Il partito pigliatutto è morto, ma i grillini lo sanno?

Può anche darsi che questa sia la volta buona. Buona non già nel senso che entro uno o due giorni avremo un governo Lega-Cinque Stelle (esito sulla cui bontà le opinioni divergono), ma nel senso che non dovremo più assistere all’ennesima richiesta al Presidente della Repubblica di “ancora qualche ora”, “ancora qualche giorno”, “ancora una settimana”. Se le cose andranno come hanno promesso, lunedì Salvini e Di Maio, esauriti i riti delle consultazioni delle rispettive basi, si decideranno a dire al Capo dello Stato se intendono fare un governo insieme o se avevano scherzato.

Non vorrei essere nei panni di Mattarella. Egli si troverà infatti, di fronte a due anomalie. La prima è di dover nominare un presidente del Consiglio che, anziché scegliere i ministri e mettere a punto un programma di governo, si dovrà semplicemente limitare a recepire quello che hanno deciso due capi-partito; con quale autorevolezza un presidente del Consiglio così insignito possa guidare il Paese e difendere gli interessi italiani in Europa è facile immaginare. La seconda anomalia è che nel programma mancano del tutto indicazioni chiare sulle coperture dei molti e assai costosi provvedimenti annunciati, il che rende il programma semplicemente non giudicabile. Nessuno può essere ragionevolmente contrario alla riduzione delle tasse, o a dare un sussidio ai disoccupati, o a godere di più anni di pensione: la domanda, però, è a scapito di chi, visto che le risorse non piovono dal cielo.

C’è poi naturalmente il secondo scenario. Fra oggi e lunedì Salvini potrebbe convincersi che per la Lega è preferibile tornare al voto (i sondaggi danno il centro-destra al 40%, ovvero in grado di governare da solo). Oppure potrebbe succedere che programma, presidente del Consiglio e nomi dei ministri non passino il vaglio del Presidente della Repubblica, e che Mattarella decida di usare i poteri (e la crescente popolarità) di cui dispone per riportare il Paese alle urne.

Comunque vada, però, c’è almeno una cosa di cui, forse, dovremmo cominciare a prendere atto: in questi tre mesi il sistema politico italiano è cambiato profondamente, e per certi aspetti in modo irreversibile. Prima del voto si poteva ancora pensare che, fondamentalmente, il sistema politico fosse diventato tripolare: centro-destra, centro-sinistra, Cinque Stelle. I cinque Stelle erano riusciti, unico caso significativo in Europa, a mantenere una sorta di equidistanza fra destra e sinistra. Una equidistanza, o irriducibilità, che quasi tutti i partiti populisti rivendicano, ma che altrove non impedisce agli elettori di percepirli abbastanza chiaramente su uno dei due versanti politici fondamentali: i francesi pensano che il Front National di Marin Le Pen stia a destra, qualsiasi cosa ne pensi lei; spagnoli e greci pensano che Podemos e Syriza stiano a sinistra, per quanti sforzi leader come Iglesias e Tsipras facciano per sottolineare la loro assoluta novità e distanza dalla sinistra classica. In Italia no, in Italia Grillo è riuscito nel miracolo di costruire una formazione politica in cui potesse specchiarsi e identificarsi chiunque, quale che fosse la propria matrice ideologica o culturale.

Il movimento Cinque Stelle ha funzionato, finora, come il test di Rorschach. Così come, nelle macchie volutamente ambigue del test, ogni paziente può vedere cose diverse, e finisce per proiettare le proprie ansie e i propri sogni, così nel movimento di Grillo ogni elettore ha visto cose diverse, spesso proiettando i propri desideri. E’ così potuto accadere che in esso, oltre a qualunquisti, arrabbiati, idealisti, si siano identificate persone genuinamente di destra o di sinistra, semplicemente deluse (come dar loro torto?) dalla destra e dalla sinistra ufficiali, e speranzose che nel movimento di Grillo le proprie idee potessero, finalmente, trovare l’ascolto che meritavano.

Ora non più: dopo quel che è successo in questi 75 giorni, il Movimento Cinque Stelle non potrà mai più essere visto come prima, ovvero come un oggetto simbolico su cui chiunque può proiettare una buona parte di sé stesso. L’immagine di purezza e di neutralità si è dissolta quando Di Maio ha dichiarato esplicitamente di essere disposto sia a un governo con la Lega, sia a un governo con il Pd: da quel momento l’elettore sa che il voto ai Cinque Stelle potrà essere giocato su due tavoli che, in molti, continuiamo a percepire come alquanto diversi, se non opposti. L’immagine di sinistra si è dissolta quando, fallito l’accordo con il Pd (ed eventualmente con Leu), Di Maio si è rivolto risolutamente a Salvini e alla Lega, gettando nella costernazione quanti, intellettuali e comuni cittadini, avevano creduto (o voluto credere?) che, in fondo, i Cinque stelle altro non fossero che una sinistra più pura, meno compromessa con il potere, meno “serva di Berlusconi”.

Visti da questa angolatura, i 75 giorni che ci separano dal voto non sono passati invano. In essi, infatti, sono naufragate due eventualità che, ancora poche settimane fa, erano perfettamente aperte. La prima è la nascita di una sinistra di tipo nuovo, egemonizzata dai Cinque Stelle, con il Pd in posizione subalterna. La seconda è la sopravvivenza del tripolarismo, grazie alla natura ambivalente del grillismo.

Oggi un’alleanza Cinque Stelle-Pd è resa inconcepibile dal peccato originale dell’alleanza con Salvini, che a sinistra si continua a concepire come il diavolo. Ma altrettanto problematica è la sopravvivenza del tripolarismo: alle prossime elezioni i Cinque Stelle, proprio perché si sono mostrati disponibili ad ogni alleanza pur di conquistare il governo, non potranno più sottrarsi alla domanda: ma se ti do il voto, come lo userai? il mio voto al Movimento è un voto regalato alla destra o alla sinistra?

Certo, per metabolizzare fino in fondo quel che è successo, ci vorrà un po’ di tempo. Ma tutto fa pensare che, in caso di elezioni, nulla potrà essere come prima. Il Movimento Cinque Stelle manterrà una sua forza, specie nel Mezzogiorno, ma non potrà più calamitare come in passato gli elettorati di destra e di sinistra. Chi si sente di destra non potrà fidarsi granché di una forza politica che mette sullo stesso piano la Lega e il Pd. Chi si sente di sinistra non potrà continuare a vedere il movimento Cinque Stelle come una sorta di sinistra più sanguigna e più popolare.

Di qui, a mio parere, una certa asimmetria fra i destini delle due forze più moderate e meno anti-europee, ovvero Forza Italia e Pd. Con una destra solidamente seduta sul 40% dei consensi, ma ben poco propensa a rinnovarsi, la quota di Forza Italia dipenderà essenzialmente da come andrà l’avventura di Salvini, i cui voti potrebbero aumentare in caso di successo, e rifluire parzialmente su Forza Italia in caso di insuccesso. Quanto al Pd, è difficile non pensare che una parte dell’elettorato che ha scommesso “da sinistra” sui Cinque Stelle finisca per ritornare all’ovile, o per rifugiarsi nel non voto. Sempre che, a sinistra, non nasca qualcosa di nuovo e di diverso, che non sia il solito cartello di vecchie glorie.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 19 maggio 2018



Senza nocchiero

Nessuno sa ancora con certezza chi, nei prossimi mesi (e tantomeno nei prossimi anni), sarà alla guida del governo. Non sappiamo se si tornerà al voto fra 2 mesi, fra 1 anno, fra 2 anni, o alla scadenza naturale della legislatura, ossia nel 2023. Alcune cose, però, le sappiamo.

La prima è che le due forze più populiste ed ostili all’Europa, ossia Cinque Stelle e Lega, hanno la maggioranza dei seggi in Parlamento, e circa il 50% dei consensi nel Paese. La seconda cosa che sappiamo è che le autorità europee stanno perdendo un po’ la pazienza con l’Italia; pochi giorni fa il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici ha fatto notare che l’Italia non sta facendo alcuno sforzo per ridurre il deficit, nonostante gli impegni più volte sottoscritti dai suoi governi.

Non è tutto. Il Documento di Economia e Finanza (Def) è sostanzialmente vuoto, in attesa che si insedi un governo. L’inflazione non accenna a ripartire, con gravi effetti sulle prospettive del nostro debito pubblico. Le previsioni di crescita dell’Italia, a dispetto dell’ottimismo euforico dei governi degli ultimi anni, ci collocano all’ultimo posto nella zona euro. Il rapporto debito/Pil è inchiodato al 132%, e non ne vuol sapere di scendere. E, come se non bastasse, le clausole di salvaguardia prevedono un aumento automatico dell’Iva, che nessuno ha ancora detto se e come potrà essere evitato. Sullo sfondo, poi, incombe la fine del Quantitative Easing della Banca Centrale Europea, che finora ci ha permesso di “comprare tempo”, ma non può certo durare in eterno.

In queste condizioni, non ci vuole molta fantasia per immaginare che la pazienza delle autorità europee possa esaurirsi molto presto, forse già il 23 maggio, quando partiranno le “raccomandazioni” ai paesi membri, che la Commissione potrebbe accompagnar con un rapporto sul debito eccessivo.

Qualcuno, fra gli autoproclamati vincitori di queste elezioni (Cinque Stelle e Lega), forse inclina a pensare che, nel caso l’Europa tiri le orecchie all’Italia e pretenda il varo di una manovra correttiva, basterà battere i pugni sul tavolo, e dire semplicemente “no”. Purtroppo non è così. Non tanto perché le autorità europee pazientano da anni, e il duo Renzi-Padoan ha già ottenuto (peraltro senza litigare) tutta la flessibilità possibile, quanto perché il vero problema dell’Italia non è l’Europa, ma sono i mercati finanziari. La grande crisi del 2011 proprio questo dovrebbe aver insegnato: le autorità europee non contano quasi nulla, l’umore dei mercati conta tantissimo. Nel 2011 le autorità europee passarono, nel giro di pochissime settimane, dalle lodi alla politica economica del duo Berlusconi-Tremonti agli ultimatum all’Italia (ricordate la lettera della Bce?).

Che cos’era successo?

Semplicemente che i mercati finanziari fino alla primavera del 2010 erano stati in sonno, mentre a partire dall’estate si erano improvvisamente risvegliati, e per di più di pessimo umore.

Ecco perché Di Maio e Salvini si illudono. Quando uno Stato membro dell’Unione vuol fare di testa sua, le autorità europee o abbozzano, o sono costrette a mostrare tutta la loro impotenza. Basta ricordare il penoso tentativo di punire l’Austria, che (nel 2000) aveva osato eleggere un governo nazional-liberale sostenuto dal partito (presunto) “fascista” di Joerg Haider, o i recenti infruttuosi tentativi di imporre la redistribuzione dei rifugiati fra i paesi membri. Ma quando a fare di testa propria sono i mercati finanziari, le autorità europee alzano bandiera bianca e si adeguano. L’unica occasione in cui questo non è avvenuto è stata nel luglio del 2012, allorché, essendo a rischio a sopravvivenza dell’euro e non la salute di un singolo paese, a Mario Draghi fu concesso di pronunciare il suo famoso “whatever it takes”, che riuscì rapidamente a spegnere la speculazione.

Il problema dell’Italia è precisamente questo: se nei prossimi mesi, e specialmente in autunno quando dovrà essere varata la manovra finanziaria, i mercati si risvegliassero, non ci sarà benevolenza delle autorità europee che potrà proteggerci.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 9 maggio 2018



Che cosa ci sarà dentro il “contratto”?

C’è voluta la minaccia dell’ennesimo governo tecnico, avulso dal voto popolare, prevedibilmente bocciato in Parlamento, e dunque foriero di nuove elezioni, per stanare Salvini e Di Maio, e convincerli a tornare al dialogo per stringere un patto di governo. Salvo imprevisti, domani sera ci diranno che l’accordo c’è, che si sta discutendo dei nomi dei ministri (una volta si parlava di “poltrone”), e che, finalmente, la Terza Repubblica, espressione della volontà popolare, può cominciare.

Vi è anche del vero, in fondo, in questa rappresentazione della realtà politica: effettivamente l’alleanza Lega-Cinque Stelle è l’unica formula (a parte ovviamente quella del “governo di tutti”) che ha qualche possibilità di non spaccare il Paese in due. Se fosse nato un governo Pd-Cinque Stelle, sarebbe stato percepito come un governo contro il Nord; se, viceversa, fosse nato un governo di centro-destra, magari con l’appoggio esterno di una parte del Pd, sarebbe stato percepito come un governo contro il Sud. Quel che avremo sarà, invece, un governo che cerca di rappresentare le componenti più arrabbiate del Nord e del Sud e, semmai, rischia di trascurare gli interessi e i valori del Centro, o meglio di quelle che un tempo venivano denominate “regioni rosse”, da sempre (e tuttora) inclini a dare il loro consenso al maggior partito della sinistra, ora all’opposizione senza se senza ma.

Ma che cosa ci si può aspettare, concretamente, da un simile, inedito governo giallo-verde?

In parte lo ha già confessato uno dei suoi esponenti, che un paio di giorni fa a “Porta a Porta” è riuscito nell’impresa di eludere quasi tutte le numerosissime domande che gli sono state rivolte sul futuro governo e sui suoi programmi. Le uniche vere risposte che ho ascoltato sono due. La prima è che nel contratto di governo sarà inclusa una nuova legge sul conflitto di interessi. La seconda è che le promesse saranno diluite nel tempo: nessuno si illuda di poter accedere al reddito di cittadinanza, o beneficiare della flat tax, fin da subito; per attuare i punti del contratto sarà necessaria un’intera legislatura.

Il primo punto, dunque, pare essere questo: il nuovo governo si muoverà con i piedi di piombo, cercando di somministrare dosi omeopatiche di quanto promesso. I punti centrali individuati nei giorni scorsi sono quattro: reddito di cittadinanza, flat tax, legge Fornero, criminalità & immigrazione (viste come un binomio inscindibile). Difficile prevedere in che cosa, nei prossimi mesi, questi titoli verranno tradotti. Personalmente tendo a pensare che vedremo un certo numero di “assaggini”: un piccolo aumento dei fondi per il reddito minimo, ora chiaramente insufficienti; un po’ di nuove assunzioni nei centri per l’impiego, oggi disorganizzati e inefficaci; un ritocco a qualche tassa, ad esempio Irap o Ires; un piccolo restyling della legge Fornero, magari condito con un accenno di faccia feroce sulle cosiddette pensioni d’oro.

Ma i nodi veri, quelli che daranno del filo da torcere al nuovo esecutivo, mi pare che saranno essenzialmente due: immigrazione irregolare e aumento dell’Iva.

L’immigrazione costituirà un problema innanzitutto per una ragione banale: il nuovo governo si insedierà, e muoverà i primi passi, nel pieno della stagione degli sbarchi. Naturalmente nessuno crede sul serio che Salvini manterrà la promessa di rispedire in Africa e in Medio Oriente qualche centinaio di migliaia di irregolari già presenti sul suolo italiano. Ma di questo nessuno si stupirà più di tanto. Quello che invece molti elettori si aspettano è che cessino, o si riducano drasticamente, gli sbarchi più o meno pilotati dalle Ong (organizzazioni non governative). Su questo il nuovo governo non può permettersi di fallire, se non altro perché la stampa di destra, con Forza Italia relegata all’opposizione, non farà sconti.

Il secondo nodo è l’aumento automatico dell’Iva nel 2019, attualmente previsto dalle clausole di salvaguardia. Questo punto è cruciale perché, da solo, l’obiettivo di impedire l’aumento dell’Iva costa più di 12 miliardi nel 2019 e quasi 20 l’anno successivo: in media un punto di Pil all’anno. Tenuto conto che altre nuove spese incombono, e un po’ di regalie post-elettorali saranno inevitabili, questo significa che, anche rinunciando a mantenere subito la maggior parte delle roboanti promesse della campagna elettorale, il nuovo esecutivo dovrà trovare piuttosto alla svelta almeno una ventina di miliardi.

Dove li troverà?

Difficilmente, temo, sarà capace di trovarli nell’unica direzione sensata, ovvero in una spending review, per la quale occorrono tempo e coraggio, due risorse notoriamente scarse. Più verosimile è che le risorse che mancano vengano trovate soprattutto grazie a due mosse audaci, per la verità anch’esse annunciate in campagna elettorale. La prima è la cosiddetta “pace fiscale” di Salvini, una sanatoria che consenta a milioni di contribuenti di chiudere i loro contenziosi con il fisco pagando una frazione molto bassa degli importi dovuti. Un provvedimento che, anche trascurando ogni considerazione etica sull’ennesimo condono, avrebbe il grave limite di essere una tantum, ovvero capace di tappare una falla oggi, ma non di assicurare una fonte di entrate permanente.

La seconda mossa è il ripudio di fatto degli obiettivi di bilancio concordati con l’Europa (ulteriore riduzione del deficit pubblico), e il ricorso a nuovo deficit fino alla soglia massima del 3%. Questa mossa, che in queste ore viene mitigata con un fiume di parole di rassicurazione verso l’Europa, potrebbe dispiegarsi pienamente soprattutto nella primavera prossima, in piena campagna per le elezioni europee, allorché – accanto alla necessità di evitare l’aumento automatico dell’Iva nel biennio 2019-2020 – per il nuovo governo si porrà il problema di inserire nel Def le due promesse-chiave, reddito di cittadinanza e flat tax. Con quali conseguenze?

Nella migliore delle ipotesi, la rinuncia al rispetto del percorso di risanamento dei conti pubblici finirà per aggravare il fardello che già pesa sulle generazioni future. Nella peggiore, invece, più che produrre sanzioni temibili, che ormai l’Europa ha mostrato di non essere in grado di comminare, provocherà un risveglio dei mercati finanziari, sotto forma di un aumento dei tassi di interesse dei titoli di Stato decennali, ovvero un allargamento del famigerato spread con i titoli tedeschi. Un’eventualità che nessuno si augura, ma che nessuno può escludere.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 12 maggio 2018



L’Italia del dopo voto, intervista a Luca Ricolfi

Doveva nascere la terza repubblica e sembriamo tornati alla prima?

Non direi, nella prima non c’erano tre poli, ma un polo e mezzo (Pentapartito e PCI, con divieto di andare al governo).

Si intravede la possibilità di un governo di transizione con tutti dentro tranne il M5s, che ne pensa?

Che sarebbe un regalo ai Cinque Stelle.

Quali le urgenze da risolvere per questo nuovo esecutivo?

Produttività e occupazione, ovvero tornare a una crescita annua del 2-3%.

Che legge elettorale ci vorrebbe?

Tutto sommato, la meno peggio forse sarebbe una legge a turno unico, in cui la coalizione che prende più voti ottiene almeno il 51% dei seggi. Però qualsiasi legge elettorale, per funzionare bene, dovrebbe abolire il Senato, o quanto meno consentire un riparto dei seggi senatoriali su base nazionale, anziché regionale.

In alte parole: una legge elettorale decente non si può fare se prima non si ritocca la Costituzione. Su questo Renzi ha ragioni da vendere.

Ma quando si vota secondo lei?

Non lo so, ma penso che molto dipenda dal duo Salvini-Di Maio.

Perché l’accordo M5s-centrodestra non ha funzionato?

Perché Di Maio, come buona parte del popolo di sinistra, ritiene che Berlusconi sia radioattivo.

Si è palesato anche un esecutivo M5s-Pd e lei ha detto che si rischiava la secessione?

Non la secessione, che è ovviamente impossibile, ma un ritorno di spinte secessioniste, specie sul piano fiscale. E dato che i ceti produttivi stanno non solo al Nord ma anche nelle cosiddette regioni rosse, dove danno ancora il loro voto al Pd, mi aspetto che la risposta a un governo di “sinistra qualunquista” (quale io considererei un esecutivo Pd-Cinque Stelle) potrebbe vedere in piazza non solo il centro-destra ma anche quella parte del Pd che non vuole veder nascere un governo neo-assistenziale.

Cosa pensa del ritorno di Renzi?

Su Renzi sono ambivalente. Per certi versi continuo a non apprezzare la presunzione, il semplicismo, la mancanza di autocritica, nonché numerose scelte passate, come l’accoglienza indiscriminata, il bonus da 80 euro e le altre mance. Per altri versi, mi pare che, con pochissime eccezioni, il gruppo dirigente del Pd sia di levatura così modesta che persino un leader che, come Renzi, ha evidenti limiti di carattere e di comprensione della realtà, finisce per apparire come un gigante. Al momento, l’unico che mi pare aver qualche chance di risollevare le sorti del partito mi pare Matteo Richetti, su cui però so troppo poco per poter esprimere un’opinione meditata.

Quanto all’eventuale ritorno di Renzi credo sia prematuro. Se tornasse ora, ci sarebbe una mezza rivolta nel partito. Secondo me Renzi può tornare sulla scena solo in due modi: facendo un suo partito, o aspettando che il Pd, divorato dalle lotte intestine, lo richiami come salvatore della patria (un po’ come accadde a Veltroni anni fa, ma il precedente dovrebbe consigliare prudenza).

Il Pd è morto o solo tramortito? Che strada dovrebbe prendere e con chi?

Sicuramente è tramortito, ma molto difficilmente morirà in fretta. Sulla strada da prendere, molto dipende dagli obiettivi. Per conservare il potere, la strada maestra è una alleanza stabile con i Cinque Stelle: potrebbero aspirare al ruolo di “secondo partito della sinistra”.

Per conservare l’identità, invece, dovrebbero rinnovarsi molto, trovando il coraggio di cambiarla questa benedetta identità di sinistra. Per fare questo, però, ci vorrebbe un certo coraggio, perché al giorno d’oggi non è possibile né riproporre i modelli del passato remoto (come fanno i dinosauri di Leu), né i modelli del passato prossimo (la “Terza via” di Tony Blair). Fra il tempo della Terza via e oggi, infatti, ci sono state la Cina, internet, la crisi economica, l’esplosione dei flussi migratori, i progressi dell’automazione. Se non sa fare i conti con queste cose, la sinistra è morta.

E il centrodestra a trazione Salvini come lo vede?

Lo vedo in salute, ma penso che il declino di Forza Italia sia dannoso per il centro-destra. Se Forza Italia si lascia risucchiare dalla Lega, il consenso complessivo al centro-destra incontrerà inevitabilmente un limite connesso al fatto che ci sono ceti e individui che non voterebbero mai Lega, ma sarebbero pronti a sostenere un partito di destra classico, liberale e/o conservatore.

Il problema è che anche Forza Italia è sempre meno adatta a intercettare questo tipo di elettorato. In un certo senso Forza Italia ha il medesimo problema del Pd: se non vuole ridursi all’irrilevanza deve affrontare una lunga stagione di rinnovamento e autocritica.

Le Lega sembra l’unico partito ad affrontare il tema dell’immigrazione, come mai continua questo tabù sia per i problemi di integrazione sia per quelli di criminalità?

Perché tutti i partiti temono di urtare la Chiesa, il Papa, e più in generale il mondo delle persone “di buona volontà”, che sempre insorgono ogniqualvolta dalla rivendicazione dei diritti si passa all’indicazione dei doveri, specie se si osa pretendere che anche gli ultimi, o i presunti ultimi, rispettino le regole.

Analizzando il programma del M5s li trovava statalisti e ora ha detto che Di Maio ha perso voti dando l’impressione di equiparare Lega e Pd e di voler andare al governo a tutti i costi. Non sono loro il futuro della sinistra?

No, i Cinque Stelle sono una formazione qualunquista, che però effettivamente può evolvere in una specie di Podemos o di Syriza, cioè in una sinistra post-moderna, assistenziale e anti-mercato. Vedremo.

Mattarella ha detto che la disoccupazione giovanile è troppo elevata e che al sud la mancanza di lavoro ha proporzioni inaccettabili. Come inquadra questi problemi ed è sanabile la differenza nord-sud?

Non ci voleva Mattarella a dire quel che risulta da tutte le statistiche.  Quanto al divario Nord-Sud, se non l’abbiamo superato in più di 150 anni, una ragione ci sarà pure. E temo che quella ragione faccia parte delle cose che si possono pensare, ma è meglio non dire in pubblico: i cittadini del Sud hanno un’altra cultura, un’altra mentalità, altri valori, e quindi non vogliono vivere come noi del centro-nord. Io li capisco, e un po’ li invidio. Credo che la soluzione, l’unica vera e duratura soluzione, sia concedere piena autonomia al Sud. Nessuna secessione delle regioni del Nord, ma creazione di una grande area con istituzioni proprie, un fisco proprio, una politica economica propria. Culturalmente, ma anche sul piano dell’organizzazione economico-sociale, il centro-Italia è più simile al Nord che al Sud, dunque tanto vale che vi siano due italie libere di governarsi come desiderano, quella del Centro-Nord e quella del Sud, finalmente liberata dal giogo dell’unità nazionale.

Intervista a cura di Francesco Rigatelli pubblicata su Libero il 07 maggio 2018



Della stoltezza

Il risultato delle elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia, che segue quello delle Regionali in Molise, è chiarissimo almeno su un punto: il tracollo del Movimento 5 Stelle e l’exploit della Lega.

Con un misero 7% alla lista, e un modesto 12% al candidato, i pentastellati risultano in arretramento sia sulle Regionali del 2013, dove avevano ottenuto il 13.8% alla lista e il 19.2% al candidato, sia sulle elezioni politiche, dove avevano avuto il 24.6% due mesi fa e il 27.2% nel 2013. Quanto alla Lega, con il 35% di voti alla lista e il 57% di voti a Massimiliano Fedriga (candidato di tutto il centro-destra), la sua avanzata è andata ben oltre le più rosee speranze di Salvini: circa 10 punti in più rispetto alle Politiche del 4 marzo, 27 punti in più (dall’8.3% al 35%) rispetto alle Regionali del 2013.

È vero, naturalmente, che i confronti Regionali-Politiche vanno presi con prudenza, come è vero che le regionali del 2013 sono un termine di paragone relativamente lontano, vista la quantità di eventi che sono intervenuti nel frattempo. Però, la prudenza non può arrivare al punto di nascondere l’ampiezza dello scossone che ha sconvolto i rapporti di forza fra partiti. Uno scossone che, in entrambe le regioni, ha lasciato sostanzialmente inalterati i consensi al Pd e ai suoi alleati, ma in compenso ha visto un ingente spostamento di voti dai Cinque Stelle alla Lega.

A che cosa è dovuto questo repentino cambiamento di umore degli elettori?

Qualcuno, nelle ultime ore, ha sostenuto che il Movimento Cinque Stelle abbia pagato lo scotto di non essere riuscito a formare un governo dopo 56 giorni di estenuanti trattative dal giorno del voto. Questa sarebbe una spiegazione ragionevole se i voti fossero tornati al Pd: ma i voti sono andati alla Lega di Salvini. Se davvero il punto fosse la lentezza nella formazione di un governo, perché mai gli elettori avrebbero dovuto punire Di Maio e non Salvini, visto che fino a pochi giorni fa sono stati entrambi a condurre il ballo?

Io penso invece che vi sia una spiegazione molto più semplice: in questa lunga vicenda post-elettorale Luigi Di Maio, forse inebriato dal successo o accecato dai riflettori sotto i quali è vissuto per quasi due mesi, ha dilapidato il capitale di consenso che Grillo gli aveva generosamente conferito. Se fossimo nell’antica Roma, si direbbe che si è comportato con stoltezza, una parola che stranamente è sparita dal lessico, giusto quando il comportamento dei politici la renderebbe estremamente attuale.

In che cosa è consistita la stoltezza del capo del Movimento Cinque Stelle?

Fondamentalmente nel non rendersi conto che, nel momento in cui inaugurava la “politica dei due forni”, facendo intendere che per i Cinque Stelle Lega e Pd pari sono, esponeva il Movimento ad una drammatica emorragia di voti. Tutti sappiamo, da anni, che la provenienza dell’elettorato Cinque Stelle è mista: una parte viene da sinistra e mai vorrebbe un accordo con la Lega, un’altra parte viene da destra, e mai vorrebbe un accordo con il Pd. È quindi perfettamente logico che, nel momento in cui Luigi Di Maio dichiara esplicitamente (prima del 4 marzo non lo aveva mai fatto) di potersi alleare indifferentemente con l’una o con l’altro, l’elettore si metta sulla difensiva quale che sia il proprio orientamento, perché nessuno è contento di rilasciare un assegno in bianco. Chi ha una matrice di sinistra teme un accordo con la Lega, chi ne ha una di destra teme un accordo con il Pd. La fortuna di Matteo Salvini è che si sia votato precisamente nel momento in cui Di Maio minacciava un accordo con il Pd, mostrando di infischiarsene del fatto che la maggior parte degli elettori Cinque Stelle non lo volessero. È verosimile che, se le elezioni regionali si fossero tenute quando Di Maio minacciava un accordo con la Lega, una parte dei voti Cinque Stelle (quelli “di sinistra”) sarebbero tornati al Pd.

A questo errore strategico di fondo, Luigi Di Maio ne ha aggiunti altri, non meno dannosi per i destini elettorali dei Cinque Stelle. Affidando a un pool di esperti la missione di comparare i programmi di Pd e Lega con quello del Movimento Cinque Stelle cercandone le possibili intersezioni (i punti comuni), di fatto ha trasmesso un messaggio assai insidioso: a noi interessa andare al governo, non importa se su un programma “di destra” o su uno “di sinistra”, purché il premier lo faccia io. Il contro-messaggio che il Movimento avrebbe desiderato mandare, ossia “a noi interessano i programmi, non le poltrone”, poteva risultare credibile solo se il suo leader avesse specificato in modo chiaro che cosa, del programma Cinque Stelle, era irrinunciabile con entrambi gli alleati, e soprattutto non avesse fatto intendere che l’unico punto veramente irrinunciabile era la sua ascesa alla presidenza del Consiglio (in barba alla sempre ostentata indifferenza al basso commercio delle “poltrone”). L’esatto contrario di Salvini, che fin dall’inizio ha avuto il buon senso, o se preferite l’astuzia, di non presentarsi come l’unico candidato premier possibile.

Si può pensare che, quella delle ultime elezioni regionali, sia una vicenda marginale e temporanea. Dopotutto l’elettorato ha mostrato di poter capovolgere i propri orientamenti nel giro di pochissimo tempo. La mia sensazione, invece, è che l’errore commesso dai Cinque Stelle sia così grave da essere difficilmente recuperabile. Con un sistema elettorale come quello attuale, l’ambiguità è un’arma a doppio taglio: puoi illudere i tuoi elettori una prima volta, ma è molto difficile illuderli la seconda.

Paradossalmente, la spregiudicatezza delle alleanze di Di Maio potrebbe avere l’effetto di ridare qualche speranza elettorale agli sconfitti, e in particolare al Pd. Una parte degli elettori di sinistra hanno votato Cinque Stelle soprattutto perché temevano il cosiddetto “Renzusconi” (un governo Pd-Forza Italia), e non volevano dare un voto a scatola chiusa, che avrebbe potuto essere usato per fare un’alleanza sgradita. Ora sanno che anche il voto ai Cinque Stelle è a scatola chiusa, e potrebbe benissimo essere usato per far nascere un governo con la Lega. Ecco perché non si può escludere che una parte di essi possa essere tentata di ritirare la fiducia ai Cinque Stelle, e di tornare a votare Pd. Anche perché, a sinistra, a differenza che a destra, di veri partiti ce n’è uno solo.

Pubblicato su Il Messaggero il 01 maggio 2018