In cerca di consenso

Che i ceti popolari non guardino più a sinistra, non solo in Italia ma un po’ in tutti paesi avanzati, è diventato quasi un luogo comune.

A renderci coscienti del distacco fra sinistra e popolo hanno contribuito molto la Brexit e la vittoria di Trump, due circostanze in cui le periferie e le campagne hanno voltato le spalle alla sinistra. Ma non meno chiari sono stati i segnali in casa nostra: Chiara Appendino e Virginia Raggi, probabilmente le due sindache (si può dire così?) più famose d’Italia, hanno sfondato nei quartieri popolari, mentre il Pd ha tenuto nei quartieri alti, e più in generale dove la crisi ha mietuto meno vittime.

Quel che è meno noto è che il distacco fra sinistra e popolo non si è prodotto negli ultimi anni, con l’esplodere della crisi (2007-2008), o con la vittoria di Renzi (2014), ma è iniziato circo mezzo secolo fa. Il primo scricchiolio risale addirittura ai primi anni ’60, quando il Partito socialista va al governo (primo centro-sinistra, 1963), e poco per volta altera la propria base sociale, accentuando vieppiù il suo carattere di partito di ceto medio, fortemente insediato nel Mezzogiorno, con larga base clientelare. Ma la svolta decisiva avviene nel 1973, quando il PCI di Enrico Berlinguer lancia la politica del compromesso storico, che era essenzialmente un’apertura ai ceti medi, allora egemonizzati dalla Dc. Poi quel cammino è proseguito in modo più o meno invisibile, fino all’inizio degli anni ’90, quando chi volesse vedere aveva già tutti gli elementi per accorgersi della mutazione in corso nelle basi sociali dei partiti: prima il fenomeno degli operai con la tessera della Cgil che votano Lega, poi il successo di Berlusconi non solo fra i ceti medi ma anche fra operai, disoccupati, lavoratori precari, artigiani. Infine, con il nuovo millennio e l’irrompere della crisi, quel distacco si è fatto ancora più accentuato, fino all’attuale balbettio della classe dirigente di sinistra, divisa fra chi si ostina e difendere le politiche di questi anni (Renzi) e chi – il colmo per un progressista – non trova di meglio che proporre un ritorno al passato, stante che nel passato le cose andavano meglio.

Ma perché le cose sono andate così? E soprattutto: è il popolo che ha abbandonato la sinistra, o è la sinistra che ha abbandonato il popolo?

La mia opinione, che ho provato anche ad esporre in un libro appena uscito (Sinistra e popolo, Longanesi 2017), è che sia la sinistra ad aver abbandonato il popolo, e non viceversa. Detto altrimenti, sono le scelte politiche della sinistra che le hanno alienato il favore popolare. Certo, sul divorzio fra sinistra e popolo hanno inciso anche fattori strutturali, come la deindustrializzazione e le delocalizzazioni che, facendo scomparire milioni di posti di lavoro, hanno semplicemente fatto mancare il terreno sotto i piedi ai partiti laburisti, socialdemocratici, socialisti. Ma il grosso dei propri guai, la sinistra se li è procurata da sola. In che modo?

Fondamentalmente attraverso il progressivo abbandono dei suoi cavalli di battaglia classici, i pietrosi temi dell’occupazione, dei salari, del contrasto alla povertà, a favore di innumerevoli temi soft, o “sovrastrutturali” come si sarebbe detto un tempo: prima divorzio e aborto, poi diritti dei gay, coppie di fatto, quote rosa, fecondazione assistita, eutanasia, testamento biologico, ambiente, amnistia, indulto, linguaggio sessista, omofobia, linguaggio sessista, e chi più ne ha ne metta. Tutte cose progressiste, ma non prioritarie (e qualche volta percepite come sbagliate) fra i ceti popolari, da molto tempo alle prese con problemi ben più prosaici, o semplicemente materiali: la difesa del posto di lavoro, il reddito, la disoccupazione, il degrado delle periferie e l’insicurezza di fronte alla criminalità.

A questo spostamento complessivo dell’asse delle politiche di sinistra si sono poi aggiunte due scelte di straordinario autolesionismo. La prima è l’adozione acritica del “politicamente corretto”, ovvero di quanto di più lontano si possa immaginare dalla sensibilità e dal linguaggio popolare, da sempre disinibito e incline all’ironia. La seconda è l’adesione senza se e senza ma alla filosofia dell’accoglienza, declinata nel modo che tutti abbiamo avuto sotto gli occhi in questi anni: grandi proclami buonisti, accompagnati dalla sostanziale accettazione del caos nella gestione degli ingressi e della permanenza in Italia (per non parlare del degrado dei campi di accoglienza, e del business dell’industria della bontà).

Ecco perché, quando la crisi economica ha colpito i bilanci familiari, e gli sbarchi sono andati completamente fuori controllo, la sinistra è risultata del tutto spiazzata. Avendo passato almeno due decenni a sostenere le meravigliose opportunità della globalizzazione e delle istituzioni sovranazionali, avendo speso tutte le proprie energie ideologiche per convincere gli italiani che le loro paure verso criminalità e immigrazione erano immotivate, avendo aderito senza il minimo senso critico (e senza un grammi di ironia) al pensiero unico del politicamente corretto, la sinistra non è in grado di articolare una risposta minimamente credibile alla domanda di protezione che sale dal paese.

E tuttavia quella domanda esiste, ed è fortissima fra coloro che stanno più in basso. Inutile stupirsi, allora, del successo delle forze populiste, in Italia non meno che in Europa e in America. Perché la prima differenza fra sinistra e populisti non sta nelle risposte (talora assai simili, e impregnate di assistenzialismo), ma nella capacità di vedere la domanda. E la sinistra, quel tipo di domanda, che chiede protezione contro la crisi economica ma anche contro criminalità e immigrazione, proprio non la vede. E’ la sua storia che glielo impedisce, è la sua storia che l’ha resa cieca.

Pubblicato su Panorama il 4 maggio 2017



Italia disoccupata (ma i Robot non c’entrano)

Sono passati ormai 10 anni dallo scoppio della crisi dei mutui subprime (agosto 2007), e anche se alcuni ottimisti intravedono una luce alla fine del tunnel, non è affatto chiaro se le economie avanzate (i 35 paesi Ocse) ne siano davvero fuori. Ma soprattutto, anche ammesso che ne siano uscite, non è chiaro come, ovvero in quali condizioni e con quali futuri meccanismi di funzionamento.

Il fatto che molte economie, specie in Europa, siano ancora alle prese con stagnazione e disoccupazione, sta alimentando un grande sospetto nelle opinioni pubbliche: e se l’era della crescita fosse finita per sempre? Ma soprattutto: e se a tramontare per sempre fosse la civiltà del lavoro? Detto ancora più crudamente: e se in un futuro non troppo remoto il lavoro diventasse il privilegio (o la condanna) di una minoranza?

Il timore che i posti di lavoro non solo scarseggino oggi, ma siano destinati ad essere pochi per sempre si sta insinuando sempre più nelle menti di molti cittadini. Quando leggiamo che decine di lavori saranno automatizzati tramite il software e i robot, quando veniamo informati che già esistono stalle senza addetti (un robot si occupa di tutto, compresi i bisogni psicologici delle mucche), quando ci viene spiegato che persino il destino dei dentisti è segnato perché già oggi esistono robot-dentisti, quando ci si annuncia l’imminente ingresso sulle strade delle auto senza conducente (a quando la proibizione di guidare personalmente un’automobile?), quando constatiamo che in mille situazioni a risponderci sono nastri registrati, e che per dire la nostra tutto quel che possiamo fare è inviare una mail a un inaccessibile “sistema”, quando ci accorgiamo di tutto questo diventa difficile restare impassibili.

E infatti c’è anche chi, lungi dal restare impassibile, l’eventualità della scomparsa del lavoro umano la dà per scontata, anzi la cavalca. Vi siete mai chiesti perché, per la prima volta anche in Italia, si parla insistentemente di reddito di cittadinanza? O perché tutti i partiti abbiano qualche proposta, più o meno sensata, più o meno radicale, per dare un reddito anche a chi non lavora?

La realtà è che quasi tutti temiamo che, nei prossimi decenni, non solo non andremo verso la società della “piena occupazione” sognata da Keynes e dai suoi seguaci, ma rischiamo di non rivedere mai più neppure il regime di “quasi-piena occupazione” in cui siamo vissuti per circa mezzo secolo, ovvero dalla fine degli anni Cinquanta allo scoppio della crisi.

Certo, l’incubo-utopia di una società in cui nessuno lavora è ancora molto lontano, se non altro perché non sono pochi i lavori che è estremamente difficile automatizzare pienamente, come i lavori connessi all’edilizia, alla sanità, alla ristorazione, diversi servizi alla persona, l’amministrazione della giustizia, l’ordine pubblico, la difesa, la gestione delle catastrofi e delle emergenze, la ricerca. E tuttavia lo scenario di una drastica riduzione dei posti di lavoro, a un livello largamente al di sotto dell’attuale, è tutt’altro che implausibile.

Ma che cosa è realistico prevedere, sulla base dei dati e delle tendenze esistenti?

Per farci un’idea abbiamo ricostruito, con la collaborazione della Fondazione David Hume, l’andamento 2000-2015 di due variabili chiave, il tasso di occupazione e la produttività del lavoro, nelle 35 principali economie del pianeta, ovvero in tutti i paesi Ocse. E il risultato non è incoraggiante, ma nemmeno drammatico.

Non è incoraggiante perché nel 2015, ovvero a 8 anni dallo scoppio della crisi, il tasso di occupazione non è ancora tornato al livello che aveva raggiunto allora. Nello stesso tempo, però, un’analisi separata della storia economico-sociale di ciascuno dei 35 paesi avanzati mostra che i modi in cui i vari paesi hanno attraversato la crisi sono estremamente differenziati, e non tutti disastrosi.

Tanto per cominciare, esistono due paesi, la Polonia e Israele che, stando ai dati Ocse, nella crisi non sono mai veramente entrati. Non solo, ma esiste un gruppo di 6 paesi che, pur avendo accusato qualche shock (occupazionale e/o di produttività) nel 2008-2009, presentano due caratteristiche che paiono contraddire la visione catastrofista. La prima è di aver sperimentato una crescita parallela dell’occupazione e della produttività sia prima sia dopo la crisi. La seconda è di avere più o meno ampiamente superato i livelli di occupazione e produttività del 2007. Questi 6 paesi dinamici, in cui la crescita c’è ma è anche creatrice di posti di lavoro, sono la Slovacchia, l’Estonia, il Cile, la Repubblica Ceca, la Corea del Sud e la Germania. E’ interessante notare che in questo gruppo di paesi che paiono, per così dire, dotati di un futuro di lavoro, rientra un solo paese occidentale classico, la Germania.

Se lasciamo da parte questi otto paesi (che non sono entrati nella crisi o l’hanno brillantemente superata), il quadro si fa decisamente più preoccupante, per non dire cupo. Sono ben 18 i paesi Ocse che nel 2015 non avevano recuperato il livello di occupazione del 2007 (fra essi i 4 Pigs mediterranei, compresa l’Italia, ma anche l’Irlanda, la Francia, gli Stati Uniti). E fra questi 18 paesi ve ne sono quattro che, oltre a non avere recuperato i livelli di occupazione pre-crisi, registrano una riduzione della produttività del lavoro. Sono questi, probabilmente, i paesi nei quasi uno scenario di definitivo smantellamento della civiltà del lavoro è più probabile. Distruggere posti di lavoro, infatti, può avere un senso (ancorché doloroso) solo a condizione che il ridimensionamento dell’occupazione preluda a un rilancio della produttività e della competitività, e consenta così a un paese di tornare su un sentiero di aumento della prosperità.

Ma quali sono i quattro paesi che, almeno a giudicare dalle tendenze attuali, paiono destinati a un futuro di progressivo smantellamento della civiltà del lavoro?

La Grecia, naturalmente. Inaspettatamente, anche la Norvegia e la Finlandia, tuttora intrappolate nelle secche della crisi, ma caratterizzate da livelli di occupazione e produttività ancora molto alti, ereditati dagli anni della crescita. E poi, ahimè, l’Italia. Il nostro tasso di occupazione resta tuttora al di sotto del livello, già bassissimo, del 2007, e peggio ancora vanno le cose per la produttività: il Pil per occupato, anch’esso già bassissimo nel 2007, non mostra alcuna tendenza a risollevarsi.

A quanto pare, dalle nostre parti il futuro è già cominciato.

Pubblicato su Panorama il 13 aprile 2017



Reddito di cittadinanza, pubblicità ingannevole

Qualche tempo fa avevo scritto che, stante la completa assenza di idee politiche nuove, la prossima campagna elettorale sarebbe stata dominata dal dibattito sul cosiddetto reddito di cittadinanza, o reddito di base.

Non pensavo, però, che questo sarebbe accaduto così presto, ovvero un anno prima della data del voto. E invece basta ascoltare la radio, guardare la tv, navigare su internet o leggere i giornali per rendersi conto che ci siamo già dentro in pieno. Da alcune settimane un po’ tutti ne parlano.

L’idea di un reddito di cittadinanza, lanciata dal Movimento Cinque Stelle fin dal 2013, subito dopo le passate elezioni, ormai tiene banco un po’ in tutte le forze politiche. Ne parla il Pd, tramortito dalla scissione e alla ricerca di slogan efficaci in vista delle imminenti elezioni politiche. Ma ne parlano anche dalle parti di Forza Italia, dove circolano cifre (10 miliardi l’anno) e strumenti (la cosiddetta imposta negativa sul reddito). Né mancano le proposte provenienti dalla società civile, come quelle del Reis (Reddito di inclusione sociale), promossa dalle ACLI e da decine di altre associazioni, per lo più appartenenti al cosiddetto Terzo settore.

Tutti pazzi per il reddito di cittadinanza, dunque?

Proprio per niente. Il bello è che nessuna, ma proprio nessuna, delle proposte che partiti e forze politiche si affannano a denominare “reddito di cittadinanza” corrisponde a un vero reddito di cittadinanza. Anzi, nella maggior parte dei casi ne rappresenta l’esatto contrario.

Curioso. Se c’è un’espressione su cui tutti gli esperti e gli studiosi di scienze sociali concordano, se c’è un’espressione su cui non si assiste mai a sterili controversie terminologiche, perché tutti la intendono nello stesso modo, è proprio l’espressione reddito di cittadinanza, un’idea che risale ad oltre un secolo fa ma che è tornata di grandissima attualità fin dagli anni ’80, quando sorse un movimento di pensiero a suo favore (guidato dal filosofo belga Philippe von Parijs), e venne fondato il BIEN (Basic Income European Network, oggi ribattezzato Basic Income Earth Network).

Che cos’è il reddito di cittadinanza?

E’ un reddito che lo Stato corrisponde a tutti i suoi cittadini, ricchi e poveri, su base individuale e non familiare, dalla nascita o dalla maggiore età, senza alcuna restrizione, obbligo o contropartita. Detto in altre parole, è un sostegno permanente e incondizionato, che proprio perché viene erogato a tutti e senza chiedere nulla in cambio, non richiede di mettere in piedi un apparato di amministrazione, controllo, monitoraggio dei beneficiari.

Ebbene, molto si può discutere sui meriti e demeriti delle varie proposte messe in campo in Italia da partiti e associazioni, quasi sempre presentate come forme di “reddito di cittadinanza”, ma su tre punti c’è perfetta sintonia: in tutte le proposte il sussidio, o “sostegno” (espressione più raffinata e politicamente corretta), il reddito che si intende attribuire non è destinato a tutti (ma solo ai poveri), è determinato su base familiare (anziché individuale), e prevede precise contropartite (non è incondizionato). In breve: è l’esatto contrario del reddito di cittadinanza.

Da questo punto di vista, il massimo di bisticcio con la lingua italiana è offerto dal Movimento Cinque Stelle, che per giustificare il titolo del suo disegno di legge sul “reddito di cittadinanza” di fronte a chi giustamente  criticava la scelta di un termine così fuorviante, non ha trovato di meglio che rispondere: la nostra è una proposta di “reddito di cittadinanza condizionato”, come non sapessero che, per definizione, il reddito di cittadinanza è incondizionato, altrimenti è un’altra cosa, che in tutta Europa viene chiamata, più prosaicamente, “reddito minimo”.

Ma quali sono le differenze fra le varie proposte di reddito minimo?

Fondamentalmente sono cinque.

Primo. La quantità di risorse stanziate, che va da un minimo di 1-2 miliardi l’anno (Governo Renzi), a un massimo di 15-20 (Cinque Stelle e Sel).

Secondo. La percentuale di famiglie o di individui beneficiari, che varia ovviamente in funzione delle risorse stanziate, ma anche a seconda degli importi e della durata. A questo proposito vale la pena osservare che il concetto di povertà è così elastico che, a seconda di come lo si definisce, si può passare dal 7% degli individui (povertà “assoluta”) al 29% (“rischio di povertà o di esclusine sociale”), passando attraverso le platee intermedie del 14 % (povertà relativa) e del 20% (rischio di povertà relativa).

Terzo. Le condizioni di accesso e di mantenimento del sussidio, che possono essere più o meno severe, potendo comportare l’obbligo di cercare attivamente un lavoro, di seguire corsi di formazione, di accettare proposte di lavoro retribuito, di erogare lavoro gratis in attività “socialmente utili”.

Quarto. La complessità (e il costo) dell’apparato di amministrazione, sorveglianza, formazione messo in campo per gestire i beneficiari. Un indicatore assai significativo in proposito è la quota delle risorse stanziate che non va in tasca ai poveri, ma a coloro che dei poveri stessi dovrebbero occuparsi, tipicamente tecnici, impiegati, assistenti sociali, formatori ed esperti, tutte figure appartenenti al ceto medio. Fra le varie proposte in campo quella che meno concede agli apparati di controllo è l’imposta negativa (caldeggiata da Forza Italia), mentre quella che dirotta la quota maggiore di risorse alla macchina dell’inclusione sociale è quella dell’Alleanza contro la povertà (i proponenti del Reis), come del resto è comprensibile visto che occuparsi del disagio sociale è il mestiere, più o meno volontario e più o meno retribuito, di tante fra le associazioni che propugnano il “Reddito di inclusione sociale”.

Quinto. L’incentivo a cercare e trovare lavoro, che è fortemente compromesso dalla prospettiva di perdere in parte o in tutto il sussidio. Questo, in realtà, è il tallone di Achille di un po’ tutte le proposte, perché tutte (tranne, in parte, quella dell’imposta negativa) di fatto rendono alquanto conveniente non lavorare, o lavorare in nero, una scelta che i recenti dati sulle dichiarazioni dei redditi (straordinariamente basse rispetto a quel che ognuno di noi vede a occhio nudo) mostrano essere tutt’altro che teorica.

Che fare, dunque?

Il mio consiglio è di fare come si fa (o si dovrebbe fare), quando si fa un investimento finanziario: “leggere attentamente il prospetto informativo”, senza lasciarsi sedurre dalla pubblicità ingannevole dei proponenti.

Pubblicato su Panorama il 13 marzo 2017



Il lato oscuro della globalizzazione

Gli economisti, si sa, litigano fra loro su quasi tutto. C’è un punto, però, su cui sono quasi tutti d’accordo: è la teoria dei vantaggi comparati. Inventata da David Ricardo un paio di secoli fa, questa teoria asserisce che il commercio internazionale è vantaggioso per tutti i paesi che lo praticano perché l’apertura dei mercati fa sì che ogni paese si specializzi nelle produzioni in cui ha un vantaggio comparato rispetto agli altri paesi, il che provocherà un aumento della produttività media, un abbassamento dei costi, e in definitiva la possibilità di approvigionarsi a prezzi convenienti acquistando le merci che altri sono in grado di produrre più a buon mercato.

Su questa teoria c’è sempre stato un consenso quasi unanime, e in effetti la storia economica sembra dare ragione a quanti credono nelle virtù del commercio internazionale: i periodi di apertura dei mercati sono stati per lo più periodi di crescita e di prosperità per i paesi che hanno puntato sugli scambi di merci e servizi.

Oggi, però, anche questa consolidata teoria suscita qualche dubbio. Dopo tre decenni di globalizzazione, le economie occidentali sono andate incontro alla più lunga crisi della loro storia, una crisi che per alcuni paesi, fra cui l’Italia, è durata quasi un decennio. Ci si chiede, quindi, se sia sempre vero che l’apertura delle economie favorisca davvero tutti i paesi coinvolti.

Il dubbio è alimentato dal fatto che, negli ultimi decenni, l’apertura ha promosso la crescita di decine di paesi arretrati (fra cui Cina e India) ma pare aver rallentato quella di una parte considerevole delle economie avanzate. Questa eventualità, ovvero che la globalizzazione possa essere un vantaggio per alcuni paesi e uno svantaggio per altri, prima della crisi non era stata presa sul serio da quasi nessuno, almeno in Italia. Con due importanti eccezioni, però: nella prima metà degli anni ’90, sia Giovanni Sartori sia Giulio Tremonti avevano messo in guardia contro i rischi di impoverimento che i paesi avanzati correvano di fronte alla concorrenza dei paesi arretrati, a causa dei bassi costi della manodopera e della debolezza delle regolamentazioni.

Oggi il sospetto che la globalizzazione possa essere dannosa per le economie avanzate è molto più diffuso. In parte si tratta di una credenza semplicistica, che sopravvaluta i rischi della globalizzazione e sottovaluta i vantaggi della specializzazione e della concorrenza. Ma in parte si tratta di un timore non infondato. Rispetto alle due grandi onde di globalizzazione precedenti (ultimi decenni dell’Ottocento, trentennio 1945-1975), la globalizzazione degli ultimi 20-30 anni si caratterizza per alcune novità che potrebbero averne cambiato il segno, ridimensionando significativamente le ragioni dell’ottimismo ricardiano.

La prima novità è la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la finanziarizzazione delle economie, che hanno reso molto più interdipendenti e instabili le maggiori economie del pianeta.

La seconda novità è la diffusione di internet e più in generale dei mezzi di comunicazione e trasmissione dell’informazione. Ciò ha enormemente agevolato le pratiche commerciali più scorrette, la circolazione illegale di servizi e prodotti, la contraffazione di merci e marchi, la sottrazione di software ai legittimi proprietari e produttori, la violazione del diritto d’autore, la pirateria informatica.

La terza novità, connessa alla diffusione dei telefonini, della tv satellitare e di internet, è l’esplosione dei flussi migratori verso i paesi avanzati, certo alimentati da dittature e guerre civili, ma sempre più spesso indotti dalla semplice constatazione del benessere occidentale, ed europeo in particolare.

La globalizzazione degli ultimi vent’anni, in altre parole, somiglia ben poco a quella delle grandi onde del passato. Resta vero che alcuni paesi se ne avvantaggiano moltissimo, resta vero – come pensava Ricardo – che essa fornisce un grande impulso alla produttività, ma a tutto ciò si aggiungono fenomeni e meccanismi sostanzialmente nuovi: la concorrenza sleale fra economie, l’enorme potere – e l’enorme potenziale di destabilizzazione – della finanza, l’afflusso disordinato di centinaia di migliaia di persone verso i paesi ricchi.

Ecco perché anche i sostenitori più convinti dei benefici dell’apertura dei mercati e della libera circolazione dei beni, dei servizi, dei capitali, dei segni (immagini e testi via internet) cominciano a vacillare. Ecco, soprattutto, perché in questi lunghi anni di crisi, in cui la globalizzazione ha mostrato il suo lato inquietante, un po’ ovunque sono esplosi movimenti di tipo populista, che predicano l’isolamento e puntano sul rafforzamento degli stati nazionali. Possiamo deprecarli quanto vogliamo, ma faremo meglio a renderci conto che, se attecchiscono, è soprattutto perché la globalizzazione non è più quella che aveva in mente Ricardo quando formulava la sua teoria dei vantaggi comparati.

Pubblicato su Panorama il 28 febbraio 2017