta di pF4 e/o di anticorpi anti-pF4 aumenta la grandezza delle particelle di vaccino e che in questi aggregati le proteine pF4, le proteine capsidiche del vettore adenovirale e le piastrine sono strettamente connesse. Tuttavia, a tutt’oggi manca un evidenza diretta ex vivo o tramite studi di anatomia patologica del coinvolgimento diretto dei vettori adenovirali nella formazione dei trombi nei pazienti che hanno sofferto di questi gravi effetti indesiderati.

C’è infine da dire che anticorpi anti-pF4 sono presenti anche nel siero di individui a cui è stata somministrata la vaccinazione a mRNA. Tuttavia, nel vaccino Astrazeneca è stato rinvenuto anche l’eccipiente EDTA, che può  causare nello 0,1-2% dei campioni di sangue il “clumping” in vitro delle piastrine, un fenomeno noto come “EDTA dependent-Pseudothrombocytopenia” (EDTA-PCTP). C’è, pertanto, chi suggerisce di effettuare questa analisi ed escludere dalla vaccinazione con Astrazeneca chi risultasse positivo al test in vitro per EDTA-PCTP.

In sostanza, in un contesto ancora incerto, ci sarebbe bisogno di ricevere chiare linee guida sulla necessità e il tipo di esami di laboratorio da eseguire. Questo deve essere un compito dell’Autorità sanitaria di riferimento, a cui nessuno dovrebbe sostituirsi onde evitare ulteriore confusione e sconcerto nella popolazione. Con questo non voglio assolvere il CNR, la cui capacità di rispondere all’emergenza ponendo le proprie strutture al servizio del paese è stata nulla o debolissima, come ho avuto occasione di dire in altri contesti. Il CNR è stato praticamente senza una guida scientifica fino a qualche settimana fa, quando il ministro competente ha nominato il nuovo Presidente, sul cui operato tutti noi Ricercatori e Tecnologi nutriamo molte aspettative.

D.: In occasione dell’epidemia di SARS del 2002-03, in cui non fu possibile usare i vaccini per i problemi incontrati nel loro sviluppo e perché nel frattempo il problema era stato risolto usando contromisure “classiche”, se non sbaglio l’immunità naturale nei soggetti contagiati durò un tempo molto lungo: 2-4 anni. Dato che i vaccini attuali sembrano essere molto più potenti, in quanto a immunità indotta, rispetto a quella naturale – sia nei casi sintomatici sia, a maggior ragione, in quelli sintomatici o pauci-sintomatici – secondo lei è ragionevole supporre che, salvo sorprese relative a nuove varianti, almeno per chi si è vaccinato con i vaccini più protettivi possa non essere necessario un richiamo dopo un solo anno?  

R.: Qui entriamo nel campo delle ipotesi e le risposte certe solo il tempo sarà in grado di darle.

Il problema è ovviamente connesso alla persistenza endemica del virus nei prossimi mesi o, più pessimisticamente, a nuove ondate di infezione in una popolazione non coperta dalla vaccinazione e all’emergere di altre varianti. Per quanto riguarda la durata dell’immunità protettiva dobbiamo considerare  una possibile variabilità individuale e anche una variabilità indotta dai differenti tipi di vaccini somministrati, che al momento risultano tutti protettivi. Io non penso che si possa sostenere oggi con certezza la necessità di un secondo percorso di vaccinazione, ma è sempre meglio prepararsi a questa eventuale evenienza.

D.: Se si va a vedere nei rapporti dell’AIFA il tasso di effetti avversi segnalati per i vaccini anti-COVID in funzione dell’età dei vaccinati, si scopre che, diversamente da quanto l’uomo della strada potrebbe pensare, esso è maggiore nei giovani che non negli anziani. Suppongo che ciò avvenga perché l’effetto del vaccino si somma alla risposta immunitaria naturale, che è notoriamente massima nei giovani e decresce con l’età, fino a raggiungere il minimo negli anziani. Si tratta di una lettura corretta? E, in tal caso, non sarebbe opportuno dare ai giovanissimi una dose minore di vaccino (evidentemente per loro “sovradimensionato”), come si fa per alcuni farmaci, la cui dose consigliata è proporzionale al peso corporeo?  

R.: Penso che adottare una somministrazione personalizzata dipendente dall’età, dal peso corporeo come anche dalle condizioni di salute, di capacità di risposta immunitaria o metabolica di ciascuno di noi è qualcosa di futuribile, che rientra nel campo della medicina di precisione e della medicina personalizzata. Pensare di attuare simili pratiche in una campagna di vaccinazione di massa lo ritengo molto difficile. D’altronde stiamo parlando di effetti indesiderati di lieve entità.

D.: Il principale vaccino italiano in corso di sviluppo, ReiThera, essendo a vettore virale Come Astrazeneca, Johnson&Johnson e Sputnik, rischia di finire in un “cul de sac”, travolto dalla scelta europea di privilegiare i più tecnologici e moderni vaccini a mRNA messaggero. Sebbene questi ultimi abbiano il non trascurabile vantaggio di essere aggiornabili rapidamente in caso di nuove varianti del virus, non trova assurdo rinunciare a mesi di lavoro già fatto solo per l’errata comunicazione del rischio relativa ai vaccini a vettore virale? E cosa pensa dell’idea dell’UE di rinnovare gli accordi di fornitura fino al 2023 per vaccini a mRNA, quando invece dovremmo puntare a vaccini “universali” (che nel frattempo vi saranno)?  

R.: Indubbiamente i vaccini a mRNA sono quelli di più nuova concezione e, a oggi, quelli che hanno risposto meglio in termini di protezione e assenza di effetti indesiderati gravi. Resta il problema, per questi vaccini, della catena del freddo. In questo campo le ricerche stanno progredendo e la stessa Pfizer ha iniziato un trial clinico utilizzando un vaccino stabilizzato mediante liofilizzazione. Si tratta di un procedimento costoso, e al contempo altre strategie vengono perseguite, come l’alterazione delle particelle lipidiche che proteggono e custodiscono le molecole di RNA, in modo da rendere il preparato stabile a temperature meno stringenti. È ipotizzabile ritenere che, per le prossime pandemie, potremo anche avere  un vaccino a mRNA  che non necessiti della catena del freddo.

Non trovo pertanto sbagliato che  per il futuro si punti in modo particolare su questa piattaforma, anche per la formulazione di vaccini cosiddetti universali. D’altronde, da notizie apparse sulla stampa ho appreso che anche ReiThera, a cui è stato assegnato il compito di formulare e produrre un vaccino “italiano”, abbia dichiarato di volersi orientare verso questa nuova tecnologia. Per dirla tutta, personalmente non credo che sia facilmente attuabile una riconversione così immediata e non credo neanche che sia giusto dover investire in un vaccino cosiddetto italiano. Credo invece nella necessità di investire risorse pubbliche nella ricerca e produzione di vaccini, ma penso che ciò vada fatto in un contesto europeo in cui l’Italia con le sue strutture e le sue capacità professionali abbia un ruolo di protagonista.

Questa è una scelta che spetta alla politica congiuntamente ai vertici delle nostre Istituzioni di Ricerca e che spero venga fatta. D’altra parte, ritengo che questa sia un’esigenza condivisa anche da altri paesi europei.  Ad esempio la Francia si trova in  condizioni  simili alle nostre. Dopo l’annuncio, nei mesi scorsi, da parte del direttore scientifico dell’istituto Pasteur Christophe D’Enfert di aver abbandonato lo sviluppo di un vaccino anti-COVID-19, ve ne è stato uno, più recente, di voler di nuovo investire sullo sviluppo e sulla produzione di vaccini utilizzando le piattaforme più innovative.

Anche in Francia si lamenta che quest’“impasse” sia non solo la conseguenza di problemi strutturali dovuti al peso burocratico esercitato sulla ricerca biomedica pubblica e privata, ma anche della riduzione dei finanziamenti. Nel numero della rivista Science del 23 aprile è riportata una tabella indicativa della contrazione delle spese in campo Biomedico in Francia tra il 2011 e il 2018,  che risulta essere del 28%, a fronte di un incremento in altri paesi, come la Germania o il Regno Unito. È importante far presente che, dalla stessa tabella, si evince che la contrazione per l’Italia – che già partiva da un investimento minore – è stata, negli stessi anni, del 39%.

D.: Se si fa una ricerca su Google digitando le due semplici parole “COVID CNR”, si ottiene un risultato abbastanza sorprendente: nelle prime quattro pagine di news, al di là delle previsioni indipendenti del matematico Giovanni Sebastiani (IAC-CNR), di un articolo sul contact tracing pubblicato su Nature e di uno studio CNR-ISS-INMI sull’utilizzo di interferone beta per la cura domiciliare dei pazienti COVID-19, il suo Ente di ricerca pare molto assente, specie sul versante vaccini, nonostante il polo di 2 Istituti in cui lavora sia un fiore all’occhiello in questo campo. Perché il CNR non è più coinvolto, soprattutto nello sviluppo di un vaccino anti-COVID, cosi importante per l’indipendenza da Paesi terzi e aziende?     

R.: Non posso che essere d’accordo sull’analisi dello stato del CNR che c’è nella sua domanda. Posso anche assumere una quota di colpe – come ricercatore CNR – per l’ incapacità a eccellere in questo campo della ricerca. Tuttavia, ritengo che le responsabilità maggiori siano a carico di chi ha governato il CNR indirizzando e promuovendo la sua attività scientifica negli anni  passati e più o meno recenti, e che da ultimo non ha posto le condizioni affinché anche il CNR potesse dare un contributo alle più importanti ricerche sul COVID-19.

Per quanto riguarda i vaccini COVID, purtroppo Il CNR si è prestato al ruolo di “Bancomat” ministeriale, dirottando 3 milioni di euro ad un accordo con Regione Lazio e Istituto Spallanzani volto a finanziare il vaccino della ReiThera, senza nessun coinvolgimento dei propri ricercatori. Mi duole aggiungere che, all’inizio dell’emergenza COVID, il CNR ha allestito una cabina di regia costituita esclusivamente da dirigenti amministrativi, ad eccezione di un direttore d’istituto con specifiche competenze in virologia e non in rappresentanza della comunità scientifica. Ciò ha determinato un blocco della ricerca, relegando gran parte delle attività di Ricerca in “lavoro agile”.

D.: Secondo uno studio uscito a marzo, svolto dall’Ospedale Niguarda di Milano in collaborazione con l’Università di Milano, il 98,4% dei circa 2.500 sanitari vaccinati (tra gennaio e febbraio con due dosi) presso tale ospedale è risultato immunizzato contro il COVID-19, ma l’1,6% no. Si trattava, a quanto pare, di 4 persone immunodepresse, con trascorso di trapianti o patologie che implicano l’uso di farmaci che inibiscono la naturale risposta immunitaria, per cui hanno sviluppato un livello di anticorpi molto basso, nettamente inferiore rispetto al resto della popolazione. La domanda sorge quindi spontanea: come si devono proteggere soggetti simili, posto che l’immunità di gregge pare essere una chimera?

R.: Esistono, in questo caso, delle chiare linee guida reperibili nel portale del Ministero della Salute che riguardano in particolare le raccomandazioni per le persone immunodepresse. Anche riguardo all’accesso alle vaccinazioni le indicazioni del Ministero della Salute sono chiare. Infatti, secondo il piano strategico le persone con immunodeficienza o in trattamento con farmaci immunomodulatori devono essere vaccinati nelle prime fasi. Aggiungo che, a tutt’oggi, non è stata riportata nessuna infezione severa nei soggetti vaccinati e pertanto si spera che un minimo di protezione si instauri anche in individui immunodepressi. In linea generale, come sottinteso nella sua domanda, questa fascia della popolazione è quella che dovrebbe maggiormente beneficiare dell’“effetto gregge” determinato dalla vaccinazione di massa.

D.: Il professor Andrea Gambotto (Università di Pittsburgh, Pennsylvania), uno scienziato italiano trapiantato negli USA, dove è ricercatore di punta di un centro di eccellenza, è stato il primo studioso a individuare, nel 2003, la proteina “spike” come bersaglio dei vaccini anti-coronavirus. Il suo studio del 2003 pubblicato su Lancet è infatti stato il primo in letteratura sul tema, ma all’epoca nessuno finanziò i trial clinici sull’uomo, altrimenti avremmo avuto subito un vaccino efficace contro il SARS-CoV-2. In compenso, grazie all’attuale “corsa ai vaccini”, contro qualsiasi nuovo coronavirus che emergerà in futuro da un serbatoio animale, la prossima volta dovremmo essere assai più pronti. O non è detto?  

R.: Lo spero ardentemente e ricordo il noto aforisma dello studioso che ha rivoluzionato la Scienza (Louis Pasteur, ndr), aprendo la strada della vaccinologia: “La fortuna favorisce le menti preparate”.

D.: Secondo una dottoressa laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche che ha lavorato per vent’anni nell’industria farmaceutica, i vaccini anti-COVID sintetizzati usando linee cellulari immortalizzate (ad es. Astrazeneca) sono potenzialmente pericolosi sul lungo termine poiché, se rimangono residui di lavorazione nel vaccino, potrebbero innescare cancerogenesi. In effetti, Astrazeneca usa la linea cellulare HEK-293. È già stata usata per produrre precedenti tipi di vaccini? Quali tecniche di purificazione, fra le varie possibili, sono state usate per Astrazeneca (io non le ho trovate)? Non crede che debbano essere condotte analisi da terze parti per verificare, magari a campione, la totale assenza di tali cellule nei vaccini prodotti? 

R.: Sono d’accordo sull’importanza di conoscere in dettaglio le composizioni dei preparati vaccinali e la necessità di analisi terze. In un articolo ancora in preprint ed a cui ho fatto riferimento in una precedente risposta parlando di VITT, Andrea Greinacher et al. hanno identificato, mediante spettrometria H-NMR, alcuni additivi presenti nel vaccino Astrazeneca, come ad esempio EDTA, saccarosio ed istidina. Nello stesso preprint è riportato come la preparazione del vaccino comporti un trattamento con nucleasi per ridurre la contaminazione del DNA delle cellule packaging HEK-293. Essendo, se pur remoto, ipoteticamente possibile il rischio di integrazione cromosomica del DNA dei vettori adenovirali, tale rischio potrebbe aumentare utilizzando DNA in cui ci fossero rotture della doppia elica. È tuttavia doveroso dire che tali integrazioni non sono mai state dimostrate negli studi preclinici e clinici finora effettuati.

D.: Il virologo e grande esperto di vaccini Geert Vanden Bossche (che ha lavorato per OMS, FDA, CDC, GAVI, Bill e Melinda Gates Foundation, etc.) è assai preoccupato: fare una vaccinazione di massa a pandemia in corso con vaccini “non sterilizzanti”, oltre a rischiare di creare una variante che “bypassi” i vaccini attuali, ha un’altra importante conseguenza: la soppressione temporanea del baluardo contro questo virus costituito dall’immunità naturale “innata”, cosa assai problematica (specie fra i più giovani), poiché renderebbe addirittura controproducente l’immunità artificiale indotta dagli attuali vaccini, che è solo “proteina spike-specifica”, il che rischierebbe di causare un’ecatombe. È d’accordo con la sua analisi?

R.: Sono in completo disaccordo con queste affermazioni. Basterebbe ricordare i 50 milioni di morti della pandemia “Spagnola” del 1918, che colpì un mondo meno interconnesso e meno densamente popolato di quello attuale. I dati che emergono da paesi come Israele, Regno Unito e Stati Uniti, in cui le vaccinazioni hanno coperto un maggior numero di persone, indicano una netta riduzione di mortalità. C’è oramai un generale consenso, da parte degli epidemiologi, sulla necessità di vaccinare prima la popolazione anziana ed a rischio di malattia grave. La risposta ai vaccini risulta essere policlonale e, sebbene limitata alla proteina spike, aumenta di fatto il repertorio della risposta anticorpale rispetto all’infezione naturale. Credo che si debba continuare con la vaccinazione di massa, estendendola a tutte le fasce di età ed a tutti i paesi del globo.




Il “boom” dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la “tempesta perfetta”

Quando, poco più di un anno fa, l’epidemia cinese del SARS-CoV-2 è diventata una pandemia, in realtà per il nostro Paese temevo più gli impatti economico-sociali che non quelli sanitari, sebbene i primi tendano sempre a passare in secondo piano nelle valutazioni quantitative dei media, lasciando passare inconsciamente il messaggio che siano qualcosa di secondario, mentre così non è (non fosse altro perché impattano su una platea di persone di un paio di ordini di grandezza maggiore).Oggi è possibile capire molto meglio questo discorso. Quella che incombe sull’Italia è, infatti, la “tempesta perfetta”, combinazione tra: (1) effetti della pandemia sulle attività commerciali, (2) forte ascesa dei prezzi delle materie prime, dell’energia e dei trasporti che impatta su industrie e famiglie, e (3) ritardi nella campagna vaccinale italiana rispetto agli altri Paesi industrializzati, che rischiano di esacerbare ulteriormente gli effetti delle altre due componenti. Ciò aumenta di molto la fragilità rispetto a eventuali ulteriori “sorprese” negative e non di poco il rischio che la situazione possa degenerare sotto l’aspetto sociale e che si possa verificare, sul breve termine (12-24 mesi), un “cigno nero” con effetti sistemici che cambierebbe il corso della Storia. Per tali motivi, il rapporto rischio-beneficio dei lockdown sembra essere ormai pessimo.

L’aumento dei prezzi di materie prime, energia e trasporto merci

Rincari abnormi (quasi sempre a doppia cifra) e continui da mesi delle materie prime, irreperibilità dei materiali necessari per le lavorazioni e dei container per le esportazioni dei beni prodotti, allungamento dei tempi di consegna, aumento dei costi del trasporto: molte aziende manifatturiere italiane – dal Nord al Sud della penisola – stanno riscontrando tutte insieme queste criticità [15]. Anche i costi del petrolio, dei carburanti alla pompa e quello dell’energia sono in forte rialzo. Infine, a livello internazionale, i prezzi dei generi alimentari crescono da 9 mesi consecutivi, con il mais a tirare la volata [12].

La pandemia è stata accompagnata da significative interruzioni della catena di approvvigionamento che hanno causato molti diversi tipi di carenze che hanno afflitto il settore manifatturiero già durante i mesi invernali e che si stanno ora acuendo. Infatti, la rapida ripresa dell’economia globale iniziata alla fine della prima ondata è arrivata con una ripresa del commercio globale molto più rapida di quanto inizialmente previsto, e ciò non ha fatto altro che aumentare la richiesta di materie prime e di componenti. I risultati sono tempi di approvvigionamento più lunghi e prezzi di produzione aumentati.

Una delle principali interruzioni che incidono, ad esempio, sull’elettronica di consumo è rappresentata, al momento, dalla carenza di chip per computer. In parte a causa dello stesso problema che causa il picco della domanda di container – la rapida ripresa della domanda di beni (semi-)durevoli – la domanda di semiconduttori è aumentata rapidamente negli ultimi mesi, anche perché è supportata da altri fattori a lungo termine, come il lancio del 5G, che sta aumentando la domanda di nuovi telefoni cellulari e l’elettrificazione dei veicoli che aumenta la domanda di chip per computer.

Il rapido ritorno del commercio mondiale ha inoltre causato un aumento inaspettato della domanda di spedizioni e container già dopo la fine della prima ondata del coronavirus. Con le partenze a vuoto – cioè le partenze annullate delle navi merci – ancora elevate e con i container molto richiesti, i tempi di approvvigionamento sono aumentati, le scorte sono diminuite drasticamente e le tariffe di trasporto sono aumentate vertiginosamente dalla fine del 2020. L’indice dei costi di spedizione suggerisce un aumento del 200% dall’inizio della pandemia, circa un quarto del quale si è verificato quest’anno [1].

Sebbene non ci si aspetti che l’intero aumento dei costi delle materie prime e delle tariffe di trasporto venga trasferito al consumatore, esso dovrebbe avere comunque un effetto al rialzo sui prezzi al consumo, che ovviamente si concentreranno – oltre che sui costi dei carburanti e dell’energia – principalmente sul costo delle materie prime e delle merci importate, e in particolare di quelle che hanno costi di trasporto più alti. L’impatto sui prezzi alla produzione, per un Paese come l’Italia che dipende quasi totalmente dall’estero per materie prime e merci, potrebbe quindi essere presto notevole.

I prezzi delle materie prime hanno storicamente eseguito cicli che spesso si svolgono nel mondo di un determinato mercato – il prezzo del petrolio greggio, ad esempio, può aumentare mentre quello del mais crolla – ciascuno per ragioni separate. Ma cosa succede se un gruppo di materie prime si unisce alla festa nello stesso momento? Ciò è chiamato un “superciclo” delle materie prime e vari professionisti del mercato ritengono che un tale fenomeno stia accadendo ora [2, 14]. Ciò, non sarebbe una novità, poiché ciò è già successo dopo la SARS del 2003, culminando con la grande crisi finanziaria del 2008.

Andamento storico dell’indice dei prezzi delle materie prime (include sia carburanti che metalli e altri tipi di commodities). Si vede molto bene il “superciclo” iniziato proprio dopo l’epidemia di SARS del 2003 e culminato nel 2008, quando il petrolio (e altre materie prime) erano “alle stelle”, a seguito della grossa crisi bancaria innescata da quella dei mutui sub-prime, avvenuta nel 2007 negli Stati Uniti.

I dati, d’altra parte, sembrano parlare chiaro. Il rame e altri metalli industriali sono già aumentati enormemente di prezzo, così come i semi di soia. Pare che la crescente domanda globale di cibo, petrolio e metalli, così come la domanda di automobili e cibo in Cina, stiano guidando un nuovo superciclo che potrebbe durare nel tempo, con tutte le conseguenze del caso. Infatti, oggi non è necessario scambiare materie prime per trovare opportunità in un superciclo, ovvero per fare speculazione, ma ciò non fa altro che incrementare il problema, come avvenne già nel già citato periodo 2003-2008.

Dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione

Nel 2007, vi è stata la famosa crisi dei mutui subprime. A causarla sono stati gli hedge fund, le banche e le compagnie di assicurazione. Infatti, gli hedge fund e le banche hanno creato titoli garantiti da ipoteca. Le compagnie di assicurazione li hanno coperti con i cosiddetti “credit default swap” (CDS). E la domanda di mutui ha portato a una bolla patrimoniale nel settore immobiliare. Quando la Federal Reserve americana ha alzato il tasso sui fondi federali, ha fatto salire alle stelle i tassi di interesse sui mutui regolabili. Di conseguenza, i prezzi delle case sono crollati e i mutuatari sono andati in default [3].

I derivati – e alcuni dei prodotti derivati più complessi sono proprio i CDS all’origine alla crisi dei mutui subprime – diffondono il rischio in ogni angolo del globo, specie se sono “in pancia” alle banche. Ciò ha causato la crisi bancaria del 2007, la crisi finanziaria del 2008 (con il crollo dei mercati delle materie prime e azionario) e la cosiddetta “Grande Recessione”, la peggiore recessione dalla Grande Depressione, la grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni Venti, cui fece seguito il crollo della Borsa valori del 24 ottobre 1929, dopo anni di boom azionario.

In pratica, la crisi dei mutui subprime scoppiata nell’agosto 2007 si è trasformata in pochissimo tempo nel più grande shock finanziario dalla Grande Depressione, infliggendo gravi danni ai mercati e alle istituzioni al centro del sistema finanziario. Ma alla fine la crisi finanziaria ha iniziato ad avere gravi effetti sull’economia reale, portando il mondo in una profonda recessione. Dunque, i mutui subprime sono stati l’innesco di un incendio che si è poi propagato alle banche (come la Lehman Brothers, il più grande fallimento bancario della Storia), successivamente ai mercati finanziari e, infine, all’economia reale.

È però importante tornare indietro ed esaminare gli eventi che hanno portato alla crisi dei mutui subprime [4]. All’inizio del 2000, l’economia era a rischio di una profonda recessione dopo lo scoppio della bolla delle dotcom. Prima dello scoppio della bolla, le valutazioni delle società tecnologiche erano aumentate notevolmente, così come gli investimenti nel settore. Le società junior e le startup che non producevano ancora entrate stavano ottenendo denaro da venture capitalist e centinaia di aziende si quotarono in borsa. Questa situazione fu aggravata dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.

Le banche centrali di tutto il mondo cercarono allora di stimolare l’economia come risposta. Creavano liquidità di capitali attraverso una riduzione dei tassi di interesse. A loro volta, gli investitori cercavano rendimenti più elevati attraverso investimenti più rischiosi. I prestatori si assumevano anche rischi maggiori, approvando prestiti ipotecari subprime a mutuatari con scarso credito, nessun patrimonio e, a volte, nessun reddito. Questi mutui sono stati riconfezionati dai prestatori in titoli garantiti da ipoteca e venduti agli investitori. Ciò ha portato alla bolla immobiliare, che dopo un po’ è scoppiata.

Nel frattempo, però, erano accadute anche altre cose che ci interessano molto da vicino. Dal novembre 2002 al luglio 2003, la SARS, una grave polmonite atipica di origine virale apparsa nel Guandgong (in Cina) produsse un’epidemia che causò 774 decessi in 17 Paesi, per un tasso di letalità finale (CFR) del 9,6%. Sebbene la SARS sia scoppiata nel novembre 2002, non iniziò a influenzare i mercati finanziari fino ad aprile 2003, quando l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) emise un avviso globale su questa nuova malattia. L’impatto negativo sulle borse cinesi (indice MSCI China) segnò quasi un -10%.

All’inizio dell’epidemia di SARS, il mercato azionario USA (che rappresenta il punto di riferimento per gli investitori di tutto il mondo) stava appena uscendo da un mercato ribassista, ma raggiunse un altro minimo nel primo trimestre del 2003 a causa delle preoccupazioni per l’epidemia. Il risultato è stato un nuovo test dei minimi del 2002 nel marzo 2003, ma poi quella è stata la fine di quel mercato ribassista. Una situazione del tutto simile si è avuta per l’indice del mercato azionario mondiale (MSCI Global Index), che da allora ha galoppato nella sua crescita – insieme all’indice delle materie prime – fino al crash del 2008.

Andamento storico dell’indice del mercato azionario globale (MSCI World Index). Anche in questo caso si assiste a una galoppata dei prezzi azionari, iniziata dopo l’epidemia di SARS, fino agli eventi del 2007-2008 che provocano il crollo delle Borse e dei prezzi delle materie prime, portando alla Grande Recessione.

Il diverso impatto sui mercati della SARS nel 2003 e del SARS-CoV-2 oggi

È interessante vedere le differenze fra la situazione attuale e quella della SARS del 2003, a cominciare dagli indici di borsa e delle materie prime. L’indice azionario mondiale (MSCI Global Index) è crollato dai 2177 punti del 10 febbraio 2020 al minimo di 1694 (-22%) del 16 marzo 2020, dopodiché ha iniziato a risalire ed è ora in fase di forte crescita. Anche l’indice del prezzo del petrolio (WTI) è precipitato dai circa 61 $ al barile del 1° gennaio 2020 al minimo di 16,5 $ (-73%) del 20 aprile 2020, ma poi ha preso a salire ed è in forte ascesa, come il prezzo di varie altre materie prime diverse dai carburanti (metalli, mais, etc.).

Mentre l’impatto sui mercati finanziari globali della SARS nel 2003 fu sostanzialmente modesto (comportando un calo inferiore al 10% sia dell’indice azionario globale sia di quello delle materie prime) e passa quasi inosservato nei grafici storici, l’impatto del SARS-CoV-2 contro cui combattiamo oggi è stato notevolmente superiore, non tanto sul mercato azionario (dove il circa -30% avutosi si può considerare una forte “correzione”) quanto piuttosto sul mercato delle materie prime (in particolare, per quanto riguarda il prezzo del petrolio, crollato di ben due terzi raggiungendo valori di prezzo decisamente bassi).

L’indice del mercato azionario globale (MSCI World Index), dopo essere crollato all’incirca di un 30%, sta decollando anticipando la ripresa dell’economia, essendo ormai stata superata la fase più critica della pandemia. Il problema è che anche i prezzi delle materie prime stanno facendo altrettanto, in un rally che fa pensare a un nuovo “superciclo”, sulla falsariga di quanto accaduto nel periodo 2003-2008.

Infatti, l’improvvisa epidemia di COVID-19 ha portato a un declino globale nell’impiego delle materie prime, influenzando notevolmente la domanda e l’offerta. Il mercato del petrolio è stato gravemente colpito a causa del crollo della domanda principalmente a causa delle restrizioni di viaggio e dei lockdown. Anche i prezzi dei metalli preziosi e industriali sono diminuiti, sebbene tale calo sia stato inferiore a quello del petrolio. L’industria agricola (e relative materie prime) sono risultate invece meno colpite, finora, da questa pandemia a causa della sua relazione indiretta con le attività economiche [5].

Come ai tempi della SARS, l’economia cinese è stata relativamente poco colpita dal nuovo coronavirus, soprattutto se si confronta l’impatto con quello sull’Unione Europea e sugli Stati Uniti. Tuttavia l’economia cinese, le dinamiche di mercato e la geopolitica sono cambiate drasticamente negli ultimi 17 anni [6]. Da una prospettiva internazionale, la quota della Cina del PIL mondiale è balzata dal 4% nel 2003 al 16% nel 2019, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale. Sul piano interno, invece, l’economia cinese è passata da una crescita trainata dalle esportazioni a una più guidata dai consumi.

La Cina rimane il più grande esportatore di merci al mondo, spedendo il 17,1% dei suoi 2,5 trilioni di dollari di merci nell’Unione europea nel 2019, il 16,7% negli Stati Uniti e l’11,1% a Hong Kong secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica cinese. Rispetto al 2003, la Cina è cresciuta fino a diventare il “polo produttivo” del mondo, trainando il consumo di materie prime come petrolio greggio e gas naturale. Essere il secondo importatore al mondo (dopo gli Stati Uniti) implica che un rallentamento dell’economia cinese smorza la domanda globale di materie prime, mentre una ripresa lo accelera.

Pertanto, una frenata dell’economia cinese esercita pressioni al ribasso sui prezzi delle materie prime mentre, viceversa, un’impetuosa ripresa come quella che ci si aspetta con la fine della pandemia in USA ed Europa, li fa impennare. Allo stesso tempo, un rallentamento della produzione cinese interrompe le forniture per coloro che fanno affidamento sulle esportazioni cinesi per i loro processi di produzione (ad esempio, case automobilistiche, società tecnologiche e prodotti di consumo). L’importanza della Cina nella catena di fornitura globale sempre più intrecciata non può essere più sottovalutata.

In Italia ora i nodi verranno al pettine: gli errori nella gestione del Paese

L’analisi, fin qui fatta, della situazione a livello mondiale può forse apparire rassicurante per qualche politico italiano, ma non è purtroppo per nulla rappresentativa dello stato attuale in cui si trova il nostro Paese, il quale presenta delle peculiarità notevoli (che ora illustrerò in maniera sintetica) e tutti gli ingredienti per una “tempesta perfetta” sul breve o medio termine. Insomma, dopo essere stato l’“ombelico” del COVID in Europa, l’Italia rischia di esserlo anche della crisi post-COVID.

  1. L’Italia è fra i Paesi d’Europa con elettricità e gas più cari. Il nuovo sistema di tariffazione di recente introdotto, paradossalmente, ha penalizzato moltissimo chi consuma poco: su 100 euro, circa la metà se ne vanno fra cosiddetti “oneri di sistema”, tasse e accise, cioè vengono pagati anche se non si consuma nulla! Inoltre, il mercato libero in realtà ha sfavorito – anziché favorire – il calo dei prezzi dell’energia per famiglie e piccole imprese, come mostrato da un rapporto pubblicato dall’allora Autorità per l’Energia (oggi ARERA) [24]. Per molte famiglie, di fatto, le bollette di luce e gas sono oggi le più care d’Europa.
  2. L’Italia ha il prezzo del carburante fra i più cari d’Europa. In Italia i costi di benzina, gasolio e altri carburanti sono fra i più alti d’Europa, essenzialmente per due motivi. Il primo è la presenza di tasse e accise, che pesano per circa due terzi sul costo totale pagato per litro alla pompa. Il secondo – ma non meno importante – è il fatto che il prezzo dei carburanti alla pompa si comportano in modo molto rigido e lento rispetto al prezzo del petrolio quando quest’ultimo cala, mentre i rialzi dei prezzi dei carburanti sono forti e immediati quando il prezzo del petrolio cresce [10], come ad es. in questo periodo.
  3. I pedaggi delle autostrade italiane sono i più alti in Europa. Come se non bastasse, le tariffe autostradali in Italia sono di gran lunga le più elevate del Vecchio Continente. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono gratuite. In Svizzera si paga solo una vignette di circa 38 euro valida tutto l’anno. In Italia, ad es. già fare la tratta Ventimiglia-Bologna (460 km) sola andata costa 40 euro (pari a 8,7 euro ogni 100 km) [11]. Ciò impatta in modo estremamente rilevante sui trasporti su strada di persone e merci, specie per le piccole attività e le PMI, che non possono “spalmare” più di tanto questa voce di costo.
  4. L’Italia è ai primi posti nel trasporto su gomma in Europa. Secondo i dati forniti da Eurostat, nel 2017 in Italia circa il 60% delle merci totali (e ben l’80% di quelle movimentate su terra) erano veicolate da camion, mentre il resto era veicolato via nave, con solo una quota residuale che viaggiava via aereo. Delle merci movimentate su terra, il 20% che non viaggia su camion era veicolato da treni merci [9]. Nella graduatoria dei maggiori paesi d’Europa (inclusa la Gran Bretagna), l’Italia nel 2010 si collocava addirittura al secondo posto (dopo la Spagna) con la quota più elevata di trasporto su gomma. Ciò si traduce in maggiori costi e minore competitività.
  5. I ritardi nella campagna vaccinale. L’Unione Europea è in grande ritardo nella campagna vaccinale rispetto al Regno Unito, agli USA, etc. L’Italia, come ho illustrato nel mio precedente articolo [8] è ancora più in ritardo avendo usato per 3 mesi circa metà delle dosi per vaccinare persone con meno di 60 anni, mentre il 95% della mortalità per COVID si verifica fra gli over 60, perciò – complice la scarsità di vaccini – si è di molto dilatato il tempo di “uscita dal tunnel”. Ciò impatta sia sulle attività turistiche sia sui costi pagati per forniture e container, nel frattempo ordinati o opzionati da altri Paesi anche europei.
  6. La crisi e il caos all’ex Ilva. Senza acciaio un Paese non può funzionare e per la ripresa ce ne sarà tanto bisogno. La ex Ilva di Taranto, nel 2018, aveva una produzione annuale di acciaio stimata in 4,5 milioni di tonnellate. In base ai dati della World Steel Association, ciò corrispondeva a circa il 20% di quella italiana, che ammontava a 24,5 milioni di tonnellate, pari a circa il 15% della produzione europea, secondi solo alla Germania. La Cina conta da sola per poco più della metà della produzione globale, mentre l’Italia era decima in classifica [7]. Con uno stop dell’ex Ilva, i prezzi dell’acciaio avrebbero ulteriori picchi.

Gli effetti a medio e lungo termine della pandemia e l’incubo del “superciclo”

Quando, nel 1986, si verificò il disastroso incidente nucleare di Chernobyl, i morti nell’immediato furono solo poche decine, mentre furono 100 volte di più (secondo i dati ufficiali e 10.000 volte di più secondo alcune stime) nei vent’anni successivi, poiché le Autorità fecero diversi errori durante la gestione della crisi, fra cui quello di non far evacuare – se non con grandissimo ritardo – la popolazione delle città vicine e quello di non somministrare alle persone lo iodio-131 (come fatto invece in Polonia), causando così la morte di tantissime persone per tumore alla tiroide, che è l’organo più radiosensibile.

Verosimilmente anche nella crisi del COVID, a causa di una gestione largamente inappropriata, i danni avuti nell’immediato rischiano di essere relativamente modesti rispetto a quelli che il Paese pagherà sul breve termine (prossimi 12-24 mesi) e sul medio termine (anni). Naturalmente, mentre i morti immediati sono facili da contare, i danni a breve e medio termine – esattamente come nel caso di Chernobyl – sono più difficili da quantificare e sono di varia natura: morti per mancata cura e prevenzione di malattie croniche, aumento dei suicidi, della povertà e della disoccupazione, solo per limitarsi a quelli più ovvi.

Sostanzialmente, gli impatti della crisi da COVID sono – e saranno – di tre tipi: sanitari, economici e sociali. In realtà, vi sono forti interconnessioni fra questi tre aspetti, mentre la lettura che viene di solito superficialmente fatta si limita a evidenziare la sola connessione fra salute ed economia, che per quanto importante è solo un aspetto della questione. Inoltre, mentre conosciamo piuttosto bene le soglie del sistema sanitario, poco o nulla sappiamo delle soglie dei sistemi economici e sociali in un Paese avanzato, e quindi non abituato a gestire crisi caratterizzate da stress molto forti di varia natura.

I tre grandi impatti prodotti dalla pandemia sul nostro Paese: l’impatto sanitario da una parte e quello sui sistemi economici e sociali dall’altra. La loro quantificazione o stima è necessaria per determinare il rapporto rischi-benefici dei lockdown, una grandezza che non è fissa ma evolve nel tempo e che, come sarà chiaro alla fine dell’articolo, ha ormai raggiunto un valore enorme (nel senso che i potenziali rischi derivanti dall’impatto economico e sociale appaiono superare quelli – calcolabili – derivanti dall’impatto sanitario).

A differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei, l’impatto economico su centinaia di migliaia fra attività commerciali al dettaglio (in Italia nel 2018 erano circa 735.000) e piccole e medie imprese (che erano circa 148.000 a inizio 2020), nonché su intere filiere (cultura, turismo, ristorazione, sport, etc.), è stato disastroso, soprattutto perché da noi i “ristori” sono stati praticamente simbolici e non accompagnati da altre misure tese a mitigare i danni, per cui in questi mesi un numero enorme di attività hanno già chiuso per sempre i battenti e ancor più sono, a loro volta, sull’orlo della chiusura definitiva. Fra l’altro si noti che, Grecia a parte, nessun Paese europeo ha una quota di lavoro autonomo alta come l’Italia.

Ma nell’analisi dell’impatto economico della pandemia ci si limita di solito, nel dibattito pubblico ad es. sui media televisivi, a evidenziare solo questi effetti assolutamente “ovvii” mentre, come ho illustrato in precedenza, vi sono tutti i presupposti per un impatto ancora più forte – e riguardante una platea di soggetti economici più vasta, comprendente la media e grande industria manifatturiera – nel prossimo futuro, per la prevedibile dinamica di aumento dei prezzi di materie prime e trasporti, che presto si potrebbe tradurre anche in rincari generalizzati per ortofrutta, alimentari e quant’altro.

Infatti, mentre un ciclo normale delle materie prime può durare pochi mesi o alcuni anni, un superciclo, al contrario, può durare un decennio o più e di solito include (o è guidato da) molte delle materie prime industriali più utilizzate e negoziate attivamente come petrolio greggio, rame e cereali [2]. E chi conosce il trading sa bene che entrambi i cicli – normale o “super” – sono caratterizzati da più fasi, e noi ora siamo appena nella prima fase, quella in cui la domanda supera l’offerta ed i primi investitori cominciano a investire “online” nelle materie prime, esacerbando ulteriormente la salita dei prezzi.

E nonostante siamo solo all’inizio del rally di un superciclo, gli effetti si sentono già, come ben illustrato da un articolo di Bloomberg [14]. Il petrolio è salito del 75% dall’inizio di novembre, da quando cioè le principali economie hanno iniziato a vaccinare le loro popolazioni ed a riaprire dopo la pandemia che ha chiuso fabbriche e bloccato aerei. Il rame, utilizzato in tutto, dalle automobili alle lavatrici e alle turbine eoliche, è scambiato ai livelli visti l’ultima volta ben dieci anni fa. I prezzi del cibo sono aumentati ogni mese da maggio. Il flusso di denaro che ne è derivato è stato un sollievo solo per i Paesi esportatori.

Un impatto sottovalutato del mix di fattori: quello su industria, edilizia, etc.

Insomma, le ripartenze disallineate tra diversi paesi con filiere che invece restano globali hanno creato e creano diversi scompensi che stanno già presentando il conto alle nostre imprese manifatturiere [15]. Innanzitutto quello dei prezzi. Quasi tutti i fornitori hanno aumentato i prezzi. Le quotazioni di materie prime come i metalli sono infatti salite ai massimi livelli. L’altro problema è quello del reperimento dei materiali: c’è scarsità sul mercato. L’anno scorso molte aziende italiane si sono fermate per il COVID, mentre quest’anno rischiano di fermare le produzioni per i materiali che non arrivano.

Negli ultimi mesi sono raddoppiati i prezzi di molte materie prime provenienti da Cina, Corea, USA, etc. e si sono dimezzate le forniture, il che potrebbe far “saltare” ad esempio il sistema edilizia in Italia e non solo quello [13]. Si fa sempre più fatica a reperire sul mercato materie plastiche, materiali ferrosi e i semilavorati con cui confezionare i propri prodotti [15]. Alla Electrolux, la grande fabbrica di lavastoviglie, le linee di produzione sono già ferme per la mancanza di componenti elettronici e di circuiti stampati [16]. Perfino le concerie sono in ginocchio, con i prezzi delle pelli bovine che crescono senza sosta da mesi.

Possono sembrare casi isolati, ma in realtà si tratta di una situazione generalizzata legata ai rincari delle materie prime, con aumenti che per il legname hanno raggiunto il 20%, con forti ripercussioni per il comparto dell’arredo, mentre per acciai e lamiere si parla di incrementi dal 15% al 45%, a seconda delle tipologie, con apici che addirittura arrivano al 60-70% [16]. Stesso discorso per la plastica, con prezzi cresciuti alle stelle. Molteplici le ragioni, a iniziare dall’accelerazione dei mercati di Stati Uniti e Cina, che hanno visto l’impennata della domanda a cui è seguito il rialzo dei prezzi.

Le dinamiche della domanda, però, non giustificano da sole questi aumenti. In effetti, il trend è sostenuto e amplificato dagli investimenti finanziari (non a caso i grandi investitori si sono spostati dall’oro, il cui prezzo sta crollando, alle materie prime, che permettono grandi guadagni tramite i futures, gli ETF, etc.), con riflessi sui trasporti che – a loro volta – hanno registrato aumenti delle tariffe, il che ora induce le aziende a rallentare la produzione nonostante la ripresa degli ordini. Questa crescita abnorme dei prezzi è per l’Italia destabilizzante e rischia di inibire qualsiasi potenziale ipotesi di strenua ripartenza.

Anche le  imprese del settore plastica si trovano ad affrontare un passaggio molto delicato [13]: “per tutti i polimeri di interesse per il settore – dal polietilene al PVC e al PET, compresi i biopolimeri ed i riciclati – gli incrementi di prezzo superano in molti casi il 100%. Questo quando li si trova: ma le quantità a disposizione sui mercati mondiali sono nettamente inferiori ai bisogni e quindi accade spesso di non riuscire affatto a reperire i materiali necessari alla produzione. Con la plastic tax prevista a luglio, il risultato è una marginalità troppo bassa, che mette a repentaglio gli equilibri di bilancio delle imprese”.

Come spiega molto bene un ingegnere, le cose non vanno bene neppure nel settore edilizio: “I container ed i bancali per le spedizioni non si trovano e ora costano il triplo. Molte resine – fondamentali per le costruzioni – sono introvabili, e con aumenti di prezzo superiori al 100%. Non si trova l’acciaio. Di conseguenza i fornitori e le imprese bloccano la firma di nuovi contratti, ed a rischio ci sono le forniture di molti cantieri. Infatti, la normativa attuale non prevede, purtroppo, adeguati meccanismi di revisione prezzi; in tale contesto, quindi, i contratti non risultano più economicamente sostenibili”.

Il rischio, insomma, è che nelle prossime settimane si debbano bloccare non solo le attività più piccole,che saranno le prime ad andare in crisi (non potendo contare su grandi scorte, economie di scala e sul maggiore potere contrattuale), ma anche i grandi cantieri delle opere pubbliche. Pure l’ANCE ha lanciato l’allarme [13]: “Il caro materiali non è più sostenibile per le imprese. Con un aumento del 130% dell’acciaio, del 40% dei polietileni, con i rincari di rame e petrolio e con la conseguente difficoltà di approvvigionamento, tanti cantieri pubblici e privati rischiano di bloccarsi con gravi ripercussioni economiche e sociali”.

L’impatto sul tessuto economico e sociale: la prevedibile crisi post-COVID

Se si considera che per l’industria manifatturiera il prezzo di un prodotto è composto da cinque elementi fondamentali – (1) il costo delle materie prime e/o dei componenti utilizzati, (2) il costo dell’energia usata per la lavorazione, (3) il costo del trasporto per consegnare il prodotto al cliente, (4) costi di manodopera, spese fisse, tasse, etc., (5) il margine di guadagno – è evidente che, poiché i costi dei prime tre fattori sono in aumento e destinati a crescere ulteriormente, il margine di guadagno per aziende già colpite dalla pandemia si riduce di parecchio e il mix può facilmente risultare “letale”.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Il fenomeno fin qui illustrato preoccupa e la soluzione non sembra a portata di mano perché le manovre speculative, che non rispondono alla normale legge della domanda e dell’offerta, sono difficili da arginare e governare. Il risultato è che il rischio di impresa si accentua di molto, e le aziende sono costrette a scegliere se accettare una forte riduzione dei margini di utile attesi e che variano al basso fra il momento dell’offerta e quello dell’ordine o proporre la ricontrattazione del prezzo definito, cosa che rischia di far perdere la commessa – o addirittura il cliente – a favore dei concorrenti stranieri che hanno costi più bassi.

Mentre i negozi sono stritolati soprattutto dalle chiusure del lockdown, dalle tasse dei rifiuti cresciute e dagli affitti insostenibili, le imprese sono in forte sofferenza perché i citati forti incrementi di costi si aggiungono alle già ingenti sofferenze finanziarie e patrimoniali connesse all’evento pandemico. Se a tutto ciò si aggiunge il divario temporale nell’“uscita dal tunnel”, dovuto ai ritardi nella campagna vaccinale italiana, rispetto alle maggiori economie mondiali (Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, etc.), si capisce come – a livello economico – il nostro Paese rischi di pagare un prezzo triplo per la pandemia.

Primo, perché il lockdown ha avuto un impatto enorme sulle piccole attività commerciali e su interi settori dell’economia; secondo, perché il boom dei prezzi di materie prime, semi-lavorati, energia, container e trasporti impatta (e impatterà) in modo pesante sull’industria; terzo, perché – complice anche la mancanza di programmazione del nostro Governo – si rischia di perdere pure il treno della ripresa costituito dalla stagione turistica, e che le nostre imprese siano le ultime perfino in Europa a fare gli ordinativi ed a cercare di rimpinguare le scorte, incontrando quindi maggiore scarsità e costi rispetto ai concorrenti.

Non è certo incoraggiante il fatto che, secondo il Rapporto sulla Competitività 2021 dell’Istat, già a novembre scorso quasi un terzo delle imprese italiane considerassero a rischio la propria sopravvivenza. Il crollo del valore aggiunto registrato nel 2020 è stato, secondo l’Istituto di statistica, dell’11,1% nell’industria in senso stretto, dell’8,1% nei servizi, del 6,3% nelle costruzioni e del 6,0% nell’agricoltura. Tra i servizi, commercio, trasporti, alberghi e ristorazione (-16%) hanno pagato il conto più alto; e nella manifattura il comparto del tessile, abbigliamento e calzature ha subito il crollo più grave (-23%).

Anche le famiglie non se la cavano meglio, e non solo per la crescita vertiginosa dei disoccupati. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari mette sotto pressione, a livello internazionale, i Paesi più poveri e, nel nostro Paese, le persone sotto la soglia di povertà, che spendono più di un terzo del loro reddito in cibo. Finora i prezzi sono aumentati solo di 2-3 punti percentuali nell’Unione Europea [12], ma solo perché, esattamente come i morti per COVID, sono l’ultimo anello della catena di eventi e quindi l’impatto vero si vedrà più avanti, e potrà superare di molto i bassi livelli di inflazione degli ultimi anni.

Nel passato, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari ha coinciso nel mondo con periodi di disordini sociali. Già solo un continuo aumento dei prezzi potrebbe scatenare rivolte sociali, specie nei Paesi più poveri ed economicamente e politicamente meno stabili, scatenando un effetto a catena che potrebbe coinvolgere anche le regioni in cui la pandemia sta creando tensioni politiche e difficoltà economiche [12]. Inoltre, la scarsità di offerta in economie interconnesse rischia di generare un nuovo protezionismo. E questo colpirebbe i Paesi meno autosufficienti e con uno scarso potere negoziale.

Il rischio del superamento di soglie critiche a causa dei trend crescenti

Come anche la casalinga di Voghera ha imparato durante la pandemia, quando si superano soglie critiche nascono grossi problemi, e ancor più quando le si superano in tempi rapidi, cosa che facilmente manda un sistema in crisi. Lo abbiamo ben visto, infatti, con le terapie intensive, che sono andate in tilt quando il numero di ricoverati ha superato una determinata soglia. Ma mentre la soglia delle terapie intensive è ben nota quantitativamente, non altrettanto si può dire per le soglie dei sistemi economici e sociali. Pertanto, queste soglie potrebbero venire a un certo punto superate, con conseguenze imprevedibili.

La crisi economica generata dalla pandemia ha colpito in modo generalizzato tutto il settore privato, cioè quello che genera entrate per lo Stato, risparmiando solo i dipendenti pubblici, che però dipendono da tali entrate. Inoltre, ha esacerbato in pochissimo tempo le disuguaglianze. Tra i più colpiti vi sono stati i giovani – tanto che la metà dei nuovi poveri ha meno di 35 anni – le famiglie di immigrati e quelle più numerose, con più di cinque componenti. Ma i rischi maggiori sono previsti per quest’anno, quando gli effetti della congiuntura economica negativa si acuiranno e gli ammortizzatori sociali termineranno.

Una delle cose che colpiscono della crisi attuale è che impatta negativamente su quasi tutti i soggetti economici privati, quelli che producono ricchezza ed entrate per lo Stato. Si salvano per il momento dagli effetti della crisi solo i dipendenti pubblici, che però vivono grazie alle entrate prodotte dai primi. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Negli ultimi dati Istat è segnalato il fatto che l’anno della pandemia, nonostante il blocco dei licenziamenti imposto dal Governo, ha mandato in fumo quasi un milione di posti di lavoro, 945.000 per la precisione. Le ripetute flessioni congiunturali dell’occupazione , registrate dall’inizio dell’emergenza sanitaria fino a gennaio 2021– spiega l’Istituto di statistica – hanno determinato un crollo dell’occupazione del 4,1%. La diminuzione coinvolge uomini e donne, dipendenti (-590.000) e autonomi (-355.000 se si adotta la nuova definizione Istat di occupato, se no la diminuzione è minore) e tutte le classi d’età. Il tasso di occupazione è sceso, in un anno, di 2,2 punti percentuali toccando il 56,5%.

Si può immaginare cosa potrà succedere una volta che verrà tolto il blocco dei licenziamenti, che comunque ha già un costo perché mette ancor più in difficoltà le piccole imprese già alla canna del gas. Non a caso, nel 2020 il tasso di mortalità delle aziende rispetto al 2019 risulta quasi raddoppiato per quelle del commercio (dal 6,6% all’11,1%) e addirittura più che triplicato per i servizi di mercato (dal 5,7% al 17,3%). In pratica, oltre 390.000 imprese del commercio non alimentare e nei servizi di mercato hanno chiuso i battenti nel 2020, un fenomeno certamente non compensato dalle sole 85.000 nuove aperture [18].

Pertanto, la riduzione del tessuto produttivo nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305.000 imprese (-11,3%). C’è poi tutta la filiera del tempo libero che, tra attività artistiche, sportive e di intrattenimento, fa registrare complessivamente un vero e proprio crollo, con la sparizione di un’impresa su tre. Alla perdita di imprese va poi aggiunta quella dei lavoratori autonomi: Confcommercio ha stimato la chiusura, nel solo 2020, di circa 200.000 partite Iva di persone operanti nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, amministrazione e servizi, attività culturali, sportive e altro.

E nel 2021, come spiega Andrea Muratore, “sull’economia italiana aleggia lo spettro di un’ondata di fallimenti nel mondo delle imprese all’esaurimento delle misure di sostegno economico alla liquidità e di rimborso di cassa integrazione e strumenti di sostegno simili. Ritorna a gravare sulla nostra società, in prospettiva, il fantasma della povertà e dell’esclusione sociale, che secondo uno studio di Unimpresa riferito a fine 2020 minaccia oltre 10 milioni di italiani. Il perimetro della minaccia riguarda oltre 1,2 milioni di soggetti in più rispetto a un’analoga rilevazione relativa al 2015, con una crescita del 13%” [17].

L’impatto della crisi pandemica sullo Stato e sulle banche italiane

Infine, la crisi provocata dal coronavirus ha peggiorato i conti pubblici. Secondo Carlo Cottarelli, nel 2021 il deficit per gli “scostamenti” (compreso quello di questo mese) sarà, verosimilmente, di almeno 195 miliardi e sarà coperto per intero da acquisti della BCE [19]. L’aumento del deficit si riflette anche sull’andamento del debito pubblico italiano, che secondo le stime arriverà quest’anno al 160% del PIL, dal 135% del 2019. Nella migliore delle ipotesi, questa cifra potrebbe stabilizzarsi nei prossimi due anni. Inoltre, nel 2020 la recessione ha causato un crollo del PIL dell’8,9%, a 1652 miliardi, maglia nera nell’UE [25].

Famiglie, imprese, banche, Stato: le prime due sono sotto forte stress, gli altri due potrebbero esserlo presto. Pur se non venissero superate soglie critiche, anche grazie al sostegno delle istituzioni europee (che alla fine dell’anno deterranno il 27% del debito pubblico), i margini di manovra per far fronte a eventuali future emergenze sono sempre più ridotti. Un discorso analogo si può fare per le attività, per le imprese e per le famiglie che non “salteranno” nel frattempo: saranno comunque assai più fragili nei confronti di nuove “sorprese” negative, e in questo senso il “boom” generalizzato dei prezzi non aiuta.

Ancor meno aiuta – anzi rappresenta un pericoloso “catalizzatore” negativo – la normativa imposta dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) che dal 1° gennaio comporta, in caso di scoperto per 90 giorni di 100 euro per le persone fisiche e di 500 euro per le aziende, il blocco del conto corrente (impedendo quindi la riscossione di eventuali crediti attesi) e la segnalazione alla centrale rischi come “cattivi pagatori”. Ciò nel migliore dei casi frena gli investimenti degli imprenditori, ma nel caso peggiore può tradursi, in pratica, nel fallimento per un’azienda ed in una sorta di “espulsione” dalla società per le persone fisiche.

Ci sono diversi modi per pagare come Paese il prezzo di una crisi, la peggiore che potesse capitare in oltre 70 anni di storia italiana ed europea. Bisogna sempre ricordare che lo Stato italiano, per funzionare, ha bisogno di circa 700-800 miliardi l’anno, forniti dalle tasse sotto forma di entrate tributarie (dirette e indirette) e dai contributi sociali. Mentre le centinaia di miliardi di liquidità che ci vengono “prestati” dai mercati finanziari acquistando i nostri Titoli di Stato sono rinnovi del debito pubblico che viene a scadenza (e che ci costa circa 60-70 miliardi all’anno di interessi). Una domanda che bisogna allora porsi, perché se la faranno – prima o poi – anche gli investitori è la seguente: come può un Paese nella situazione fin qui illustrata sostenere il debito pubblico terzo al mondo per volume (2.500 miliardi)?

Anche se la BCE al momento protegge con una sorta di “paracadute” il nostro Paese dall’esposizione verso i mercati finanziari e dalle relative speculazioni, non sappiamo fino a quando ciò potrà avvenire, né fino a quando riusciremo a evitare un downgrade a “spazzatura” dei nostri Titoli di Stato da parte delle agenzie di rating, cosa che potrebbe [20]: (1) fermare l’acquisto dei titoli italiani da parte dei grandi fondi sovrani e degli investitori istituzionali; (2) far impennare lo spread (costringendo lo Stato a promettere un alto premio di rischio per collocare il debito); (3) portare le banche italiane a pagarne lo scotto.

Infatti, le nostre banche di Titoli di Stato italiani ne hanno “in pancia” ben 370 miliardi. Se i nostri Titoli di stato fossero declassati a “spazzatura”, gli Istituti di credito stessi andrebbero successivamente incontro a svalutazioni, con tutti i riflessi del caso. I rischi sarebbero quindi: da una parte, dei fallimenti bancari, poiché ciò si aggiungerebbe ai crediti deteriorati prodotti dal fallimento delle imprese; e, dall’altra, quello di una ristrutturazione del nostro debito – verosimilmente coinvolgendo anche l’FMI, in uno scenario che ricorda vagamente quello già vissuto dalla Grecia – se non quello di un default più o meno pilotato.

L’impatto della pandemia sui conti pubblici e sulle banche italiane. In questa tabella ho riassunto i principali numeri illustrati nel testo. Dal primo scostamento di bilancio per 20 miliardi dell’11 marzo 2020, al secondo del successivo 24 aprile per 55,3 miliardi, per finire con i 25 miliardi del terzo scostamento (23 luglio), gli 8 miliardi del quarto (20 novembre) – più i 40 miliardi della Legge di Bilancio 2021 (anche per vaccini, assunzione medici, mascherine, etc.) – le risorse stanziate nei famosi “decreti Conte” sono servite solo in piccola parte per indennizzi e ristori, peraltro poco più che simbolici. I recenti D.L. Sostegni arrivano quindi, in molti casi, ormai “a babbo morto”. (fonti: Carlo Cottarelli [19], Istat e altre citate nel testo)

Se pensate che tutto ciò sia fantasia, guardate le righe rosse della tabella qui sopra. Non notate nulla di strano? Nel 2020 i soldi della Legge di Bilancio e dei vari scostamenti di bilancio con indebitamento netto (deficit) da parte dello Stato all’apparenza compensano il crollo del PIL. Ma in realtà non è così, perché sono stati impiegati per il Fondo di garanzia per i finanziamenti delle banche alle PMI (ne sono stati usati 83 miliardi), per pagare la cassa integrazione COVID (16 miliardi anticipati dall’INPS) e per numerose altre cose (a cominciare dall’acquisto di materiali sanitari, il cash-back, il Superbonus 110%, etc.). Difatti, sappiamo che le imprese più colpite hanno ricevuto fra il 2% e il 5% del fatturato perso: in pratica “briciole”.

Il “cigno nero”: l’impatto devastante dell’altamente (ma ora non poi così tanto) improbabile

Infine, con la pandemia è aumentato anche il rischio del cosiddetto “cigno nero”, l’evento inatteso che travolge tutto e tutti, cambiando il corso della Storia. Si noti che il coronavirus non è tecnicamente un cigno nero poiché manca una connotazione essenziale, l’imprevedibilità, anche se – a posteriori – molti eventi in realtà vengono giudicati prevedibili solo con il senno di poi. La teoria del cigno nero è però utile per capire il ruolo sproporzionato di eventi a forte impatto, rari e difficili da prevedere rispetto alle aspettative, e che potrebbero avere delle conseguenze addirittura sistemiche per l’economia e la società.

In realtà, quel che potrebbe accadere nei prossimi mesi o 1-2 anni non sembra così imprevedibile né così improbabile. Già a ottobre scorso il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati: “Questo shock senza precedenti della crisi COVID potrebbe causare qualche vittima fra le banche” [21]. Ed a novembre la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ma l’Europa è ancora una volta in ritardo, perché nel frattempo non ha varato veicoli appositi per gestire i crediti non deteriorati né ha modificato le norme sul tema.

Già a gennaio nelle banche italiane c’erano circa 70 miliardi di crediti deteriorati a causa della pandemia. Tale cifra salirà certamente di molto nel corso dell’anno, quando potrebbe avvenire il grosso dei fallimenti delle imprese. C’è quindi il rischio del tutto concreto che, per la prima volta, a pagare le conseguenze di un default bancario siano anche i correntisti, come previsto dalla nuova normativa sul bail-in. E se la banca è abbastanza grande, potrebbero facilmente essere coinvolti anche i conti dei risparmiatori sotto i 100.000 euro, poiché il Fondo interbancario di garanzia dei depositi non sarebbe in tal caso sufficiente.

Ciò, però, avrebbe verosimilmente due effetti già di per sé assai pericolosi: il primo è il panico e il caos più totali, con la corsa agli sportelli e non solo; il secondo è la propagazione di questo ben più veloce e temibile “contagio” ad altre banche italiane “pericolanti”. Infatti, come ha spiegato lo stesso Visco, “non c’è nulla nel quadro dell’Unione Europea di gestione delle crisi in grado di evitare che le difficoltà delle banche non sistemiche si trasformino in liquidazioni disordinate”. Insomma, se nei prossimi mesi si verificasse per più banche questo scenario, la pandemia sarebbe probabilmente l’ultimo dei nostri problemi.

Infatti, il rischio è che questi fallimenti iniziali facciano da “innesco” (trigger) per il fallimento di una o più banche italiane sistemiche (le famose “too big to fail”), che in quanto tali potrebbero estendere il problema ad altri Paesi europei, portandolo a una dimensione tale da non essere più gestibile. In tal caso si aprirebbero – verosimilmente  – scenari tali da far gelare il sangue nelle vene. Difatti, ciò non solo rischierebbe di far saltare l’area Euro ma anche, attraverso i derivati di cui sono imbottite alcune banche (ad es. Deutsche Bank), di propagare il contagio con fallimenti a catena al di fuori dell’area UE.

Come Andrea Muratore ha molto ben illustrato nei suoi articoli [22, 23], “il rischio di fallimenti a catena di imprese e istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shock bancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile. Con la fine del blocco dei licenziamenti e con l’onda lunga delle garanzie sui prestiti, lo Stato dovrà affrontare una tempesta estremamente problematica”. E infine, come ricorda Il Sole 24Ore: “Rimuovere troppo presto gli aiuti potrebbe avere l’effetto collaterale di provocare un aumento dei crediti deteriorati nei bilanci bancari. Nonché problemi per gli stessi governi a cui gli istituti potrebbero escutere le garanzie pubbliche che i governi hanno stanziato in abbondanza durante la crisi sanitaria”.

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari.

In conclusione, l’impatto economico della pandemia sull’Italia è ormai enorme, e non sembra che ci si possa permettere ulteriori chiusure (lockdown) né nelle prossime settimane né, tanto meno, nel caso in cui la variante sudafricana – o altre nuove varianti ancora non emerse – dovessero portare a una “quarta ondata”, ad esempio nel prossimo autunno. Per questo è fondamentale: (1) preparare quanto prima l’implementazione di un “piano B” (oggetto di un futuro articolo) che prescinda dai vaccini; (2) puntare fin d’ora alla produzione nel nostro Paese di vaccini a mRNA (facili e veloci da aggiornare alle nuove varianti e da produrre), per garantire in tempi ultra-rapidi le dosi quando saranno necessarie.

 

Riferimenti bibliografici

[1]  ING, “Container and shipping sgortage piles pressures on prices”, Hellenic Shipping News, 2 aprile 2021.

[2]  Blythe B., “COVID-19 Recovery May Be Driving New Commodity Supercycle”, The Ticker Tape, 22 marzo 2021.

[3]  Estevez E., “The Causes of the Subprime Mortgage Crisis”, The Balance, 17 settembre 2020.

[4]  Investopedia Staff, “Who Was to Blame for the Subprime Crisis?”, Investopedia, 12 gennaio 2020.

[5]  Rajput H., “A shock like no other: coronavirus rattles commodity markets”, Environ. Dev. Sustain., 11 agosto 2020.

[6]  FactSet Insight, “The stress of coronavirus”, FactSet, 20 febbraio 2020.

[7]  Pagella politica di AGI, “Come va la produzione di acciaio in Italia, in Europa e nel mondo”, AGI, 6 dicembre 2019.

[8]  Menichella M., “Un’analisi interdisciplinare: come (e perché) ottimizzare la campagna vaccinale in Italia”, Fondazione David Hume, 3 aprile 2021.

[9]  Massariolo A., “Trasporto merci: più del 60% avviene ancora su strada”, Il Bo Live, 22 febbraio 2019.

[10]  Rubini F., “Prezzo benzina non crolla con il petrolio: ecco perché”, Money.it, 23 aprile 2020.

[11]  Gabanelli M., “Perché le autostrade italiane sono le più care d’Europa”, Corriere.it, 10 giugno 2018.

[12]  Paganini P., “Tutti i rischi della geopolitica dei prezzi delle materie prime”, Formiche.net, 14 marzo 2021.

[13]  Dari A., “Aumento senza precedenti dei costi delle materie prime: salta l’edilizia?”, Ingenio, 26 marzo 2021.

[14]  Wallace P., “The Winners and Losers From Surging Oil and Commodity Prices”, Bloomberg.com, 11 marzo 2021.

[15]  Loschi I., “Rincari delle materie prime fino al 25% e difficoltà nel reperimento: aziende trevigiane in difficoltà”, Oggi Treviso, 30 marzo 2021.

[16]  Spezia M., “Materie prime scarse e troppo care, Electrolux in difficoltà”, TGR Friuli Venezia Giulia, 2 aprile 2021.

[17]  Muratore A., “Come l’Italia può reagire alla catastrofe economica in corso”, InsideOver, 6 aprile 2021.

[18]  Redazionale, “Covid e calo dei consumi, Confcommercio: ‘Sparite oltre 390mila imprese in un anno’”, LaStampa.it , 28 dicembre 2020.

[19]  Cottarelli C., “La terza ondata Covid peggiora i conti pubblici: verso 2.750 miliardi di debito. Ma sarà ancora di più nelle mani delle istituzioni UE”, Repubblica.it, 27 marzo 2021.

[20]  Zapponini G., “E se il rating dell’Italia fosse ‘spazzatura’? La mannaia S&P e la carta Bce”, Formiche.net, 23 aprile 2020.

[21]  Scorzoni M.T., “Visco: “Covid, shock senza precedenti: farà qualche vittima tra le banche”, First online, 22 ottobre 2020.

[22]  Muratore A., “Lo Tsunami bancario che può travolgere l’Europa”, InsideOver, 30 gennaio 2021.

[23]  Muratore A., “La marea crescente del debito privato ci sommergerà”, InsideOver, 14 gennaio 2021.

[24]  Comunicato stampa di ARERA, “Energia: mercati di massa dinamici, ma concorrenza ancora non matura”, Arera.it, 12 febbraio 2015.

[25]  Comunicato stampa dell’Istat, “PIL e indebitamento delle AP”, Istat.it, 1° marzo 2021.




Un’analisi interdisciplinare: come (e perché) ottimizzare la campagna vaccinale in Italia

“La via per uscire passa dalla porta. Chissà perché nessuno la prende mai”, diceva il filosofo cinese Confucio. Forse avrebbe pensato la stessa cosa se avesse assistito all’inizio della campagna vaccinale italiana anti-COVID, che fino a tutto marzo è stata praticamente un disastro, sia in termini assoluti sia se la si confronta con quelli di altri Paesi non solo extra-UE, ma anche della stessa Unione Europea. Ciò non solo per le disparità nei criteri adottati fra le varie regioni e per il fenomeno degli “imbucati” o “saltafila”, ma perché sono state vaccinate scientemente milioni di persone di fasce di età (ad esempio, quelle dei 20, 30 e 40 anni) che non avrebbero dovuto essere neanche vagamente considerate in questa fase, salvo poche eccezioni. In questo articolo vedremo come – e perché – sarebbe necessario ottimizzare quanto prima la campagna di vaccinazione per non pagare assai più caramente le conseguenze del ritardo accumulato.

Analisi spazio-temporale della mortalità da COVID-19 in Italia

L’ottimizzazione di una campagna vaccinale per il COVID-19 in presenza di una scarsità di vaccini non può prescindere dall’approfondita comprensione della mortalità per tale malattia attraverso un’attenta analisi della sua evoluzione nel tempo e della sua distribuzione nello spazio. In altre parole, non ci si può limitare alla sola (banale) constatazione che la mortalità è maggiore al crescere della classe di età.

E per poter analizzare questi aspetti aggiuntivi a cui facevo cenno non si può, naturalmente, prescindere dai dati. Partiamo quindi dalla seguente tabella fornita dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) [1], che mostra la percentuale di morti per COVID-19 in Italia per regione e per periodo, dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Viene mostrata, in particolare, la percentuale di morti nella prima “ondata” (marzo-maggio 2020), nella seconda “ondata” (ottobre 2020-marzo 2021) e nel periodo relativamente tranquillo fra le due ondate (giugno-settembre 2020), quando a molti politici il peggio sembrava passato. 

Tabella 1. Percentuale di morti per COVID-19 in Italia per regione e per periodo, dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Viene mostrata, in particolare, la percentuale di morti nella prima ondata (marzo-maggio 2020), nella seconda ondata (ottobre 2020-marzo 2021) e nel periodo fra le due (giugno-settembre 2020). (fonte: Rapporto ISS [1])

In questa tabella risulta interessante notare, innanzitutto, come vi siano state – analizzando i totali dopo un anno di pandemia – delle regioni italiane nettamente più colpite delle altre in termini di percentuale di morti sul numero totale dei deceduti per COVID: la Lombardia (29,2% dei morti totali), l’Emilia Romagna (11,0%), il Veneto (10,2%), il Piemonte (8,6%), il Lazio (6,1%). Tutte le altre regioni mostrano percentuali inferiori al 5%, mentre le 5 regioni considerate hanno visto morire ben il 65,1% dei deceduti totali per COVID-19, ovvero ben i due terzi del totale, cosa ben illustrata dal seguente grafico a torta.

Percentuale di morti per COVID-19 in Italia per regione dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Si noti come circa i due terzi dei morti siano concentrati in appena cinque regioni delle 21 che compongono il nostro Paese. (fonte: elaborazione dell’Autore)

L’altra cosa che è interessante notare nella tabella dell’Istituto Superiore di Sanità è il fatto che ben 4 di queste 5 regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte) sono state in testa a questa spiacevole classifica della percentuale di morti in tutte e tre le fasi considerate (1a ondata, 2a ondata, interregno fra le due). La Lombardia è sempre stata di gran lunga prima, ma nella prima ondata è stata seguita dall’Emilia-Romagna e dal Piemonte, mentre nella seconda ondata è stata seguita dal Veneto e dall’Emilia-Romagna (come, del resto, era avvenuto anche nel periodo di interregno fra le due ondate).

Per comprendere quanto questa distribuzione della percentuale di morti da COVID-19 a livello italiano sia del tutto anomala basta guardare la Tabella 2 qui sotto in cui ho mostrato, oltre alla percentuale di morti da COVID per regione dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021, anche: la popolazione di ciascuna regione; la percentuale della popolazione che risiede in quella regione rispetto al totale della popolazione italiana (59,6 milioni di persone) al 1° gennaio 2020; la mortalità da COVID-19 per regione, ovvero il rapporto fra i morti COVID nel periodo considerato e la popolazione della regione.

Tabella 2. Distribuzione per regione della popolazione italiana e dei morti da COVID-19 dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Viene mostrata anche la mortalità da COVID-19 per regione (ovvero la percentuale dei morti sulla popolazione della regione stessa) nel medesimo periodo di tempo. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati Istat e ISS)

Come si può facilmente vedere da questa mia Tabella 2, la mortalità da COVID-19 (cioè la percentuale di morti sulla popolazione della regione) – che è il parametro davvero importante in quanto disconnesso dal numero assoluto di abitanti residenti nella regione – è maggiore per certe regioni (non necessariamente le 5 citate in precedenza o le più popolose, come illustra il caso della Val d’Aosta) e minore per altre. Per capire se c’è uno schema che emerge dalla distribuzione della mortalità da COVID-19, è necessario ordinare le regioni in ordine inverso di mortalità, cosa che ho fatto nel grafico qui sotto (parte superiore).

Parte superiore: Andamento decrescente della mortalità da COVID-19 fra le varie regioni italiane (sempre nel periodo che va dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021), alla ricerca di uno schema interpretativo. Parte inferiore: come la precedente, ma con la mortalità riferita non alla popolazione totale della regione, ma alla sola popolazione over 70 (fonte: elaborazione dell’Autore su dati Istat [2] e ISS)

Il grafico in alto mostra chiaramente che le regioni caratterizzate da una maggiore mortalità da COVID-19 sono tutte regioni del Nord Italia (Valle d’Aosta, Lombardia, Emilia-Romagna. Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Veneto, Piemonte), seguite da regioni del Centro Italia (Marche, Toscana, Umbria, Lazio) con l’aggiunta di 2 del Sud (Abruzzo e Molise), a loro volta seguite da tutte regioni del Sud Italia e Isole (Puglia, Sicilia, Campagna, Sardegna, Basilicata, Calabria). Dunque, lo schema emerge eccome! Al Nord si muore di COVID-19 più che al Centro, ed al Centro più che al Sud.

Poiché è interessante capire se questo schema sia dovuto – ed eventualmente, in che misura – alla diversa percentuale di anziani nelle varie regioni, nel grafico in basso sono mostrate le regioni in ordine decrescente di mortalità ma quest’ultima è calcolata relativamente alla sola popolazione over 70: in altre parole, è ottenuta dividendo i morti totali per COVID in quella regione per il numero di over 70 di quella regione. Il risultato, come si vede, a parte qualche piccolo spostamento di alcune regioni, sostanzialmente non cambia: la mortalità mostra un gradiente, diminuendo dal Nord verso il Centro e il Sud. Insomma, la cosa sembra non essere casuale (e in effetti, in un futuro articolo, vedremo che non lo è).

Importanza dell’uscire velocemente dalla pandemia

A differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei, l’impatto economico su centinaia di migliaia fra attività commerciali al dettaglio (in Italia nel 2018 erano circa 735.000) e piccole e medie imprese (che erano circa 148.000 a inizio 2020), nonché su intere filiere (cultura, turismo, ristorazione, palestre, etc.), è stato disastroso, soprattutto perché da noi i “ristori” sono stati praticamente simbolici e non accompagnati da altre misure tese a mitigare i danni, per cui in questi mesi un numero enorme di attività hanno già chiuso per sempre i battenti e ancor più sono, a loro volta, sull’orlo della chiusura definitiva.

Purtroppo, la maggior parte dei politici che ci governano – dispiace dirlo, ma basta aver ascoltato un qualsiasi talk show negli ultimi mesi per potersene rendere conto – appaiono totalmente disconnessi dalla realtà (oltre ad avere davvero seri problemi con la matematica e con la logica). Non sembrano capire che anche soli 2 o 3 mesi di ritardo nel raggiungimento dell’obiettivo della campagna vaccinale (per un’errata strategia messa in atto dalle Autorità nazionali e locali) possono fare una differenza abissale per quanto riguarda l’impatto sul sistema economico e su quello sociale, anche per la presenza in tali sistemi di soglie critiche poco conosciute che si può scoprire di aver superato quando ormai è troppo tardi [3].

Secondo un’analisi [4] svolta a febbraio da Euler Hermes & Allianz Economic Research, un team di economisti esperti che analizzano i settori e i rischi paese per fornire una visione globale per i responsabili delle decisioni, il ritardo di 5 settimane nelle vaccinazioni accumulato dall’Europa costerà al Vecchio Continente qualcosa come 90 miliardi di euro nel 2021. Inoltre, secondo questi analisti, le implicazioni negative dovute al ritardo per alcuni Paesi dell’Unione Europea saranno enormi: “i Paesi che toccheranno per primi il traguardo saranno premiati con forti moltiplicatori positivi, mentre i ritardatari resteranno bloccati in modalità crisi, trovandosi ad affrontare costi economici e politici sostanziali”.

Le difficoltà di approvvigionamento dei vaccini, con i colli di bottiglia emersi nella produzione e nella distribuzione degli stessi, hanno portato l’UE, nel gennaio 2020, a un ritmo di vaccinazioni quattro volte inferiore a quello del Regno Unito e degli Stati Uniti. Poiché ogni settimana di prolungamento delle restrizioni sanitarie riduce di 0,4 punti percentuali la crescita del PIL trimestrale dell’Unione Europea, secondo il team di economisti “l’attuale ritardo equivale a circa 2,0 punti percentuali in meno, ovvero circa 90 miliardi di euro”. La cosa interessante è che questo valore “supera di ben 4 volte quello degli accordi che la Commissione Europea ha firmato con i produttori di vaccini per le dosi ordinate”.

Secondo lo studio citato, il costo economico del ritardo nelle vaccinazioni risulta essere dunque in rapporto di 4 a 1 con il costo di acquisto dei vaccini. In altre parole, un euro speso per accelerare la vaccinazione (ad esempio per realizzare infrastrutture per l’aumento della produzione di vaccini) potrebbe far risparmiare ai Paesi dell’UE quasi quattro volte questa cifra. Il vaccino agisce inoltre da “moltiplicatore degli investimenti e di consumi privati” e può permettere di “far ripartire l’economia dei servizi, liberare i risparmi forzati accantonati a titolo precauzionale e recuperare gli investimenti delle imprese”. Portare avanti le vaccinazioni il più celermente possibile è, dunque, fondamentale per il nostro Paese.

Fra l’altro, è interessante notare come i Governi dei diversi Paesi abbiano seguito strategie diverse per i vaccini. Ad esempio, gli Stati Uniti si sono comportati da “venture capital”, finanziando lautamente lo sviluppo di vaccini e raccogliendone ora i dividendi. La Svizzera ha puntato invece tutto sui vaccini di nuova generazione (quelli a mRNA Pfizer e Moderna) e alla data del 18 marzo la sua agenzia regolatoria ancora risultava non aver approvato il vaccino Astrazeneca. Il Regno Unito ha puntato sulla rapidità della vaccinazione con accordi “lampo” con le case farmaceutiche. L’Unione Europea, invece, ha puntato a spuntare il prezzo migliore, salvo farsi raggirare bellamente nelle clausole contrattuali.

Come lo studio concludeva, “per permettere una ripresa economica almeno nella seconda metà del 2021, i Paesi dell’UE devono intraprendere urgentemente un programma di vaccinazione mirato sulle persone a rischio (20-30% del totale, a seconda della composizione demografica) entro la metà del 2021, così da allentare le restrizioni senza pesare sul sistema sanitario”[4]. Ciò significa, in pratica, aumentare fortemente il numero delle somministrazioni giornaliere di vaccini e cercare di far salire anche la disponibilità a breve termine dei vaccini, autorizzandone di nuovi e stringendo nuovi accordi con i relativi produttori, nonché cercando di rimuovere i “colli di bottiglia” nella produzione di quelli già in commercio, ad esempio con lo sviluppo di nuovi siti produttivi, che torneranno molto utili nelle future campagne di richiamo.

La vaccinazione come metodo di controllo di un’epidemia

Nell’epidemiologia delle malattie infettive, l’efficacia di una strategia di controllo è spesso espressa nella capacità della strategia di ridurre il potenziale naturale di riproduzione del patogeno (Ro) o il numero di riproduzione calcolato nel corso del tempo (Rt) o, ancora, il numero giornaliero di contagiati, poiché si dà per scontato che, riducendo ad es. l’Rt a un valore inferiore a 1, siccome ciò vuol dire che una persona tende in media a infettarne meno di una l’epidemia tende gradualmente a estinguersi e, di conseguenza, prima o poi deve calare necessariamente anche il numero dei decessi giornalieri associati.

Vi sono molti modi per intervenire nel corso di un’epidemia per ridurre il numero delle infezioni e il numero dei morti. Gli interventi si possono distinguere, fondamentalmente, in due diversi tipi: (1) quelli farmaceutici (comprendenti l’uso domiciliare o ospedaliero di integratori, farmaci, anticorpi monoclonali, vaccini, etc.) e (2) non farmaceutici. Questi ultimi includono l’uso delle mascherine, il distanziamento sociale, misure come le restrizioni sui viaggi e la chiusura delle scuole, etc. La vaccinazione è uno dei più efficaci modi per ridurre il numero delle infezioni (se si usano vaccini cosiddetti “sterilizzanti”) o anche solo la mortalità (come nel caso dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio) [5].

I principali mezzi usati fino ad oggi dalle autorità politiche e sanitarie per ridurre il numero di infezioni e/o di morti per COVID-19. (fonte: elaborazione dell’Autore)

Infatti, i vaccini sviluppati dall’uomo per sé o per gli animali possono essere fondamentalmente di due tipi: vaccini sterilizzanti (cioè che impediscono a un agente patogeno di replicarsi nelle cellule e quindi di trasmettere l’infezione ad altri, come avviene ad esempio con il vaccino del morbillo e con altri vaccini tradizionali) oppure vaccini “leaky” (letteralmente “che perdono”), cioè che bloccano i sintomi e impediscono la morte delle persone ma non prevengono l’infezione o la trasmissione successiva ad altri. Quest’ultimo è verosimilmente il caso degli attuali vaccini anti-COVID [6], che prendono di mira la sola proteina “spike”, l’uncino che si lega alle cellule in cui verrà poi iniettato l’RNA da replicare.

In linea del tutto generale, una vaccinazione permette alle persone di sfuggire all’infezione in due modi: o direttamente o indirettamente. L’effetto diretto è misurato come la proporzione di individui che vengono vaccinati e quindi immunizzati. L’effetto indiretto – noto come “immunità di gregge” [7]  – è misurato come la proporzione di individui non vaccinati che sfuggono all’infezione grazie alla “terra bruciata” creata dalla vaccinazione. Si noti che il numero finale di infetti al termine di un’epidemia è uguale al numero totale di persone che si sono infettate, ovvero alla popolazione meno il numero di quelle che sono sfuggite all’infezione, perciò viene limitato dall’effetto totale della vaccinazione, diretto e indiretto.

In generale, la vaccinazione protegge gli individui inducendo una risposta immunitaria, che può durare per un certo periodo di tempo. Mentre la vaccinazione pediatrica è però una forma di vaccinazione pre-pandemica (cioè gli individui vengono vaccinati per evitare un’epidemia), quella attualmente in corso in Italia e in molti altri Paesi è una vaccinazione durante una pandemia, che, a causa del tipo di vaccini molto specifici e non sterilizzanti al momento usati, pone numerosi rischi a medio termine [6], oltre che un problema di ottimizzazione per riuscire a ridurre nel più breve tempo possibile l’impatto sul sistema sanitario e quindi, a cascata, su quello economico per via dei lockdown imposti.

L’ottimizzazione matematica di una campagna vaccinale è un’affascinante problema di matematica applicata [5] e dipende innanzitutto dall’obiettivo della campagna vaccinale. Essa ha interesse rilevante non solo in una situazione di scarsità di vaccini – come quella attuale – ma anche per il futuro, poiché tale necessità si potrebbe ripresentare in un prossimo futuro o per l’emergere di altri virus (questo è il terzo coronavirus in pochi anni ad aver fatto il “salto di specie”, dopo quelli responsabili della SARS e della MERS) o per l’emergere di nuove varianti del SARS-CoV-2 in grado di “bypassare” i vaccini attuali, situazione che potrà essere risolta solo quando si disporrà di vaccini “universali” (ad es. a virus inattivato) [6].

I possibili obiettivi di una campagna vaccinale, in generale, possono essere diversi. Uno potrebbe essere, ad esempio, quello di minimizzare il numero degli infetti, cosa possibile però con i vaccini sterilizzanti o solo debolmente “leaky”. Un altro potrebbe essere l’abbattimento del numero di morti legati alla diffusione del virus. Un altro ancora potrebbe essere il raggiungimento dell’immunità di gregge. Infine, un altro obiettivo – ancora più ambizioso – potrebbe essere l’eradicazione del virus, cosa che richiede non soltanto l’impiego di vaccini sterilizzanti ma anche una vaccinazione rapida ed estesa alla popolazione dell’intero globo (non a caso l’unico virus eradicato con la vaccinazione è stato quello del vaiolo).

Importanza della pianificazione di una campagna vaccinale

La pianificazione di una campagna vaccinale (tanto più quella fatta durante una pandemia con vaccini autorizzati in emergenza con procedura “fast track”) non dovrebbe essere in alcun caso trascurata o data per scontata – come invece sembra essere accaduto in Europa e in particolar modo in Italia con la vaccinazione anti-COVID – e, come avviene solitamente per le vaccinazioni “normali”, dovrebbe essere incardinata intorno all’analisi accurata di quattro aspetti fondamentali [5]:

  1. Prodotto – Che tipo di vaccino dovrebbe essere usato?
  2. Produzione – Quante dosi devono essere prodotte o acquistate?
  3. Allocazione – Chi dovrebbe essere vaccinato?
  4. Distribuzione – Come fornire i vaccini alle persone?

I vaccini sono beni di pubblico interesse, per tale motivo vengono di solito acquistati da un’autorità centrale a livello nazionale o dell’Unione Europea (quest’ultima, però, non ha alcuna esperienza in tal senso). Non è facile stimare la dose di vaccini da ordinare quando i prodotti sono solo “promesse” o “scommesse”. Inoltre, se ci si tiene stretti negli ordini, una consegna in ritardo o un taglio nelle consegne previste per le più svariate ragioni si possono tradurre in una carenza di vaccini sul breve o sul medio termine, anche se il rifornimento è di solito garantito sul lungo termine. Per tali ragioni, è largamente raccomandabile avere una produzione di vaccini nazionale e il controllo dell’intera filiera sul proprio territorio.

Uno degli aspetti cruciali di una vaccinazione di successo è il tempo. Poiché un’infezione si può propagare rapidamente attraverso una popolazione, in generale prima le persone vengono immunizzate e meglio è, se i vaccini sono sterilizzanti. Poiché questo sappiamo non essere, verosimilmente, il caso degli attuali vaccini anti-COVID, i decisori politici e sanitari devono ottimizzare la velocità della vaccinazione e l’efficacia della risposta in termini di vite salvate: quest’ultima non è solo legata all’efficacia del vaccino nei trial e alla sua efficienza nel proteggere la popolazione sul campo (due concetti diversi che ho illustrato in un precedente articolo [8]), ma anche al vaccinare per prime le persone “giuste” (e non i parenti o “gli amici degli amici”); mentre la velocità dipende anche dalla logistica, dall’organizzazione, etc.

L’allocazione ottimale dei vaccini dovrebbe, in generale, massimizzare il beneficio per la salute, che nel caso italiano non significa minimizzare il numero di infetti bensì il numero di quelli che, essendo più suscettibili a forme gravi della malattia, più rischiano il ricovero in terapia intensiva e la morte. Poiché la maggior parte dei vaccini anti-COVID attuali necessitano di due dosi, quando le dosi sono scarse l’impiego di una singola dose su un numero doppio di persone (ritardando quindi un po’ la seconda dose) può essere un’opzione da valutare, come fatto ad es. nel Regno Unito, che pensa già alla somministrazione di una terza dose agli over 70 in autunno, poiché gli effetti dell’immunità possono svanire nel tempo e potrebbero arrivare intanto delle varianti che la “bypassano” (un vaccino a mRNA può essere adattato ad esse in un mese).

Tale strategia, infatti, consente: (1) di massimizzare il numero di vite salvate (una dose basta ad abbattere la probabilità di effetti gravi); (2) di guadagnare tempo prezioso (specie per quei Paesi, come l’Italia, che non hanno ancora un vaccino proprio e tantomeno, attualmente, la presenza dell’intera filiera di produzione di vaccini terzi sul proprio territorio; (3) di avere una prospettiva a medio e a lungo termine (dove pesa come una spada di Damocle l’incognita di possibili nuove e più temibili varianti, “sorprese” che possono emergere in qualsiasi momento e in qualsiasi Paese), una visione che sembra mancare del tutto nella miope campagna di vaccinazione italiana, fatta piuttosto come “se non ci fosse un domani”. Ma il “vivere alla giornata”, in questo tipo di crisi, è un errore che può costare davvero molto caro.

Un numero relativamente limitato di dosi singole possono sembrare una goccia nell’oceano se rapportate alla popolazione dell’intero Paese, ma queste possono avere un impatto piuttosto rapido sulla curva dei morti giornalieri se vengono somministrate alle persone “giuste”, ovvero a quelle che presentano almeno i primi due dei tre fattori di rischio che ormai sappiamo essere associati alle morti per COVID-19 [9, 10]: (1) un’età avanzata; (2) la presenza di comorbidità; (3) l’avere un basso livello di vitamina D nel sangue. Per tale ragione, fra l’altro, l’invito (ad es. con spot televisivi) a integrare la vitamina D3 (con la cui assunzione si ha poco da perdere ma potenzialmente tanto da guadagnare) sarebbe una misura da adottare in parallelo – oltretutto sarebbe a costo zero – ed i cui effetti sarebbero quasi immediati [9].

La forte relazione fra mortalità per COVID-19 e la classe di età, relativa ai 96.149 deceduti COVID in Italia dall’inizio della pandemia fino al 1° marzo 2021. Dunque l’età rappresenta un importante fattore di rischio per l’esito infausto della malattia. (elaborazione dell’Autore su dati ISS [1] e Istat)

Infine, la campagna vaccinale anti-COVID andrebbe organizzata non tanto come una soluzione di emergenza, bensì con una visione a lungo termine: è infatti probabile che la vaccinazione debba essere ripetuta con i dovuti richiami, e che in ogni caso negli anni a venire ci si trovi ad affrontare situazioni simili. Proprio per questo diventa necessario consolidare le conoscenze in modo da avere, in qualsiasi momento sia necessario, una risposta rapida ed efficiente. In questo senso, risulta molto utile il “Decalogo sulle vaccinazioni” [11], di recente redatto dalla Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica in collaborazione con l’Osservatorio italiano della prevenzione (OIP) e la Fondazione Smith Kline.

Qual è l’obiettivo reale della vaccinazione anti-COVID?

I possibili obiettivi di una campagna vaccinale – come abbiamo visto – possono essere diversi. Nel caso italiano, poiché il nostro Paese è andato in lockdown molte volte a causa dell’elevato livello di ospedalizzazioni di malati da COVID-19 in reparti a bassa intensità di cura (complice la mancanza di prevenzione e di terapie domiciliari adeguate) e dell’elevato livello di occupazione delle terapie intensive, l’obiettivo dovrebbe essere semplicemente quello di ridurre quanto prima questi numeri, per avere il più presto possibile due risultati: (1) la possibilità di riaperture e (2) abbassare il numero di morti giornalieri.

Purtroppo, però, molte persone – inclusi i decisori politici e sanitari regionali – hanno mostrato di avere le idee alquanto confuse sugli obiettivi di una campagna vaccinale anti-COVID: alcuni pensano che i vaccini siano utili anche ai giovani e che vaccinando le persone si possa renderle non infettive, e molti appaiono convinti che si possa raggiungere l’“immunità di gregge”. Purtroppo, però, si tratta allo stato solo di “credenze”, che per ora non trovano fondamento nei dati pubblicati ufficialmente, che anzi vanno, semmai, nella direzione opposta. Inoltre, pare esserci una profonda crasi fra la comunità scientifica e la classe politica, poiché i messaggi rilevanti a riguardo non paiono arrivare a chi decide.

Nel mio articolo “Pillole” anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato” [8], ho mostrato come, se si analizza il rapporto costi-benefici per i vaccini attualmente usati in Italia (Pfizer, Moderna, Astrazeneca), questo risulti raggiungere un punto di pareggio per i giovani di circa 25 anni. Infatti, la mortalità legata ai tre vaccini risulta essere, sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito, di 20-30 casi per milione di dosi. Tenendo conto della diversa letalità del virus per le varie classi di età, si scopre che il rischio di morire per il vaccino piuttosto che per il COVID-19 è maggiore per i giovani al di sotto di circa 25 anni, che pertanto – considerati anche i rischi a medio e lungo termine cui sarebbero esposti – non dovrebbero vaccinarsi.

In generale, la vaccinazione produce benefici in due modi: direttamente per le persone che vengono vaccinate, e indirettamente per quelli che non sono vaccinati riducendo la loro esposizione alla malattia nel corso dell’epidemia, fino al raggiungimento – se si vaccina una certa percentuale della popolazione – della cosiddetta “immunità di gregge”. Ma questo vale per i vaccini sterilizzanti, come ad es. quello per il morbillo, la poliomelite, etc. Per i vaccini “leaky”, che come sappiamo non impediscono a un vaccinato di trasmettere l’infezione, l’immunità di gregge è un’utopia. E nessuno finora ha portato alcuna prova scientifica che i vaccini anti-COVID attuali non si comportino così [6].

Inoltre, come illustrato molto bene da un articolo pubblicato su Nature [12], comunque l’immunità di gregge sarebbe raggiungibile: (1) solo con elevati tassi di vaccinazioni, cioè con una campagna vaccinale di breve durata; e (2) con una somministrazione coordinata su scala globale, poiché l’Italia non è certo isolata dagli altri Paesi, come ad esempio il Sud del mondo; inoltre, (3) con le nuove varianti più trasmissibili la soglia per l’immunità di gregge si innalza e bisognerebbe vaccinare una percentuale della popolazione ben più elevata, giovani compresi; infine, (4) se nascono nuove varianti resistenti ai vaccini, l’immunità acquisita potenzialmente svanisce e ci possiamo trovare a dover affrontare future ondate; e, in ogni caso, (5) l’immunità di un vaccino così specifico non dura per sempre.

Dunque, vaccinare i più suscettibili di infezione con i vaccini anti-COVID attuali, in una situazione di scarsità di vaccini, non ha senso. Infatti, l’idea di fondo dietro questa strategia è che la popolazione può essere suddivisa in tre gruppi [5]: (a) i suscettibili di infezione; (b) gli infetti e (c) i “rimossi”. Questi ultimi possono diventare tali in tre modi: (1) perché guariscono (oppure sono già guariti) e quindi vengono immunizzati naturalmente; (2) perché vengono immunizzati tramite il vaccino; (3) perché muoiono. Di conseguenza, se vaccino i più suscettibili di infezione in realtà non risolvo il problema, se non alla lunga; lo risolvo assai prima se vaccino prioritariamente le persone con più alta probabilità di morire per COVID.

Poiché il 96% dei morti per COVID-19 in Italia sono over 60 (con una percentuale di letalità che in generale tende ad aumentare al crescere della classe di età), gli “utilizzatori finali” dei vaccini anti-COVID dovrebbero quindi essere, essenzialmente, gli over 60 e le persone “fragili” (immunodepressi, diabetici, obesi, etc.), ed in via prioritaria – all’interno della categoria degli over 60 – le persone con comorbidità, poiché l’analisi di un campione di 6.713 pazienti deceduti per COVID [1] ha mostrato come il 66,6% avessero 3 o più patologie pregresse, il 18,5% 2 patologie e l’11,9% 1 patologia. Si noti come la popolazione da proteggere sia, sostanzialmente, simile a quella oggetto delle campagne di vaccinazione antinfluenzale.

Il disastro italiano: come “predicare bene e razzolare male”

Perciò, secondo il “Piano strategico sulle vaccinazioni” approvato dal Parlamento italiano lo scorso 2 dicembre, dopo i medici, gli infermieri e gli ospiti delle RSA, avrebbero dovuto essere vaccinati gli over 80 (circa 4,5 milioni di persone), poi, procedendo per età decrescenti, entro l’estate gli over 60 (altre 13,4 milioni di persone) e coloro che hanno almeno due patologie croniche, immunodeficienza o fragilità, e così via. Tutto bellissimo e perfetto, sulla carta. Ma le cose sono andate davvero così?

Alla data del 27 marzo, dei 9 milioni di dosi di vaccini somministrate in Italia, incredibilmente solo 3,77 milioni (pari ad appena il 42% del totale) erano state somministrate a over 70 [13], quando è ben noto che la popolazione di medici e infermieri (l’unica con priorità assoluta) in Italia ammonta a circa 1 milione di persone, per cui tutte le altre (tolto solo un numero relativamente piccolo di dosi di Astrazeneca quando questo vaccino era ancora limitato agli under 55 o 65) sarebbero dovute andare agli over 80, a cominciare dalle RSA, e poi agli over 70. Ma mentre gli ospiti di queste ultime sono state vaccinati (anche perché erano fisicamente facili da raggiungere), la maggior parte degli over 70 sono stati del tutto ignorati.

Il numero di dosi di vaccini anti-COVID somministrate in Italia alla data del 30 marzo 2020, ovvero dopo circa 3 mesi di campagna vaccinale. Si noti come, addirittura, il numero di dosi date ai ventenni sia maggiore di quelle date ai settantenni. (fonte: Ministero della Salute)

Le regioni italiane, anche per incapacità propria e pressate dalle lobby più varie, hanno invece seguito una strategia “ibrida” del tutto inefficace ed inutile, vaccinando a destra e a manca persone giovani o di mezza età che non rientravano affatto fra gli obiettivi prioritari della vaccinazione, come si può capire rileggendo il “Piano strategico delle vaccinazioni” sbandierato dal Ministero della Salute (e questo per tacere del circa 15% di “imbucati”, che non avrebbero dovuto essere tollerati), quasi inseguendo una sorta di “equità” sociale invece che una pragmatica efficacia. Il tutto senza che il Governo centrale – e men che mai il Ministero della Salute – muovessero un dito per impedire questa anarchia delle regioni.

Ben diversamente sono andate le cose negli altri Paesi, ed in particolare nel Regno Unito, che avremmo invece dovuto seguire come esempio. Là, infatti, si è adottata la strategia dell’avere come obiettivo principale la rapidità nel risultato. Pertanto, si sono vaccinati “a tappeto” – e prioritariamente – gli anziani, sia con Pfizer che con Astrazeneca (impiegato in due casi su tre), il che ha contribuito al rapido declino nella curva del numero di morti giornalieri, come del resto era già avvenuto in Israele, il Paese più avanti di tutti nella campagna di vaccinazione anti-COVID. Dunque, la strada era chiaramente tracciata da questi coraggiosi Paesi “apripista”, e bastava solo seguirla: in altre parole, “copiare”.

Si noti che la strategia del Regno Unito di una dose singola al maggior numero di persone corrisponde a una strategia rapida, mentre la strategia seguita pedissequamente dall’Italia – quella delle due dosi – ha, sulla carta, una più alta efficacia, ma ha senso solo quando si ha a disposizione un grandissimo numero di dosi, che non era certamente il caso del nostro Paese, con i tagli annunciati dai produttori di due dei vaccini su cui avevamo puntato di più. Si potrebbe obiettare che il vaccino Astrazeneca non copre granché dalla variante sudafricana, ma nella situazione attuale era assolutamente idoneo a svolgere la funzione che gli si chiedeva anche usandolo sugli over 70, e cioè farci uscire il prima possibile dalla crisi in atto.

L’AIFA, dal canto suo, ha contribuito non poco al disastro della campagna vaccinale italiana. Il 18 gennaio l’EMA autorizza il vaccino Astrazeneca per gli over 18. Ma il 2 febbraio l’AIFA lo autorizza solo per gli under 55, ed il 23 gennaio, su pressione del Ministero della Salute, per gli under 65, togliendo solo il 19 marzo i limiti di età. Mi duole dirlo – anche perché conosco e stimo molto il suo presidente, il prof. Palù – ma l’AIFA, nella persona del suo Direttore si è mostrata a mio parere del tutto inadeguata nel gestire questa materia, come già del resto era successo con i protocolli delle cure domiciliari (tema trattato in un mio precedente articolo [8]): l’ha gestita come se fossimo in uno scenario normale, “business as usual”, non nel mezzo di una pandemia che sta completamente paralizzando il Paese, e dove il tempo è un fattore.

L’andamento, nel mese di marzo 2020, del numero di morti COVID-19 per milione di persone della popolazione residente in tre diversi Paesi dell’Europa (geograficamente intesa): Italia, Francia, Germania, Regno Unito. Già da questo grafico si capisce come il nostro Paese si trovi in una pessima situazione, tanto più rispetto agli altri tre, come in una vera e propria guerra con tanto di morti e feriti, non certo uno scenario “business as usual”. (fonte: elaborazione dell’Autore con il tool online Our World in Data)

Fra i vari motivi della disastrosa campagna vaccinale italiana vi è poi il fatto che si è trattato di un evento che ha colto tutti di sorpresa (e il problema è che questa non è una battuta! Ad es. per fare la piattaforma di vaccinazione in Lombardia ci si è ridotti agli ultimi giorni utili, con l’esito noto), lasciando spazio alla più totale improvvisazione: non a caso solo “in corso d’opera” sono stati incaricati di occuparsene la Protezione civile e le Forze Armate, ovvero le uniche due strutture statali che hanno la necessaria flessibilità e capacità di pianificazione operativa. Ma ormai era troppo tardi: il gap accumulato con gli altri Paesi e con il Piano vaccinale del Ministero era abissale. Inoltre, probabilmente non ci si è resi conto del fatto che non sono tanto gli over 70 a dover andare verso i centri vaccinali, bensì il vaccino dagli over 70.

Infatti, molti over 70 vivono in piccoli paesini, tanti non guidano più, altri sono malati cronici, e pretendere che si facciano 50 km o più accompagnati da non si sa bene chi per scoprire che l’sms di chiamata era arrivato per errore (non a caso sto citando alcuni dei numerosi incredibili fatti realmente capitati) non sta né in cielo né in terra. Del resto, a parte Pfizer, gli altri vaccini sono facilmente trasportabili, almeno finché non arriva il caldo (un altro motivo per cui è fondamentale la velocità della campagna): ad es. Moderna può resistere fuori dal frigo fino a 6 ore, un tempo sufficiente per portarne uno stock in un piccolo paese e per vaccinare localmente gli over 80 e molti (se non tutti gli) over 70 presenti, con il supporto delle Autorità locali e dei volontari opportunamente coordinati. Sempre che lo si voglia fare.

Come ottimizzare la campagna vaccinale in Italia

I decisori politici e sanitari devono tipicamente confrontarsi con risorse limitate all’inizio di una pandemia o – come nel caso, in particolare, dell’Italia – anche nelle fasi successive a causa della scarsa capacità di organizzazione e di pianificazione. Le disponibilità di vaccini anti-COVID per la popolazione italiana sono attualmente limitate. Ciò porta a problemi di allocazione ottimale. Come dovrebbero essere suddivisi e somministrati i vaccini disponibili per raggiungere l’obiettivo desiderato (che, lo ricordiamo, non è vaccinare chi rischia di più l’infezione ma chi rischia di più di morire)?

In generale, la dinamica non lineare di un’epidemia rende il problema dell’allocazione dei vaccini difficile da ottimizzare. Tuttavia, si può trovare la migliore allocazione possibile in accordo a dei criteri ben definiti [5], ed in funzione dell’obiettivo da raggiungere. Nel caso italiano, si tratta di dividere fra popolazioni multiple (quelle di 21 regioni) un numero limitato di vaccini che poi devono essere somministrati dalle regioni stesse alle persone in modo tale non da eradicare il virus o da minimizzare il numero di infetti, bensì l’impatto sulle ospedalizzazioni per COVID e sui ricoveri di malati COVID in terapie intensive (ed, a cascata, sulle morti per COVID). Il tutto con un’epidemia in corso e anche piuttosto galoppante.

Attualmente, le dosi dei vari vaccini anti-COVID vengono distribuite alle varie regioni semplicemente in quantità proporzionali alle popolazioni delle regioni. Questa allocazione, però, è assolutamente non ottimizzata, poiché – come abbiamo visto in precedenza – le popolazioni delle varie regioni sono: (1) colpite dalla mortalità del COVID in modo tutt’altro che omogeneo a livello nazionale; e (2), poiché sono debolmente interagenti fra loro per le restrizioni poste agli spostamenti fra regioni, tali disomogeneità sono destinate a permanere. Dunque, si presenta il seguente problema di ottimizzazione: come somministrare i vaccini in modo da ridurre nel più breve tempo possibile la mortalità verso zero?

Per ottimizzare l’intervento vaccinale e, al tempo stesso, misurarne l’impatto, possiamo utilizzare come guida la distribuzione dei morti per COVID nella popolazione italiana, che come abbiamo visto è maggiore in determinate regioni, oltre che in ben note classi di età. Anche se solo circa il 15% dei morti da COVID-19 in Italia in realtà muore passando per le terapie intensive (il resto delle persone muoiono in altri reparti o a casa), minimizzando con la campagna vaccinale il problema della mortalità da COVID verrebbe automaticamente ridotta anche la pressione sulle strutture ospedaliere, giacché le persone che arrivano in Pronto Soccorso appartengono, in gran parte, alle stesse classi di età dei morti.

Dunque, dovendosi semplicemente minimizzare i morti da COVID-19 – e non disponendo di vaccini per l’intera popolazione che si intende vaccinare – si tratta semplicemente, in prima approssimazione, di “replicare”, nella distribuzione del vaccino: (1) la distribuzione per fasce di età della letalità del COVID-19 (quindi procedere partendo rigorosamente dai più anziani e passando via via a quelli un po’ meno anziani: prima over 80, poi over 70, etc.) e (2) la distribuzione geografica della mortalità per l’allocazione delle dosi alle diverse regioni, dando quindi più dosi in particolare (o quanto meno) alle 4-5 regioni che hanno avuto in questa pandemia la mortalità più alta, e menzionate all’inizio di questo articolo.

Un ulteriore livello di ottimizzazione della campagna vaccinale si avrebbe, infine, implementando il sistema di prioritizzazione basato sullo studio “Stress” dell’Università di Milano-Bicocca, il quale assegna un punteggio prognostico in grado di attribuire a ogni cittadino di età compresa fra 18 e 79 anni un “indice di fragilità” rispetto al rischio di sperimentare forme cliniche critiche del COVID-19. L’indice di fragilità viene calcolato incrociando le informazioni della banca dati regionale degli assistiti con i flussi di sorveglianza dei tamponi, dei ricoveri e dei decessi per COVID. Ciò ha consentito di identificare e pesare le 23 condizioni patologiche che, oltre all’età e al genere, sono risultate predittori del rischio clinico.

I benefici forniti da un insieme limitato di dosi di vaccini anti-COVID diminuiscono, evidentemente, quando (e tanto più) ci si allontana dalla strategia appena illustrata per andare in altre direzioni. In alcune situazioni, però, non sono le dosi di vaccino che limitano una vaccinazione, bensì la partecipazione della popolazione al programma di vaccinazione. L’Italia dovrebbe quindi considerare anche l’uso di incentivi quasi simbolici (come ad es. la birra gratis offerta in Israele ai vaccinati più giovani) per convincere tutti – o quasi – gli appartenenti ai gruppi vulnerabili (in particolare gli over 65), che più beneficeranno della vaccinazione, e in pratica gli unici che, vaccinandosi, possono farci uscire da questo dramma.

In conclusione, se il Governo centrale e il Ministero della Salute non si danno una bella regolata facendo il proprio dovere, che è quello di imporre le linee guida e sanzionare gli amministratori locali ed i sanitari che non le rispettano – invece che fare inutili multe a cittadini senza colpa – non è difficile prevedere che il disastro italiano proseguirà. Soprattutto ora che si avvicina la bella stagione e la gente si renderà conto che, per farsi una bella vacanza all’estero o per partecipare a certi eventi, servirà il pass vaccinale e quindi molti giovani o persone che non avrebbero reale bisogno del vaccino (specie in questa fase) faranno di tutto per “saltare la fila” e ritardare ancor più la vaccinazione completa degli over 70 e degli over 60.

Riferimenti bibliografici

[1]  Istituto Superiore di Sanità, “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia – Dati al 1° marzo 2021”, EpiCentro, marzo 2020.

[2]  Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), “Popolazione per età, sesso e stato civile 2020 – Piramide per età delle singole regioni”, Tuttitalia.it, 2021.

[3]  Menichella M., “Mondi futuri. Viaggio fra i possibili scenari”, SciBooks Edizioni, Pisa, 2005.

[4]  Ludovic S. et al., “Il ritardo delle vaccinazioni costerà all’Europa 90 miliardi di euro nel 2021”, Allianz Research, 2 febbraio 2021.

[5]  Duijzer L.E., “Mathematical Optimization in Vaccine Allocation”, Tesi di laurea, Università di Rotterdam, 2017.

[6]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[7]  Fine P., “Herd immunity: history, theory, practice”, Epidemiologic Reviews, 15, pp. 265-302, 1993.

[8]  Menichella M., “’Pillole’ anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato”, Fondazione David Hume, 25 marzo 2021.

[9]  Menichella M., “Vitamina D e minore mortalità per COVID: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura”, Fondazione David Hume, 23 febbraio 2021.

[10]  Infante M. et al., “Low Vitamin D Status at Admission as a Risk Factor for Poor Survival in Hospitalized Patients With COVID-19: An Italian Retrospective Study”, J. Am. Coll. Nutr., Febbraio 2021.

[11]  Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica, “Decalogo per il piano vaccinale anti-COVID-19”, Vaccinarsi.org, marzo 2020.

[12]  Aschwanden C., “Five reasons why COVID herd immunity is probably impossible”, Nature, 591,  pp. 520-522, 18 marzo 2021.

[13]  Ministero della Salute, “Report vaccini anti COVID-19” aggiornato al 27 marzo 2021, Governo.it.