Test o croce, non è così che si fa la selezione

Fra proteste di piazza, ricorsi al Tar, scontri con le autorità accademiche, non è stato un settembre facile quello delle università italiane. Un po’ dappertutto è scoppiata la rivolta contro il numero chiuso, o “programmato”. E gli studenti hanno già raggiunto qualche risultato: il Tar del Lazio ha bocciato il numero chiuso alle facoltà umanistiche della Statale di Milano. Alla Sapienza è stato annullato il test di ingresso per le lauree magistrali di Psicologia: il test dovrà essere ripetuto. A Firenze, alcune incongruenze fra bando e contenuto delle domande hanno costretto ad ammettere tutti i 1329 studenti che avevano partecipato ai test per l’accesso alle facoltà di Biotecnologie, Scienze biologiche, Scienze farmaceutiche applicate – controllo qualità, Farmacia, Chimica e tecnologia farmaceutica.

La contestazione dei test poggia su due argomenti distinti. Primo, ogni diplomato dovrebbe essere libero di scegliere gli studi universitari che più lo appassionano, senza limitazioni. Secondo, i test di ingresso non sono un buon metodo per separare i migliori o i più adatti.

Hanno ragione gli studenti?

La mia esperienza di professore universitario mi dice che gli studenti, o meglio i rappresentanti degli studenti negli organi collegiali delle università, hanno quasi sempre torto (o perlomeno a me paiono averlo). Le loro rivendicazioni sono infatti quasi sempre attente agli aspetti organizzativi ed esteriori dello studio (ad esempio il numero di appelli) e mai a quelli culturali e sostanziali (come la qualità dei corsi, o il funzionamento dei laboratori). E tuttavia, in questo caso, penso che abbiano ragioni da vendere sue entrambi i punti.

Essi hanno certamente ragione sul test di ingresso per le matricole (studenti del 1° anno), che è uno strumento di incredibile rozzezza per valutare le attitudini e capacità dei futuri studenti universitari. La principale caratteristica che il test, molto imperfettamente, misura, è la velocità mentale, non certo la profondità o le capacità di organizzazione del pensiero, che in tante discipline sono ben più importanti della velocità.

Ma gli studenti hanno anche ragione sul principio generale per cui l’accesso all’università dovrebbe avvenire in base alle proprie inclinazioni ed aspirazioni, non in base a incerti calcoli sulle proprie probabilità di passare un test. E’ paradossale che ci si lamenti ad ogni piè sospinto del basso numero di laureati dell’Italia, e nello stesso tempo si ostacoli in ogni modo l’accesso all’università.

Tutto chiaro dunque? Si tratta solo di recepire la giusta richiesta degli studenti di una piena liberalizzazione degli accessi?

Assolutamente no. Il vero problema dell’università italiana non è che frotte di bravi studenti ne sono inclusi, il vero problema è che già oggi, nonostante gli ostacoli (spesso assurdi o artificiosi) che limitano il flusso degli ingressi, il numero di studenti che sono effettivamente in grado di effettuare studi di livello universitario è molto inferiore al numero di iscritti. Già così si laurea appena 1 studente su 2, ma credo che se facessimo seriamente il nostro lavoro di docenti, ovvero mantenessimo gli standard che erano propri dell’università di qualche decennio fa, dovremmo laurearne circa 1 su 5. O meglio: dovremmo laurearne leggermente di meno di oggi nelle facoltà scientifiche, il cui livello è rimasto decente, ma dovremmo laurearne quasi nessuno in quelle umanistiche, dove da decenni i professori assistono senza ribellarsi all’abbassamento degli standard.

Che fare, dunque?

Se ci fossero risorse, molte risorse, una soluzione ragionevole sarebbe adottare il cosiddetto “sistema francese”, che è basato su un semplice principio: iscriviti pure all’università, ma se dopo 1-2 anni non sei a posto con gli esami ti fermi lì. Il problema è che il sistema francese non funziona granché nemmeno in Francia, perché non ci sono abbastanza aule, laboratori, professori, tutor, per permettere a un’enorme massa di giovani di “provare” se sono adatti al tipo di studi che hanno scelto.

L’altra soluzione, ancora più utopistica, sarebbe di costringere le scuole – con un sistema di sorveglianza efficace – a non regalare pezzi di carta che valgono poco in generale, e soprattutto hanno valori del tutto diversi nelle varie parti del paese (studi accurati hanno dimostrato che, mediamente, un 7 dato a Napoli equivale a un 5 dato a Milano). Se le scuole non falsificassero sistematicamente i titoli di studio, certificando competenze inesistenti, l’accesso all’università potrebbe essere ragionevolmente regolato dal voto di maturità, o dalle pagelle degli ultimi anni di scuola secondaria superiore.

Ci sono altre soluzioni?

Io non ne vedo. Ma è uno dei tanti pregiudizi dell’umanità pensare che, per un problema, esista sempre una soluzione. I problemi insolubili esistono. E quello sollevato dalle giuste proteste degli studenti in questo inizio di anno accademico ne è un ottimo esempio.

Pubblicato su Panorama il 21 settembre 2017



Violenze ad eccessi/La colpevole comodità di lasciare liberi i nostri figli

C’è una cosa che sempre più sovente mi colpisce, quando le cronache riportano fatti di violenza, non necessariamente di natura sessuale: il silenzio assordante sulle nostre responsabilità di adulti. Per responsabilità di adulti non intendo le responsabilità immediate, dirette, che singole persone possono aver avuto in uno specifico episodio violento, bensì quelle indirette, che passano attraverso la parola, i modelli educativi, gli stili di vita e di consumo. Più in concreto: la responsabilità che le attuali generazioni di adulti portano per il modo in cui hanno fatto crescere e lasciato vivere i loro figli.
In che senso, o meglio in quali occasioni, noi adulti abbiamo una responsabilità?
In tutti i casi nei quali, oltre al comportamento criminale di un singolo (l’autore del delitto), c’è una leggerezza (della vittima) per evitare la quale noi, come generazione, non abbiamo fatto abbastanza o, temo io, abbiamo fatto e continuiamo a fare l’esatto contrario di quel che dovevamo fare.
Prendiamo il recentissimo caso di Roma. Una ragazza finlandese, uscita alle 4 del mattino da un pub in cui aveva trascorso la serata, viene stuprata da uno sconosciuto dal quale aveva accettato un passaggio su un’auto (poi rivelatasi inesistente). E’ ovvio che, in linea di principio, uno avrebbe il diritto di girare in qualsiasi quartiere di Roma a qualsiasi ora senza essere derubato, stuprato, violentato o aggredito. Ma è una elementare regola di prudenza non accettare passaggi da sconosciuti, da soli e in piena notte, in Italia come in qualsiasi paese del mondo. L’ha ricordato, giustamente, Lucetta Scaraffia su queste colonne l’altro ieri, nell’ambito della campagna del Messaggero per una Roma sicura.
Ma la vera domanda è: perché l’ha ricordato? Perché si può sentire il bisogno di far notare una cosa tanto ovvia?
La mia risposta è che, se si sente il bisogno di ricordare una regola ovvia, è perché ovvia non lo è più, o non lo è più per tutti. Il senso comune non è più comune, a quanto pare. O meglio, le regole del senso comune sono pienamente condivise e ribadite da tutti in certi casi, in altri no. Se dimentico di inserire l’allarme e mi svaligiano la casa, nessuno ha dubbi sul fatto che ho commesso un’imprudenza. Ma se qualcuno mi aggredisce o mi violenta alla fine di una notte di sballo, mentre giro da solo in un quartiere degradato, scatta il timore che, sottolineando la mia imprudenza, si possa fornire una sorta di giustificazione morale, o di attenuante, all’atto di aggressione che ho subito, secondo l’odiosa formula “se l’è cercata”. Lo stesso meccanismo di autocensura scatta se una ragazza o un ragazzo si suicidano dopo aver messo su YouTube un video hard che li riprende durante un rapporto sessuale: si teme che, dicendo che è stata una grave leggerezza girare il video e condividerlo, si mettano in secondo piano le responsabilità dei veri colpevoli, che sono gli amici che hanno fatto circolare le immagini hard.
Il timore (alquanto illogico) di alleggerire indirettamente la posizione dei “cattivi”, però, non è l’unica motivazione che porta a glissare sull’imprudenza delle vittime. C’è anche un’altra e più sottile motivazione, ed è l’idea che, invitando alla prudenza le vittime, si ponga un limite indebito a una sorta di diritto fondamentale, non scritto ma saldamente cablato nella costituzione materiale del nostro tempo, il diritto di esercitare la propria libertà in modi estremi. E’ quella che Massimo Recalcati ha definito la “nuova religione libertina” del nostro tempo, nel quale “non esiste più un limite che non sia possibile valicare”, “la trasgressione è divenuta un obbligo che non implica alcun sentimento di violazione”, e alla fine comporta “la dissoluzione di ogni tabù” (I tabù del mondo, Einaudi 2017).
Ora, che questa visione del mondo e questa interpretazione dell’esistenza, che porta a considerare normali lo sballo e il divertimento estremi, senza alcun rispetto per la propria integrità mentale e per la propria reputazione, sia fatta propria da una parte del mondo giovanile è cosa che lascia perplessi, ma si può anche subire, se non accettare, come si subisce un cataclisma su cui non si ha alcun potere, o che semplicemente non si comprende. Ma che questa esaltazione della trasgressione e dell’imprudenza venga dal mondo degli adulti, che pure avrebbero qualche responsabilità educativa e di guida, lascia increduli e sgomenti. Eppure è quel che succede.
Dopo il suicidio di Tiziana, la ragazza che non ha retto alla circolazione di un video hard e si è tolta la vita, mi è capitato di leggere (a firma Roberto Saviano), affermazioni come queste: “milioni di teenager usano Snapchat per fare sexting cioè per scambiarsi foto sessualmente esplicite”; in quel contesto “fotografarsi o filmarsi mentre si è in intimità è assolutamente normale”; “gli adolescenti vivono la loro sessualità come qualcosa di dirompente e trasgressivo, facciamogli sapere che tutto questo è normale”; “non lei doveva pensare alle conseguenze”.
La realtà, temo, è che negli ultimi decenni una porzione considerevole del mondo adulto ha trovato comodo, comodissimo, ultrarilassante rinunciare a ogni forma di interferenza nella libertà dei giovani, fin dalla loro più tenera età: da piccolissimi piazzati davanti a un televisore, poi affidati alle amorevoli attenzioni di videogiochi e smartphone, infine gettati nel mondo dei coetanei, senza limitazioni, né controlli, né guida. Con la scusa di non poter giudicare, di non voler reprimere, di dover sempre e comunque preservare la serenità dei propri pargoli, gli adulti hanno costruito un modello di relazioni fra le generazioni semplicemente aberrante. Un modello per il quale i genitori sono iperprotettivi quando non lo dovrebbero essere (ad esempio quando un insegnante punisce un ragazzo), e completamente assenti quando, viceversa, dovrebbero proteggere i giovani da sé stessi, ponendo limiti e fissando regole anziché assecondarne i pericolosi vissuti di invulnerabilità. Non solo per proteggerli da eventi estremi, quali sono quelli di cui si parla in questi giorni, ma per metterli in grado di affrontare le sfide dello studio, del lavoro, della vita in generale, tutti compiti per cui sono sempre più sovente impreparati.
Come dice la protagonista di Va’ dove ti porta il cuore (il più celebre dei romanzi di Susanna Tamaro), una madre amaramente pentita di non aver interferito nella vita di una figlia fragile, incerta, e alla fine vittima del suo sogno di libertà: “Dietro la maschera della libertà spesso si nasconde la noncuranza, il desiderio di non essere coinvolti”. Mentre l’amore, il vero amore di una madre o di un padre, “non si addice ai pigri, per esistere nella sua pienezza alle volte richiede gesti precisi e forti”.

Pubblicato su Il Messaggero il 16 Settembre 2017



Quel diritto alla paura ignorato dalla sinistra

Sul problema degli stranieri i dati sembrano raccontare due storie alquanto diverse. Due storie, è bene dirlo subito, entrambe sostanzialmente veritiere.

La prima storia dice che gli stranieri, anche quando sono regolari, delinquono molto più dei nativi, in Italia come nel resto d’Europa (eccetto Irlanda e Lettonia). Su questo l’evidenza empirica prodotta indipendentemente (e con metodi in parte diversi) dagli studi di Luigi Solivetti e dai dossier della Fondazione David Hume è schiacciante: in Europa gli stranieri delinquono 4 volte più dei nativi, in Italia 6 volte. Nessuno sa, per mancanza di dati, il valore esatto del tasso di criminalità relativo degli stranieri irregolari, ma una stima di larga massima suggerisce che sia 30 volte quello degli italiani, e 10 volte quello degli stranieri regolari.

La seconda storia dice che, da un paio di anni, la maggior parte dei delitti, compresi quelli di grave allarme sociale, sono in diminuzione, in controtendenza rispetto alle percezioni del pubblico, che manifesta invece una crescente preoccupazione per la criminalità, specie se i reati sono efferati e gli autori dei crimini sono stranieri. Il tasso di criminalità relativo è più basso di quello di 10 anni fa. I media, specie la tv, dedicano uno spazio sproporzionato (rispetto a quello di altri paesi) ai fatti di cronaca nera. Quanto alla presenza degli immigrati nella società italiana, da anni tutte le rilevazioni demoscopiche mostrano che sia la presenza degli stranieri, sia la percentuale di immigrati musulmani, sono sovrastimate dal pubblico.

Che il primo racconto piaccia alla destra, e il secondo alla sinistra, fa parte della fisiologia della comunicazione politica, la cui essenza non è dire il falso, ma dire solo una parte della verità. Non per nulla la formula del giuramento in tribunale non prescrive di dire la verità, ma di dire “tutta” la verità.

La vera differenza fra i due racconti sta nelle conseguenze politiche che se ne traggono. La destra usa i dati per alimentare la paura, ingigantendo i pericoli, talora anche al di là di ogni ragionevolezza. La sinistra, viceversa, usa i dati per contestare la paura, specie quella verso gli immigrati, in base alla tesi secondo cui il pubblico sopravvaluta i pericoli.

Questo modo di impostare il problema era molto diffuso già alla fine degli anni ’90 e nei primi anni ‘2000, da cui traggo questa citazione: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, ma è quel che pensavano quasi tutti a sinistra, con l’importante eccezione di Marzio Barbagli). Di qui un perdurante atteggiamento paternalistico, che contagia anche le menti più lucide e anticonformiste. In un’intervista a Repubblica di pochi giorni fa Massimo Cacciari (uno studioso con cui sono quasi sempre d’accordo) sembra pensare seriamente che, di fronte alle “menzogne della destra” la risposta delle sinistra debba essere “controbattere e razionalizzare”, “cambiare la comunicazione”, “rappresentare la questione degli immigrati in modo razionale”, “fornire dati economici”, “spiegare che non c’è un’invasione che toglie il pane alla gente”. Come se il problema fossero le “menzogne della destra” e non le paure della gente comune. Come se avere paura fosse irrazionale. Come se l’insicurezza fosse una mera percezione, che un racconto obiettivo potrebbe incaricarsi di sopprimere. Come se i dati fossero tutti e inequivocabilmente rassicuranti. Un illuminismo ingenuo sembra essersi impadronito, da almeno due decenni, della cultura di sinistra, cui non riesce proprio di prendere sul serio le paure della gente e la domanda di sicurezza che ne deriva. Eppure, pensare che i cittadini starebbero più tranquilli se solo conoscessero i dati è un non sequitur. Sarebbe come credere che, se sapessero che i morti sul lavoro sono in diminuzione, i sindacati non si preoccuperebbero più della nocività in fabbrica.

Chi ha paura di subire un furto o una violenza non è minimamente rassicurato dal fatto che questi due reati stiano diminuendo: semplicemente pensa che siano troppi (detto per inciso, non ha tutti i torti: i dati disponibili dicono che molti reati, pur in diminuzione, sono nettamente al di sopra dei livelli del 2007-2008). Chi pensa che ci siano troppi immigrati, perché li vede in coda davanti a sé in una ASL, o bighellonare presso un centro d’accoglienza, o spacciare droga sulle scale casa sua (come è capitato 20 anni fa a Italo Fontana, autore di un libro profetico sulla sordità della sinistra: Non sulle mie scale, Donzelli 2001), non si tranquillizza certo perché qualcuno gli dice che in Italia sono solo l’8%. E anche se i reati improvvisamente dimezzassero, resterebbe il fatto che il sentimento popolare non è fatto solo di paura, ma anche di indignazione. In molti casi quel che agita gli animi non è il timore di essere personalmente vittime di un crimine, ma sono le scarcerazioni facili, le pene ridotte, la sensazione di essere abbandonati e senza difesa (si pensi alle donne perseguitate da mariti o fidanzati violenti). E, nel caso degli immigrati, anche una credenza morale: l’idea che un ospite abbia uno speciale dovere di rispettare le regole.

La realtà è che la sinistra parla di xenofobia (paura dello straniero), ma la interpreta immancabilmente come xenomisia (odio per lo straniero). Ecco perché, per la cultura progressista, la paura non è semplicemente infondata, la paura è una colpa. Ma non è così, almeno dai tempi di Hobbes. La paura è il fondamento stesso del contratto sociale e dello Stato moderno, che nasce come antidoto alla sopraffazione, come superamento dello stato di natura in cui ogni uomo è “lupo” verso ogni altro uomo (homo homini lupus). Quando la paura riemerge, è perché la gente sente che lo Stato non è più in grado di far rispettare il contratto, ovvero di garantire ai cittadini il più “basico” dei beni, la sicurezza. Di fronte a questo sentimento, l’unica cosa che può attenuare la paura, e disinnescare la protesta, non è andare dai cittadini per convincerli che si stanno sbagliando, ma riconoscere il loro diritto di avere paura, e dimostrare, con i fatti, che lo Stato sta facendo tutto quanto è in suo potere per spegnerla.

Pubblicato su Il Messaggero il 9 Settembre 2017



Miti e false ricette/ Ingannati dalle bugie sulla fine del lavoro

Fra qualche mese si vota, ed è abbastanza chiaro fin d’ora che due saranno i temi cruciali della campagna elettorale: l’immigrazione e il (cosiddetto) reddito di cittadinanza.

Fino a qualche mese fa avrei scommesso che, fra i due, a prevalere sarebbe stato il tema dell’immigrazione. Oggi penso invece che, grazie alla determinazione del ministro Minniti (ma anche al mare grosso che immancabilmente imperversa a febbraio-marzo nel mediterraneo), gli sbarchi faranno molto meno notizia di oggi, e finiremo per parlare soprattutto di lavoro, disoccupazione, sussidi per chi il lavoro non ce l’ha. I Cinque Stelle proporranno l’introduzione del reddito minimo, ma si ostineranno a chiamarlo reddito di cittadinanza, che suona meglio. Il Pd rivendicherà il merito di aver già varato il Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA), che dovrebbe alleviare le sofferenze di una parte dei poveri. La destra criticherà entrambi, e punterà sull’imposta negativa, uno strumento di integrazione del reddito molto agile, e anche per questo congeniale alla cultura liberale.

Ma perché il tema del reddito minimo sta diventando così centrale?

La ragione di fondo è che il tempo conta. Nei primi anni della crisi (2007-2008) si poteva pensare che, come era successo in passato, a un certo punto la macchina dell’economia sarebbe ripartita e la disoccupazione sarebbe scesa a livelli tollerabili. Dopo lo shock del 2011-2012 mantenere questa fiducia era già diventato piuttosto difficile. Ma oggi, a dieci anni dallo scoppio della crisi, con 3 milioni di disoccupati e un tasso di occupazione ancora (sia pure di poco) al di sotto dei livelli precrisi, credere che prima o poi le cose si rimetteranno a posto diventa molto difficile. In molti pensano che di lavoro non ce ne sarà a sufficienza mai più, e che, allora, tanto valga prendere il toro per le corna: se non si può dare un posto a tutti i cittadini che desiderano mantenersi con il lavoro, almeno si garantisca loro un reddito. Il fascino discreto del reddito di cittadinanza sta tutto qui.

Questa visione delle cose non contagia solo i cittadini, ma anche gli studiosi, gli scrittori, i giornalisti. Non solo in Italia ma un po’ in tutte le società avanzate. Sono innumerevoli, in questi anni, i libri che hanno annunciato la fine della civiltà del lavoro, ora riconducendola all’inarrestabile avanzata della tecnologia, fatta di robot, intelligenza artificiale, reti neurali, internet, ora riconducendola alla finanziarizzazione dell’economia, alla globalizzazione e alle politiche di austerità (due per tutti: Martin Ford, Il futuro senza lavoro, Il Saggiatore, 2016; Guido Maria Brera, Edoardo Nesi, Tutto è in frantumi e danza, La nave di Teseo, 2017). Di qui un sottile quanto inestirpabile sentimento di rassegnazione: un’epoca è finita, gli anni della piena occupazione non torneranno mai più, i nostri figli sono destinati a vivere peggio di noi.

Eppure, a ben guardare, questo racconto delle cose è incompatibile con i dati. O meglio è compatibilissimo con i dati dell’Italia (e di alcuni altri paesi), ma non con quelli della maggior parte delle economie di tipo occidentale (i 35 paesi Ocse).

Se, come termometro dello stato di salute della civiltà del lavoro, prendiamo il tasso di occupazione, dobbiamo registrare che il suo livello, in Italia, è tuttora inferiore a quello precrisi, e questo nonostante già nel 2007 – esattamente come oggi – fosse fra i più bassi in Europa e fra i paesi Ocse. Se però guardiamo all’insieme delle economie avanzate, il quadro si capovolge nettamente. La maggior parte di esse ha non solo recuperato i livelli occupazionali del 2007, ma li ha ampiamente superati. E questo riguarda sia molti paesi europei, compresi Regno Unito, Germania, Austria, Svizzera, Belgio, Svezia, sia diversi paesi extraeuropei, come Giappone, Nuova Zelanda, Messico, Israele, Cile. Su 35 paesi attualmente aderenti all’Ocse, ben 21 hanno oggi livelli di occupazione più alti che nel 2007.

Insomma, non è vero per niente che il destino delle società avanzate sia segnato, e che l’unica strada percorribile sia dotare di un reddito anche chi non lavora. La credenza che automazione e intelligenza artificiale distruggano più posti di lavoro di quanti ne creino è, per l’appunto, una credenza, non una legge generale dell’economia. Dieci anni di instabilità economica e di spettacolari progressi tecnologici non hanno impedito a 21 paesi avanzati su 35 di aumentare i propri tassi di occupazione, spesso già molto elevati nel 2007.

Il problema è che in altri paesi, fra cui tutti i Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna), ma anche Stati Uniti, Canada, Francia, Norvegia, le cose sono andate diversamente. Alcuni, pur non avendo ancora recuperato i tassi di occupazione del 2007-2008, hanno comunque livelli di occupazione decisamente alti, sopra il 70% (nella fascia 15-64 anni). Altri, in particolare Grecia e Italia, non solo non hanno recuperato i tassi del 2007-2008, ma avevano ed hanno tassi di occupazione bassissimi, tra il 50 e il 60%. E, nel caso dell’Italia, anche un record negativo assoluto: nessun paese Ocse, nemmeno la Grecia, ha un tasso di occupazione giovanile basso come il nostro.

Forse, anziché autoconsolarsi accusando dei propri guai la globalizzazione, l’automazione e internet, i paesi nei quali il lavoro è sparito farebbero bene a riflettere sulle scelte (o le non scelte) che hanno compiuto in questi anni: perché il tramonto della civiltà del lavoro che essi sperimentano, e che pesa innanzitutto sulle nuove generazioni, è il risultato di quelle scelte.

Pubblicato da Il Messaggero il 1 settembre 2017



Tutti i padri del Pil orfano della logica

È di pochi giorni fa la notizia, comunicata dall’Istituto centrale di statistica, che la velocità di crescita del Pil, calcolata fra il 2° trimestre 2017 e il 2° trimestre 2016, avrebbe toccato l’esaltante tasso dell’1.5%, un valore più alto di quelli fin qui previsti dal governo, dalla commissione Europea, dalla Banca d’Italia, dalla Confindustria, dall’Ocse, dal Fondo Monetario Internazionale.

Su questa notizia si sono immediatamente lanciati, con un balzo felino, i politici del governo attuale e quelli del governo precedente, peraltro in molti casi le medesime persone. Il più giulivo (e prolisso) è apparso Renzi, che con il suo tipico linguaggio-telegramma scrive: “Il tempo è galantuomo: basta saper aspettare. Oggi i dati Istat dicono che la strategia di questi anni produce risultati. Flessibilità, non austerity. Giù le tasse a ceto medio e imprese che investono. Scommettere sulla crescita, non sul declino. I risultati arrivano, il tempo è davvero galantuomo. Oggi sarebbe facile domandarsi: chi aveva ragione ad alzare la voce in Europa e a combattere per la flessibilità? Sarebbe facile, ma non servirebbe a nulla. I millegiorni hanno rimesso in moto l’Italia, ma noi vogliamo correre. Perché questo Paese ha tutto per farcela. Non ci serve che ci diano ragione per il passato, ci serve che ci diano ascolto per il futuro. Noi ci siamo”

Più concisa Maria Elena Boschi, che constata: “Con i governi di prima il Pil era -2%. Oggi il Pil cresce più del previsto. Avanti, insieme”.

E’ giustificato tanto entusiasmo?

Sì e no.

Sì, perché ovviamente è meglio crescere dell’1.5% che dell’1%. Ma soprattutto perché, rispetto a qualche anno fa, la situazione dei bilanci familiari è effettivamente migliorata, e di molto: quando Renzi ha preso le redini del governo, disarcionando Enrico Letta, le famiglie che non arrivano alla fine del mese erano il 30%, oggi sono esattamente la metà, più o meno quante erano prima della crisi (mi sono sempre chiesto perché questo dato, così favorevole all’esecutivo, non venga mai citato dai lodatori del renzismo).

No, perché basta un rapido confronto con gli altri paesi europei per rendersi conto che andiamo malissimo. Il nostro tasso di crescita resta fra i più bassi in Europa e, per la prima volta dacché esistono statistiche del lavoro, l’Italia risulta il paese europeo con il tasso di occupazione più basso, un primato che il nostro Paese ha conquistato precisamente a conclusione del triennio renziano.

Ma lasciamo da parte il gioco del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che ognuno gioca a modo suo. E lasciamo anche da parte la ridicola pretesa dei governanti di stabilire nessi causali, come se non sapessero (ma forse davvero non lo sanno), che là dove loro enunciano certezze gli specialisti di “Analisi delle politiche pubbliche” (così si chiama la disciplina che si occupa di stabilire se una politica pubblica produce o no i risultati che vuole raggiungere) quasi sempre sono costretti a riconoscere, mestamente, che non ci sono abbastanza dati per stabilire se una certa politica ha prodotto certi effetti oppure no.

Quel che trovo davvero interessante nelle chiacchiere sul Pil è che, non solo in questa occasione, ma quasi sempre e quasi universalmente, le previsioni dei centri studi più accreditati non si realizzano. E questo non solo, come è comprensibile, quando si tratta di prevedere quanto crescerà un paese l’anno prossimo, o fra due anni, o fra tre, ma persino quando si tratta di prevedere quanto un paese crescerà nell’anno in corso. Una volta mi sono divertito a confrontare i tassi di crescita previsti dai (presumo sofisticati) modelli econometrici degli organismi internazionali con le previsioni di quello che mi piace chiamare il “modello econometrico dell’uomo della strada”, ossia un modello che dicesse semplicemente: nell’anno t+1 ogni paese crescerà più o meno come è cresciuto nell’anno t. Ebbene, le previsioni di un tale, ultra-semplicistico, modello non erano né migliori né peggiori di quelle ufficiali, a conferma che nessuno è in grado di fare previsioni affidabili. Del resto, come si fa a non restare sconcertati quando, in un mondo in cui la crescita è molto bassa, in pochi mesi si passa da una previsione dello 0.8% a una previsione dell’1.5%?

Su questo, forse, non sarebbe male che il mondo dell’informazione facesse un po’ di autocritica. Che un paese vada meglio delle previsioni non è, di per sé, una buona notizia, come non lo è che vada peggio. Se la Cina cresce del 6% anziché del 7% previsto dagli esperti non vuol dire che l’economia cinese vada male. E se un paese come la Grecia cresce dello 0.2 in più rispetto alle previsioni degli esperti non vuol dire che la sua economia sia in salute. Che l’ottimismo e il pessimismo sullo stato di un’economia siano regolati dagli scostamenti, positivi o negativi, rispetto alle previsioni degli esperti è semplicemente illogico. Se un paese va meglio del previsto, la vera notizia non è che l’economia del paese funziona, ma che le previsioni erano sbagliate, come quasi sempre accade.

Per dire che un paese va bene o va male la prima regola è confrontare l’andamento dei suoi “numeri” – reddito, occupazione, debito pubblico, esportazioni – con quelli degli altri paesi. Una regola che, guarda caso, nessun uomo di governo italiano si azzarda a seguire.

Pubblicato su Panorama il 24 agosto 2017