Sicurezza, tasse e reddito di cittadinanza. Intervista a Luca Ricolfi

Domanda. Molti sindaci, da Leoluca Orlando di Palermo a Luigi De Magistris di Napoli a Federico Pizzarotti di Parma, sono in rivolta contro il governo Conte: non applicheranno il decreto Sicurezza. E ci sono regioni pronte a fare ricorso alla Consulta contro la legge. E’ in atto uno scontro istituzionale? O siamo in campagna elettorale?

Risposta. Tutti e due, direi, però penso che i ricorsi ci sarebbero anche senza elezioni imminenti. La sinistra ha bisogno di identità, e fare la parte dei buoni sul problema dei migranti è un boccone troppo ghiotto per rinunciarvi.

D. Eppure, vista la batosta elettorale del 4 marzo, il buonismo verso i migranti ha dimostrato di non pagare.

R. Ma la classe dirigente di sinistra è come il cane di Pavlov: di fronte a certi stimoli non sa resistere, anche se l’esperienza recente dovrebbe averle insegnato che la polpetta migratoria è avvelenata, almeno sul piano del consenso elettorale.

D. Una delle critiche avanzate è che bloccare i procedimenti di regolarizzazione, come fa il decreto Salvini, produrrà solo maggiori problemi anche in termini di sicurezza delle città, con migliaia di sbandati irregolari per strada. Non c’era un’alternativa?

R. Sì, forse c’era, si poteva adottare una filosofia più berlusconiana, ovvero: regolarizziamo chi già c’è, sperando di essere in grado di fermare i flussi futuri.

Ma un minimo di onestà intellettuale dovrebbe condurre a riconoscere che soluzioni semplici non ce n’erano e non ce ne sono, se è vero che gli irregolari sono più di 500 mila e per la maggior parte di essi non sarà possibile rimpatriarli.

D. Perché è così difficile risolvere il problema?

R. Le ragioni per cui non ci sono soluzioni semplici a mio parere sono tre. Le soluzioni papiste-buoniste hanno dimostrabilmente l’effetto di aumentare la pressione migratoria: il Papa può infischiarsene, lo Stato italiano no. Le soluzioni leghiste-cattiviste invece aumentano il numero di irregolari non rimpatriabili, non occupabili, non integrabili, con conseguente aumento della criminalità “per necessità”, ovvero per mancanza di alternative. E poi, per ragioni che mi sono incomprensibili, né la destra né la sinistra sono disponibili a riformare il sistema penale in modo da mandare (e tenere) in carcere i delinquenti abituali.

D. Matteo Salvini è sempre in una botte di ferro?

R. Sul piano logico, Salvini andrebbe criticato anche da destra, non solo da sinistra. La gente non ce l’ha con gli immigrati, ma con la criminalità: se fai un decreto che aumenta il numero di sbandati, e continui con la prassi di questi anni, per cui consenti di stare a piede libero a chi è stato arrestato anche 10 o 20 volte, la gente prima o poi capisce che il cane salviniano abbaia ma non morde.

D. La rivolta dei politici locali è diventata l’unica, al momento, voce di opposizione che è stata capace di farsi sentire nel Paese. Una traccia su cui costruire un’opposizione di governo e su cui rifondare il Pd?

R. La rivolta dei sindaci e dei governatori, finché non pretende di calpestare le leggi dello Stato e si limita alla denuncia politica e alle iniziative giudiziarie, non solo è perfettamente legittima, ma è sacrosanta: sono loro che, sui rispettivi territori, pagheranno l’aumento degli sbandati e dei “criminali per necessità”.

Detto questo, il trapianto di questa lotta sul corpaccione del Pd, nel disperato tentativo di rianimarlo rispolverando l’imperativo categorico dell’accoglienza, mi pare un autogoal perfetto, perché il grosso dell’elettorato, compresa una cospicua porzione di quello progressista, potrà sentirsi dalla parte dei sindaci solo se la critica a Salvini verrà condotta in nome della sicurezza, non in nome dell’accoglienza.

D. Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, è in pole per la segreteria del Pd, il partito che sta organizzando potrà trarre giovamento dal dossier immigrazione nella campagna elettorale per le Europee?

R. Non credo proprio, anche perché su questo terreno l’unico credibile, l’unico che avrebbe potuto parlare di sicurezza da sinistra – cioè Marco Minniti – si è fatto da parte. Con Minniti il Pd avrebbe potuto tentato di recuperare l’elettorato che si è salvinizzato per disperazione, con Zingaretti invece questo elettorato non potrà tornare all’ovile.

D. A suo avviso, che Pd si profila sotto la guida di Zingaretti?

R. Il gioco mi sembra chiaro: consegnando il Pd a Zingaretti si cercherà di ricostituire una sinistra plurale, uliveggiante, e aperta ad alleanze con “la parte migliore dei Cinque Stelle”. Una sinistra, in altre parole, che alle solite divisioni fra riformisti e vetero-sinistri, aggiungerà la nuova frattura fra l’anima Pd e l’anima Cinque Stelle.

D. Dalle parti del Pd in tanti sperano che su temi come l’immigrazione il Movimento5stelle possa spaccarsi confluendo in un’area di opposizione comune con tutta la sinistra.

R. Mah, ne dubito. Il Movimento Cinque Stelle si può riportare nell’alveo della sinistra solo rilanciando lo statalismo e l’assistenzialismo, magari conditi con un po’ di giustizialismo e moralismo anti-casta. Sugli immigrati, la base Cinque Stelle la pensa come Grillo: prima gli italiani.

D. Immigrazione, sbarchi, sicurezza sono ancora il cavallo di battaglia vincente di Salvini alle Europee?

Sì, penso che Salvini lì sarà ancora costretto a battere, avendo clamorosamente tradito la promessa principale, ovvero la flat tax per tutti. E potrebbe anche funzionare, almeno fino a settembre dell’anno prossimo, quando l’emergenza sbarchi verrà di nuovo spenta dal sopraggiungere dell’inverno e delle mareggiate. Poi, dall’autunno 2019, se sarà ancora al governo, il leaer dela Lega dovrà inventarsi qualcos’altro, perché gli italiani sono volubili e si stufano presto.

D. E il cavallo di battaglia dei grillini?

R. Per il Movimento Cinque Stelle la posta in gioco è una sola: o riescono a far funzionare in modo non disastroso il reddito di cittadinanza, oppure anche per loro arriverà il calo di consensi.

Il problema politico interessante è chi intercetterà i voti gialloverdi quando gli italiani si saranno stufati di Salvini e Di Maio. La mia impressione è che gli sbocchi possibili non siano né il Pd né Forza Italia, ma solo l’astensione o un partito nuovo di zecca, dotato di ampi mezzi economici e culturali.

 Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata il 9 gennaio 2019 su Italia Oggi



Sinistra e legalità

Vedremo come andrà a finire il braccio di ferro tra il ministro Salvini e i sindaci ribelli, che non intendono attenersi al decreto sicurezza perché lo ritengono “criminogeno”, “inumano”, “incostituzionale”, qualcuno arriva persino a dire “razzista”. Vedremo, soprattutto, se la Corte Costituzionale, investita della questione, individuerà qualche profilo di incostituzionalità.

Quel che possiamo osservare fin da ora, invece, è come le forze politiche si stanno posizionando. Qui, in barba alla presunta scomparsa della distinzione fra destra e sinistra, le cose sono piuttosto chiare. Forza Italia e Fratelli d’Italia difendono il decreto sicurezza e il principio secondo cui le leggi si rispettano anche se non le si condivide. La sinistra, per quel che è dato capire fin qui, pare schierata piuttosto compattamente a fianco dei sindaci ribelli, e in qualche caso torna persino ad agitare il dovere della “disobbedienza civile”.

Non mi sembra un segnale particolarmente incoraggiante per il futuro, non solo in vista delle elezioni Europee, ma più in generale per il processo di ricostruzione della sinistra stessa, faticosamente avviato dopo la catastrofe del 4 marzo. L’atteggiamento assunto in questi giorni da tanti esponenti della sinistra, infatti, non fa che reiterare, portandolo alle estreme conseguenze, l’errore politico di fondo che l’ha condotta alla sconfitta, consegnando il paese alle forze populiste.

In che cosa consiste tale errore?

L’errore è di trattare un problema politico cruciale, quello della gestione dei flussi migratori, come se si trattasse di un problema morale, ovvero di una scelta etica: da una parte il bene, fatto di apertura, accoglienza, integrazione, dall’altra il male, fatto di chiusura, ostilità, intolleranza per il diverso. Senza rendersi conto che, per sua natura, la politica è chiamata a scegliere fra soluzioni diverse, ciascuna con i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza, e non fra il Bene assoluto e il Male assoluto. Se accettasse la prima prospettiva, pragmatica anziché etica, non le sarebbe difficile riconoscere che sia il decreto sicurezza sia le politiche precedenti, basate sull’accoglienza, hanno enormi limiti, e che nessuna delle due è la soluzione perfetta, se non altro perché entrambe sono basate su un mix di misure di segno opposto, alcune delle quali incentivano l’irregolarità, mentre altre la disincentivano. Continuare con l’accoglienza indiscriminata avrebbe moltiplicato l’esercito degli irregolari senza permesso, bloccare o ostacolare i percorsi di integrazione di chi è già arrivato produrrà a sua volta nuova irregolarità.

Quanto sia pericoloso il registro manicheo con cui, da sinistra, si discute di immigrazione, è divenuto particolarmente evidente in questi giorni, quando il legittimo (e in gran parte condivisibile) scetticismo sulle conseguenze effettive del decreto sicurezza ha condotto a invocare la sua disapplicazione o inosservanza. Qui l’impostazione etica del discorso politico arriva a dare la peggiore prova di sé: si è talmente certi del valore morale delle proprie convinzioni, che ci si sente autorizzati a non rispettare la legge. Come se una sinistra moderna potesse scendere in piazza a difesa della legalità in certi casi, e al tempo stesso invitare a disobbedire alla legge in altri casi, naturalmente a proprio insindacabile giudizio. Come se la condizione del cittadino italiano oggi fosse quella di un perseguitato da un potere politico dittatoriale, e non semplicemente quella di un cittadino che disapprova una legge dello Stato, regolarmente votata dal Parlamento e promulgata dal Presidente della Repubblica. A tanto conduce, purtroppo, la confusione fra il piano politico, delle decisioni collettive, e il piano etico, della coscienza individuale.

Né vale ricordare che, anche nel nostro ordinamento, in caso di leggi votate dal Parlamento ma di dubbia costituzionalità, esistono vari meccanismi di “sospensione cautelare della legge”. Tali meccanismi, infatti, possono essere messi in moto solo dai giudici, non certo dai comuni cittadini o dagli amministratori locali, quale che sia il loro rango: un punto di cui pochi, a sinistra, sembrano consapevoli. Fra essi vale la pena ricordare la voce di un altro primo cittadino, il sindaco Pd di Montepulciano, che a proposito del decreto sicurezza, che non condivide e di cui denuncia gli “effetti nefasti”, ha avuto la correttezza di aggiungere: “si tratta di una legge dello Stato che un Sindaco non può non rispettare: anche questo è un principio fondamentale del nostro ordinamento, al quale non si può derogare se non immaginando scenari da repubblica delle banane”.

Temo che, nel Pd che Zingaretti si accinge a riorganizzare, gli Andrea Rossi siano destinati a restare una minoranza. Un vero peccato, perché la loro assenza non fa che ritardare la nascita di una sinistra moderna, capace di pensare sé stessa semplicemente come portatrice di un progetto politico progressista, anziché come l’incarnazione del Bene o, peggio, come la rappresentante esclusiva della “parte migliore del Paese”.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 5 gennaio 2019



Un futuro di tasse, chi l’avrebbe detto?

Anche se mancano ancora un sacco di cifre, e persino l’Ufficio Parlamentare di Bilancio si tiene sul vago, di una cosa possiamo purtroppo essere certi: la pressione fiscale programmata per il triennio 2019-2020-20121 è maggiore, sensibilmente maggiore, di quella ereditata nel 2018. Si parte dal 42% circa dell’anno che si sta concludendo, si passa al 42.4 nel 2019, e si sale ancora negli anni successivi. In che misura dipenderà dalle clausole di salvaguardia, che riguardano essenzialmente l’Iva e le accise sui carburanti. Se dovessero scattare anche solo in parte, ci ritroveremmo, fra un paio di anni, con una pressione fiscale compresa fra il 43% e il 44%, ossia esattamente al livello cui era salita con il governo Monti, ai tempi dell’austerità. Un bel paradosso per un governo che vuole cambiare tutto, e i cui esponenti in campagna elettorale avevano solennemente promesso di diminuire le tasse.

In tutto questo c’è una logica, però. Se le tasse aumenteranno non solo l’anno prossimo ma anche nei due anni successivi, è esattamente per il medesimo motivo: finanziare quota 100 e reddito di cittadinanza, ossia le due promesse cui Salvini e Di Maio si sono impiccati, costa un sacco di soldi nel 2019, ma ne costerà ancora di più nel 2020 e nel 2021, quando le due misure andranno a regime, e cadrà del tutto lo sconto di parecchi miliardi connesso al loro avvio ritardato (ad aprile anziché a gennaio).

Di per sé un aumento dell’Iva non dovrebbe essere guardato come il male assoluto. Molti studi suggeriscono che, dal punto di vista della crescita e dell’occupazione, vi siano forme di prelievo ben più dannose, a partire da quelle che gravano sui produttori: Ires e Irap innanzitutto, ma anche i contributi sociali. La vera domanda non è se nel 2020-2021 l’Iva verrà aumentata di nuovo (cosa estremamente probabile), ma quale sarà la destinazione del maggiore gettito (investimenti o spesa corrente), e soprattutto se l’aumento dell’Iva avverrà in un quadro di pressione fiscale e contributiva decrescente, costante o crescente.

Io temo che la risposta sia che l’Iva aumenterà, ma non per ridurre altre tasse, bensì per finanziare spesa corrente, il tutto nel quadro di un aumento della pressione fiscale complessiva.

Da dove ricavo questo timore? Essenzialmente dalla legge di bilancio stessa, dalle cui voci è possibile individuare almeno tre linee programmatiche inquietanti.

La prima è un cospicuo aumento della spesa per interessi, dovuta all’impennata dello spread. La seconda è lo smantellamento di alcuni pezzi dello Stato sociale: insegnanti di sostegno, protezione civile, accoglienza richiedenti asilo. La terza è una maggiore penalizzazione delle imprese, sotto forma di minori incentivi e minori rimborsi fiscali.

In concreto questo significa che il governo prevede, per gli anni futuri, un ulteriore massiccio aumento della spesa corrente, in parte per pagare gli interessi sul debito, in parte per mantenere le promesse elettorali (quota 100 e reddito di cittadinanza), ma a fronte di tale aumento riesce solo ad immaginare tagli allo Stato sociale e maggiori oneri per le imprese. E, fatto forse ancora più significativo, non prevede alcuna significativa riduzione generalizzata delle aliquote, con tanti saluti alla più importante promessa della Lega: la flat tax al 15%.

Ora, entrambe le strade delineate nella legge di bilancio (ulteriori oneri per le imprese, ulteriori sforbiciate al welfare), hanno un grave difetto politico: quello di andare contro il mondo dei produttori, che negli ultimi mesi ha già dato chiari e ripetuti segni di scontento, sia sul versante datoriale sia su quello sindacale. Se non vuole indurre una saldatura fra organizzazioni delle imprese e sindacati confederali, il governo non potrà esagerare né nei tagli allo Stato sociale, né in quelli agli incentivi verso le imprese. Detto in altre parole: la copertura delle due costose promesse elettorali cui si è legato andrà cercata anche altrove.

Difficile pensare che questo “altrove” non finisca, come di consueto, per essere un aumento dell’Iva e delle accise, sotto forma di un disinnesco solo parziale della clausole di salvaguardia. E ancor più difficile pensare che, con l’acqua alla gola sul versante dei conti pubblici, il governo riesca ad usare l’aumento dell’Iva per far ripartire gli investimenti pubblici.

Più probabile, specie se l’Italia dovesse entrare in recessione, è che nei prossimi 2-3 anni si assista a un mix di misure che già abbiamo conosciuto in passato: qualche taglio più o meno nascosto alla spesa corrente, presentato come “efficientamento”; qualche taglio o posticipazione degli investimenti pubblici, presentato come “riprogrammazione”; e poi, naturalmente, l’immancabile aumento dell’Iva, presentato come “rimodulazione”.

A riprova del fatto che innovare davvero, nel nostro Paese, è estremamente difficile.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 30 dicembre 2018



Manovra, ma il governo giallo-verde vuole durare?

Rispetto alla prima versione, la manovra concordata nei giorni scorsi con Bruxelles introduce essenzialmente tre cambiamenti: meno spesa corrente, meno investimenti pubblici, un po’ più di tasse, con conseguente miglioramento dei saldi (il deficit previsto scende dal 2.4% al 2%, un valore assai prossimo a quello del 2018, ereditato dal governo Gentiloni).

Sulla natura della “manovra del popolo” i pareri sono divisi. C’è chi vi riconosce un cambiamento sostanziale rispetto al passato, nel bene o nel male a seconda dei punti di vista. E chi invece sottolinea che nulla di veramente importante è cambiato: come sempre, le uscite della Pubblica Amministrazione sono di più delle entrate; come sempre, ci sono misure chiaramente elettorali; come sempre, il futuro è costellato di “clausole di salvaguardia” (aumenti automatici di tasse); come sempre, il metodo è quello: mega testo illeggibile, maxi-emendamento del governo, voto di fiducia.

L’unico punto su cui, fra gli analisti indipendenti, sussiste un notevole grado di consenso è che la manovra non è in grado di fornire alcuna spinta all’economia, né tanto meno di fermare la recessione in arrivo. Questa valutazione poggia su tre circostanze obiettive.

Uno. La manovra non è espansiva, perché l’avanzo primario è analogo a quello di quest’anno.

Due. La manovra non stimola la crescita perché non contempla né una riduzione della pressione fiscale sui produttori né un aumento degli investimenti pubblici.

Tre. La manovra, attraverso l’impennata dello spread, ha già innescato molteplici meccanismi pericolosi: maggiori spese dello Stato per il rifinanziamento del debito pubblico; perdite (virtuali) di famiglie e imprese che detengono ricchezza finanziaria; aumento dei tassi sui nuovi mutui; restrizioni (per ora modeste, ma destinate a crescere) del credito a famiglie e imprese.

Assai più controverso è ovviamente il giudizio sulla bontà dei contenuti della manovra, al di là dello loro capacità di stimolare la crescita. Su questo è impossibile dire qualcosa di ragionevolmente obiettivo, perché ognuno di noi ha priorità diverse, oltreché – spesso – una concezione diversa delle conseguenze delle misure governative. Per parte mia, se dovessi qualificare la manovra con un solo aggettivo, userei l’aggettivo “elettorale”. Anzi, se avessi a disposizione anche un avverbio, direi “smaccatamente elettorale”. Da questo punto di vista la cosiddetta manovra del popolo e il governo che l’ha concepita rappresentano davvero una rottura con il passato. Una rottura che è assoluta rispetto al governo Monti, forse il governo meno elettorale della storia repubblicana, ma che, in parte (e contro le apparenze), è tale anche rispetto ai governi Renzi e Gentiloni.

E’ vero, hanno perfettamente ragione quanti, di fronte alla mossa di varare reddito di cittadinanza e quota 100 a poche settimane dal voto europeo 2019, ricordano l’analoga mossa di Renzi nel 2014, con il bonus da 80 euro calato nelle buste paga giusto prima dell’appuntamento europeo 2014. Così come hanno ragione quanti ricordano gli innumerevoli bonus e misure varie che a quella mossa seguirono nei gloriosi anni del centro-sinistra. E ancor più ragione hanno quanti sottolineano un altro elemento di continuità, ovvero la cattiva abitudine di ipotecare il futuro con clausole di salvaguardia (aumenti di tasse), che tranquillizzano Bruxelles e riducono i gradi di libertà dei governi che verranno.

E tuttavia una differenza, un salto di qualità e di quantità, fra la manovra del popolo e le manovre del passato recente, a mio parere c’è. Lo riassumerei così: dopo Monti, tutte le manovre hanno avuto dosi di elettoralismo considerevoli, e tutte hanno fatto ricorso alle clausole di salvaguardia, ma solo ora, con la “manovra del popolo”, quasi tutte le misure sono di tipo elettorale, e la macchina delle clausole di salvaguardia prosciuga completamente gli spazi di manovra dei governi futuri.

La differenza più importante con il passato riguarda il mondo dei produttori. Nelle manovre degli ultimi 4-5 anni, accanto alle misure di stampo prevalentemente elettorale, erano presenti misure rilevanti di sostegno alla crescita, dalla decontribuzione agli sconti fiscali, dal Jobs Act ai provvedimenti di Industria 4.0. Oggi non solo scarseggiano le nuove misure in favore dei produttori, ma si fa marcia indietro su quasi tutte le misure varate nel recente passato: soppressione dell’ACE (Aiuto alla crescita economica); mancato decollo dell’IRI (Imposta sul Reddito Imprenditoriale); ridimensionamento di Industria 4.0 (poi divenuta Impresa 4.0); indebolimento del Jobs Act (attraverso il cosiddetto Decreto dignità); nuove tasse sulle imprese, sulle società finanziarie e sulle banche; per non parlare dello stop imposto a tante grandi opere. Detto in altre parole, il saldo fra le nuove misure pro-imprese (come la mini flat tax sulle partite Iva) e le vecchie misure soppresse o modificate è drammaticamente negativo. Di qui il malcontento che, da qualche mese, comincia a serpeggiare soprattutto nel Nord, dove anche l’elettorato leghista non capisce perché smontare la legge Fornero sia diventato, improvvisamente, molto più importante che varare la flat tax.

L’altra grande differenza con il passato è l’entità delle clausole di salvaguardia, praticamente raddoppiate rispetto alle leggi di bilancio degli ultimi anni. Una zavorra enorme per qualsiasi governo futuro, compreso il governo gialloverde, che già nell’autunno prossimo dovrà ingegnarsi a trovare 23.1 miliardi per non aumentare l’Iva e altre tasse.

Ecco perché, tornando alla questione posta all’inizio (fu vero cambiamento?), la mia risposta è che sì, la manovra del popolo è diversa da quelle del passato, ma la ragione principale per cui lo è non è che cambia direzione, bensì che accentua i due principali difetti delle manovre dei governi precedenti: troppe misure elettorali, abuso delle clausole di salvaguardia. Il che, forse, rende più attuale che mai l’interrogativo posto nei giorni scorsi dall’ex premier Paolo Gentiloni: il governo Conte intende durare, o dà per scontato che la sua pesante eredità – economia ferma & clausole di salvaguardia –dovrà gestirla qualcun altro?

 




Antigone rovesciata

Non sono un giurista. Quindi è possibile che quel che sto per dire verrà giudicato inappropriato, semplicistico, aberrante, contrario alla civiltà giuridica. Però sento la necessità di dirlo.

A Strasburgo, martedì sera, tre persone hanno perso la vita, altre lottano conto la morte, altre ancora sono rimaste gravemente ferite perché un giovane di origine nordafricana, nato in Francia, ha deciso di onorare così il suo Dio. O almeno così pare, se è vero quel che riferiscono i testimoni, ossia che è fuggito gridando “Allah Akbar”, Allah è grande.

Ora, agli attentati terroristici nel cuore dell’Europa purtroppo siamo ormai abituati da anni. Così come siamo consapevoli che non esiste un modo per renderli impossibili. Però c’è una cosa che non mi torna, come cittadino europeo. Le cronache riferiscono che il giovane Cherif Chekatt (così si chiama l’attentatore) era già stato condannato 27 volte, in Francia, in Germania e in Svizzera. Per reati comuni (nel senso di non legati al terrorismo), ma non certo di poco conto (truffe, violenze, rapine, furti, a quel che si apprende: ma solo il tempo ci dirà se è esattamente così). Pare che la polizia francese l’avesse schedato con la “fiche S”, ossia con il codice che contraddistingue i soggetti pericolosi (S sta per “sûreté de l’Etat”, sicurezza dello Stato), non necessariamente islamici o terroristi in erba. Si apprende, infine, che di soggetti così classificati, e quindi monitorati dalle forze dell’ordine, in Francia ve ne siano circa 26 mila. E che “ovviamente” non ci sono abbastanza poliziotti per controllarli tutti 24 ore su 24.

Ed ecco quel che non mi torna. Supponiamo per un attimo che nulla di tutto quel che si ritiene di sapere di Cherif Chekatt sia vero, salvo il fatto che è già stato condannato 27 volte. Supponiamo, per sgomberare il campo da ogni convinzione o pregiudizio su immigrazione, etnie, islam, terrorismo, che il nostro attentatore fosse semplicemente un giovane francese, figlio di francesi, bianco, mai prima coinvolto in fatti di terrorismo ma “solo” autore di 27 reati in 3 paesi europei. Ebbene, non vi sembra che, comunque, vi sarebbe qualcosa che non va?

Come è possibile che nella civilissima Europa, anche dopo la 26-esima volta che si commette un reato, ci si possa trovare perfettamente liberi, ovvero scarcerati per la 26-esima volta, pronti a commettere il nostro 27-esimo reato? Non c’è qualcosa di profondamente illogico in un ordinamento entro il quale tutto ciò non è l’eccezione, l’anomalia, l’errore che può scappare in una situazione-limite, ma è la norma, ovvero la logica conseguenza delle avanzatissime leggi che, in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, abbiamo ritenuto di darci?

Adesso vorrei fare un passo di lato. Supponiamo che un fine giurista, un politico illuminato, o un sincero democratico, riescano a convincermi che tutto ciò è giusto, anzi è la giustizia stessa, è il senso della civilizzazione, e dunque gli Cherif Chekatt che, anziché stare in carcere, fanno stragi nei mercatini di Natale, sono semplicemente il prezzo della nostra libertà. Ebbene, anche se io ne uscissi convinto, anche se il mio rieducatore riuscisse a rieducarmi, io comunque una cosa non potrei non fargliela notare: tutto ciò che affermi è contro il comune senso di giustizia della gente normale; tutto ciò cozza contro i sentimenti che qualsiasi persona non accecata dall’ideologia prova; tutto ciò contraddice la “legge naturale”, al di là delle “norme positive” inventate dagli uomini. Perché non è naturale che una comunità non possa difendersi da chi ha ripetutamente manifestato la volontà di colpirla.

E’ la tragedia di Antigone, ma capovolta. Là, nella tragedia di Sofocle, Antigone rivendicava il diritto di seppellire il fratello Polinice in nome della legge naturale, contro la legge della città. Noi, oggi, ci troviamo nella situazione paradossale per cui la gente, in nome della legge naturale, vorrebbe che i criminali di professione stessero permanentemente in carcere, a tutela della comune città (civiltà) europea, mentre i governanti, che quella città dovrebbero difendere, scrivono leggi che non tengono in nessun conto il comune senso di giustizia. Il principio, sacrosanto, per cui a chi sbaglia non dovrebbe mai essere negata una seconda chance, viene dilatato e stravolto fino a stabilire, di fatto, il principio per cui ad ognuno dovrebbe essere data anche una terza, una quarta, una quinta, una sesta,.., una ventisettesima chance.

E’ abbastanza incredibile, ma sulla criminalità e sul terrorismo l’unica strategia che non viene mai presa seriamente in considerazione è l’incapacitazione: punire la recidiva rendendo il tempo di permanenza in carcere tanto più lungo quanto più numerosi e ripetuti sono i crimini commessi.

So bene che, in tempi di governi (e di maggioranze) populiste, quel che pensa la gente normale viene irriso dall’élite degli illuminati, e bollato come banale buon senso, quando non come anticamera dei peggiori sentimenti e delle peggiori ideologie. Ma agi illuminati io vorrei ricordare quel che Raffaele La Capria, ebbe a scrivere sulla differenza fra buon senso e senso comune: il buon senso è spesso opportunista e conformista, perché si adatta a quel che conviene pensare in quel momento e in quel luogo, magari solo perché tutti lo pensano o fingono di pensarlo; il senso comune è libero da pregiudizi perché ha il coraggio di vedere le cose per quello che sono, al di là delle costruzioni intellettuali con cui il potere cerca di ridescriverle (Lo stile dell’anatra, Rizzoli 2010).

Sulle politiche della sicurezza, quello della gente non è bieco buon senso, ma semmai intrepido senso comune. Io lo chiamerei “senso comune etico”, un naturale sentimento di giustizia che si erge a difesa della città minacciata, e poggia sulla capacità di vedere le cose per quello che sono diventate. E quel che la gente vede è semplicemente questo: che le regole della città si sono allontanate troppo, e troppo in fretta, dal comune sentire delle persone, e proprio per questo stanno mettendo a repentaglio la sopravvivenza della città.

Articolo pubblicato sul Messaggero del 15 dicembre 2018